31 gennaio, 2020

31 gennaio 1937 - Philip Glass, un minimalista nella new age


Il 31 gennaio 1937 nasce a Baltimora il tastierista Philip Glass forse il più osannato esponente del movimento minimalista e uno degli iniziatori della "new age music". Diplomatosi alla Juilliard School, nel 1964 si stabilisce a Parigi dove avvia una ricerca particolare influenzato dalla musica tibetana e dal sitarista indiano Ravi Shankar, oltre che, per la parte teorica del suo lavoro, dalla pedagoga musicale francese Nadia Boulanger. Proprio l'adattamento della musica di Ravi Shankar per il film "Chappaqua" è considerato il primo lavoro di rilievo della sua carriera. Tornato a New York all'inizio degli anni Settanta lavora con La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich. Successivamente forma il Philip Glass Ensemble e diventa rapidamente uno dei maggiori esponenti di quel movimento minimalista che ha preso avvio dall'album In C di Terry Riley pubblicando album come Music in similar motion & music in 5ths nel 1973, Music in 12 parts 1 & 2 nel 1974, North star nel 1977 e molti altri. Tra le sue creazioni musicali legate alle immagini hanno particolare importanza la colonna sonora del film "Toscando", l'opera Einstein on the beach (, composta nel 1976 insieme al direttore d'orchestra Robert Wilson, Satyaghra nel 1979 sulla vita di Gandhi) e Akhnaten nel 1984 sulla vita del faraone Ajnatòn. In quest'ultima Glass utilizza ben sei voci soliste più l'orchestra e i cori della Stuttgart State Opera. Philip Glass è stato il primo artista, dopo Igor Stravinsky, a firmare un contratto discografico esclusivo con la CBS Masterworks. Nel 1984 Philip compone la musica per la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi di Los Angeles e nel 1986 pubblica Songs from liquid days con la collaborazione di David Byrne, Laurie Anderson, Suzanne Vega, Paul Simon per i testi e con alcune interpretazioni di Linda Ronstadt, Douglas Perry e del Kronos Quartet. Nel 2015 ha pubblicato la propria Autobiografia, dal titolo "Parole senza musica".



29 gennaio, 2020

29 gennaio 1959 – Jula De Palma scandalizza l'italietta bigotta

Alle ore 22,20 di giovedì 29 gennaio 1959 sul palcoscenico del Festival di Sanremo sale Jula De Palma, all’anagrafe registrata con il nome di Iolanda De Palma, una ragazza milanese di ventisette anni che da tempo non fa dormire sonni tranquilli a bigotti e moralisti. Cinque anni prima, infatti, in un’intervista rilasciata al settimanale “Sorrisi e Canzoni” quando le era stato chiesto se ammettesse il divorzio, invece di allinearsi alla tesi ufficiale dell’indissolubilità del matrimonio o trincerarsi dietro a un riserbo sospetto (il massimo della dissociazione consentito in quel periodo) aveva candidamente risposto: «Si, nel senso di non creare situazioni illegali in un matrimonio sbagliato». Nata nell’ambiente del jazz e scoperta da Lelio Luttazzi, che a soli diciotto anni l’ha aiutata a entrare nel ristretto gruppo dei cantanti della Rai, si è conquistata stima e simpatia per il suo stile ispirato alle grandi vocalist del jazz e la voce carica di sensualità. Considerata una delle più innovative cantanti della musica leggera italiana di quel periodo è però insofferente alle limitazioni. Per questa ragione piace molto al pubblico e meno a impresari e manager che vivono ogni sua esibizione pubblica con il fiato sospeso. Nonostante tutto in quella serata del 29 gennaio 1959 non ci sembrano esserci motivi di preoccupazione. Jula De Palma deve cantare Tua, una canzone composta da Pallesi e Malgoni che in gara viene eseguita anche dalla voce tranquilla di Tonina Torrielli, l’ex operaia di una fabbrica dolciaria soprannominata “la caramellaia di Novi Ligure”. Eppure quando la ragazza sale sul palcoscenico del Festival succede qualcosa di particolare. La sensualità sbarca per la prima volta sul proscenio del festival musicale più popolare d’Italia. Fin dalle prime note la sua voce si muove su tonalità inusuali, di derivazione jazzistica. Profonda e sensuale, quasi impercettibile sussurra confidenziale «Tua, tra le braccia tue...» in solitudine, accompagnata soltanto dal contrabbasso. È una voce nuda, cioè senza accompagnamento orchestrale, che si riveste progressivamente con l’ingresso successivo dei vari strumenti. Dopo il contrabbasso tocca alla batteria, che entra in punta di... spazzola, per non turbare l’atmosfera e poi via via gli altri ma senza mai coprire la voce che, come un serpentello, si avviluppa alle note con grazia tentatrice. La sua straordinaria interpretazione, ricca di sensualità, viene accusata di essere «...scandalosa al limite dell’offesa al pudore». L’accusa oggi può far sorridere ma nell’Italia bigotta degli anni Cinquanta c’è poco da scherzare. Alla Rai e ai giornali arriva una lunga serie di lettere di protesta. Una tra le molte che vengono rese pubbliche finisce per restare emblematica dell’epoca. È di una donna che si definisce “una sposina” e chiede addirittura l’intervento della magistratura contro la “scandalosa cantante” perchè il suo modo di cantare potrebbe configurare il reato di “istigazione all’adulterio”. Un incauto critico giornalista scrive che la ragazza ha eseguito la canzone «...come se fosse in camera da letto» e altri non perdono l’occasione per rilevare come il morbido e leggero vestito da sera indossato per l’occasione assomigli a una camicia da notte. Insomma sulla testa della povera Jula De Palma si scatena una vera e propria tempesta mediatica che rischia di travolgerla. Poi finalmente il Festival finisce con Tua che si piazza al quarto posto. Le polemiche invece continuano ancora per un po’ anche se la casa discografica della cantante accetta di modificare il passaggio «Tua/sulla bocca tua/finalmente mia...» in «Tua/ogni istante tua/dolcemente tua...». Se l’accorgimento consente al disco di evitare rischi non così accade a Jula De Palma che da quel momento si vede oggetto di censure ripetute. Non viene bandita dalla scena radiotelevisiva italiana come accadrà a Mina, ma nei suoi confronti l’Italia bigotta e codina dell’epoca mette in atto una serie di “ritorsioni” e “dispetti” che finiscono per condizionarne la carriera. Per anni le viene attribuita la fama di essere un “personaggio incontrollabile” sul piano caratteriale e una cantante troppo snob per il grande pubblico. In realtà è una delle pochissime interpreti che dopo essere arrivate alla musica pop dal jazz non tradiscono le proprie origini ma tentano di mettere in relazione i due differenti generi musicali. Nonostante tutto nella sua lunga carriera partecipa a varie manifestazioni musicali e pubblica molti dischi, tra cui due divertenti EP intitolati Quando una ragazza si chiama Jula 1 e Quando una ragazza si chiama Jula 2 oltre a un album ispirato al jazz dei suoi primi anni intitolato Whisky e Dixie. Nel 1972 dà l’addio al palcoscenico con un recital al Teatro Sistina di Roma accompagnata dall’orchestra di Gianni Ferrio e nel 1974 si esibisce per l’ultima volta in televisione cantando una divertente versione di Tulipan con Raffaella Carrà e Mina nel programma “Milleluci”. Qualche tempo dopo decide di lasciare l'Italia con il marito Carlo Lanzi per stabilirsi in Canada. Le sue qualità interpretative e la sua ecletticità musicale le valgono il rispetto della critica e un buon successo di pubblico. A dispetto delle emarginazioni e delle censure con il passare degli anni la sua figura artistica è stata rivalutata anche nel confronto con le interpreti più popolari dell'epoca.


28 gennaio, 2020

28 gennaio 1930 – Angel "Pocho" Gatti, il jazzista venuto dall’Argentina

Il 28 gennaio 1930 nasce a Buenos Aires, in Argentina, il jazzista Angel “Pocho” Gatti. Trasferitosi negli Stati Uniti nel corso degli anni Quaranta, risiede soprattutto a New York, dove approfondisce gli studi musicali e incontrato vari esponenti del jazz collaborando anche con Sarah Vaughan, Frank Sinatra e Nat King Cole. Nel 1961 decide di trasferirsi in Italia e ci resta per una decina d’anni ininterrottamente partecipando a vari festival jazz e, dando vita nel 1968 a una big band con i più dotati solisti italiani, da Gianni Basso a Oscar Valdambrini, da Dino Piana a Tullio De Piscopo, a Giorgio Azzolini con il quale lavora anche qualche anno dopo in veste di arrangiatore. Nel 1971, dopo aver ripetuto l’esperienza orchestrale riprende la strada degli Stati Uniti, dove si è fermato per qualche anno prima di tornare nuovamente in Italia. Nel corso della sua lunga carriera sviluppa collaborazioni con quasi tutti i più grandi jazzisti della sua generazione. Muore a Parigi il 1° gennaio del 2000.

27 gennaio, 2020

27 gennaio 1981 – Claudio Villa non rappresenta il Festival di Sanremo!

«Non ho invitato Claudio Villa al Festival di Sanremo perché non rappresenta il festival come, per esempio, Nilla Pizzi, Modugno e tanti altri...». La frase di Gianni Ravera, buttata lì nel gennaio 1981, alla vigilia della rassegna sanremese, sembra studiata ad arte per suscitare scalpore. Conoscendo il carattere di Claudio Villa è impossibile, infatti, immaginare che possa restare senza risposta. Infatti il 27 gennaio 1981, un lunedì, il cantante convoca una conferenza stampa sotto la tenda Pianeta MD di viale Tiziano a Roma per annunciare la sua intenzione di proporre, al pubblico romano, nella settimana che precede il festival di Sanremo, un suo recital intitolato “Claudio Villa ‘81 - Concerto all’italiana”. I giornalisti l’attendono al varco e, inevitabilmente, il discorso si sposta sulle dichiarazioni del ‘patron’ di Sanremo. La risposta alla provocazione di Ravera è tagliente e pronta: «Villa non rappresenterebbe il festival di Sanremo? Quale Festival di Sanremo? Il Festival di Sanremo è morto dieci anni fa. L’ha ucciso Ravera. Lui odia la canzone italiana forse perché in veste di cantante non ha riscosso molto successo... è stato un mediocre artista e penso che sia vittima di forte un complesso d’inferiorità nei miei confronti...»


