Una ragazza che guida può indossare la minigonna? No, secondo il severo esaminatore milanese che il 5 maggio 1967 rifiuta di ammettere la giovane Damiana Somenzi all’esame pratico di guida perché indossa una minigonna. La visione di un paio gambe, si sa, può turbare il sonno dei buoni padri di famiglia.... Che vergogna! Presidi, professori, parroci e genitori sono tutti d’accordo: quelle ragazze che masticano chewing gum e mostrano le gambe con disinvoltura sono la prova vivente della corruzione morale della società. Esplosa in Gran Bretagna nel 1964 la minigonna in Italia arriva un po’ più tardi e subito suscita sconquassi. Nel paese maschio per eccellenza la pelle delle gambe delle donne esposta agli sguardi di tutti assume il carattere di una provocazione e un’offesa ai costumi tradizionali, un evidente oltraggio alla morale e al buon senso. Chi porta la minigonna non può entrare a scuola, negli uffici pubblici, in Chiesa, né partecipare a manifestazioni religiose o civili. Il luogo principale dove si scatena l’offensiva moralistica è la famiglia, da sempre considerata il principale tutore delle regole di civile convivenza e della moralità diffusa. Le minigonne costano schiaffi, urla e castighi, ma le ragazze italiane degli anni Sessanta non sono più succubi dell’autorità famigliare, anzi la mettono apertamente in discussione. Contro il nuovo scandalo si mobilitano anche i giornali con campagne moralistiche e con analisi di presunti esperti che sostengono si tratti di una moda decisamente di cattivo gusto e destinata a non durare più di una stagione. I magazine giovanili replicano colpo su colpo e la società si spacca in due. Da un lato i severi censori e gli adulti ripropongono l’etica del sacrificio e della rassegnazione e dall’altra esplode la voglia di vivere e di cambiare regole che sembrano ormai insopportabili. Con la minigonna, ma non solo con quella, le ragazze italiane rivendicano la propria identità e fanno capire che l’adolescenza non può essere più considerata soltanto un fastidioso e inutile periodo di passaggio, quasi un limbo in attesa di diventare adulti. Quei pochi centimetri quadrati di stoffa diventano così un simbolo di liberazione.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
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