Il 30 gennaio 1978 Muore Damia, una delle grandi interpreti della “chanson réaliste” francese. Come Mistinguett, Damia si è sempre vantata di non aver mai fatto uso del microfono nelle sue esibizioni dal vivo. Oggi l’idea che qualcuno rinunci a un mezzo capace di far ascoltare meglio anche il più piccolo sussurro espressivo può far sorridere, ma fino a cinquant’anni fa i puristi inorridivano di fronte all’utilizzo di un congegno metallico destinato ad amplificare il canto. La ragione fondamentale del rifiuto all’utilizzo del microfono era: nessun filtro per la voce, perché i filtri attenuano la forza emotiva del canto. In questo ambito vanno inserite sia la scelta di Damia, che quella di Mistinguett. Le due cantanti, infatti, non sono da ascrivere alla contrapposizione che per larga parte del novecento ha diviso i cantanti e le cantanti di scuola lirica, la cui potenza vocale è tale da poter rinunciare al microfono, da quelli popolari che utilizzano tranquillamente il microfono per farsi ascoltare meglio. Mistinguett e Damia non ne fanno una questione di potenza vocale, ma di sentimenti, di sfumature emozionali che rischiano di venir tradite dall’uso di uno strumento posticcio destinato soltanto ad amplificare i suoni. Tutto ciò vale, naturalmente, per le esibizioni dal vivo visto che entrambe non si sottraggono alla possibilità di registrare dischi o di cantare nei programmi radiofonici, due casi nei quali l’utilizzo del microfono diventa indispensabile. Quella che oggi appare come una polemica eccessivamente sofisticata e un po’ posticcia in realtà aiuta a capire la concezione di una grande artista come Damia per la quale il rapporto con il pubblico è la ragione principale del lavoro dell’artista. Considerata uno dei simboli più vividi della “chanson réaliste” e capace di rappresentare il punto di sintesi tra la musicalità delle interpreti della chanson e la presenza scenica delle attrici teatrali, la forza della sua personalità è stata tale che, ancora oggi, quando si dice “una canzone di Damia” non si precisa altro. La sua interpretazione è sufficiente a definire i contorni di ciò che ci aspetta. Di fronte alla sua capacità anche gli autori e i compositori passano in secondo piano. Damia ha una voce forte e profonda capace di trasmettere una vasta gamma di emozioni, di passare dalla tristezza o dal dramma alla sensualità più spinta e sfacciata. Tra tutte le interpreti della “chanson réaliste” lei è quella che maggiormente fa tesoro dell’esperienza teatrale sia nella presenza scenica che nel considerare la dizione un elemento, per così dire, variabile dell’interpretazione. La sua dizione, infatti, non è mai asettica come accade alle cantanti “di buona scuola”, ma cambia in funzione dei brani interpretati e delle emozioni che essi esprimono. Accade così che in qualche canzone la sua voce abbia l’accento spiccato delle periferie parigine e in altre la perfezione scolastica di chi è in grado di controllare con freddezza persino l’intonazione più marginale. È la qualità musicale del brano, sono le parole del testo e l’impronta del messaggio a determinare la scelta del taglio interpretativo e di quello vocale. La qualità è tutto e la potenza è nulla. In nessun caso, infatti, cerca di catturare l’attenzione degli ascoltatori con la potenza della voce, non perché non ne abbia, ma perché ritiene che il suono inutilmente gonfiato abbia il limite di non riuscire ad arrivare al cuore del pubblico. Come accade in seguito anche a Edith Piaf, per Damia l’intensità dell’interpretazione è molto più importante della perfezione asettica del vocalizzo. Questa sua caratteristica interpretativa le è valsa l’appellativo di “tragédienne de la chanson”, “attrice tragica della canzone” con un richiamo evidente alla tradizione drammatica di quella grande scuola teatrale che è stata la tragedia greca classica. Damia nasce il 5 dicembre 1889 a Parigi, anche se in qualche biografia degli anni Cinquanta la lancetta del tempo viene spostata di tre anni più avanti, nel 1892. All’anagrafe è registrata come Marie-Louise Damien. Figlia di un poliziotto o, meglio, di un sergente della polizia