18 dicembre, 2017

18 dicembre 1919 - Anita O'Day, una voce da brividi

Il 18 dicembre 1919 nasce a Chicago, nell’Illinois, Anita O’Day. Nel 1933 (o nel 1934 perchè lei stessa dice di non ricordare l’anno preciso) si esibisce per la prima volta in pubblico insieme a Frankie Laine. Allieva della Schurz High School nel 1939 viene ascoltata da Carl Cons, all’epoca direttore della rivista Down Beat che la convince a trasferirsi all'Off Beat Club, un locale adiacente al Three Deuces. Proprio in quel locale la O'Day, che dai critici dell'epoca viene definita come una cantante a metà strada tra Mildred Bailey e Billie Holiday, conosce Gene Krupa da poco ha formato una grande orchestra. Nel 1941 Krupa la invita a sostituire la cantante Irene Daye ritiratasi per sposarsi. Il suo debutto avviene il giorno di San Valentino a Minneapolis e per due anni il suo apporto alla formazione del batterista è determinante. La sua voce dà i brividi al pubblico e la cantante ammette di dover molto a Martha Raye la cui maniera di cantare le ha suggerito la strada da seguire. Nonostante il successo la sua paga resta ferma a cinquanta dollari la settimana. Quando lascia l’orchestra viene arrestata per possesso di marijuana e poi costretta agli arresti domiciliari. Lei non ha mai digerito questa storia e sostiene di essersi addossata colpe non sue proprio per salvare Gene Krupa. Nel 1944, mentre è ancora coinvolta dalle vicende giudiziarie viene scritturata da Stan Kenton su segnalazione di Vido Musso. Anita però non sopporta la vita nella grande orchestra e chiede a Kenton di lasciarla libera. Il buon  Stan la prega di restare fino a quando non avrà trovato una sostituta. È proprio la O'Day a scoprire al Three Deuces una giovane cantante di nome Shirley Luster e a offrirle il posto nell'orchestra di Kenton. La Luster, cambiato il nome in June Christy, diventerà una stella. Anita nel frattempo torna per qualche tempo con Krupa giusto per sbarcare il lunario visto che le grandi orchestre l’hanno stancata. Ripresa la sua libertà canta nei club, pur limitando parecchio la sua attività che soltanto verso la fine degli anni 1950 riprende vigore, particolarmente nel corso della edizione 1958 del festival di Newport da cui viene tratto il lungometraggio “Jazz On A Summer's Day”. Nel 1959 arriva in Europa con Goodman  e partecipa al film “Gene Krupa Story”. Negli anni Settanta è ancora tra le più apprezzate cantanti del mondo. Considerata per lungo tempo la migliore cantante bianca di jazz, ha influenzato cantanti famose. Muore a Los Angeles il 23 novembre 2006

14 dicembre, 2017

14 dicembre 1968 - Pierre Allier, uno dei primi jazzisti francesi

Il 14 dicembre 1968 muore a Parigi il trombettista Pierre Allier. Ha poco più di sessant'anni. È nato, infatti, il 25 febbraio 1908 a Grénoble. Considerato uno dei primi musicisti a "militare" nelle file del jazz francese, ha fatto parte soprattutto di gruppi di grandi dimensioni come quello di Gregor e i suoi Gregoriens, dal 1930 al 1935, o quello di Fred Adison. Successivamente ha suonato in varie orchestre parigine, fra le quali quella di Alix Combelle, prima di dar vita a un proprio gruppo agli inizi degli anni Quaranta. Entra poi nell'orchestra di. Ray Ventura, con la quale effettua la "famosa" lunga tournée nell’America del Sud che dura dal 1941 al 1944, cioè il perodo dell'occupazione nazista in Francia. Pur ispirandosi a Louis Armstrong, Pierre Allier suonava tuttavia in uno stile che molto doveva alla seconda generazione dei trombettisti di jazz.

29 novembre, 2017

30 novembre 1947 – Gli All Stars di Louis Armstrong, una straordinaria macchina da musica

Il 30 novembre 1947 alla Symphony Hall di Boston Louis Armstrong e i suoi All Stars tengono un concerto che cambierà la loro storia. Da quel giorno infatti quell’ensemble casuale e precario si trasformerà in una straordinaria macchina da musica malgrado l'alternarsi dei musicisti che il senso di supremazia di Louis e le circostanze imponevano. In quel lungo concerto alla Symphony Hall di Boston si assiste a un’evoluzione definitiva. Dopo anni in cui il disequilibrio interno ai gruppi che l’accompagnavano finiva per danneggiare lo stesso Armstrong, per la prima volta il grande Satchmo concretizza l’idea di avere quella base di lancio nuova che nessuno era stato in grado di garantirgli dopo gli anni Venti. Gli spettatori assistono a una sorta di miracolo. La nuova logica che governa la musica degli All Stars è quella della sfilata dei solisti su un tappeto musicale collettivo dominato dalla tecnica del dixieland. Fondamentale è il contributo di Barney Bigard e Jack Teagarden con il sottile lavoro di contrappunto che i due conoscono molto bene, provenendo da due scuole molto simili come quelle di Chicago e New Orleans. Il gioco delle parti è perfetto perchè ciascuno conosce a memoria pregi e difetti dell'altro e sa calcolare le entrate e le uscite in assolo con il massimo tempismo riempiendo poi i vuoti lasciati dalla tromba di Louis con splendidi arabeschi timbrici. Le caratteristiche della scuola creola da cui proviene vengono utilizzate da Bigard in modo più netto di quanto non facesse nell’orchestra di Ellington. A fargli da contrasto c’è la pacatezza di Teagarden che riesce alla perfezione a frenare i tempi nei quali Bigard dà impulso all'accelerazione. Armstrong può così inserirsi nel gioco dei contrappunti e se negli anni precedenti non era mai molto propenso a improvvisare negli assoli, da quel momento si lascia andare più liberamente, sicuro dalla validità dei partner. Dietro ai tre uomini della front-line, schierati secondo la formazione classica dello stile di New Orleans, il pianista Earl Hines realizza un prezioso lavoro di raccordo con tocchi rapidi e quando può esce in assolo con il sostegno del basso di Arwell Shaw e della batteria di Big Sid Catlett. In quella sera di Boston nasce una leggenda.

