Nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1977, a Memphis, nel Tennessee, muore un cantante e inizia un mito. Elvis Presley, soprannominato “the Pelvis”, il ragazzone dalla voce scura capace di muovere il bacino in un modo oltraggioso, si spegne per un attacco cardiaco sull'ambulanza che lo sta trasportando al Baptist Memorial Hospital di Memphis. Da mesi, forse da anni consumato dall’abuso di psicofarmaci, il suo cuore cessa per sempre di battere. Il simbolo del rock and roll muore e nello stesso giorno prende il volo un mito destinato a continuare fino ai giorni nostri, pur se attraversato da più di una contraddizione. Per alcuni, infatti, Elvis è stato il protagonista indiscusso della prima, grande, ribellione giovanile, mentre altri lo ritengono l’inconsapevole eroe di un’operazione tendente a privare il rock & roll originario della sua carica eversiva. Alla seconda schiera appartengono i nuovi protagonisti neri della ribellione musicale, che lo considerano, senza mezzi termini, come un bamboccione bianco manovrato dal music business. Osserva, infatti, il rapper Ice-T che «…negli anni Cinquanta i brani di Little Richard e Chuck Berry venivano definiti “suoni da jungla”, poi l’industria ha capito che poteva essere un affare e ha tirato fuori dal cilindro un caro ragazzo bianco del Sud come Elvis Presley». L’idea, secondo i sostenitori di questa tesi, non era quella di fermare il rock, ma di inglobarlo nel sistema del music business depotenziandone la componente nera. A distanza di anni dalla morte del mito questo giudizio appare corretto ma incompleto perché il fenomeno rappresentato da Elvis Presley non può essere considerato soltanto una semplice operazione industrial-culturale. È sufficiente dare uno sguardo alle scene che accompagnano il suo funerale per capire come fin dai primi giorni dopo la morte dell’eroe, il mito sia andato al di là del semplice fenomeno indotto. Fra i settantacinquemila e gli ottantamila sono, secondo la polizia i fans che al momento dell’addio definitivo circondano Graceland, la favolosa villa di Memphis nella quale il re del rock and roll ha vissuto fino agli ultimi giorni della sua vita in una situazione di alienante, pur se dorata, solitudine. E quella che accorre a dargli l’ultimo saluto è una folla disperata e piangente, non aliena da gesti di isteria, multietnica e colorata. Resterà, per disposizioni superiori, ai margini delle cerimonie ufficiali, sarà costretta a viverle a distanza di sicurezza, visto che alla cerimonia ufficiale, cui sono stati ammesse solo centocinquanta sceltissime persone, ma non rinuncerà a far sentire la sua presenza. Rincorre un mito che altri hanno preparato per lei? A chi osserva superficialmente può sembrare che sia così. Gli occhi della generazione che l’ha conosciuto e amato però vedono in Presley qualcosa che va al di là della abusata storia del cantante leggendario che trova nella morte la sua definitiva consacrazione ideale e commerciale. Osservano lo svolgersi degli eventi ma si muovono in un territorio imprevisto: occupano anche gli spazi proibiti, quelli non direttamente commerciali, usando la memoria come un’arma invincibile. Scandiscono note e parole di brani che hanno accompagnato la presa di coscienza di una generazione e ne fanno inni imprevisti e del tutto imprevedibili. Travolgono le rassicuranti certezze del music business e trasformano Elvis nel simbolo che, probabilmente, non è mai stato e non ha mai voluto essere quando era in vita. Ovvie e un po’ stonate, di fronte a questo poco silenzioso omaggio del popolo del rock and roll, appaiono le dichiarazioni “ufficiali”, che hanno il gusto di minestre già assaggiate. Emblematico il fatto che anche il Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter voglia dire la sua: «Tutti noi sappiamo che la morte di Elvis Presley priva il nostro paese di una parte importante della sua cultura. Irripetibile e unico è stato il suo apporto. Alla sua musica e alla sua personalità si deve la fusione del country dei bianchi con il blues dei neri che ha cambiato per sempre la cultura del popolo americano». Ma è stato davvero così? Oggi possiamo dire che Presley è stato il personaggio simbolo della trasformazione del rock in un grande affare. Incarnando con la sua immagine pubblica una ribellione più formale che reale, priva di carica eversiva, ha depotenziato il rock and roll delle origini fino a farne in uno dei tanti aspetti della “America way of life”. La sua faccia pulita e la sua trasgressione “accettabile”, contrapposte al demoniaco rock 'n' roll dei neri, ma anche di ribelli bianchi come Jerry Lee Lewis, rassicuravano l'opinione pubblica americana, garantendogli l'appoggio dei media e segnarono il suo trionfo. Tradotta così la storia, pur corretta nell’analisi, non rende merito a un personaggio meno scontato di quello che sembra. Resta folgorato dalla musica nera, dall'espressività corporale dei cori gospel e dalla vocalità graffiante dei dischi di rhythm and blues quando, ancora con i calzoni corti, canta nel coro della sua chiesa. Il tratto distintivo della sua ispirazione artistica non è artefatto, tutt’altro. Passeranno anni prima che il colonnello Tom Parker, suo pigmalione e despota, riesca a rendere innocua quella carica istintivamente eversiva. La storia in seguito diventerà quella che tutti conoscono, quella del ragazzone biondo in pace con se stesso e con il mondo che piace alle mamme, alle figlie e alle zie. Ogni disco venduto offusca l’immagine originaria, ma non la cancella. Paradossalmente è proprio la leggenda a ucciderlo. Incapace di vivere bene il declino, invece di seguire altri protagonisti del rock & roll sulla strada del ritorno alle origini, dà retta ai cattivi consiglieri e finisce per trasformarsi in un crooner adatto a tutte le stagioni. Cannibalizzato dal suo entourage si tramuta in una specie di zombie da richiamare in vita ogni volta che il mercato chiama e da lasciare annegare nelle sue contraddizioni interiori quando non serve. Così inizia la sua fine, non solo artistica, ma anche personale. Obeso e gonfiato da una lunga sequenza di veleni artificiali che lo aiutano a sopravvivere regala al pubblico una serie di apparizioni da incubo. La sua storia finisce male, ma chi l’ha sempre sfruttato continuerà a guadagnare sul mito. Ancora oggi, mentre leggete queste righe, qualcuno di quelli che hanno contribuito alla sua fine, sta contando le royalties incassate su dischi, canzoni e gadget.