26 gennaio, 2020

26 gennaio 2006 - Letze nacht, l’ultima notte

«Io sono Laura Bombonato, io ho gassato i giudei, io ho fucilato i comunisti, io ho impiccato gli zingari, ho assassinato i curdi… le bombe sulla Serbia: sono stata io. Io ho costruito prigioni sotterranee, con me i bambini costruiscono le mine antiuomo che più tardi li faranno a pezzi. Io ho chiuso centinaia di bambini in una scuola. Per colpa mia sono quasi tutti morti. Tutto questo non è avvenuto vicino a me, ma a casa mia. La tua morte è il concime per le mie verdure». Sono parole forti, pronunciate in prima persona dall’attrice spogliatasi dai panni della testimone in “Letze nacht, l’ultima notte”, una rappresentazione teatrale scritta da Jochen Dehn e ispirata ai bambini della scuola di Bullenhuser Damm che viene rappresentata per la prima volta giovedì 26 gennaio 2006 al teatro Comunale di Alessandria nell’ambito delle celebrazioni della Giornata della memoria. L’episodio da cui trae ispirazione è avvenuto nella notte del 20 aprile 1945 ad Amburgo quando venti bambini ebrei, uno dei quali di origine italiana, utilizzati per sperimentazioni sulla tbc vennero uccisi e poi fatti sparire per non lasciare tracce dei rivoltanti esperimenti. Protagonista e interprete della rappresentazione è l’attrice Laura Bombonato, geniale e ispirata regista di lavori come “54”, l’opera nata dalla collaborazione tra Wu Ming e gli Yo Yo Mundi, e il grande affresco “Resistenze: la banda Tom e altre storie partigiane” nato sempre nella factory targata Yo Yo Mundi. Non è uno spettacolo, ma una prova teatrale dura come un pugno nello stomaco per far capire che la memoria non è soltanto ricordo e per evitare che la melassa dei buoni sentimenti finisca per stemperare gli orrori fino a farli apparire lontani da noi. Il passato si interseca con il presente e il dramma assume nuove chiavi di lettura che chiamano direttamente in causa il mondo d’oggi. Nessuno è innocente se, come dice Laura, «i pregiudizi e il razzismo sono sostenuti, ieri come oggi, dall’indifferenza e dal silenzi di chi finge di non vedere». Per questa ragione “Letze nacht, l’ultima notte” cerca di non raccontare soltanto una storia antica, ma tende a far riflettere come i bambini siano ancora oggi vittime indifese nei luoghi dove si combattono guerre dimenticate o, peggio, presentate come giuste. «La rappresentazione vuole anche essere una metafora – aggiunge Laura – sulle società ricche ed evolute dell’Occidente che spesso dimenticano le nuove generazioni, private dei riferimenti e delle strutture di mediazione necessarie, abbandonate a un futuro che non possono che ignorare. La storia di quei bambini drogati con la morfina, impiccati e poi bruciati perché divenuti tracce imbarazzanti non può essere ricondotta solo a una sorta di momento di follia di massa e mummificata nel passato» La memoria non è soltanto ricordo, è vita, testimonianza, indignazione e capacità di battersi qui e oggi per la libertà contro tutti i mostri che portiamo con noi, dal razzismo, alla guerra, allo sfruttamento. Il tentazione di rimuovere l’essenza dei fatti e di non mettere in discussione la nostra responsabilità è la bestia da combattere. Laura, che nella ex scuola di Bullenhuser Damm c’è stata davvero ricorda che «dopo la caduta del nazismo e la sconfitta della Germania molti dei responsabili della strage di bambini vennero arrestati e condannati a morte. Il medico responsabile degli esperimenti fuggì e aprì una clinica per curare gli ammalati di tbc, salvo poi essere scoperto e condannato all’ergastolo qualche decennio dopo. L’edificio dove i bambini vennero uccisi pochi anni dopo guerra era tornata a essere una scuola e la stanza della mattanza era diventata un ricovero per le biciclette degli scolari del dopoguerra. Solo negli anni Settanta un giornalista tedesco riaprì le ferite e fermò la rimozione. Come vedi ogni volta la tentazione di rimuovere prevale su tutto. Io credo che non ci sia rimozione buona e rimozione cattiva». Ogni rimozione è una bomba a orologeria che minaccia il nostro futuro. Per questa ragione l’eccidio dei bambini ebrei di Amburgo viene mescolato con le vicende di oggi, per questo in “Letze nacht, l’ultima notte” neanche la protagonista della narrazione è innocente. La memoria non si riassume in un momento di stanca commemorazione.

25 gennaio, 2020

25 gennaio 1975 – Antonello Venditti dall’impegno alla curva


Antonello Venditti, uno dei più amati e impegnati cantautori della nuova generazione compone una canzone dedicata alla sua squadra del cuore. Il 25 gennaio 1975, in occasione del derby calcistico Roma-Lazio, presenta il singolo Roma Roma (La Roma non si discute si ama), un brano del tutto controcorrente rispetto alla sua produzione che per alcuni è un segno dei tempi e del progressivo affievolirsi delle illusioni sulla possibilità di cambiare la società, per altri solo un’idea per guadagnare di più e per altri ancora soltanto un atto d'amore. Sul retro del disco, pubblicato dalla RCA, si possono ascoltare i cori dei tifosi della Curva Sud dello Stadio Olimpico di Roma registrati dal vivo. I suoi ammiratori ‘della prima ora’ faticano a digerire quello che considerano come un cedimento commerciale e un tradimento della sua linea d’impegno politico e sociale, tanto che in alcuni concerti nasceranno furibonde discussioni sull’argomento tra il pubblico e il cantante.


24 gennaio, 2020

24 gennaio 1939 - Julius Hemphill, il sax del Black Artist Group


Il 24 gennaio 1939 nasce il sassofonista Julius Hemphill. La città che gli dà i natali è Fort Worth, nel Texas la stessa dove sono nati tra gli altri i sassofonisti Ornette Coleman e Dewey Redman e il batterista Charles Moffett. A dodici anni Hemphill soffia già nel clarinetto sotto la guida di John Carter e successivamente passa al sassofono tenore e trova qualche ingaggio in vari gruppi, soprattutto di blues. Chiamato alle armi, viene destinato a Saint Louis, nel Missouri. La città lo conquista al punto da convincerlo a restare lì anche dopo la fine del servizio di leva. Proprio a Saint Louis nel 1968 dà vita al BAG (Black Artist Group), un'associazione simile alla chicagoana AACM (Association For Advancement of Creative Musician), che, però, allarga la sua sfera d’interesse anche a campi espressivi diversi dalla musica improvvisata quali la danza, il teatro, la poesia e la pittura. Con lui nel BAG ci sono vari musicisti come Jerome Harris, Charles Bobo Shaw, Oliver Lake, Arzinia Richardson e tanti altri. Nel 1971 Hemphill forma un gruppo di cui divide la leadership con il pianista John Hicks, uno dei più frequenti compagni d’avventura artistica della sua carriera con il quale nel 1974 partecipa all'incisione di Fast Last! di Lester Bowie. A Chicago collabora con il polistrumentista Anthony Braxton. A partire dal 1975 i suoi interessi sembrano orientarsi alle esperienze solistiche, spesso sperimentali, nonostante l’esperienza collettiva del World Saxophone Quartet il gruppo formato nel 1976 con Hamlet Bluiett, David Murray e Oliver Lake. Muore a New York il 2 aprile 1995.