29 novembre 1889 - Richie Brunies, il leader della Reliance

Il 29 novembre 1889 a New Orleans, in Louisiana, nasce Richard Brunies. Fratello di Henry, Abbie, Merritt e George, inizia a suonare da professionista con la Reliance Brass Band, il gruppo fondato nel 1892 da Jack "Papa” Laine che ospiterà tra le sue file l'intero clan dei Brunies. Proprio Richie Brunies alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, diventa il leader della Reliance. La sua popolarità in quegli anni è vastissima. La straordinaria potenza di suono della sua cornetta ne fa il principale antagonista del leggendario Buddy Bolden. Richard Brunies fa poi parte, assieme ai fratelli Henry e Merritt, della Fischer's Brass Band diretta dal clarinettista Johnny Fischer, nonché dell'orchestra del trombonista Happy Schilling, una formazione da ballo non molto nota che annovera nelle sue file elementi di tutto rispetto come Johnny Wiggs, Monk Hazel, Achille Baquet, Freddie Loyacano e lo stesso Fischer. Dei cinque fratelli Brunies, Richard è l'unico che non ha registrato dischi né negli anni Venti né durante il New Orleans Revival del dopoguerra. Muore il 28 marzo 1961.

27 novembre, 2017

28 novembre 1889 – Ray Lopez, la cornetta del "jazz melodico"

Il 28 novembre 1889 nasce a New Orleans, in Louisiana, il cornettista Ray Lopez, uno degli esponenti più originali del "lato melodico" e più commerciale del jazz. Delle sue origini musicali non si sa molto. Il suo nome comincia a circolare insistentemente nell'ambiente alla fine del primo decennio del Novecento quando suona nella Reliance Brass Band di Jack Papa Laine, considerata un po' la culla dei più importanti dixielanders bianchi di New Orleans. Lì son passati tutti: da La Rocca a George Brunis, da Tom Brown a Leon Roppolo, da Larry Shields a Tony Sbarbaro. Ray si fa apprezzare per la morbidezza del suono e la capacità di adattarsi alle esigenze dell'orchestra senza rinunciare a sprazzi di intelligente iniziativa. Quando chiude con la Reliance entra a far parte della Tom Brown's Band From Dixieland, la jazz band fondata dal trombonista Tom Brown. Questo gruppo, di cui fanno parte, oltre a Brown e a lui, Larry Shields, Deacon Loyacono e Billy Lambert, nel 1915 se ne va a Chicago e trova la gloria. Il successo è tale che il gruppo si sdoppia per partecipare anche agli spettacoli di vaudeville senza pagare penali alle sale da ballo da cui è stato scritturato. Negli spettacoli si chiamano The Five Rubes, mentre nelle serate in sala riprendono il loro nome originale. Alla fine del decennio Ray se ne va e nei primi anni Venti è sulla West Coast, al California Ambassador Hotel di Los Angeles con l'orchestra di Abe Lyman, un'altra famosa formazione da ballo. In questo periodo incide anche qualche disco, ma negli anni successivi le sue tracce diventeranno sempre più confuse.

27 novembre 1970 - Dimenticate i Beatles, ascoltate George!

Il 27 novembre 1970 George Harrison pubblica All thing must pass, un triplo album prodotto dallo stesso Harrison con Phil Spector. Se si eccettua la deludente colonna sonora del film “Wonderwall” composta nel 1968, si tratta del primo vero lavoro da solista dell’ex Beatle. I commenti della critica sono entusiastici. «Dimenticate i Beatles, ascoltate George!» scrive Melody Maker. La foto di copertina è uno sberleffo per i suoi ex compagni. Harrison appare seduto in mezzo a un prato circondato da quattro gnomi di gesso (i Beatles?) che lo guardano. Nei primi due dei tre dischi contenuti nell'album è raccolta la produzione accumulata negli ultimi anni di contrastata vita dei Beatles. Il terzo invece è interamente dedicato a una narcisistica session con vari musicisti, da Eric Clapton a Dave Mason, a Ringo Starr e Jim Gordon che la leggenda vuole si sia svolta sotto l’effetto di droghe. È una sorta di bonus di cui non si sentiva il bisogno anche se nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Gli altri due dischi del triplo album, però, sono davvero una sorta di parco delle meraviglie, a partire dal brano d'apertura, I'd have you anytime, il cui testo è stato scritto da Bob Dylan. Canzoni dolenti e colme d'emozione come Isn't it a pity si alternano ad altre scanzonate e ricche di allegria come Wah wah, che sempre la leggenda vuole sia stata scritta per sbeffeggiare Paul McCartney. Nell'album c'è anche la famosa My sweet Lord, che verrà pubblicata anche in singolo, conquisterà le classifiche di tutto il mondo, ma regalerà a George Harrison una condanna per plagio.

25 novembre, 2017

26 novembre 1955 – Lascia o raddoppia? L’Italia è un quiz

Dopo una puntata di prova trasmessa il sabato precedente, giovedì 26 novembre 1955 alle ore 21.05 va in onda sugli schermi televisivi di tutt’Italia la prima puntata di “Lascia o raddoppia?”, telequiz settimanale liberamente ispirato al programma televisivo statunitense “The 64 thousand dollar question”, presentato da Mike Bongiorno e destinato a durare fino al 1959. La regia è di Romolo Siena e la valletta è Maria Giovannini, Miss Roma, che verrà sostituita dopo qualche puntata da Edy Campagnoli. Il notaio, che sovrintende alla regolarità del gioco si chiama Niccolò Livreri. Ogni concorrente parte da una quota di duemila e cinquecento lire e la cifra può salire, attraverso un meccanismo di progressivi “raddoppi” fino al premio massimo di cinque milioni e centoventimila lire. I concorrenti hanno trenta secondi per rispondere alle domande di Mike Bongiorno e i più sfortunati vengono ricompensati con un premio di consolazione di quarantamila lire. Il programma, seguitissimo, entrerà nella storia della televisione e i partecipanti acquisteranno, grazie alle loro performance sul teleschermo, grande notorietà. Il suo successo cambia le abitudini degli italiani e porta la televisione al centro della vita sociale al punto che anche nelle sale cinematografiche il giovedì sera si sceglie di sospendere le proiezioni e di allestire speciali salette con la televisione per consentire agli spettatori di guardarsi “Lascia o raddoppia?”. È l’inizio di una vera e propria rivoluzione. Il quiz televisivo diventa un punto d’incontro per dialoghi, discussioni e anche liti. Le domande, le risposte, le gaffe di Mike Bongiorno e lo stesso atteggiamento dei protagonisti vengono vivisezionati, analizzati e commentati nelle chiacchiere nei bar, nei quartieri, nei caseggiati e sui mezzi pubblici.

