30 novembre, 2022

30 novembre 1943 – Straighten up and fly right

Il 30 novembre 1943 il King Cole Trio, composto dal pianista e cantante Nat King Cole con Wesley Prince al contrabbasso e Oscar Moore alla chitarra, registra il brano Straighten up and fly right negli studi della neonata Capitol Records. Non è la prima esperienza discografica per il gruppo che ha già all’attivo alcune collaborazioni in sala di registrazione con Lionel Hampton e qualche brano pubblicato su disco dalla Decca. Come tanti altri nell’ambiente del jazz i tre sembrano destinati a una tranquilla carriera senza particolari scosse. Non la pensano così due dirigenti della Capitol, Glenn Wallachis e Johnny Mercer, che fanno firmare a Nat King Cole un contratto in esclusiva. Hanno ragione. Il brano registrato il 30 novembre, pubblicato su disco, attira l’attenzione del pubblico e, soprattutto, della critica che parla dell’abilità pianistica di Nat come di «una sintesi degli stili di Earl Hines, Fats Waller e Teddy Wilson, ma con maggiore semplicità e immediatezza». La formula stilistica proposta dal trio è destinata ad avere numerosi imitatori anche se nessuno riuscirà mai a eguagliarne l’efficacia. Importante è anche l’apporto di Oscar Moore, considerato, insieme a Charlie Christian, uno dei pionieri della chitarra elettrica, anticipatore di soluzioni che più tardi verranno applicate dai boppers. Il personaggio più singolare resta però Nat King Cole, l’artefice e leader del gruppo. Nonostante i giudizi lusinghieri della critica non passerà alla storia per le sue doti di pianista, ma per la sua voce. I virtuosismi al piano in campo jazzistico sono destinati a essere oscurati dallo straordinario successo ottenuto come cantante confidenziale negli anni Cinquanta. Per quasi quindici anni la sua voce farà impazzire gli americani rendendolo ricco e famoso. I soldi e gli onori della musica di consumo non gli faranno, però, dimenticare il jazz, cui torna periodicamente a dedicare parte del suo tempo, come nel 1956 quando la Capitol gli propone di aprire una nuova, importante, parentesi jazzistica nella sua carriera. Il cantante accetta e registra After midnight, un album che ancora una volta stupisce tutti, realizzato in quartetto con il chitarrista John Collins, il contrabbassista Charlie Harris e il batterista Lee Young.

29 novembre, 2022

29 novembre 1975 – Fly, Robin fly

Il 29 novembre 1975 arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti il brano Fly, Robin fly. Lo interpretano le Silver Convention, un trio di ragazze dalla bella voce e dalla notevole prestanza fisica che rispondono al nome di Ramona Wolf, Penny McLean e Linda Thompson. In fondo, però, il loro nome non interessa a nessuno, visto che l'offerta è da acquistare così com'è: un pacchetto di musica per ballare pronta per essere consumata e poi buttata. Pur essendo tutte e tre statunitensi, le Silver Convention rappresentano, infatti, il primo grande successo prodotto da un laboratorio tedesco. Fly, Robin fly anticipa di un paio d'anni la grande esplosione della discomusic come fenomeno di massa e consente ai pragmatici produttori teutonici di rodare una macchina destinata a sfornare una quantità impressionante di successi e, soprattutto, di personaggi spesso inventati. Le tre ragazze, a ben guardare non c'entrano niente con l'operazione. Gli artefici veri delle Silver Convention sono il compositore Silvester Leavy e, soprattutto, il produttore Michael Kunze che, come un novello dottor Frankenstein, ne modifica assetto, impostazione e anche composizione quando serve. Non è un caso che proprio dopo il successo di Fly, Robin fly ben due terzi della formazione vengano cambiati. Penny McLean e Linda Thompson si ritroveranno sostituite da Sandra Jackson e da un certa Rhonda quasi unicamente per esigenze d'immagine. Nel 1975 in pochi colgono la novità. L'operazione delle Silver Convention è uno dei primi segnali che i tempi stanno cambiando. Non basterà l'effimera fiammata del punk a interrompere quello che illustri sociologi chiameranno "riflusso". L'industria discografica sta fornendo un formidabile supporto a un vero e proprio lavaggio del cervello delle giovani generazioni che si butteranno dietro alle spalle l'impegno dei fratelli maggiori. Il loro nuovo orizzonte sarà la sala di una discoteca e la loro musica verrà prodotta in serie. Le Silver Convention? La sigla verrà di fatto congelata in attesa di tempi migliori. Si pubblicherà qualche disco di scarso interesse e di rapido consumo, giusto per mantenerla sul mercato, ma non le si rivedrà più ai vertici delle classifiche fino al 1977 quando, sull'onda dell'exploit della discomusic la loro Get up and boogie (that's right) le riporterà all'attenzione dei media. Le ragazze non sono più le stesse di Fly, Robin fly ma chi se ne accorge?