23 gennaio, 2020

23 gennaio 1951 – Alibert, la stella dell’Operetta Marsigliese

Il 23 gennaio 1951 muore Alibert, uno dei personaggi fondamentali dell’Operetta Marsigliese al punto che c’è chi ha sostenuto che senza di lui quel genere non avrebbe neppure superato i confini della città nella quale è nato e che gli ha dato il nome. Sono osservazioni difficili da commentare perchè prive della possibilità di controprova. Appare certo, invece, il contrario. Pochi dubbi invece sussistono sul fatto che senza l’esplosione improvvisa della passione per l’operetta del pubblico parigino, probabilmente il segno lasciato da Alibert nella storia dello spettacolo francese e parigino in particolare sarebbe stato molto più leggero. Sia come sia è andata così e oggi insieme a Jules Muraire, in arte Raimu, e a Fernand Contandin, in arte Fernandel, Alibert compone il cosiddetto “trio dei marsigliesi”, una piccola pattuglia di uomini di spettacolo provenienti dal meridione della Francia che, a partire dagli anni Trenta, ha saputo conquistare Parigi. Le biografie raccontano che Henri Allibert, il futuro Alibert, è nato a Carpentras. In realtà il piccolo Henri vede la luce il 3 dicembre 1889 a Loriol-du-Comtat, un piccolo borgo a circa cinque chilometri da Carpentras. La sua infanzia non è diversa da quella di altri bambini dell’epoca. Vive in una famiglia che, pur senza avere particolari difficoltà di sostentamento, non può permettersi follie. Frequenta la scuola senza grandi problemi ma anche senza particolari eccellenze. Alla noia e alla fatica dello studio e della scrittura preferisce le lunghe giornate passate a giocare nella via con i suoi coetanei. Il bambino non dà particolari problemi ai genitori che lo lasciano fare consapevoli che, prima o poi, l’età dei giochi e delle corse a perdifiato è destinata a lasciare il posto alla vita vera, fatta di lavoro, tante preoccupazioni, poche speranze e nessuna illusione. Il piccolo Henri cresce così nella strada. Nella polvere delle vie del suo paese d’origine impara a tenere testa ai prepotenti, a coltivare e mantenere vivo un bene prezioso come l’amicizia e a essere solidale fino in fondo con i compagni d’avventure e di giochi. Quando compie quindici anni, però, si ritrova a dover affrontare il primo, vero, importante cambiamento della sia vita. I suoi genitori, infatti, si trasferiscono ad Avignone, una città che dista circa trenta chilometri dal paese natìo. Quella distanza, che oggi può essere percorsa da un’auto in poco più di una ventina di minuti, all’inizio del Novecento è un viaggio che dura qualche ora. Per un ragazzo di quindici anni che è costretto ad abbandonare gli amici e i luoghi dove è cresciuto sapendo di non tornarci più, è una separazione difficile, un cambiamento che pesa come un esilio. A chi arriva da Loriol-du-Comtat, o anche da Carpentras, Avignone può apparire come una grande e inesplicabile città. Lo spaesato quindicenne Henri Allibert ha l’impressione che in quelle vie ricche di storia così lontane e diverse da quelle in cui sono nati i giochi e le amicizie infantili stiano finendo i suoi sogni. Non è così. Ad Avignone finiscono i giochi ma i sogni sono destinati a irrobustirsi e a muoversi su nuovi e inaspettati scenari. Proprio nei caffè della città e poi in quelli dei dintorni, Henri muove i primi passi come intrattenitore. Il suo modello è Mayol, al secolo Felix Mayol l’uomo con la houppette, il ciuffetto di capelli sopra la fronte, che ha lanciato La mattchiche, l’adattamento francese di una canzone spagnola, un ballo birichino che costringe due corpi a stare molto vicino e che diventa di gran moda nelle notti parigine del 1905. Henri ne ripropone le canzoni, lo stile, ne copia i movimenti, i gesti, i vestiti e si fa crescere proprio sopra alla fronte un ciuffo di capelli identico al suo. Il pubblico si diverte alle sue esibizioni e, locale dopo locale, successo dopo successo, il giovane intrattenitore arriva a Parigi. Alla fine del 1908, pochi giorni dopo il suo diciannovesimo compleanno, si esibisce per la prima volta sul palcoscenico prestigioso del Bobino. Non riscuote un successo travolgente, ma il pubblico parigino finisce per affezionarsi a questo giovanissimo emulo di Mayol ed Henri resta nella capitale per una nutrita serie di esibizioni nei vari caffè concerto. Alla prima stagione segue la seconda e poi la terza finché Henri Allibert, il giovane cantante arrivato dal meridione della Francia, chiamato semplicemente Alibert sui manifesti e sui cartelloni, diventa una presenza fissa nei locali di Parigi. Nel 1913 viene scritturato per uno spettacolo di varietà che lo porta in tournée nei teatri delle città francesi. Tra le tappe c’è anche l’Alcazar di Marsiglia, la città più vicina ai luoghi dove è nato e dove ha vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Per l’occasione molti degli amici di un tempo affollano il teatro e gli tributano un successo inaspettato e commovente. Il successo dell’esibizione all’Alcazar di Marsiglia rinfranca Alibert e lo convince definitivamente delle sue possibilità. Per la verità avrebbe anche voglia di rinnovare il repertorio, magari affrancandosi dal ruolo del “giovane imitatore di Mayol” dal quale comincia a sentirsi un po’ soffocato, ma non può. Non sono d’accordo con lui gli impresari che, in Francia come altrove, tendono in genere a sfruttare fino all’ultimo le fortune di un personaggio prima di investire e rischiare su qualche novità. Nel 1914 però la sua carriera si interrompe bruscamente. Alibert, la stella nascente del varietà francese, ridiventa Henri Allibert per l’ufficio di leva che gli invia una cartolina di reclutamento. L’Europa sta per piombare nella prima delle due grandi guerre del Novecento e, come milioni di altri giovani del continente, anche lui è costretto a partire per il fronte. Nel 1917, quando torna a casa dalla guerra, Alibert è un uomo diverso, provato dall’esperienza vissuta nonostante una decorazione ottenuta per i servizi resi alla patria. Intenzionato a lasciarsi alle spalle il più rapidamente possibile i ricordi del fronte si rituffa nel lavoro. Accantonata l’imitazione di Mayol comincia a farsi apprezzare come cantante e intrattenitore negli spettacoli di rivista. Nel 1918 il suo nome affianca quello di Georgius sul cartellone dell’Alcazar di Marsiglia, nel 1920 è al Concert Mayol e all’Eldorado. Nello stesso anno pubblica anche su disco Jazz Band partout, il brano di maggior successo del suo repertorio. Nel 1924 è all’Olympia, nel 1925 al Théâtre de l’Empire con Yvette Guilbert e poi all’Européenn. Nel 1927 si esibisce anche sul palcoscenico delle Folies Bergère. Nel 1928 ottiene un grande successo con il brano Mon Paris scritto da Vincent Scotto e nel 1929 mette in scena “Elle est à vous”, la prima operetta della sua carriera. È l’inizio di una nuova fase della sua vita artistica che lo vedrà diventare il protagonista assoluto della miglior stagione di un genere che i francesi chiameranno “operetta marsigliese”. La sua voce dolce, il suo sorriso e il suo ottimismo conquistano la Francia che affolla i teatri per assistere a operette come “Au pays du soleil” del 1932, “Arènes joyeuse” del 1934, “Trois de la marine” del 1935, “Un de la Canebière” del 1935 e tante altre. Anche il cinema si accorge di lui e gli affida parti importanti in commedie di successo. La sua attività non si ferma neppure negli anni dell’occupazione nazista e ciò gli crea qualche difficoltà nel periodo successivo alla Liberazione quando non pochi l'0accusano di collaborazionismo. A partire dal 1945 abbandona progressivamente il palcoscenico per dedicarsi maggiormente alla composizione. Alla fine degli anni Quaranta assume anche la direzione di vari teatri, in particolare del Théâtre des Deux-Ânes. Pensa anche di mettersi a fare l’impresario, affascinato dall’idea di scoprire nuovi talenti e accompagnarli al successo, ma è un progetto che non vedrà mai la luce. La morte lo sorprende a Marsiglia il 23 gennaio 1951 quando è da poco entrato nel suo sessantaduesimo anno di vita. Il suo corpo viene tumulato nel cimitero marsigliese di Saint Pierre, lo stesso che ospita anche le spoglie mortali di altri grandi protagonisti dello spettacolo originari di quella città, come Rellys, Vincent Scotto, Charles Helmer Ponge e l’affascinante Gaby Deslys.

22 gennaio, 2020

22 gennaio 1977 - Mai più aborti clandestini


Il 22 gennaio 1977 la Camera approva la legge che legalizza l’aborto in Italia e rende possibile l’interruzione di gravidanza all’interno delle strutture sanitarie pubbliche. Chiesta da un ampio schieramento di forze con alla testa il movimento delle donne, la legge dovrebbe, nelle intenzioni dei proponenti, sancire la fine degli aborti clandestini nel nostro paese. L’articolato prevede anche un potenziamento dell’educazione sessuale e dell’informazione, in modo da impedire che l’aborto venga utilizzato in funzione contraccettiva. Non è in questione il giudizio sull’aborto, tanto che i sostenitori della legge dichiarano: «Al di là dei giudizi morali l’aborto è e resta un dramma. Lo scopo di questa legge è quello di toglierlo dagli anfratti bui della clandestinità che arricchisce medici senza scrupoli e praticoni di paese. Ora si tratta di andare oltre, diffondendo la conoscenza sui metodi contraccettivi e portando l’educazione sessuale nelle scuole».


21 gennaio, 2020

21 gennaio 2005 – I Chemical Brothers non sono i salvatori della dance music

Il 21 gennaio 2005 esce in contemporanea in tutto il mondo Push the button un album siglato da Ed Simons e Tom Rowlands, in arte Chemical Brothers. Qualche settimana prima dell’uscita del disco i due “fratelli chimici” fanno un salto ai Magazzini Generali di Milano e si prestano a commentare un lavoro che sposta un po’ più in là il terreno di sperimentazione e di incontro tra le diverse culture musicali. Alla mescola tra dance e rock sulla quale negli anni precedenti hanno costruito il loro successo aggiungono molti elementi spiccatamente orientali ed etnici, come si può notare dal singolo Galvanize, in rotazione sulle radio qualche tempo prima, nel quale la voce di Q-Tip si muove su toni apocalittici, regalando terrore ed euforia al tempo stesso. L’album contiene anche un pezzo più marcatamente politico come Left righ. Se gliene si chiede ragione i due rispondono che la dance, posto che la loro possa ancora essere considerata dance, si muove nella realtà del mondo e nessuno può evitare di prendere posizione. «Il mondo intorno a noi è cambiato. Non siamo più negli anni Novanta, non ha più senso promuovere solo il divertimento e la fuga dalla realtà». I fratelli chimici sostengono anche che il destino del mondo è nelle mani di tutti e non ci si può chiamare fuori. Lo stesso titolo dell’album Push the button vuole essere, insieme, un monito e un invito «È un’espressione volutamente ambigua. L’idea di pigiare un bottone può assumere connotazioni negative se si pensa al rischio di una guerra nucleare; ma anche positive, se lo si intende come un invito a far accadere le cose, a essere protagonisti e, soprattutto, a diventare padroni della propria vita». A parte Q-Tip, gli altri ospiti del disco, pur non essendo nomi popolarissimi per il grande pubblico, sono stati scelti perché funzionali al nuovo disegno musicale dei Chemical Brothers. Tra loro spiccano il rapper Anwar Superstar, Kele Okereke dei Bloc Party e i Magic Numbers. Come sempre, però, nessuno di loro, salvo sorprese, salirà sul palco ad affiancare i due fratelli nel tour che partirà tra qualche settimana. I fratelli chimici non cambiano idea sulla musica dal vivo. Restano legati alle loro origini underground e agli stilemi della club culture. «Che senso ha portarci sul palco un batterista o un cantante? La band siamo noi, con le nostre idee e con i nostri suoni. Da sempre ci affascina molto di più l’idea di creare un ambiente coinvolgente, quasi da club, anche quando suoniamo in grossi spazi. E, come è ovvio, il risultato dipende molto dalle reazioni, dalle vibrazioni del pubblico. Quando abbiamo suonato a Imola siamo saliti sul palco subito dopo i Red Hot Chili Peppers, eppure siamo riusciti a intrattenere lo stesso pubblico, pur con una proposta musicale molto diversa». Non si scompongono nemmeno quando qualcuno ricorda che secondo i giornali britannici la dance è ormai giunta al capolinea. Abbozzano e tirano diritti per la loro strada: «È un punto di vista che non ci tocca. Noi facciamo quello che abbiamo sempre fatto: individuiamo spazi vuoti nella musica che sentiamo in giro e cerchiamo di riempirli. Tutto qui. Non chiedeteci di essere i salvatori della dance music».