25 novembre 1976 – L’ultimo valzer della Band

Il 25 novembre 1976 la Band di Robbie Robertson tiene al Winterland di San Francisco il suo concerto d’addio. Per l’occasione il gruppo decide di fare le cose in grande. Mentre l’impresario Bill Graham offre tacchino e pane azzimo agli spettatori, quasi si trattasse di una veglia religiosa, davanti alla cinepresa di Martin Scorsese si svolge un avvenimento eccezionale, immortalato dal film “The last waltz” e dall’album omonimo. Con la Band si alternano sul palco, nel corso di un lunghissimo concerto, Paul Butterfield, Bobby Charles, Eric Clapton, Neil Diamond, Bob Dylan, Ronnie Hawkins, Dr. John, Muddy Waters, Stephen Stills, Joni Mitchell, Van Morrison, Ringo Starr, Ron Wood e Neil Young. È il saluto del mondo del rock a uno dei gruppi più significativi di quel periodo. Affermatisi come gruppo d’accompagnamento di Bob Dylan, riescono successivamente a emanciparsi e a costruirsi una posizione autonoma circondati da un rispetto inusuale per l’ambiente. Greil Marcus così parla di loro nel suo libro “Mistery train”: «…contro le tendenze e gli stili degli anni Sessanta loro cercano le tradizioni… la loro posizione è quella di un gruppo che rifiuta la scena pop fatta di mode effimere. Sono solidi lavoratori con anni di gavetta alle spalle». Parole che vengono confermate dalla polemica innescata dal leader del gruppo Robbie Robertson nei confronti di un giornalista che accusa la Band di rincorrere sonorità più adatte ai cantautori che a un gruppo: «Vedi, amico, io sono fatto a modo mio. Voglio scrivere e cantare soltanto cose vere e che hanno un peso reale. Per questo preferisco rifarmi ai contadini che si univano ai sindacati durante la depressione che a te che vai a San Francisco a metterti un fiore fra i capelli». Le loro canzoni raccontano storie, sensazioni, paesaggi e sentimenti filtrati attraverso gli occhi delle classi subalterne, della gente semplice. La serata al Winterland sarà davvero l’ultima del gruppo. I componenti prendono strade diverse e non torneranno più sui loro passi anche se non mancheranno riunioni occasionali come quella del 1990, senza Robertson, in “The wall” nella Potzdamer Platz di Berlino.

22 novembre, 2017

23 novembre 1950 - Richard Raux: la musica non è solo l'America

Il 23 novembre 1950 nasce il sassofonista Richard Raux. Creolo, passa l'infanzia nel Madagascar, un luogo dove la musica si abbevera alle tradizioni africane, indiane e cinesi. Questa ricchezza sonora dominata dal ritmo influenzerà tutta la sua ispirazione come e più dei dischi di Parker e di Coltrane. A tredici anni è il batterista della migliore orchestra malgascia di jazz, diretta da Jeannot Rabéson, ma il suo sogno è quello di imparare a suonare il sassofono. Si mette di impegno e ce la fa. Frequenta per due anni i corsi di sassofono e composizione al conservatorio (anche se in epoche successive si farà passare per un autodidatta) e alla fine degli anni Sessanta è a Parigi dove si esibisce in un trio al Gill's Club e successivamente suona nei Magma, la formazione di Christian Vander. Non rinuncia, però, a qualche esperienza in proprio come gli Stuff, una band di cui fanno parte, oltre a Vander, Paco Charleri e Claude Engel. Entrerà poi nel progetto Faarmadin poi negli Hamsa e poi in tanti altri progetti che si muoveranno verso il suo obiettivo: liberare la musica jazz dal peccato originale dell'influenza statunitense. Negli anni Settanta così spiega i suoi progetti: «Vorrei dare al pubblico l'equivalente della soul music, ma nel senso più universale, non solo ristretta all'anima nera americana». Nel suo sogno musicale c'è spazio per l'Africa e l'oriente e soprattutto per le suggestioni della musica indiana che si sforza di rendere comprensibile al grande pubblico. Ecco perché ama Shepp ma esprime riserve sul free jazz il cui tempo irregolare non lo convince affatto.


22 novembre 1950 – Miami Little Steven: il rock è motivazione

Il 22 novembre 1950 nasce a New York "Miami" Little Steven, all'anagrafe Steven Van Zandt, il chitarrista considerato per anni la spalla ideale del Boss Bruce Springsteen. Nonostante sia stato fondamentale per l'allargamento della sua popolarità, il rapporto professionale con Springsteen ha finito, però, per condizionare, non sempre positivamente, la sua carriera. Little Steven muove i primi passi musicali sotto la guida del nonno, l'italoamericano Sam Lento, che gli insegna i segreti della chitarra sulle note dei ritornelli popolari calabresi. La sua formazione musicale si alimenta al calore del rhythm and blues di Gary Davis e Robert Johnson oltre che al jazz tradizionale di Louis Armstrong. A soli quindici anni diventa il cantante e chitarrista degli Shadows, un gruppo del New Jersey da non confondere con la più illustre e omonima band britannica. Un anno d'esperienza gli basta per sentirsi finalmente pronto a formare un proprio gruppo, The Source. Sono gli anni della grande mobilitazione contro la guerra nel Vietnam e Little Steven con la sua band è tra i protagonisti di lunghe kermesse musicali sull'argomento. Suona dovunque, anche se la sua tana è lo Stone Pony, un locale di Asbury Park. Nel 1974 entra a far parte dei Southside Johnny & The Asbury Jukes il gruppo di "Southside" Johnny Lyon. L'anno dopo incontra Bruce Springsteen, artista che ammira da tempo, che lo chiama a far parte della sua E Street Band, in quel periodo impegnata a completare la registrazione dell'album Born to run. Resterà con il Boss per nove anni consecutivi, senza rinunciare però a qualche esperienza per conto suo, prima con gli Asbury Dukes e poi con i Disciples of Soul. Il suo impegno sociale e, soprattutto, la voglia di sperimentarsi senza l'ingombrante presenza di Springsteen lo portano a separarsi amichevolmente dal Boss nel 1984. «Il rock non è intrattenimento, è motivazione». Per questo lui farà sul serio. Pubblicherà album come Freedom no compromise, caratterizzato da un deciso impegno sociale in difesa delle popolazioni oppresse del Sud America e del Sud Africa, ma si mobiliterà anche in progetti più ampi come la registrazione, con decine di stars tra cui lo stesso Springsteen, di Sun City, un brano contro l'apartheid sudafricano. La separazione dal Boss non sarà definitiva. Dopo una lunga serie di "incontri casuali" alla fine degli anni Novanta i due torneranno a esibirsi insieme.


