Il 24 febbraio 1994 in una clinica di Cannes-la-Bocca, nelle Alpi Marittime, muore Jean Sablon, il primo vero crooner europeo capace di entusiasmare un ambiente come quello statunitense, diffidente e spesso ostile nei confronti di tutto quello che arriva da fuori dei suoi confini culturali. “The french troubadour” o anche “The French Bing Crosby”, così lo chiamano gli americani, affascinati dalla sua capacità di saldare la canzone francese con le evoluzioni e le atmosfere dello swing. Lo chansonnier francese dal baffo malandrino, il sorriso da conquistatore perennemente stampato sul viso e la voce calda e carezzevole apprende le tecniche dei crooner d’oltreoceano prima ascoltandoli alla radio e poi soggiornando per un po’ negli Stati Uniti. Il suo principale modello è Jack Smith, chiamato anche “The whispering Jack” (il sussurrante Jack), uno dei primi grandi crooner della scena musicale nordamericana, anche se la personale amicizia con Bing Crosby non può non influenzarne impostazione e stile. Quando in Francia fatica ancora a farsi spazio per la diffidenza del pubblico nei confronti del suo stile decisamente innovativo, a Broadway compositori come George Gershwin e Cole Porter gli propongono i loro pezzi mentre il pubblico l’adora. Instancabile e curioso sperimentatore nel dopoguerra si diverte anche a esplorare territori nuovi dove il jazz incontra la canzone d’autore francese avvalendosi dell’amicizia e della collaborazione di strumentisti leggendari come il chitarrista Django Reinhardt, i violinisti Stéphane Grappelli e Léon Ferreri o il pianista Alec Siviane. La sua lezione influenzerà lo stile della generazione degli chansonnier degli anni Cinquanta e Sessanta. Interpreti come André Caveau, Yves Montand o Sacha Distel ammetteranno pubblicamente di essergli debitori. Jean Sablon viene spesso ricordato come “il cantante francese che per primo ha usato il microfono”. L’affermazione, suggestiva, non deve essere intesa in senso letterale. Non è il primo a cantare usufruendo dell’amplificazione, ma è sicuramente il primo a trattare il microfono come un vero e proprio strumento. Lo fa negli anni Trenta, in un periodo in cui molti personaggi dello spettacolo guardano a quello strano aggeggio elettrico con diffidenza quando non con aperta ostilità come la cantante Damia che parlando con un giornalista definisce il microfono come «Uno strumento che ha ucciso il nostro mestiere». In un mondo in cui la potenza e la capacità d’emissione sono stati per lungo tempo l’elemento principale per giudicare un cantante Jean Sablon sostiene che anche un sussurro può essere fondamentale nell’interpretazione di una canzone. In realtà si spinge più in là perché facendo tesoro della lezione appresa negli Stati Uniti pensa che le innovazioni tecnologiche, il microfono per primo, debbano servire a dare al pubblico che ascolta le canzoni dal vivo le stesse sonorità dei dischi o della radio. L’idea che l’esecuzione dal vivo sia una sorta di esercizio a se stante in cui le qualità vocali contano più del risultato sonoro gli sembra una bestemmia. Per lui l’elemento centrale dell’esibizione dal vivo è la cura delle sonorità, la ricerca della perfezione attraverso l’amalgama tra strumento e strumento e tra l’insieme degli strumenti e la voce. Quando nel 1936 al Mogador e al Bobino porta il microfono sul palco utilizzandolo per allargare la gamma delle sue espressioni vocali al sussurro confidenziale, il pubblico applaude ma l’ambiente musicale francese e soprattutto la critica storcono il naso. Viene chiamato con disprezzo «Il cantante senza voce» e sbeffeggiato da battute come quella che dice: «Jean Sablon si esibisce all’ABC. Si può assistere al suo spettacolo, ma non si è sicuri di ascoltarlo». Sono soltanto i contraccolpi di un ambiente tendenzialmente conservatore che fatica a digerire le innovazioni. A dispetto delle resistenze l’arrivo del microfono è destinato a rivoluzionare le tecniche d’interpretazione e Jean Sablon, il primo a capire le possibilità offerte ai cantanti dalle nuove tecniche d’amplificazione, resterà un fondamentale punto di riferimento