20 gennaio, 2020

20 gennaio 1976 – La tromba nomade di Gus Deloof

Il 20 gennaio 1976 muore a Schaarbeek, Bruxelles, il trombettista Guf Deloof considerato uno dei migliori solisti di tromba dell’Europa continentale degli anni Trenta insieme a Robert De Kers, anche se a differenza di quest’ultimo è sempre stato più un solista nomade che un leader. Nato il 26 settembre 1909 sempre a Schaarbeek, all'età di dieci anni inizia a studiare il violino e a venticinque anni molla l’ambiente deciso a mettere la testa a posto e a impiegarsi in una società di assicurazioni. Non ha fatto i conti con la passione. Dopo aver ascoltato un assolo di Beiderbecke con i Wolverines, decide di imparare a suonare la tromba e nel 1925 lascia uffici e scartoffie per suonare nei locali da ballo. Nel 1927 entra a far parte dei Michigans e da quel momento la sua vita sarà un continuo girovagare. Nel 1928 prende il posto di Norman Paine nel gruppo di Spike Hughes. L’anno dopo suona con Chas Remue, nel 1930 è in Germania con Bernard Etté, nel 1931 fa parte dei Racketeers, nel 1932 suona con Willie Lewis, nel 1933 con Ray Ventura e nel 1937 con Django Reinhardt, giusto per citare soltanto le principali tappe di una carriera che culmina nel 1958 in un concerto speciale per l'Esposizione Internazionale di Bruxelles. Da quel momento rallenta l’attività senza però mai lasciare le scene. Le sue composizioni più note sono Harlem Swing, Sweeping the Floor, Easy Going, Music for Jetty, On the Ice e Bouncin' Around.

19 gennaio, 2020

19 gennaio 2006 - Wilson Pickett ci saluta e se ne va

Il 19 gennaio 2006 muore Wilson Pickett. Lo uccide un infarto nella notte (quasi In the midnight hour come recitava un suo vecchio successo) tra il 18 e il 19 gennaio in una clinica della Virginia. Ha sessantaquattro anni e da tempo il music business non si occupa più di lui, anche se non ha mai smesso di cantare nel circuito dei piccoli club. In Italia lo si ricorda quasi esclusivamente per un paio di partecipazioni al Festival di Sanremo nel 1968 quando aveva cantato Deborah con Fausto Leali e la seconda nel 1969 quando in coppia con Lucio Battisti aveva felicemente dissacrato Un’avventura. A poche ore dalla sua morte c’è già chi lo incorona come l’ennesimo “Re del soul” lasciando intendere che le case discografiche che l’avevano accantonato come un ferrovecchio stanno meditando di fare ancora qualche spicciolo sull’emozione della scomparsa. La sua popolarità è legata alla stagione del rhythm and blues e alla riscossa nera della metà degli anni sessanta di cui è stato uno dei pilastri, ma non il re, nemmeno per una notte. Pur essendo cresciuto a Detroit non si fa catturare dalla factory Motown di Berry Gordy jr, quella che porterà in alto Diana Ross, Marvin Gaye o i Jackson Five. Il soul patinato non è nelle corde della sua voce selvaggia e nervosa. La sua avventura musicale parte dal gospel e approda al rhythm and blues attraverso l’esperienza dei Falcons, il gruppo vocale con il quale centra il suo primo successo nel 1962 con I found a love. L’anno dopo pubblica per una piccola e misconosciuta casa discografica, la Double LL di Lloyd Price, un brano scritto in proprio e in cui crede molto. Si intitola If you need me e passa del tutto inosservato salvo diventare successivamente una pietra miliare della storia del rhythm and blues entrata nel repertorio di Solomon Burke, Tom Jones e Rolling Stones, solo per citare i primi che ci vengono in mente. La svolta nella sua carriera arriva nel 1964 quando accetta la proposta di trasferirsi a Memphis, la città di Elvis, cuore del rock and roll bianco, dove un pugno di neri arrabbiati e geniali sta pensando di puntare su personaggi meno levigati della banda di Detroit come lui e Otis Redding. Qui il suo stile viene rifinito dal produttore Jerry Wexler e dal chitarrista Steve Cropper che gli regala la ritmica pulsante dei Booker T. and the Mgs, un gruppo di strumentisti capaci di supportare efficacemente la carica di energia vitale che lo anima. A partire dal 1964 Wilson Pickett diventa il feroce, indisciplinato e sensuale interprete di devastanti brani di successo come la già citata In the midnight hour, 634-5789, Land of 1000 dances e Funky Broadway. Il suo canto è un urlo selvaggio che si contrappone alle armonie vocali di Smokey Robinson e Ray Charles, anche se non ha l’eclettica duttilità di Otis Redding. La sua arrogante e sfrontata presenza scenica viene vissuta dalle comunità nere come una sorta di rivincita, mentre i bianchi impazziscono per la carica ritmica e la sensualità che trasuda da quelle canzoni. Alla fine degli anni Sessanta, quando l’ondata soul e rhythm and blues dà i primi segni di cedimento, lui dopo qualche svogliato tentativo di contaminazione con il pop sceglie di non tradire l’ispirazione originaria e di continuare sulla sua strada. Pian piano però il suo spazio d’azione si riduce e il music business gli volta le spalle. Iniziano anche i guai con la giustizia aperti dall’arresto del 1974 per detenzione illegale di armi e culminati con la condanna a qualche mese di detenzione nel 1992 dopo aver investito un passante guidando la sua auto in evidente stato di ubriachezza. Tra le due date ci sono tanti piccoli fastidi con la legge e poche soddisfazioni professionali ottenute più dal pubblico dei bollenti club delle periferie che dall’ambiente del music business. Non si dà mai per vinto. La sua antica anima rhythm and blues lo tiene in vita alla faccia di tutto e di tutti. Fino a ieri quando, dopo un anno di dispetti e sussulti, il suo cuore ha cessato di battere. È arrivata così al termine un’avventura cominciata con un volo da Detroit a Memphis che lui amava raccontare così: «Quando mi hanno portato in aereo a Memphis sorvolavamo bassi i campi che circondano la città. Guardando dai finestrini ho visto un sacco di gente nera che stava raccogliendo il cotone. La visione mi ha fatto stare male e ho chiesto che mi riportassero a Detroit. A farmi desistere ci ha pensato il pilota, nero come me e come loro, che mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: Li vedi quelli? Vai e fai loro vedere come canti. Hanno bisogno del tuo successo!».

18 gennaio, 2020

18 gennaio 1964 – Il caso dei coniugi Bebawi

Nelle prime ore del mattino del 18 gennaio 1964 a Latina la segretaria della Tricotex, una società che si occupa di compravendita di lana che ha depositi e stabilimenti nella cittadina laziale, scopre il cadavere del proprio principale, Faruk Churbagi, assassinato in modo particolarmente efferato. Qualcuno, dopo avergli gettato del vetriolo in faccia, gli ha sparato alla schiena e poi l’ha colpito a lungo sulla testa con un corpo contundente. Fin dall'inizio delle indagini appare chiaro che chi ha ucciso Churbagi lo conosce bene e ha libero accesso all'ufficio, visto che la porta d'ingresso non è stata forzata. Ben presto i sospetti si fissano sui coniugi Bebawi: Yusef, un uomo di affari di successo, e la bellissima Gabrielle, detta Claire, che dopo averlo sposato a soli tredici anni, dandogli tre figli, era divenuta l'amante di Churbagi. I coniugi Bebawi vengono localizzati ad Atene ed estradati a Roma dall’Interpol. Fin dal primo interrogatorio Yusef accusa la moglie di essere l'autrice del delitto e di averla aiutata a nascondere le prove per amore e per tutelare dallo scandalo i tre figli. Clair, a sua volta, sostiene di aver visto il marito uccidere Faruk per gelosia. Entrambe le versioni sono attendibili e nell’impossibilità di arrivare alla verità il primo processo si conclude con l’assoluzione di entrambi per insufficienza di prove. Il loro caso divide l’opinione pubblica ed entra nella storia come uno dei casi di cronaca più famosi degli anni Sessanta. Nel 1968 nel processo d’appello che si svolge a Firenze l’accusa sostiene la colpevolezza di entrambi, complici nell’omicidio premeditato e nella fuga. La vicenda si conclude con una condanna di ventidue anni di carcere per ciascuno dei due. Tanto Yusef che Claire, trasferitisi all’estero da tempo, non sconteranno nemmeno un giorno di pena.

17 gennaio, 2020

17 gennaio 1920 – Il jazz progressista di George Handy


Il 17 gennaio 1920 nasce a Brooklyn, New York, George Joseph Hendleman, destinato a lasciare un segno importante nella storia del jazz con il nome di George Handy. Pianista e arrangiatore legherà il suo nome al progetto di “jazz progressista” dell'orchestra di Boyd Reaburn. I primi rudimenti del “mestiere” li impara ancora bambino da sua madre pianista. Successivamente studia allo Juilliard Institute e alla New York University prendendo anche lezioni private da Aaron Copland, uno sperimentatore di fusioni tra folklore e jazz le cui idee influenzeranno non poco Handy che già nel 1938 suona con Michael Loring. Dopo il servizio militare, nel 1941 scrive composizioni e arrangiamenti per Raymond Scott, un pianista-arrangiatore di Brooklyn, dimostrando un buon talento. Verso la fine del 1943 entra nell’orchestra di Boyd Reaburn. Proprio con questa band si nell’esperienza del progressive-jazz avvicinando le istanze di rinnovamento del jazz alla musica colta europea contemporanea, soprattutto a quella di influenza stravinskiana, e al be bop. L’esperimento viene chiamato “advance jazz” o “progressive jazz” e i brani più significativi come Tone poem in four movements, March of the boys e Sitterburg suite composti e arrangiati da lui. Sempre in quegli anni si avvicina anche al be bop partecipando, tra l'altro, a una seduta di incisione organizzata da Ross Russell. Successivamente lavora come arrangiatore e compositore negli studios della Paramount a Los Angeles. Tra gli arrangiamenti di quel periodo sono da ricordare There's no you e Tonsillectomy. Lavora poi a New York suonando occasionalmente il piano con il batterista Buddy Rich e con il pianista Freddy Slack e scrivendo composizioni per pianoforte e balletti. Muore l'8 gennaio 1997.