18 novembre, 2017

19 novembre 2001 – Gli Zen dal web a "Pornstar"

Il 19 novembre 2001 la casa discografica High Tuned Records pubblica Pornstar, il primo album degli Zen, una band romana divenuta in poco tempo popolarissima senza avere ancora pubblicato un disco. La storia inizia nel 1998 quando quattro amici dell’hinterland di Roma formano un gruppo cui danno, appunto, il nome di Zen. Dopo un paio d’anni di gavetta fra Roma e dintorni, si iscrivono più per scherzo che per reale convinzione all’edizione di Emergenza Festival del 2000. Man mano che le esibizioni si susseguono gli Zen prendono sempre maggiore confidenza con il palco e attirano la simpatia del pubblico. L’avventura finisce la vittoria nella finale del festival a Roma. Ormai ci hanno preso gusto. Per questo nell’agosto dello stesso anno partecipano all’annuale Taubertal Open Air Festival, una rassegna che si svolge nella deliziosa città medioevale tedesca di Rothenburg. In quell’edizione condividono lo stage con band come No Fun At All, Oomph! e Guano Apes. Nel settembre del 2000 suonano a Parigi insieme ai tedeschi Emil Bulls. Sempre in quel periodo, gli Zen incidono alcuni provini che promuovono via web attraverso il proprio sito e altri specializzati. È proprio il web a trasformarli in una sorta di fenomeno mediatico. In poche settimane il loro brano (This’s) the end of the world viene scaricato da centinaia di ragazzi da tutta Europa e la loro popolarità cresce in maniera esponenziale. La stessa High Tuned Records, dopo aver ascoltato il brano in rete, decide di scritturarli per il loro album d’esordio. Pornstar segna l’inizio di una bella avventura. Pochi mesi dopo gli Zen vinceranno Sanremo Rock & Trend.



15 ottobre, 2017

15 ottobre 1968 – Come uno Zeppelin di piombo

Il 15 ottobre 1968 due componenti degli Who, il batterista Keith Moon e il bassista John Entwistle, sono nell’aula magna della Surrey University. Anonimi e confusi tra il pubblico stanno assistendo a un concerto dei New Yardbirds, la band formata dopo lo scioglimento degli Yardbirds dal chitarrista Jimmy Page e dal bassista John Paul Jones con il cantante Robert Plant e il batterista John Henry “Bonzo” Bonham, entrambi provenienti dai Band of Joy. I due componenti degli Who, amici del manager del gruppo Peter Grant, non sembrano particolarmente convinti da quanto accade sul palco. L’esibizione nonostante abbia scatenato l’entusiasmo del pubblico li lascia perplessi. Fanno notare a Grant come il gruppo di Page, salito sul palco senza particolare entusiasmo, si sia poi progressivamente sgonfiato fino a dare l’impressione di aver fretta di chiudere. Quando vanno nei camerini a salutare i musicisti ne parlano con lo stesso Page che non ha alcuna difficoltà ad ammettere che l’impressione è quella giusta. Non cerca giustificazioni. Attribuisce la brutta esibizione soprattutto alla stanchezza per un repertorio, quello dei vecchi Yardbirds, che non soddisfa più le loro esigenze artistiche, ma che deve essere eseguito per esigenze contrattuali. «Abbiamo pronto un nuovo repertorio, un buon numero di nuovi pezzi e stiamo ancora cercando un nome per la band. Vogliamo cambiare, abbiamo bisogno di cambiare… cambieremo», dice il chitarrista. Il clima è disteso e rilassato perciò sia Moon che Entwistle iniziano a fare battute con i ragazzi del gruppo sul concerto. In particolare il batterista degli Who ridendo dice «Going down like a lead Zeppelin» (Siete andati giù come uno Zeppelin di piombo). Il riferimento al nome dei famosi dirigibili tedeschi colpisce Jimmy Page che ammicca alla battuta, ma si fissa bene in mente la frase. Qualche giorno dopo le ultime due parole ispireranno il nuovo nome del gruppo. Tolta la “a” di “Lead”, i New Yardbirds diventeranno così i Led Zeppelin, uno dei grandi gruppi di culto della storia del rock destinato a entrare nella leggenda. Gli storici musicali li indicheranno come gli artefici della vera svolta post-Beatles, originali creatori di una miscela di blues elettrico e rock ad altissimo volume capace di recuperare la carica eversiva di un genere che iniziava a spegnersi.

01 agosto, 2017

1° agosto 1966 - Al concerto degli Who una serata di straordinaria follia

Nel 1966 il National Jazz and Blues Festival di Windsor, arrivato alla sua sesta edizione, è ormai considerato uno dei più importanti appuntamenti musicali dell’estate inglese. Articolato su una serie di concerti che si svolgono nel periodo compreso tra gli ultimi giorni di luglio e la metà d’agosto, si è evoluto nel tempo. Intelligentemente ha iniziato a dare spazio, oltre che al jazz tradizionale, anche ai nuovi gruppi emergenti della scena rock britannica, attirando così l’attenzione di un vasto pubblico giovanile. Il programma del 1966 prevede l’esibizione di band come gli Yardbirds, Chris Farlowe, i Move, gli esordienti Cream, ma soprattutto gli attesissimi Who. Questi ultimi, distruttori di strumenti e famosi per la loro musica violenta, sono divenuti in breve tempo l’emblema del movimento Mod. La loro My generation (Spero di morire prima di diventare vecchio/sto parlando della mia generazione) è quasi un inno per la gioventù inglese in cerca di emozioni forti e mette in evidenza la capacità del gruppo di essere, più di tutti gli altri, capace di fornire una colonna sonora alle prime bande giovanili. La loro musica è violenta, aggressiva e i loro fans sono parte di quella massa enorme di ragazzi che anni dopo verrà definita “proletariato giovanile”. Sono i giovani nati e cresciuti nelle periferie industriali delle grandi città britanniche che lasciano presto la scuola per lavorare in fabbrica. La loro voglia di cambiare è rabbia inespressa, primitiva. L’idea di cambiamento non si alimenta con ideali, non c’è tempo. C’è da lavorare per tirare avanti e resta solo il fine settimana per coltivare il sogno di una vita diversa. Ci sono gli amici, la musica e la possibilità di rompere, meglio se con la violenza, il quieto conformismo di una settimana lavorativa che al lunedì, tutti i lunedì, ricomincia sempre uguale a se stessa. Ce l’hanno con tutti, ma soprattutto con i loro genitori che non hanno fatto niente per cambiare la vita e l’ambiente in cui vivono. La loro è una ribellione senza particolari obiettivi e gli Who ne sono i profeti ideali. Il chitarrista Pete Townshend così definisce la filosofia mod: «I Mod sono il rifiuto di quello che c’era prima. Se ne fregano della tv, delle beghe dei politici e della guerra del Vietnam...». Con il tempo il gruppo cambierà registro, analizzerà a fondo le ragioni del suo successo e cercherà contenuti nuovi producendo capolavori come Tommy o Quadrophenia, ma nel 1966 è ancora un concentrato di rabbia e violenza pura. I suoi componenti, Roger Daltrey, Pete Townshend, John Entwistle e Keith Moon non sono differenti dai ragazzi che li amano. Litigano spesso, s’azzuffano, vivono senza regole e quasi quotidianamente annunciano l’intenzione di sciogliere la band. Il 1° agosto 1966, comunque, sono a Windsor, come prevede il programma del festival. Quando salgono sul palco l’immenso tendone che ospita i concerti fatica a contenere l’entusiasmo di centinaia di spettatori accaldati e stretti come sardine. Dopo un’ora e mezza di concerto gli Who danno il via al rito della violenta distruzione dei loro strumenti. Quando Pete Townshend spacca contro il pavimento del palco la sua chitarra, un giovane spettatore delle ultime file fa lo stesso con una sedia lanciando i pezzi in aria. Quasi fosse un segnale la maggioranza dei presenti inizia a rompere tutto quello che gli capita sotto mano. I pochi agenti di polizia presenti sul posto chiamano rinforzi, mentre gli organizzatori si affannano nel vano tentativo di convincere i ragazzi a desistere dalla loro opera di distruzione. Tutto è inutile. In preda a una sorta di follia collettiva, prima che le forze dell’ordine riescano a fermarli, i giovani, dopo aver scalato le strutture metalliche, completano la loro opera distruggendo anche il tendone che ospita i concerti.

