«Canto perché amo Brecht e il comunismo». La frase, buttata lì da Marianne Faithfull nel corso di un'intervista a Marinella Venegoni de La Stampa e pubblicata il 21 aprile 2000 è di quelle destinate a colpire, a dare una forte emozione e a lasciare un segno. La cantante in quel periodo è in Italia per esibirsi a Ravenna nei "Sette peccati capitali" e la sua performance, diffusa in diretta dal Terzo canale di Radiorai, ottiene critiche lusinghiere. E così anche finalmente anche i media italiani, non tutti per la verità, cancellano l'immagine fastidiosa di quella cantante biondina, in genere definita "musa dei Rolling Stones" e destinata a far parlare più le cronache mondane e quelle giudiziarie che i critici musicali. La biondina non ancora diciottenne che cantava con la vocina tenera e la protezione dei Rolling Stones As tears go by e partecipava al Festival di Sanremo per ripetere distrattamente C'è chi spera insieme a Riki Maiocchi è morta da tempo. Non esiste più. È stata seppellita insieme alla vita disordinata degli anni in cui i produttori facevano di lei quello che volevano. Era l'epoca degli eccessi e dell'amicizia con sostanze pericolose che più d'una volta l'a portano a sfiorare la morte. Il meccanismo la stritola. Ha poco più di vent'anni quando lascia le scene per entrare in un circuito virtuoso e perverso di disintossicazioni, case di cura e ricadute. Ne riemerge a trenta, ma è profondamente cambiata. Con la biondina è morta anche la vocina di un tempo, trasformatasi un timbro roco e sensuale che l'ha costretta ad abbassare di un ottava la partitura di Anna nei "Sette peccati capitali" di Berthold Brecht e Kurt Weill. Eppure in quasi tutti i servizi che presentano l'appuntamento di Ravenna, l'immagine di Marianne Faithfull era coperta da quella dell'esile ragazza bionda degli anni Sessanta destinata, più che altro, a soddisfare le esigenze sessuali delle nascenti star del rock. C'è poi chi ha trovato modo di polemizzare anche con la scelta di abbassare di un ottava la partitura, forse ignorando che già Lotte Lenya, considerata una delle più grandi interpreti della brechtiana Anna, nel 1955 l'aveva abbassata di un quarto. Anche se l'Italia lo scopre solo in quel momento, sono anni che Marianne Faithfull interpreta Brecht e, soprattutto, sono anni che guarda con occhio distaccato il mondo del music business e che risponde in modo provocatorio alle domande stupide: «Il punk? Ricordo soltanto che Sid Vicious e io avevamo lo stesso spacciatore…». Quando riemerge dal tunnel della disperazione e degli eccessi stanno finendo gli anni Settanta. Il suo personaggio non piace ai "padroni della musica", ma soprattutto non piace ai produttori la sua pretesa di avere un cervello. Lei non molla. Nel 1979 pubblica con l’etichetta indipendente Island lo splendido album Broken english nel quale rielabora alcuni scritti di Ulrike Meinhof, non per affinità politica ma perché vorrebbe che tutti capissero come a volte non si diventa terroristi per scelta, ma per bisogno d'amore: «Sono gli stessi blocchi emotivi che ti rendono tossicomane a farti diventare terrorista». I testi delle canzoni (nel disco c'è anche una trascinante versione elettrica della lennoniana Working class hero) non piacciono però alla EMI, distributrice della Island, che boicotta l'album e ne penalizza il successo. Marianne non s’arrende e continua per la sua strada. Cerca e trova la collaborazione di vecchi e nuovi amici come la coppia Jagger-Richards e Tom Waits, ma i ristretti confini della musica pop non le bastano più. Si innamora di Brecht e attraverso i suoi lavori scopre il comunismo, la voglia di cambiare le cose e di combattere le ingiustizie. L'impegno sociale le procura nuovi problemi. Da tempo, infatti, si è trasferita negli Stati Uniti e le autorità di quel paese, così indulgenti nei confronti dei suoi eccessi esistenziali, fanno fatica a tollerare l'impegno sociale e politico. Vengono rispolverate le sue vecchie storie di droga e una lunghissima serie di microreati connessi. In breve tempo si ritrova tra le mani un foglio di via che le intima di tornare immediatamente nella natìa Gran Bretagna. Di nuovo accorrono in suo aiuto gli amici veri, artisti e non, che, inventando sempre nuove ragioni per ottenere dilazioni e rinvii, le consentono nel 1989 di realizzare il suo sogno: cantare le musiche di Berthold Brecht e Kurt Weill nella St. Ann’s Cathedral di Brooklyn. Da quel momento Brecht entra nella vita personale e artistica della cantante in modo totalizzante e ne condiziona non solo il repertorio, ma anche l'impostazione vocale. Nel giugno del 2000 anche l'Italia la scopre. Merito dell'intervista di Marinella Venegoni che supera anche i limiti della nuova immagine e propone, finalmente sotto la luce giusta, un personaggio che ha attraversato spesso da vittima e qualche volta da protagonista gli ultimi quarant'anni della scena musicale internazionale. Lo fa evitando le tinte acide del rotocalco e con un grande rispetto per l'artista e la persona, cercando e fornendo informazioni in una sorta di scambio alla pari.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
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