16 gennaio, 2020

16 gennaio 2004 – Il Big Day Out australiano è “tutto esaurito”

A dispetto dei profeti di crisi la stagione dei grandi rockfestival mondiali del 2004 inizia sotto il segno del "tutto esaurito". Per la prima volta dopo tredici anni di storia il "Big Day Out", la kermesse itinerante australiana che segna da tempo l'inizio ufficiale dei raduni rock, annuncia di non avere più biglietti a disposizione per alcune delle date previste. Il Festival inizia ad Auckland, in Nuova Zelanda, il 16 gennaio e termina a Perth, in Australia, il 1° febbraio. I biglietti, in vendita anche online costano la non certo modica cifra di circa 100 dollari australiani. Il cartellone, pressoché completo, prevede l'esibizione di: Metallica, Strokes, Hoodoo Gurus, Muse, Dandy Warhols, Darkness, Flaming Lips, Jet, Magic Dirt, Something For Kate, Mars Volta, Basement Jaxx, Afrika Bambaataa, Datsuns, Kings Of Leon, Peaches, Black Eyed Peas, Aphex Twin, Luke Vibert, Gerling, Lostprophets, Salmonella Dub, Thursday, David Holmes, Miniscule Of Sound, Trey, Audio Bullys, Felix Da House Cat, Poison The Well, King Kapisi, P-Money And Scribe, Butterfly Effect, Downsyde, Friendly, Scribe, Sleepy Jackson, Blood Duster, Pnau, Pee Wee Ferris, Skulker, Sonicanimation, 1200 Techniques, Blindspott, Concord Dawn, DJ Philippa, Elemeno P, Goodshirt, Mareko, Mint Chicks, D4.

14 gennaio, 2020

15 gennaio 1974 – Roy Bargy, il pianista di Whiteman


Il 15 gennaio 1974 muore il pianista e arrangiatore Roy Bargy che negli anni Venti e Trenta è stato uno dei più popolari strumentisti dell'orchestra di Paul Whiteman. Nato intorno al 1900 anche se sulla sua data di nascita non ci sono certezze, dal settembre del 1920 al dicembre del 1922 è direttore musicale e pianista della Benson Orchestra of Chicago, con la quale si esibisce al Marigold Gardens e al Trianon Ballroom di Chicago. Dopo un lungo periodo come pianista in teatri, alberghi e locali notturni, a partire dal 1928 si unisce all’orchestra di Paul Whiteman con la quale resta per dieci anni suonando al fianco di Bix Beiderbecke, Frankie Trumbauer, Eddie Lang, Joe Venuti e altre stelle del firmamento jazzistico. Dai primi anni Quaranta si dedica maggiormente all’attività di organizzatore e direttore di orchestre per spettacoli alla radio.


14 gennaio 1941 - Lolo Bellonzi, dalla fanfara al jazz


Il 14 gennaio 1941 nasce a Nizza il batterista Lolo Bellonzi, all’anagrafe registrato con il nome di Charles. A sette anni picchia sul tamburo di una banda paesana, quella che tecnicamente si chiama “fanfara”. Fino a tredici anni è quella la sua scuola principale. Studia anche la fisarmonica, ma il fascino che esercitano su di lui le percussioni è irresistibile. Nel 1956 grazie anche ai consigli di Barney Wilen, comincia a dedicarsi al jazz. Alla fine degli anni Cinquanta suona sulla Costa Azzurra con vari gruppi anche se la musica è più un hobby che un mestiere. La svolta nella sua vita arriva nel 1960 quando rompe gli indugi e va a Parigi per diventare un batterista a tempo pieno. Nella capitale suona con molti musicisti statunitensi in club che hanno fatto la storia del jazz, come il Tabou, il Cameleon, il Chat-qui-Pêche, il Club Saint-Germain o il Mars Club. Fa anche parte del quintetto di Georges Arvanitas. Suona poi al Blue Note con Bud Powell, Johnny Griffin, Dexter Gordon, Lou Bennett, Kenny Drew e molti altri. Dal 1965 al 1968 è il batterista del trio di Martial Solal con cui si esibisce in numerosi concerti. In seguito lascia il jazz e diventa il batterista del cantante Claude Nougaro ma non è un addio definitivo perchè a partire dal 1979 riprende la sua attività nel campo del jazz suonando con Kay Winding, Harry Edison e con il trio di Maurice Vander.


13 gennaio, 2020

13 gennaio 1963 – Sonny Clark,il pianista frenetico


Il 13 gennaio 1963 un infarto chiude a soli trentadue anni la carriera di Conrad Yeatis Clark, in arte Sonny Clark, uno dei migliori talenti pianistici del jazz di quel periodo. Nato a Herminie, in Pennsylvania, il 21 luglio 1931 inizia a studiare pianoforte a quattro anni. All’impegno sui tasti bianchi e neri si affiancano poi alcuni corsi di contrabbasso e vibrafono per “curiosità culturale”. Nel 1940 si trasferisce con la famiglia a Pittsburgh e nel 1947 inizia a esibirsi in pubblico come pianista. Alla morte della madre si trasferisce a Los Angeles, in California, ospite di una zia. Qui comincia a farsi conoscere lavorando con Wardell Gray, Teddy Edwards, Jack Sheldon e Harold Land. Si trasferisce poi a San Francisco, dove entra a far parte di un gruppo guidato da Oscar Pettiford. Tra il 1953 e il 1956, per due anni e mezzo entra far parte del quartetto del clarinettista Buddy De Franco sostituendo Kenny Drew. Proprio con il clarinettista, tra il gennaio e il febbraio 1954, effettua anche una tournée in Europa. Chiusa quell’esperienza nel 1956 suona con i Lighthouse All Stars del contrabbassista Howard Rumsey e nel 1957 si trasferisce a New York come accompagnatore della cantante Dinah Washington. In quel periodo lavora attivamente anche in sala di incisione soprattutto per la etichetta Blue Note che lo ingaggia e come solista e come strumentista di studio. Vedono così la luce sei album a suo nome con partner quali Philly Joe Jones, Hank Mobley, Louis Hayes, Art Farmer, Paul Chambers, John Coltrane, Jackie McLean, Billy Higgins. Nello stesso periodo registra moltissimi brani al fianco di Sonny Rollins, Clifford Jordan, Curtis Fuller, John Jenkins, Johnny Griffin, Dexter Gordon, Ike Quebec e altri. A queste vanno poi aggiunte anche le registrazioni realizzate per altre case discografiche. L’intensa e frenetica attività si interrompe nel 1962, quando Clark, che da tempo era diventato un po’ troppo amico di sostanze stupefacenti viene ricoverato in ospedale perchè evidenzia i sintomi di un’infezione. Nei primi giorni del 1963, dopo alcuni mesi di degenza, viene dimesso. Tornato a casa viene colto da un infarto. A poco più di trent’anni il nome di Sonny Clark si aggiunge così alla lunga lista di giovani talenti morti prematuramente.




12 gennaio, 2020

12 gennaio 1946 – George Duke, uno dei migliori tastieristi del jazz-rock


Il 12 gennaio 1946 a San Rafael, in California, nasce il tastierista George Duke, uno dei musicisti che alla fine degli anni Sessanta ha rivoluzionato il rock con nuovi impieghi delle tastiere e del sintetizzatore. Studia musica fin dai primi anni di vita diplomandosi nel 1967 al conservatorio di San Francisco. Dal 1965 al 1967 si fa le ossa suonando all'Half Note di San Francisco e formato un trio che dal 1966 al 1970 accompagna il gruppo vocale The Third Wave e si esibisce anche al festival di Monterey del 1968. Il trio di Duke accompagna poi vari musicisti di passaggio, tra cui Dizzy Gillespie e Kenny Dorham, e nel 1969 fa da sezione ritmica al gruppo di Jean-Luc Ponty. Chiusa l’esperienza, Georges Duke nel 1971 inizia a collaborare con Frank Zappa. In questo periodo pubblica anche una serie di album solisti come Feels, Faces in reflection, I love the blues, The aura will prevail e Liberated fantasies per i quali una parte consistente della critica lo considera “il miglior tastierista del jazz-rock”. Nel 1976 effettua con Billy Cobham un tour europeo da cui viene tratto l'album live Cobham and Duke live Negli anni seguenti consolida la sua fama e nel 1981 forma, insieme a Stanley Clarke il Clarke-Duke Project. Tra i musicisti che si avvalgono del suo lavoro ci sono Airto Moreira, Flora Purim, Stanley Clarke, Eddie Henderson, Sonny Rollins, Aretha Franklin, Quincy Jones, Sarah Vaughan, Jeffrey Osborne, Rufus, Angela Bofill, Smokey Robinson, Sister Sledge, Stephanie Mills, Deniece William e altri. Il 5 agosto 2013 muore all'età di sessantasette anni al St. John’s Hospital di Los Angeles.



11 gennaio, 2020

11 gennaio 1952 – La cornetta di Henry Allen sr.