20 giugno, 2017

20 giugno 1987 – Lisa l'ispanica

Il 20 giugno 1987 al vertice della classifica statunitense dei singoli più venduti svetta il brano Head to toe, la cui interpretazione è firmata dai Lisa Lisa & Cult Jam. Il brano, estratto dall'album Spanish Fly, porta per la quarta volta nelle classifiche di vendita la band nata nei quartieri ispanici di New York. Il risultato smentisce poi le previsioni di quei critici che avevano considerato Lisa Lisa & Cult Jam poco più di una meteora nata casualmente nel vorticoso mondo della dance. Il gruppo nasce nella prima metà degli anni Ottanta quando la sua leader indiscussa, Lisa Velez, incontra Mike Hughes e Alex "Spanador" Mosley, che fino a quel momento hanno raggranellato qualche soldo suonando come musicisti di studio. I tre si mettono insieme e iniziano a proporsi, senza risultato, a varie case discografiche. Rassegnati stanno per chiudere bottega quando incontrano i Full Force, una band formata dai fratelli Lou, Paul e Brian George con Gerry Charles, Junior Clarke e Curt Bedeau, di cui si dice un gran bene. I due gruppi uniscono gli sforzi e, proprio grazie alla relativa popolarità dei Full Force, nel 1985 pubblicano l'album Lisa Lisa & Cult Jam with Full Force con tre singoli dance di successo. Mentre per i Full Force la strada diventa facile, Lisa Lisa & Cult Jam vengono considerati un po' come dei miracolati cui è toccato in sorte il biglietto vincente della lotteria. Faticano a trovare qualcuno che creda nelle loro possibilità e soltanto nel 1987 riescono a pubblicare il loro primo album da soli: Spanish fly. Sostenuta dal tifo delle comunità ispaniche la band vola alta. Arriva al vertice delle classifiche con Head to one e si ripete con Lost in emotion. La band dell'orgogliosa Lisa Velez ce l'ha fatta. Nel 1990 dedicherà alla sua gente l'album Straight outta hell's kitchen prendendo in prestito il nomignolo sprezzante con cui i benpensanti newyorkesi chiamano il quartiere dove è nata: Hell's kitchen (cucina dell'inferno).

10 giugno, 2017

10 giugno 1940 – C’è la guerra, niente musica americana!

Il 10 giugno 1940, mentre Benito Mussolini annuncia che l’Italia fascista ha dichiarato guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, un provvedimento specifico vieta di ballare in pubblico e procede alla chiusura dei locali notturni. Da tempo, nel suo processo di normalizzazione della cultura e dello spettacolo, il regime fascista alterna provvedimenti durissimi a momenti di liberalizzazione di fatto. Più si stringono i rapporti con la Germania nazista e maggiori si fanno le restrizioni alla libertà di espressione, non solo in campo musicale. Dopo la promulgazione delle famigerate leggi razziali si è assistito a un progressivo giro di vite contro tutto ciò che può essere occasione di scambio di idee o che appare, sia pur velatamente, "straniero". La dichiarazione di guerra peggiora ancora la situazione. Un bando apposito comunica agli italiani che la "musica americana" o anche solo "d’ispirazione americana" debba intendersi categoricamente proibita. Dopo gli autori di origine ebrea vengono anche il jazz viene cancellato, nonostante uno dei figli di Mussolini, Romano, riscuota la stima dei musicisti che lo considerano uno dei più promettenti esponenti del genere. Di fronte all'attacco inizia la resistenza. Con fantasia e genialità c’è chi aggira i divieti, spesso rischiando la carriera e, in qualche caso, la vita stessa. Uno dei personaggi più singolari del periodo fascista è il jazzista Luigi Redaelli che, con lo pseudonimo di Pippo Starnazza, se ne frega dei divieti e continua a cantare in un inglese strampalato e inventato riproponendo al pubblico classici proibiti come Dinah, Sweet Sue o St. Louis blues. Lo fa giocando sull'ironia. Con una buffa voce da nero americano, un inglese maccheronico con un forte accento milanese e le smorfie della sua faccia di gomma confonde le idee della censura provinciale e ignorante dell’italietta fascista che vede in lui più una macchietta che un grande batterista jazz quale egli è. Si costruisce un personaggio unico come la grancassa della sua batteria, sulla quale sono dipinti un buffo ritratto e lo scudetto dell’Inter. Al di là degli aspetti più coloriti, il suo lavoro resta un momento di resistenza importante perché, oltre a mantenere in vita un genere musicale che si vuol cancellare, dà la possibilità a vari strumentisti di continuare a lavorare nonostante la censura.