28 novembre, 2022

28 novembre 1978 – Federico dei Libra

Il 28 novembre 1978 a Roma un'auto travolge e uccide il trentenne cantante, polistrumentista e autore Federico D'Andrea, uno dei personaggi più interessanti del rock progressivo italiano degli anni Settanta. La sua esperienza artistica inizia quando, diciottenne di belle speranze lascia la Toscana e se ne va nella capitale. Qui, dopo aver fatto parte degli Ancients di Manuel De Sica, forma il duo dei Myosotis con Stefano Marcucci. Nel 1972 diventa il cantante e chitarrista dei Logan Dwight, una band che, nonostante la sua breve vita, verrà ricordata negli anni successivi come uno snodo importante nello sviluppo della scuola romana di rock progressivo. Dopo lo scioglimento del gruppo inizia a prendere forma l'esperienza, per molti versi straordinaria, dei Libra. Ne sono protagonisti, oltre a lui, il tastierista Sandro Centofanti, già suo fedele compagno nei Logan Dwight, il chitarrista Nicola Di Staso, il bassista Dino Cappa e il batterista David Walter. L'esordio discografico del gruppo avviene nel 1975 con Musica e parole un album particolare perché, in un periodo in cui quasi tutti i gruppi del progressive italiano si rifanno al pop sinfonico inglese, guarda al funky nero d'oltreoceano e al jazz. La band, che poco dopo l'uscita del suo primo disco ha sostituito David Walter con l'ex batterista dei Goblin Walter Martino, ottiene consensi dalla critica e, soprattutto, attira l'attenzione del mercato statunitense. Federico D'Andrea e i suoi compagni partono, quindi, per una lunga e fortunata tournée negli Stati Uniti al fianco di monumenti del rock di quel periodo come gli Steppenwolf, i Tubes e Frank Zappa. Il momento felice è sottolineato anche da un contratto discografico con la leggendaria etichetta nera Tamla Motown che pubblica, nel 1976, il secondo album del gruppo Winter day's nightmare. L'esperienza statunitense non porta fortuna ai Libra che, quando tornano in Italia, sono già attraversati dalla crisi che sfocerà nello scioglimento. Federico D'Andrea si dedica sempre più intensamente a progetti solistici che mettono in evidenza, oltre alla sua voce duttile, un gusto particolare per le armonizzazioni di taglio jazzistico. La sua morte interrompe una ricerca appena iniziata. È difficile capire quale sarebbe stata la sua evoluzione negli anni Ottanta, quel che è certo, però, è che con lui il rock italiano perde uno dei suoi migliori, anche se meno appariscenti, protagonisti.