per tutti i cantanti che arriveranno dopo di lui. Già nei primi anni Trenta Jean Sablon appare impegnato a rompere il muro che fino a quel momento ha tenuto sostanzialmente separati gli interpreti e i protagonisti della chanson dal jazz. Non è l’unico. Da Charles Trenet a George Brassens, a Henri Salvador sono molti gli chansonniers che si muovono in quella direzione. Mentre gli altri, però, sono più concentrati a catturare atmosfere o ad adattare ritmi, lui fa tesoro della lezione statunitense dello swing e tenta un approccio totale. Non a caso è il primo chansonnier a farsi accompagnare da una formazione jazz. La prima esperienza risale al 1931 quando registra brani come Que maravilla, Un cocktail e J’aime les fleurs insieme all’orchestra jazz di Gaston Lapeyronie. Nel 1933 i parigini già lo chiamano “Mister swing” e affollano i locali dove si esibisce con un trio d’eccezione formato dal pianista Alec Siniavine, dal clarinettista Endré Ekyan e dal chitarrista Django Reinhardt. Quando si esibisce sui palcoscenici dei music hall più famosi i musicisti che l’accompagnano non restano confinati nell’angusta “fossa” destinata all’orchestra, ma salgono con lui sul palco. La lezione del jazz si sente anche nella capacità di utilizzare la voce come uno strumento dialogando e fraseggiando con gli accompagnatori. La sua apertura nei confronti delle novità e la curiosità per le nuove tecnologie lo aiutano a capire le potenzialità offerte dalla radio. Gli ascoltatori lo scoprono per la prima volta nel 1933 quando viene radiodiffuso sulle onde di “Le Poste Parisien” un suo intero récital. Nel 1936 conduce una varietà tutto suo nel quale ospita personaggi come Fernandel o Maurice Chevalier. Il successo radiofonico è tale che il direttore della statunitense NBC viene di persona in Francia per proporgli di condurre “The magic key”, un programma di successo ritrasmesso in moltissimi paesi anglofoni. Come le ciliegie, una trasmissione tira l’altra. In Francia nel dopoguerra conduce vari programmi musicali e all’estero, dopo gli Stati Uniti lo vogliono anche in altri paesi, da Radio Hong Kong alla lunga sequenza di radio sudamericane che gli danno spazi, onori e gloria fino agli anni Novanta. Jean Sablon nasce il 25 marzo 1906 a Nogent-sur-Marne. La sua è una famiglia con il “vizio” della musica. Suo padre Charles, infatti, è un apprezzato compositore e capo-orchestra e sua sorella maggiore Germaine è cantante di music hall, pianista e compositrice molto popolare. Ancora adolescente, mentre studia pianoforte al prestigioso Lycée Charlemagne di Parigi, a diciassette anni già si esibisce nei locali notturni della capitale. Il suo primo successo discografico arriva nel 1933 con Ce petit chemin, un brano che porta la firma della sua amica ed estimatrice Mireille, una delle figure popolari della scena francese di quel periodo. Successivamente debutta al Casino de Paris in coppia con Mistinguett. Nel 1937 vince il Gran Prix du Disque con la canzone Vous qui passez sans me voir, scritta per lui da Charles Trenet e Johnny Hess. Sono anni di grande vivacità per il giovane Sablon che accetta le lusinghe che gli arrivano dall’altra parte dell’oceano e vola negli Stati Uniti. Broadway lo ama e personaggi come Cole Porter e George Gershwin stravedono per lui. Nei primi anni Quaranta torna in Francia ma, dopo l’occupazione nazista, preferisce andarsene di nuovo negli States. Le rutilanti luci dei palcoscenici statunitensi e la popolarità crescente non cancellano né la nostalgia né la voglia di rendersi utile alla sua patria. Per combattere i nazisti si arruola volontario nell’esercito francese di liberazione e il 20 novembre 1944 resta ferito in azione. Nel dopoguerra diventa uno dei cantanti francesi più popolari nel mondo e resta sulla breccia a lungo. Nel 1983 tiene il suo concerto d’addio a Rio De Janeiro, ma nel 1984 canta ancora la sua April in Paris in una serie televisiva e all’inizio degli anni Novanta partecipa a qualche trasmissione radiofonica.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
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