16 maggio, 2017

16 maggio 1969 - Gli Who malmenano un poliziotto

Il 16 maggio 1969 gli Who si esibiscono al Fillmore East di New York. Lo scenario è quello che da qualche tempo accompagna i concerti della band, soprattutto nelle esibizioni statunitensi: una folla impressionante di ragazze e ragazzi che si accalca urlante sotto il palco mentre il servizio d'ordine è impegnato con molta fatica a contenere l'entusiasmo dei più agitati. Ogni tanto qualcuno riesce a passare il primo cordone di sicurezza e ad avvicinarsi pericolosamente al palco prima di essere riacciuffato e ributtato indietro di peso dagli addetti al servizio d'ordine. È un gioco pericoloso, ma sembra che i fans lo trovino divertente al punto che fa ormai parte del tradizionale scenario dei concerti degli Who. In quel 16 maggio però avviene un evento imprevedibile. Nel palazzo vicino al luogo del concerto scoppia un incendio. L'assordante volume dell'amplificazione e la quasi completa insonorizzazione del locale impediscono agli spettatori chiusi nel Fillmore East di accorgersi che all'esterno c'è una situazione d'emergenza. In realtà non c'è alcun pericolo diretto perché le fiamme sono a una distanza tale da non poter minacciare direttamente né tantomeno raggiungere il locale che ospita il concerto degli Who. I responsabili dell'ordine pubblico temono però che al termine dell'esibizione della band l'uscita massiccia di centinaia di persone e l'inevitabile confusione possano creare problemi ai vigili del fuoco impegnati nello spegnimento. Dopo un breve consulto viene presa la decisione di avvertire gli spettatori del concerto di quanto sta succedendo all'esterno, spiegando che non ci sono rischi ma invitandoli a defluire con calma e attenzione. Via radio vengono informati della decisione gli agenti in borghese all'interno del Fillmore East con la raccomandazione di evitare panico inutile. L'ordine è quello di avvertire al pubblico alla fine del concerto, chiedendo magari la collaborazione dei musicisti del gruppo per ottenere l'attenzione necessaria. Uno dei poliziotti in servizio però, a dispetto degli ordini ricevuti, decide di fare da solo senza aspettare la conclusione del concerto. Mentre Roger Daltrey il cantante degli Who sta presentando al pubblico un brano. L'agente, che è in borghese, balza sul palco e tenta di impossessarsi del microfono. Il chitarrista Pete Townshend, pensando di trovarsi di fronte a uno squilibrato sfuggito al servizio d'ordine si lancia verso di lui  e prima che l'uomo riesca a qualificarsi lo colpisce con un tremendo calcio. Gli Who di quel periodo sono tipetti tosti e abituati a menar le mani. E così mentre il malcapitato cade a terra il bassista John Entwistle, prima ancora di verificare chi sia il disturbatore, gli fracassa lo strumento sulla schiena. Vedendo il collega malmenato i poliziotti presenti nel locale si muovono velocemente verso il palco tentando di intervenire ma non ce la fanno a oltrepassare un servizio d'ordine allenato a reggere l'urto dei fans esagitati e vengono respinti. Nel parapiglia che segue anche il pubblico fa la sua parte e per alcuni minuti il concerto si trasforma in una gigantesca rissa. Pian piano ci si rende conto della serie di equivoci da cui tutto è nato e, sia pur con qualche difficoltà, torna la calma. Il concerto però non può più riprendere perché il responsabile delle forze dell'ordine interne al locale decide di arrestare Pete Townshend per aggressione nei confronti di un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni. Il chitarrista passerà la notte in carcere e soltanto il giorno dopo riuscirà a dimostrare la sua buona fede.

01 aprile, 2017

1° aprile 1984 – Il padre uccide Marvin Gaye

La sera del 1° aprile del 1984, un'ambulanza arriva a sirene spiegate al 2101 South Grammercy di Los Angeles, dove c'è la casa del vecchio reverendo Gaye, un pastore evangelico famoso nel quartiere, oltre che per le sue prediche, per il fatto di essere il padre del cantante e compositore Marvin Gaye. Il personale dell'ambulanza entra correndo in casa e si trova di fronte a una scena agghiacciante. Steso a terra c'è Marvin Gaye immerso in una pozza di sangue, mentre seduto su una sedia con la testa tra le mani il padre ripete come un automa: «Mi voleva uccidere, mi sono solo difeso…». All'arrivo della polizia si lascia ammanettare senza opporre resistenza. Ha ucciso il figlio con un colpo solo al cuore sparato da una pistola che gli era stata regalata pochi giorni prima dallo stesso Marvin. Sostiene di non aver avuto alternative perché il figlio, in preda alla droga, avrebbe tentato d'ucciderlo. I giudici accoglieranno parzialmente la tesi della legittima difesa e lo condanneranno a cinque anni di carcere. Finiscono così la vita e la straordinaria carriera di Marvin Gaye alla vigilia del suo quarantacinquesimo compleanno. Da tempo in preda a frequenti crisi depressive non aveva mai completamente riassorbito lo shock della morte di Tammi Terrell, la compagna artistica svenuta in scena tra le sue braccia nel 1969. Non a caso dopo la scomparsa le sue canzoni erano divenute più problematiche e profonde. Considerato negli anni Settanta uno dei più grandi solisti neri della storia del rock aveva saputo rinnovarsi e mantenere inalterata la sua popolarità anche all'inizio del decennio successivo pur dando l'impressione di non riuscire più a liberarsi dai problemi derivati dall'eccessivo uso di stupefacenti e da una vita privata costellata da delusioni. Pochi mesi prima della sua morte si era trasferito nella casa dei genitori in cerca di aiuto, ma i vicini raccontano di frequenti liti con il padre, rigoroso predicatore, che lo accusava di essere un cattivo esempio per i giovani. Pochi giorni prima di morire aveva regalato lui all'austero genitore la pistola che l'avrebbe ucciso. C'è chi ipotizza che la sua morte sia stato un atto deciso a freddo, come David Ritz, l’autore una biografia molto dettagliata del cantante che scrive: «Credo che quel regalo fosse del tutto intenzionale... Marvin sapeva quello che faceva: voleva morire. Solo quattro giorni prima di essere ucciso si era buttato fuori da una macchina che viaggiava a novanta chilometri all’ora su una Freeway di Los Angeles».

29 marzo, 2017

29 marzo 1985 – Il suicidio di Suor Sorriso

Il 29 marzo 1985 l'ex suora cantante Jeanine Deckers e la sua compagna Annie Pescher scelgono di darsi insieme la morte. La notizia, pubblicata da tutti i giornali europei e statunitensi riporta all'attenzione della cronaca la vicenda di Suor Sorriso e delle sue canzoni, uno dei fenomeni più straordinari della musica pop all'inizio degli anni Sessanta. In quel tempo Jeanine è una suora del convento di Fichermont, in Belgio, con il nome di Luc Gabriele. Oltre a insegnare ai giovani studenti che frequentano la scuola del convento, si diletta a suonare la chitarra e a comporre canzoni. Nel 1961 ha ventotto anni e, spinta dall'esuberanza giovanile dei suoi studenti, si fa convincere a registrare i suoi brani negli studi di una casa discografica. Non ha l'assenso della Madre Superiora e non lo chiede nemmeno, temendo un rifiuto. Al tecnico che chiede quale nome debba scrivere sul materiale registrato lei dichiara di chiamarsi "Soeur Sourire" (Suor Sorriso). Il gioco di complicità con i suoi studenti finisce lì, e l'episodio è ormai dimenticato quando nel 1963, due anni dopo viene pubblicata in singolo la sua Dominique, una canzone dedicata all'ordine delle Dominicane di cui fa parte. Il successo è immediato e straordinario, tanto che in breve tempo viene immesso sul mercato anche un album con tutte le canzoni registrate dalla suora canterina. Sulla copertina dei dischi destinati al mercato europeo c'è il nome di Suor Sorriso, mentre su quelli per gli Stati Uniti il nome cambia in The Singing Nun (la suora canterina). Proprio negli States diventa la prima interprete femminile con album e singolo contemporaneamente al primo posto della classifica. Con la notorietà, per la piccola suora iniziano i guai tanto che, il 6 gennaio 1964, può cantare in diretta dal suo convento davanti alle telecamere dell'Ed Sullivan Show solo dopo che l'intervento del Vescovo ha vinto le resistenze della Madre Superiora. Nel 1966 Debbie Reynolds porta la sua storia sugli schermi. L'ambiente del convento, le proibizioni e le gelosie suscitate dalla sua popolarità finiscono, però, per cambiarle definitivamente la vita. Non riuscendo a resistere alle pressioni, nella seconda metà degli anni Sessanta suor Luc Gabriele lascia gli abiti religiosi, abbandona il convento e recupera il suo vero nome cercando di vivere la sua vita lontano dai riflettori. La storia di Suor Sorriso si conclude però in quel tragico 29 marzo 1985 quando, insieme alla sua compagna Annie Pescher, si accorge di non avere più la forza di vivere.