L’11 gennaio 1952 il cornettista Henry Allen sr. muore ad Algiers, in Louisiana, il paese dove è nato nel 1877. Con la sua morte finisce la lunga avventura della brass band che porta il suo nome e di cui è stato l’indiscusso leader per oltre quarant’anni. Molto amato dal pubblico ha avuto nella sua band quasi tutti i musicisti che hanno fatto la storia del jazz di New Orleans. Instabile e soggetto a continue variazioni d’organico la brass band ha retto il passare degli anni grazie alla personalità del suo leader capace di mantenere una ben precisa connotazione stilistica nonostante i cambiamenti dei musicisti. Nella storia del jazz è ricordata come una delle brass bands più quotate dei primi anni del Novecento. Nell'unica fotografia esistente figura come seconda cornetta Oscar Celestin un altro personaggio carismatico destinato in seguito a dare vita alla Tuxedo Brass Band. Dalle testimonianze raccolte da Samuel Charters risulta che con la Allen Brass Band hanno suonato altri celebri musicisti come i trombonisti Jack Carey e Harrison Barnes, il batterista Bill Mathews, il cornettista Joe Howard, il violinista e sassofonista Jimmy Palao e persino Buddy Bolden. Con la Allen Brass Band muove i primi passi anche il giovane Henry “Red” Allen jr.

10 gennaio, 2020

10 gennaio 1960 – Con “Tutto il calcio minuto per minuto” nasce il calcio raccontato


Il 10 gennaio 1960 allo Stadio di San Siro non ancora ribattezzato “Meazza” si gioca Milan-Juventus. All’inizio del secondo tempo la radio si collega con quel campo per la consueta radiocronaca di quella che viene considerata “partita di cartello”. Questa volta, però, c’è una novità, anzi due. Prima del collegamento vengono snocciolati i risultati di tutti i primi tempi delle partite della massima serie e delle altre inserite nella schedina del Totocalcio. In più la partita di cartello non è più l’unica a godere della radiocronaca, ma è soltanto il “campo principale” di una nuova trasmissione. Si chiama “Tutto il calcio minuto per minuto” e prevede, in rapida successione, collegamenti con vari campi di gioco. Ad aggiornare gli ascoltatori sull’andamento delle partite non collegate provvede l’ineffabile voce di Roberto Bortoluzzi che snocciola in modo professionale notizie destinate a far sobbalzare il cuore dei tifosi. Nasce così la più longeva trasmissione radiofonica italiana. Nei primi anni il programma è molto diverso da quello che si può ascoltare oggi, innanzitutto perché trasmette soltanto il secondo tempo delle partite. La scelta è motivata dal desiderio di non danneggiare gli spettatori che vanno allo stadio. È una specie di penalizzazione nei confronti di chi non partecipa direttamente all’evento. Il calcio, in quel periodo, non ha ancora la forza invasiva di oggi. Altri sport, a partire dal ciclismo e dal pugilato, sono il pretesto per interminabili discussioni da bar e le società calcistiche hanno nei biglietti d’ingresso una delle principali fonti d’entrata visto che le sponsorizzazioni sono vietate dai regolamenti federali e la pubblicità negli stadi è modesta. “Tutto il calcio minuto per minuto” cambia le domeniche degli italiani e contribuisce alla diffusione della famosa “radiolina a transistor”, l’apparecchio portatile che accompagna pomeriggi al mare, visite ai parenti e appuntamenti degli innamorati. Provoca passioni, nuove amicizie e liti furibonde e avvicina al calcio anche chi non ha mai visto una partita in vita sua. Pian piano cambia anche la lingua degli italiani, introducendo espressioni colorite, spesso suggestive, molte delle quali sono diventate parte del linguaggio parlato a partire da «Scusa Ameri, sono Ciotti…» per finire con quel «clamoroso al Cibali!», diventato un'espressione idiomatica sinonimo di grande sorpresa, di avvenimento imprevisto e imprevedibile. La necessità di “raccontare” l’evento a chi non era in grado di vederlo, ha prodotto però altre perle linguistiche, alcune delle quali decisamente di grande suggestione. Maestro insuperato di fantasia e di neologismi al limite della poesia è stato Sandro Ciotti. Lui non si limitava a comunicare la notizia, cercava di regalare l’immagine, di farla percepire al di là della descrizione. Con lui i campi da gioco venivano descritti come prati «con erba smeraldina», l’assenza di vento diventava «ventilazione inapprezzabile», e una bella giornata aveva un sole «formato cartolina illustrata». Anche il racconto della partita abbandonava la crudezza del fatto tecnico per diventare poesia. Le difese chiuse e decise diventavano «arcigne», le trasferte difficili «ostiche», un gol in slancio di Boninsegna veniva catalogato come «estirada», un errore dell’arbitro era «un calcio franco punendo un fallo che ha visto solo lui…» e un malinteso fra il portiere del Cagliari Albertosi e il difensore Niccolai, sfruttato da Anastasi, veniva raccontato come «il classico caso di mia, tua, mia, tua …sua!».


09 gennaio, 2020

9 gennaio 1925 – Lee Van Cleef, da ragioniere a pistolero


Il 9 gennaio 1925 a Somerville, nel New Jersey nasce Lee Van Cleef.. Il suo primo lavoro è quello di ragioniere nello studio di un commercialista anche se, come molti ragazzi di quel periodo, finisce per ritrovarsi in una divisa che, nel suo caso è quella della Marina. Chiamato a combattere nella seconda guerra mondiale, dopo il 1945 recupera il suo vecchio impiego ritagliandosi un po’ di spazio nel tempo libero per recitare in teatro con una compagnia amatoriale. Proprio in una di queste esibizioni viene notato da Joshua Logan che lo convince a lasciare l’impiego per dedicarsi al teatro a tempo pieno. Dalle assi del palcoscenico agli studi di Hollywood il passo è meno lungo di quel che sembra e Lee Van Cleef si ritrova a interpretare la parte di uno dei cattivi con i quali deve fare i conti Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinneman. È il 1952. Da quel momento il cinema diventa il suo unico mestiere e il western il genere nel quale viene scritturato con più frequenza. Quando sbarca in Italia chiamato da Sergio Leone che gli affida il ruolo del colonnello Douglas Mortimer in Per qualche dollaro in più non è una star, sfiora già i quarant’anni e sulle spalle ha una lunga carriera passata a dare volto e voce a personaggi destinati a finire male per mano del “buono” di turno. Il regista romano lo sceglie un po’ perché non costa moltissimo e un po’ perché si ricorda di aver visto la sua faccia in western entrati nella leggenda come Mezzogiorno di fuoco, Sfida all’OK Corral o L’uomo che uccise Liberty Valance. L’incontro con Sergio Leone e il successo di Per qualche dollaro in più danno inizio a una nuova fase della sua carriera. A differenza di Clint Eastwood non torna subito in patria, ma diventa una delle icone dell’intera epopea del western all’italiana. Con i suoi occhi felini a fessura, lo sguardo acuto, il naso adunco e la notevole prestanza fisica diventa uno dei più popolari duri e cinici cacciatori di uomini che si siano mai aggirati sui sentieri del western all’italiana. Del resto in un genere i cui codici non distinguono mai troppo bene il ruolo del buono da quello del cattivo un personaggio con le sue caratteristiche non poteva che avere fortuna. Accompagna poi le successive evoluzioni del western all’italiana e dopo l’esaurimento del genere alla fine degli anni Settanta torna a lavorare prevalentemente negli Stati Uniti. Tra le ultime interpretazioni di rilievo c’è 1997 - fuga da New York di John Carpenter. Il 16 dicembre 1989 muore per un infarto. Le sue ceneri riposano a Forest Lawn, vicino a Hollywood.