francese che i biografi raccontano autoritario e un po’ repressivo nei rapporti famigliari, non ha ancora compiuto quindici anni quando esce di corsa dalla porta di casa intenzionata a cercare fortuna nel mondo. Trova ospitalità nelle compagnie di attori, saltimbanchi, vagabondi e musicisti le cui attività animano le strade, le piazze e i locali della frenetica capitale francese. Seguendo le imprevedibili strade di questa compagnie di giro di località in località arriva dove la terra finisce e comincia la distesa del mare. Spinta dall’irrefrenabile voglia di sperimentarsi segue i suoi compagni su una delle tante carrette che attraversano la Manica e se ne va in Inghilterra. Qui a diciassette anni scandalizza e, insieme, entusiasma il pubblico londinese portando sul palcoscenico lo scandalo de “la valse chaloupée”, (il valzer ondeggiante) il ballo lanciato da Mistinguett che mima il rapporto aggressivo e violento di una ragazza di vita con il suo protettore. A Londra è accompagnata dallo stesso Max Dearly che è stato al fianco di Mistinguett. Tornata a Parigi sbarca il lunario lavorando come figurante nelle varie compagnie che arrivano al Châtelet. La ragazza è come una spugna. Assorbe il mestiere dello spettacolo, con i relativi trucchi e la capacità di reggere alle inevitabili difficoltà. Lavora con moltissime compagnie e da ciascuna impara qualcosa. Pian piano riesce a ritagliarsi spazi sempre maggiori e grazie anche ai consigli e alle raccomandazioni di Robert Holland, detto Roberty, il marito della grande Fréhel, debutta come cantante solista sul palcoscenico della Pépinière con il nome di Maryse Damia. Le cure e le attenzioni di Roberty le aprono le porte del Petit Casino, del Concert Mayol e di molti altri locali alla moda nei quali divide spesso il palcoscenico con Fréhel. Il suo rapporto con Roberty diventa sempre più stretto fino a quando l’uomo decide di lasciare per lei la moglie Fréhel che gli ha da poco dato un figlio. Quest’ultima non si dà pace e, dopo la tragica morte del figlio, precipiterà in una depressione disperata destinata a cambiarle la carriera e anche la vita. In qualche modo, però, questa vicenda segna anche l’esistenza e la carriera di Damia che finirà per essere lungamente colpevolizzata da parte dell’opinione pubblica e della stampa popolare. Dopo la prima guerra mondiale Damia va in tournée con la coreografa statunitense Loïe Fuller e scopre l’uso delle luci e dei proiettori sul palcoscenico. Diventa così la prima cantante a utilizzare i proiettori come complemento scenico. Nel 1921 Abel Gance le affida il ruolo della Marsigliese nel suo film muto “Napoléon”, la prima di una lunga serie di importanti performances cinematografiche che si concludono nel 1956 quando compare per l’ultima volta nel film “Notre-Dame de Paris” di Jean Delannoy con Gina Lollobrigida e Anthony Quinn. Si esibisce anche in tutti i locali più alla voga, da Chez Fisher all’Apollo, all’Olympia, al Moulin Rouge a tanti altri. Nel 1929 recupera Les goélands, una canzone già interpretata nel 1905 da Lucien Boyer, e la trasforma nel più grande successo della sua carriera. Il modo di presentarsi in scena diventa parte del personaggio e della sua leggenda: sola, con un vestito nero lungo e senza maniche e nessuna invenzione scenografica al di fuori di un proiettore bianco puntato sulla sua figura intera. Sulla scena sarà così per tutta la vita salvo nel periodo dell’occupazione nazista quando per rispondere a modo suo alle pressioni del governo collaborazionista che l’invitano ad avere un atteggiamento più gaio e spensierato lascia la scena com’è e cambia solo il colore dell’abito da nero a bianco. Nel 1956 lascia definitivamente le scene dopo un concerto nel quale indossa per l’ultima volta quell’abito nero destinato a ispirare anche Juliette Gréco. Nel 1964 la Francia le concede il Grand Prix du Disque per la sua straordinaria carriera e la cantante ringrazia ma poi torna nell’ombra. Muore il 30 gennaio 1978 all’età di ottantanove anni nella sua casa di Saint-Cloud.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
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