24 marzo, 2017

24 marzo 1974 – Con i Ramones nasce il punk rock

Fumo, urla e grida caratterizzano un locale "difficile" come il Performance Studio di New York, uno dei covi della musica alternativa della città. Il 24 marzo 1974, accolti da ululati e fischi, si presentano sul palco quattro ragazzi di Forest Hill. Sembrano uguali e indistinguibili tra loro: capelli lunghi lisci e neri, jeans blu, t-shirt bianca e un paio di impenetrabili occhiali neri. Sono i Ramones, dicono di essere cugini e di avere in comune il cognome Ramone. Ovviamente non è vero. Il nome del gruppo è preso a prestito da Phil Ramone, uno degli pseudonimi utilizzati da Paul McCartney e l'unica cosa che li accomuna è la provenienza dallo stesso quartiere di Forest Hill. Il cantante Joey Ramone si chiama in realtà Jeffrey Hyman, il chitarrista Johnny Ramone è l'ex Sniper Johnny Cummings, il vero nome del bassista Dee Dee Ramone è Douglas Colvin mentre dietro allo pseudonimo di Tommy Ramone si nasconde l'ungherese Thomas Erdelyi. La loro esibizione del 24 marzo è devastante e lascia senza fiato anche un pubblico difficile come quello del Performance: volume al massimo e brani a ritmo tiratissimo che durano il breve spazio di un respiro. La band resta immobile sul palco per tutto il tempo con il chitarrista e il bassista schierati ai lati del cantante. Nessuna parola viene sprecata tra un brano e l'altro che si susseguono senza presentazione. I turbolenti frequentatori del Performance assistono scioccati a un'esibizione che non ha precedenti e che verrà successivamente ricordata come la nascita del punk rock. Tra il pubblico è presente il giornalista Danny Field che, per primo, intuisce le potenzialità del gruppo e ne diventa il manager. In breve tempo diventano la bandiera dei giovani emarginati delle metropoli statunitensi e dopo la devastante esibizione Summer Rock Festival del 1975 vengono scritturati dalla Sire Records. Nel febbraio del 1976 pubblicano il primo album Ramones, registrato in soli tre giorni, che pur non riuscendo a sfondare sul piano delle vendite diventa un successo nel circuito alternativo. L'anno dopo il neonato movimento punk adotta come inno la loro Sheena is a punk rocker. Marginali per scelta resteranno fedeli alla loro immagine anche dopo la fine della breve fiammata del punk. Nel 1979 parteciperanno al film "Rock 'n' Roll High School" interpretando se stessi. Sempre in bilico tra scioglimenti annunciati e clamorosi rientri sopravviveranno, con vari cambiamenti di formazione, al passare delle mode, senza mai perdere l'antico smalto. Solo la morte di Joey Ramone chiuderà per sempre la loro storia.


27 febbraio, 2017

28 febbraio 1970 – Chi diavolo sono questi NOBS?

Il 28 febbraio 1970 una folla immensa attende a Copenaghen il concerto dei NOBS. La notizia finisce sul tavolo di un redattore di cronaca di uno dei più diffusi quotidiani della capitale danese con una nota a mano del direttore: «Chi diavolo sono questi NOBS e perché hanno tanto successo?». Se si eccettuano i magazine specializzati, in quel periodo nelle redazioni non c'è un vero e proprio esperto musicale. La musica pop tocca, di volta in volta, alla cronaca, al costume e, più raramente, alla cultura. L'idea che guida i direttori è che la musica non faccia notizia se non nelle pagine delle inserzioni a pagamento. Al malcapitato cronista non resta che cercare aiuto per evitare di scrivere stupidaggini. Scopre così quello che gli appassionati di musica sanno da tempo. La formazione dei NOBS è composta da Jimmy Page, Robert Anthony Plant, John Henry "Bonzo" Bonham e John Paul Jones. I quattro ragazzi quando sono fuori dai confini della Danimarca si chiamano Led Zeppelin, ma nel regno che fu d'Amleto non possono più utilizzare quel nome. Su di loro, infatti, pende la diffida di una certa Eva Von Zeppelin, discendente di Ferdinand, l’inventore dei famosi dirigibili, che ha minacciato di chiedere un risarcimento miliardario per l’uso improprio e non autorizzato del nome. La causa deve ancora essere discussa e i legali già da qualche mese hanno consigliato la band di sospendere la distribuzione dei loro dischi. Su questo i discografici sono stati, però, categorici: «Non se ne parla». Come dar loro torto visto che l'album Led Zeppelin II sta facendo sfracelli in tutte le classifiche di vendita e in Gran Bretagna ha addirittura scalzato dal vertice della classifica Abbey road dei Beatles? Il Financial Times ha calcolato in cinque milioni di dollari l'utile commerciale dei loro dischi e anche il mondo politico s'è accorto di loro. Il segretario del Parlamento Britannico in persona è intervenuto alla consegna di due dischi d'oro alla band lanciandosi in un pubblico encomio per il contributo dato con le vendite dei dischi alla bilancia dei pagamenti britannica. Un po' sconcertati da quanto sta accadendo i Led Zeppelin invocano tranquillità per comporre in santa pace nuovi brani da inserire nel terzo album. Il concerto di Copenaghen cade in un periodo di relativa serenità della band. La scelta di esibirsi come NOBS finisce per diventare una nota di colore in più. Confonde qualche caporedattore, ma non disorienta il pubblico.

21 febbraio, 2017

21 febbraio 1936 – Junior Club, covo di negrofili ed esterofili!