08 gennaio, 2020

8 gennaio 1970 – Georgius, un talento macchiato dal collaborazionismo


L’8 gennaio 1970 a Basoche-sur-Guyonne, in Francia, muore Georgius, un uomo dal talento multiforme che nella sua lunga carriera è stato cantante, attore, compositore, soggettista e anche romanziere di successo. Alla sua creatività sono ascrivibili una trentina di romanzi polizieschi, un numero imprecisato di opere teatrali, riviste e commedie cui, per essere precisi, andrebbero aggiunti più di duemila tra scenette, sketch e farse di breve durata. Dalla sua penna sono nate anche le parole di più di millecinquecento canzoni. Alla luce di una carriera così intensa e fertile l’appellativo di “Amuseur public n° 1” (letteralmente “trastullatore pubblico n° 1”) rende onore alla sua straordinaria dote, quasi naturale, di entrare in relazione con gli spettatori, capirne le aspettative e soddisfarle. Come ha scritto Robert Desnos «L’impostazione artistica di Georgius può essere apparentata ai graffiti. Egli traccia un segno veloce per abbozzare un contorno, un’apparenza quasi simbolica, ma non s’attarda a definirne i particolari». Abbozza, delinea e poi lascia che a riempire gli interstizi della sua creazione siano il frastuono della strada e i rumori a volte assordanti, a volte appena percepibili, della vita e della realtà delle persone. C’è chi ha avvicinato il suo stile a quello dei surrealisti, ma lui ha sempre evitato di farsi etichettare. Le sue canzoni hanno superato i confini del tempo e, come le sorgenti d’acqua buona, continuano a regalare freschezza anche in anni diversi da quelli in cui sono nate. Accade così che negli anni Sessanta della grande ribellione contro la tradizione e tutto ciò che ha il sapore del passato la sua Sur la route de Pen-Zac, scritta e portata al successo per la prima volta nel 1930, diventi un simbolo di rinnovamento. Nell’ondata dissacrante di quel periodo, infatti, la canzone viene recuperata da Les Charlots, uno dei gruppi più stralunati e surreali, nati come band di Antoine e divenuti un mito generazionale grazie anche a una fortunata serie di film. Georges Auguste Charles Guibourg, il futuro Georgius, nasce a Mantes-la-Ville il 3 giugno 1891 da Clémentine Augustine Bouteilly e da Georges Charles Joseph Guiborg, istitutore e giornalista. Poco tempo dopo la nascita del piccolo Georges la famiglia si trasferisce a Parigi seguendo il padre che ha iniziato a lavorare come redattore nel settimanale “La France aérienne”. Nelle intenzioni dei genitori il ragazzo dovrebbe diventare medico o, proprio come ripiego, avvocato. Studia anche il pianoforte e quando può lavora in una pellicceria. Nel 1907 inizia a esibirsi per i soci di un club privato cantando romanze e brani tratti dalle operette più in voga. L’anno dopo è uno dei cantanti scritturati per il Concerto del XX secolo che si svolge a Ménilmontant. Il suo modo di cantare e soprattutto il repertorio lo fanno assomigliare a quel tipo di interpreti che lui metterà alla berlina qualche anno dopo. «La mia vera natura era ancora ben nascosta e io cantavo con voce piagnucolante quelle canzoni che avrei così tanto preso in giro negli anni seguenti. Per la verità già allora mi sentivo ridicolo però ero davvero convinto che al pubblico piacesse soltanto quella roba». Nel 1909 l’impresario Dalos gli trova una serie di scritture in locali prestigiosi come l’Alhambra di Montreuil, l’Univers, la Fauvette e molti altri. Il repertorio è il solito, ma tra una romanza e un’aria da operetta Georgius si diverte a inserire qualche canzoncina comica come La polka des thunes e, soprattutto, Dans la fourrure (nella pellicceria), ritagliata sulla sua esperienza personale. Proprio questi siparietti umoristici convincono la direzione artistica del teatro Gaîté-Montparnasse a chiedergli di coprire provvisoriamente il ruolo di cantante comico nel varietà in cartellone. È il 1912. Il contratto da provvisorio diventa definitivo. Georgius resta sui manifesti del Gaîté-Montparnasse per tre anni regalando al pubblico cinque canzoni nuove alla settimana. Siccome non trova autori disposti ad assecondare quel ritmo decide di fare tutto da solo scrivendo parole nuove su arie già conosciute o affidandosi a una cerchia di amici musicisti disposti a dargli retta. La parodia diventa una delle sue specialità più apprezzate dal pubblico. Nel 1916 Georgius scrive “L’heure de la sieste”, la prima piéce teatrale della sua carriera, cui segue, due anni dopo, il primo spettacolo di rivista scritto, interpretato e diretto da lui: “La grande revue montmartroise”. Nel 1919 dà vita anche a Les Joyeux Compagnons, la propria compagnia teatrale. Il 28 gennaio 1921 sul palcoscenico de l’Européen presenta per la prima volta al pubblico il brano Sur un air de shimmy, destinato a diventare l’anno dopo il suo primo successo su disco. Alla metà degli anni Venti è al culmine della popolarità e il suo nome viene inserito nella ristretta rosa degli chansonniers di maggior successo. A differenza di quanto accade ad altri protagonisti di quel periodo la cui popolarità è immensa nella capitale ma scarsa nel resto del territorio francese, Georgius ottiene consensi in tutta la Francia. Non esiste città in cui i suoi concerti e, soprattutto, le sue riviste non siano letteralmente prese d’assalto dal pubblico entusiasta. In qualche caso, come all’Alcazar di Marsiglia dove le persone che non riescono a entrare provocano tumulti, si rende necessaria l’aggiunta di alcune repliche a quelle già previste dal programma. La gente canta in coro le sua canzoni, soprattutto Plus bath des javas, un brano che si prende gioco della Java, il ballo di moda di quegli anni. Nel 1926 la sua compagnia cambia nome e Les Joyeux Compagnons diventano Le Théâtre Chantant. Dietro il cambiamento c’è anche una novità nell’impostazione perchè Georgius sostituisce all’impianto del teatro di rivista tradizionale uno spettacolo basato su una serie di canzoni sceneggiate. Nel 1929 il suo spettacolo “Allô, ici Paris...” scandalizza il pubblico borghese del Moulin Rouge che si sente bersagliato dalla sua vena satirica e reagisce con freddezza. Lui non se ne cura. Due settimane più tardi viene portato in trionfo dagli spettatori che affollano all’inverosimile il cabaret Aux Buffes du Nord. Nel 1930 anche gli intellettuali cominciano ad accorgersi di Georgius e i critici musicali scrivono meraviglie della sua “vena surreale” regalandogli l’appellativo di “Amuseur public n° 1”. Nello stesso anno incide Sur la route de Pen-Zac un brano destinato a vendere ben 160.000 copie, una cifra assolutamente fuori dall’ordinario per l’epoca e che non ha alcun precedente nella ancor giovane storia dell’industria discografica francese. Meglio ancora va nel 1936 il disco di Au Lycée Papillon, che batte il suo record precedente diventa il brano di maggior successo commerciale di un periodo, gli anni Trenta, nel quale vedono la luce alcune delle canzoni più famose del suo repertorio come On ne peut pas plaire à tout le monde o Ça c’est d’la bagnole. Partecipa a vari programmi radiofonici e non rifiuta di sperimentarsi nel cinema. Nel 1941 veste i panni di Sganarello in una versione de “Il medico per forza” di Molière messa in scena dalla Comédie Française. Negli anni dell’occupazione nazista non abbandona il palcoscenico. Questa scelta gli vale l’accusa infamante di “collaborazionismo”. Nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione viene processato e condannato a stare lontano dalle scene per un anno. In quel periodo inizia a scrivere i primi romanzi polizieschi di una lunga serie destinata a durare per circa vent’anni. Nel 1946 torna a esibirsi sul palcoscenico del Bobino, ma si accorge che i tempi stanno cambiando. Nuove mode, nuovi stili e nuovi protagonisti si stanno affacciando sulla scena e lui non se la sente di ricominciare da capo. Proprio dal palcoscenico del Bobino nel 1951 annuncia quello che lui stesso definisce il suo «ritiro dalla competizione». Non rinuncerà però a scrivere e registrerà ancora un disco prima della morte.


07 gennaio, 2020

7 gennaio 1797 – Il Tricolore della Repubblica Rivoluzionaria Cispadana


Il 7 gennaio 1797 il tricolore bianco, rosso e verde, diventa la bandiera della Repubblica Cispadana nata sull’onda delle aspettative d’uguaglianza e di libertà disseminate in Europa dalla Rivoluzione Francese. Il Congresso della Repubblica Cispadana, riunito in seduta plenaria a Reggio Emilia, sceglie la bandiera “tricolore, verde, rossa e bianca” come “insegna di sovranità” su proposta di Giuseppe Compagnoni di Lugo, deputato per il collegio di Ferrara. La comunicazione ufficiale, datata 28 gennaio 1797 e firmata dai segretari Masi, Barizzini, Sacchetti e Remondini così recita: «Cittadini, nella seduta in Reggio del giorno 7 gennaio corrente il Congresso decretò: 1° Che lo stemma della Repubblica Cispadana sia innalzato in tutti quei luoghi nei quali è solito che si tenga lo stemma della sovranità. 2° Che sia universale lo Stendardo e la Bandiera Cispadana di tre colori, verde, bianco e rosso, col turcasso. 3° Che li predetti tre colori si usino nella coccarda Cispadana da portarsi da tutti. 4° Che alla testa di tutti gli Atti pubblici si ponga l’intestatura “Repubblica Cispadana una ed indivisibile”...» Il turcasso, cui fa riferimento l’editto come simbolo della Repubblica, è un faretra contenente quattro frecce, a simboleggiare i quattro governi federati di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, ma con lo spazio per le altre che si sarebbero dovute aggiungere («...un turcasso con quattro freccie e con li forami per le altre, ciò che dinota il desiderio di un’unione più estesa...») secondo quanto approvato dal Congresso di Reggio Emilia il 6 gennaio 1797 su proposta del deputato Aldrovandi. A onor del vero il tricolore era già stato adottato qualche mese prima nel simbolo dei combattenti italiani della Legione Lombarda e quella Italica, con l’autorizzazione di Napoleone, ma con la decisione della Repubblica Cispadana esso diventa per la prima volta bandiera ed emblema di uno stato. In esso si fondono le aspettative di democrazia, d’indipendenza e di unità dei patrioti italiani, tanto che qualche mese viene adottato anche dai governi democratici di Bergamo e Brescia, e successivamente dalla Repubblica Cisalpina. Diverso è il destino delle altre repubbliche democratiche che nascono fra il 1797 ed il 1799 a Venezia, Genova, Roma e Napoli, cui la Francia impedisce di fondersi con la Cisalpina e di aderire al concetto di unità, che escludono così il verde dalle loro bandiere. Del resto Napoleone non vede di buon occhio una possibile spinta democratica, indipendentista e unitaria dell’Italia, tanto che il 28 dicembre 1796 così scrive al Direttorio: «In questo momento in Lombardia ci sono tre correnti. La prima che si lascia guidare dalla Francia, la seconda che vuole la libertà ed ha impazienza di realizzare il suo desiderio, la terza amica degli austriaci e nemica della Francia. Io incoraggio la prima, freno la seconda e reprimo la terza. Anche nelle repubbliche cispadane sono tre le tendenze: una simpatizzante dei vecchi governi, una favorevole ad una costituzione indipendente ma un po’ aristocratica e una terza apertamente affascinata dalla costituzione francese e dall’idea della democrazia. In questo caso reprimo la prima, sostengo la seconda e modero la terza». Il rapporto tra i rivoluzionari italiani e quelli francesi, pur nell’ambito di una sostanziale correttezza e lealtà, è caratterizzato da reciproca diffidenza sulle questioni dell’indipendenza e dell’unità d’Italia, che lascia tiepidi, quando non ostili i transalpini. Le punte polemiche coinvolgono anche la scelta dei colori della bandiera, perché i rivoluzionari italiani sostengono che il verde sia più fedele ai principi della rivoluzione che non il blu. Secondo i sostenitori di questa tesi, il verde, nel simbolismo massonico ereditato dai giacobini, rappresenta la natura e, con essa, l’acquisto dei diritti di natura: uguaglianza e libertà. Non definito e non ben chiaro è, all’inizio, quale debba essere la disposizione dei tre colori sulla bandiera, tanto che c’è chi innalza un tricolore orizzontale con il verde in alto e chi uno verticale con il verde all’asta. La definitiva scelta della disposizione verticale su bandiera rettangolare avviene il 12 maggio 1798 anche se con la fine di Napoleone e delle speranze suscitate dalla rivoluzione francese l'ideale rivoluzionario simboleggiato dal tricolore sembra destinato a tramontare insieme all’idea stessa di nazione italiana.


