Il 15 ottobre 1964 muore Cole Porter, uno dei tre principali artefici della definitiva e decisiva contaminazione del musical bianco con il folk nero. Gli altri due sono George Gershwin e Irving Berlin. Quarant'anni dopo l’anniversario non è passato inosservato. Nel 2004 la sua storia, infatti, ha avuto una nuova versione cinematografica. Si tratta di “De-Lovely”, il film di Irwin Winkler che ha colmato i vuoti lasciati dalla precedente biografia cinematografica realizzata nel 1946 con Cary Grant nella parte del compositore, a quell’epoca ancora vivo e vegeto. Era intitolato “Night and day”, come l’omonima canzone, ed era stato massacrato nell’edizione italiana, intitolata “Notte e dì” con Grant/Porter che parlava con la voce di Alberto Sordi e gran parte delle canzoni doppiate malamente in italiano. Il difetto principale, però, era nel manico: la storia, filtrata dal moralismo Hollywoodiano di quei tempi stendeva un velo di silenzio sulla tutt’altro che latente omosessualità di Porter, sul complicato rapporto di coppia con la moglie Linda e sulla relazione totalizzante del compositore con la musica. Il nuovo film, girato in forma di musical ha avuto il pregio di rimettere un po’ le cose a posto ma, soprattutto, di riaccendere i riflettori su uno dei più grandi compositori del Novecento e sul suo lavoro concretizzatosi in circa mille e quattrocento brani, una trentina dei quali destinati all’immortalità. Cole Porter non è un compositore jazz, come frettolosamente viene spesso definito. La sua formazione scolastica racconta di un diploma alla Harvard School Of Music e di un perfezionamento in composizione a Parigi alla corte di Vincent D’Indy. È un grande compositore di musica leggera capace di saldare nel suo lavoro le pulsioni di un’epoca mescolando come un sapiente alchimista la tradizione bianca con quella nera. Proprio questa capacità di muoversi con grazia sulla linea di confine tra i generi fa di lui (e di Gershwin o Berlin) un anticipatore illuminato di ciò che avverrà nella musica della seconda metà del Novecento. Ed è per queste sue caratteristiche che il jazz si appropria di una parte consistente dei suoi lavori, li rimastica e ne illumina i lati oscuri portando nuove sfumature al suo monumento. Cole Porter è un genio più di quanto i suoi contemporanei possano intuire. Per questa ragione a più di quarant’anni dalla sua morte riesce ancora a influenzare nuove generazioni di artisti lontanissimi dalle sue corde. Basta ascoltare Red hot and blue, un disco-tributo realizzato nel 1990 per raccogliere fondi da destinare alla ricerca contro l’AIDS, per rendersi conto della capacità mutagena dei suoi brani affidati a interpreti come Iggy Pop, Annie Lennox, Tom Waits, gli U2, Lisa Stanfield o l’ex Shalamar Jody Watley. Da anni le sue opere, d’altronde, entrano ed escono dalla musica internazionale, attraversando e accompagnando le evoluzioni e le mode come serpentelli che si rinnovano cambiando la pelle. Everything But The Girl, Simply Red, Harpers Bizarre e Carly Simon, solo per citare i primi quattro nomi che mi vengono in mente, hanno suoi brani nel repertorio, mentre i Deee-Lite, uno dei fenomeni dance degli anni Novanta prendono in prestito il loro nome dalla canzone It's De-Lovely. Peccato che proprio la colonna sonora del film del 2004 contenga alcune versioni un po’ fiacche di brani come Everytime we say goodbye che perde di colore con Natalie Cole o Let´s do it let´s fall in love cui Alanis Morissette non regala niente di suo, ma si sa che la perfezione non è di questo mondo.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
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