Il 21 febbraio 1936 la Galleria Vittorio Emanuele, il cuore della Milano "bene", ospita un avvenimento destinato a restare nella storia del jazz italiano. Nelle salette superiori del Caffè Campari si inaugura lo Junior Club, una sorta di sezione milanese del più famoso omonimo circolo jazzistico giovanile inglese. Il merito è da attribuire alla straordinaria incoscienza di un gruppo composito, che mescola studenti appassionati di jazz e qualche strumentista. La nascita dello Junior Club è un vero e proprio schiaffo in faccia al conformismo culturale del regime fascista e alla sua ostentata ostilità nei confronti di tutto ciò che arriva dall’estero, in particolare dalla "terra d'Albione", cioè l'Inghilterra. In più, come se non bastasse l'evidente affiliazione a una struttura associativa inglese, gli aderenti hanno la dichiarata propensione ad ascoltare e a diffondere una musica dalle radici ancora più lontane come il jazz. Ce n'è abbastanza per scatenare un putiferio. Eppure quelli dello Junior Club incutono un certo timore all'autorità costituite che non se la sente di prenderli di petto chiudendone l'attività. La guerra contro il gruppo inizia con una sorta di campagna preliminare di delegittimazione. La stampa e gli opinionisti cominciano a far notare, sottovoce e senza enfasi, il cattivo gusto di chi lo ha voluto collocare nel cuore delle patriottica Milano, protagonista delle eroiche Cinque Giornate contro "lo straniero". C'è anche chi rileva come non sia elegante neppure l'idea di portare la musica jazz nella città che ha dato lustro alla musica di Giuseppe Verdi. Pian piano la campagna di stampa cresce di tono fino a diventare più accanita e violenta. Se le critiche de “Il Popolo d’Italia”, organo ufficiale del Partito Nazionale Fascista si distinguono per causticità, “Libro e moschetto”, il giornale della Gioventù Universitaria Fascista, arriva a veri e propri incitamenti alla violenza contro gli iscritti al club definiti “negrofili” e accusati di essere più o meno consapevolmente sostenitori di una potenza straniera. L'azione demolitoria sul piano della comunicazione viene successivamente seguita da varie azioni dimostrative. Di fronte a tutto ciò e alle continue provocazioni degli organi di polizia e di vigilanza, i soci e i frequentatori delle salette superiori del Caffè Campari finiranno per gettare la spugna. Lo Junior Club chiuderà i battenti, ma resterà nella storia della jazz italiano come uno dei tanti episodi di resistenza culturale al fascismo.

14 febbraio, 2017

14 febbraio 1976 – Andrea True, una pornostar al vertice della classifica

Il 14 febbraio 1976 entra in classifica negli Stati Uniti More more more (part 1), un singolo interpretato da Andrea True, fino a quel momento conosciuta soltanto come pornostar. L'exploit della ragazza fa storcere il naso i benpensanti e ai voyeur che l’hanno ammirata in varie evoluzioni sessuali. I primi non sopportano il suo passato da pornostar mentre i secondi non si rassegnano al fatto che la ragazza abbia chiuso con il sesso in pellicola. Nata a Nashville Andrea True si trasferisce a New York alla fine degli anni Sessanta intenzionata a fare la cantautrice, ma non trova nessuno disposto a scommettere sulle sue capacità canore. Dopo decine di provini andati a male decide di provarci in proprio. Per recuperare il denaro necessario inizia a lavorare nel mondo dell' hard core e quando ha messo da parte un buon gruzzolo ci riprova. Va in Jamaica e registra il brano More, more, more con il produttore e arrangiatore Gregg Diamond, poi lo porta alla casa discografica Buddah Records e questa volta fa centro. Andrea gestisce con grande furbizia tutta l’operazione. La canzone racconta le sensazioni di una ragazza che fa l’amore davanti alla cinepresa e gran parte del suo repertorio utilizza parole che sembrano prese in prestito ai “dialoghi” dei film hard come «...tienilo su più a lungo…» «...saziami…» ecc. More, more, more ottiene un successo straordinario nel panorama dance dell’epoca e finisce in una lunga serie di compilation. Ancora oggi è campionato da un’infinità di gruppi del panorama danzereccio rap e hip hop. Come prosegue la storia? La storia non prosegue perché Andrea True dopo qualche singolo e un album, un anno dopo il suo primo grande successo sceglie la Disco Convention di New York per annunciare a sorpresa la sua intenzione di abbandonare la scena dance.

05 gennaio, 2017

7 gennaio 1970 – ... vi tocca pagare i danni!

Fin dall’inizio si era capito che non l’avrebbe passata liscia e Max Yasgur, il proprietario della fattoria di Bethel che aveva ospitato la “tre giorni di pace, amore e musica” entrata nella storia come il Festival di Woodstock si era preparato per tempo alla resa dei conti. Il 7 gennaio 1970, puntualmente, viene citato in tribunale dai proprietari dei terreni confinanti che chiedono trentacinquemila dollari di risarcimento per i danni provocati dal pubblico alle loro proprietà. Non è che l’ultimo strascico, in ordine di tempo, di un evento la cui portata epocale non ha impressionato né le autorità, né i grandi proprietari terrieri di una zona fondamentalmente conservatrice e che ha vissuto la pacifica invasione dei cinquecentomila giovani come un insopportabile fastidio. Spenti i fari dei palchi, rimesse in sesto le strade, rinata l’erba sui prati trasformati in pantano, rifatte le recinzioni travolte dalla massa umana, anche l’attenzione dei media si è spostata altrove. L’unico a non andarsene è stato Max Yasgur, cui la commozione aveva fatto pronunciare le parole rimaste a simbolo di un evento irripetibile: «Credo che tutti voi abbiate dimostrato qualcosa al mondo, e cioè che mezzo milione di giovani possano stare insieme e divertirsi ad ascoltare musica...» La sua casa è qui. Qui è nato, è cresciuto e qui ha vissuto uno dei momenti più straordinari della sua vita. Quando gli viene notificata la citazione non fa commenti. È un uomo semplice. A un cronista locale chiarisce soltanto la sua posizione: «Non ho tutti i soldi che mi chiedono. Andrò davanti ai giudici e glielo dirò...». Pratico più che rassegnato, per lui il mondo è più semplice di come vogliono farlo apparire gli altri. Nella battaglia legale che l’aspetta non può contare sul sostegno di nessuno. Anche i protagonisti del Festival di Woodstock, divenuti improvvisamente delle star, sono lontani, impegnati a far fruttare l’inaspettata popolarità. Lui non si lamenta, non si fa problemi. La causa si trascinerà per molto tempo, ma non approderà a niente, anche perché il buon Max con la sua semplicità troverà un modo originale per uscirne: l’8 febbraio 1973, a cinquantatré anni, morirà d’infarto lasciando tutti con un palmo di naso...