Il 15 maggio 1935 Cesare Pavese viene condannato al confino. Come mai? Tutto inizia nel 1930 quando, a soli ventidue anni, si laurea con una tesi sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a scrivere sulle pagine della rivista “La cultura”. Per vivere insegna nelle scuole serali e private e traduce poeti e scrittori della letteratura inglese e americana. Un anno dopo muore sua madre. Pavese, rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale abiterà fino alla morte. Proprio nel 1931 viene stampato a Firenze il primo libro interamente tradotto da lui: “Il nostro signor Wrenn” di Sinclair Lewis. Nel 1933 nasce la casa editrice Einaudi, un progetto al quale lo scrittore partecipa con entusiasmo non soltanto per l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi. Dopo l’arresto di Leone Ginzburg la polizia fascista lo convoca come “persona informata sui fatti” perché ha accettato di far arrivare presso di lui alcune lettere fortemente compromettenti sul piano politico indirizzate a un’intellettuale comunista, laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista. Pavese, interrogato, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. I tre anni si riducono a uno per la concessione della grazia e in questo periodo comincia a scrivere il diario che verrà editato postumo nel 1952 con il titolo “Il mestiere di vivere”.
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