06 gennaio, 2020

6 gennaio 1993 – Muore Rudolf Nureyev


Il 6 gennaio 1993, in un ospedale di Parigi, in Francia, si spegne Rudolf Nureyev da tempo ammalato di AIDS. Il ballerino che ha rivoluzionato il ruolo maschile nella danza nasce il 17 marzo 1938 su un treno nella zona del lago di Baikal, mentre la madre è in viaggio per raggiungere il marito, bloccato per ragioni di lavoro a Vladivostock. Il piccolo Rudolf Hametovic Nureyev, questo è il suo nome completo, inizia a studiare danza a undici anni con la signora Udeltsova, un’anziana insegnante già ballerina prestigiosa. Nel 1955 entra nella prestigiosa scuola di ballo del Teatro Kirov di Leningrado e tre anni dopo è è inserito nell’organico del balletto. Nel 1961, durante una tournée in Europa, fugge dall’albergo chiedendo e ottenendo asilo politico. Comincia così la sua carriera in Occidente con la compagnia del Marchese di Cuevas,con il Balletto Reale Danese di Erik Bruhn e poi con il Royal Ballet di Londra nel quale si esibisce insieme a con Margot Fonteyn dando vita a una coppia entrata nella leggenda. Nella sua carriera danza con quasi tutti i grandi coreografi, da Ashton a Roland Petit, da Bejart a Taylor.


05 gennaio, 2020

5 gennaio 1967 - Hey Joe


Il 5 gennaio 1967 entra nella classifica britannica dei dischi più venduti il singolo Hey Joe dei Jimi Hendrix Esperience. Il brano non è una novità assoluta, visto che ha già ottenuto un notevole successo negli Stati Uniti nell'interpretazione dei Leaves, ma la versione del trio capitanato da Hendrix introduce elementi d'innovazione capaci di lasciare un segno profondo nella storia del rock. Il brano rivela al mondo il talento di Jimi, uno che suona la chitarra come nessuno aveva mai osato fare prima d'allora. La sua abilità nel ricavare rumori ed effetti sonori è destinata a non essere mai pienamente svelata. Gli sono degni compagni il bassista Noel Redding, scartato dagli Animals perché troppo grezzo, e l'energico batterista Mitch Mitchell, il cui stile è fortemente influenzato da quello di Elvin Jones, reduce da una lunga serie di esperienze con i Pretty Thing, i Riot Squad e i Blue Flames. L'improbabile trio suscita consensi, ma anche critiche feroci. Non manca chi ne sottovaluta le potenzialità, come il direttore artistico della Decca che, dopo aver ascoltato la loro versione di Hey Joe li liquida con una frase divenuta famosa, «Credo che non ci sia niente d'interessante» e decide di non pubblicarla su disco. Per fortuna non tutti la pensano così. Come nella favola di Aladino arriva il genio della lampada. Si chiama Kit Lambert ed è il manager degli Who. Grazie al suo interessamento Hey Joe viene pubblicata dalla Polydor nel dicembre 1966. Il resto è storia nota. Quel chitarrista «poco interessante» diventerà una delle stelle più luminose del firmamento musicale.

03 gennaio, 2020

4 gennaio 1976 - La polizia uccide Mel Evans


Il 4 gennaio 1976 la polizia uccide Mel Evans, un'ex guardia del corpo dei Beatles divenuta popolare per il libro “Living the Beatles legend”, un racconto autobiografico del periodo passato con i quattro di Liverpool. La notizia della sua morte arriva nelle redazioni dei giornali accompagnata da un breve comunicato. Mancano indicazioni precise sulla dinamica dell'uccisione e, soprattutto, sulle ragioni che hanno portato gli agenti della polizia di Los Angeles a irrompere nel suo appartamento e a sparargli. Sollecitate dalla stampa le autorità diffondono, con notevole ritardo, un comunicato più dettagliato che ricostruisce gli eventi. Gli agenti sarebbero intervenuti dopo aver ricevuto una chiamata di Fran Hughes, la compagna di Evans. La donna, spaventata per averlo trovato con in mano un fucile, sconvolto e in preda a una violenta crisi depressiva, avrebbe chiesto aiuto alla polizia. Invitato a consegnare l’arma, Evans l'avrebbe invece puntata verso gli agenti che si sarebbero difesi uccidendolo. La ricostruzione non convince tutti. Un cronista prova che il fucile di Mel non ha mai sparato e solleva più di una perplessità sulla crisi depressiva. L'uomo, dice chi lo conosceva, aveva quarant'anni e, grazie al libro sui Beatles, si stava godendo un'insperata popolarità oltre che una improvvisa floridità finanziaria. In più nessuno crede alla storia di un litigio violento con la sua compagna. Sui "buchi neri" della ricostruzione dei fatti viene aperta un'inchiesta, ma tutto finirà lì. I dubbi resteranno tali e il mistero dell'uccisione di Mel Evans non sarà mai completamente chiarita.



3 gennaio 1954 – Arriva la TV!


Il 3 gennaio 1954 con una triplice trasmissione inaugurale che si svolge nelle tre sedi principali di Milano, Roma e Torino, iniziano le trasmissioni televisive della Rai (Radio Audizioni Italia). Per la verità non sono molti gli spettatori di un evento che è destinato a cambiare profondamente le abitudini, la cultura e la vita degli italiani. I comunicati ufficiali dicono, infatti, che solo il 43% degli abitanti potrebbe, se in possesso dell’apparecchio televisivo, assistere alla nascita del servizio. In realtà, come spesso accade, quella percentuale è del tutto teorica. Il segnale televisivo irradiato dai trasmettitori di Torino Eremo, Milano, Monte Penice, Portofino, Monte Serra, Monte Peglia e Roma Monte Mario esclude il Sud e gran parte delle zone montane del paese. A questo si deve aggiungere che gli abbonati reali sono un gruppo piccolissimo. Alla fine dell’anno saranno circa 88.000, non più di 72.000 dei quali destinati a utenze famigliari e il resto composto da alberghi, circoli, bar, luoghi di ritrovo collettivo. Viste le cifre è evidente che le trasmissioni inaugurali vengono viste da pochissime persone anche se l’evento non sfugge all’opinione pubblica grazie allo spazio che gli dedicano i mass media del tempo, in particolare la radio, forte di oltre 5.000.000 famiglie abbonate. L’avvio della programmazione più che sulla partecipazione diretta, vive attraverso testimonianze riportate e servizi che parlano di un mondo magico e avveniristico, come la favolosa descrizione della cabina di regia da parte di Giancarlo Fusco sulle colonne dell'Europeo «La cabina di regia della televisione si presenta un po' come la centrale di tiro di una nave da guerra. In mezzo ad essa campeggia un tavolo metallico, rettangolare, disseminato di pulsanti (esattamente 72) di piccole leve cromate e di spioncini luminosi». Tutto contribuisce a costruire il mito di questo nuovo mezzo di comunicazione e intrattenimento al punto che si può dire che nel primo giorno in pochi la vedono, ma in molti iniziano a immaginarla, a sognarla forse. I dati dimostreranno ben presto che ci trova di fronte a un evento epocale. La televisione quindi non è ancora un elettrodomestico abituale nelle case degli italiani, ma la passione per il piccolo schermo contagerà rapidamente gran parte delle famiglie. Le punte massime d’ascolto si registreranno al sabato e alla domenica quando interi nuclei famigliari si raduneranno nei locali pubblici o nelle case degli amici più fortunati intorno alla magica scatola che diffonde immagini in bianco e nero. Ipnotizzati dalla luce azzurrina del piccolo schermo gli italiani sono testimoni e protagonisti dell’affermarsi di nuovi personaggi e di nuovi miti. Per i fortunati che hanno la possibilità di assistere all’inizio delle trasmissioni il 3 Gennaio 1954 appare sugli schermi italiani il volto di Fulvia Colombo. È lei prima annunciatrice della storia della televisione del nostro paese. Sorridente e misurata legge un testo sintetico che riassume i programmi della giornata. Su quel foglietto, divenuto ormai un pezzo di storia, c’è scritto: «Le maggiori trasmissioni dell’odierno programma sono: ore 11.00 Telecronaca dell’inaugurazione degli studi di Milano e dei trasmettitori di Torino e Roma; ore 15.45 Pomeriggio sportivo; ore 17.30 “Le miserie del signor Travet”, film diretto da Mario Soldati; ore 19.00 Avventure dell’arte: Giovan Battista Tiepolo; ore 20.30 “L’osteria della Posta”, commedia di Carlo Goldoni; ore 22.00 Spettacolo di musica leggera; Signore e signori, buon divertimento!»



02 gennaio, 2020

2 gennaio 1958 - Fischi alla Callas


Il 2 gennaio 1958 la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma dovrebbe aprirsi con un evento straordinario. Il cartellone prevede, infatti, la messa in scena della “Norma” di Bellini nell’interpretazione del soprano Maria Callas da poco insignita del titolo di Commendatore della Repubblica. Da tempo i biglietti per la serata sono introvabili e fin dalle prime ore del pomeriggio appassionati e curiosi si accalcano davanti all’entrata degli artisti nella speranza di vedere la ‘divina’ Callas. Quando si apre il sipario la platea e i palchi sono gremiti e ai giornalisti non sfugge la presenza, in prima fila, del Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi. La serata sembra procedere tranquilla e senza problemi, quando, sull’ultima nota di Casta diva, la voce della Callas si appanna improvvisamente. Dalla platea e dai palchi si alza un mormorio di disapprovazione accompagnato da qualche fischio. Per il resto tutto scivola via senza scosse fino alla conclusione del primo atto, cui dovrebbero seguire quaranta minuti di intervallo. Nel foyer i giornalisti si aggirano tra gli spettatori a caccia di dichiarazioni sulla ‘stecca’ della Callas. In particolare si tenta, invano, di cogliere qualche commento sulle labbra del presidente Gronchi. Al termine dell’intervallo il pubblico rientra in sala, ma il sipario resta chiuso. Passano altri venticinque minuti ma non succede niente. La cantante, offesa e irritata per il trattamento riservatole dal pubblico, è chiusa nel suo camerino e non risponde a nessuno. Dopo molte sollecitazioni apre la porta e, con faccia dura, annuncia: «Signori, questa sera, Norma finisce qui».