27 novembre, 2022

27 novembre 1942 – Buon compleanno Jimi Hendrix

Il 27 novembre 1942 nasce a Seattle Jimi Hendrix registrato all'anagrafe con il nome di James Marshall Hendrix. La chitarra diventa la sua compagna di vita a undici anni quando, persa la madre, trova in quelle corde sottili uno sfogo per il dolore e la rabbia che sente dentro. La musica pian piano prende il posto degli affetti fino a divenire la sua unica ragione di vita tanto che decide di farne la sua sposa iniziando un vagabondaggio musicale al servizio di chiunque sia disponibile a pagarlo per suonare, anche soltanto per una sera. Ha sedici anni quando sceglie di non andare più a scuola e di iniziare a camminare sulle strade della vita. La rottura con l'ambiente scolastico non è indolore. La ferita della separazione traumatica, frutto della scelta radicale di un sedicenne, gli peserà dentro per tanto tempo, almeno fino a quando, il 12 febbraio 1968, torna da trionfatore nella sua città natale e si toglie lo sfizio di esibirsi in concerto proprio nei locali della Garfield High School, la scuola abbandonata. Niente nella sua vita è indolore, neppure il lungo periodo passato a prestare il suo genio ad altri per qualche dollaro e molte pacche sulle spalle. Probabilmente il suo talento sarebbe rimasto nascosto e inespresso negli Stati Uniti, se la sua strada non avesse incrociato un giorno quella dell'ex Animals Chas Chandler, un tipo rude dal grande fiuto, che lo convince a lasciare la sua terra per seguirlo nella lontana Gran Bretagna. Il resto è storia conosciuta, dai deliri del pubblico britannico all'apoteosi di Woodstock, alle incomprensioni, alla scoperta della politica, alla consapevolezza lucida di un destino che sta per concludersi. «È strano come la gente finisca per essere affascinata dai morti. Chissà, forse devi morire perché gli altri si convincano che valevi qualcosa…». Oggi c'è chi ne esalta l'intuito e l'istintività, più che la tecnica, quasi per ridimensionarne la figura e la portata. È un'operazione che comincia quando ancora è in vita, per depotenziarne la carica eversiva. Si badi bene, non è la sua carica sensuale il pericolo («tenete a casa le vostre sorelline»), ma il suo essere un nero di successo, con saldissime radici nella musica nera, in uno showbusinnes dominato da bianchi. È la sua simpatia per il Black Panthers Party, unita alla decisione di formare il primo complesso rock di soli neri, la Band Of Gypsys, con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso a creare "disordine" in un ambiente in cui si incoraggia il ribellismo, ma la presa di coscienza fa paura. Non è un segreto che, a partire dal 1969, il suo management dedica gli sforzi maggiori a smussare gli angoli più "neri" del personaggio, piuttosto che a valorizzarne l'estro creativo e le potenzialità. Un episodio su tutti è quello di Mark Jeffrey che "consiglia" i percussionisti di colore ingaggiati per l'esibizione a Woodstock di rimanere sullo sfondo del palcoscenico per non caratterizzare in senso "razziale" l'esibizione. Il risultato è che, ancora oggi, le percussioni sono quasi inascoltabili nella registrazione dal vivo del concerto. Le sue simpatie per il Black Panthers vengono "censurate" fino a quando è possibile per non "alienargli la simpatia del pubblico bianco". Una tale compressione finisce per diventare insopportabile e tutti abbiamo ancora fisso in mente Jimi che, tre mesi prima di morire, abbandona il palco del festival dell'Isola di Wight stanco e deluso da un pubblico che vuole da lui solo la ripetizione dei vecchi successi. Hendrix è stato un genio d'oro zecchino capace di aprire nuovi orizzonti alla chitarra elettrica nel rock proprio partendo dalle radici nere di questa musica. La sua vena creativa sperimenta oltre i limiti conosciuti fino a quel momento le possibilità dell'elettrificazione e dell'amplificazione, rimescolando blues, jazz e rock. La sua tecnica sfrutta tutti gli effetti sonori possibili portando il suono a percorrere strade inesplorate e suggestive, mentre anche il corpo si mette al servizio della chitarra nella ricerca di nuove sonorità (suona con il palmo della mano, con il gomito e con i denti). La critica dell'epoca (con qualche eccezione) prende una cantonata storica quando snobba e definisce "eccessi da gigione" quella che è l'essenza stessa delle sue innovazioni: l'eccesso come arte o l'arte dell'eccesso come dir si voglia. In questo senso si può dire che Jimi Hendrix regala una nuova dimensione alla chitarra elettrica che, con lui, cessa di essere un semplice strumento per diventare una macchina da suoni, simbolo di una generazione.


26 novembre, 2022

26 novembre 1968 – God save the Cream, Dio salvi i Cream!

Il 26 novembre 1968 alla Royal Albert Hall di Londra sono migliaia i ragazzi che con le lacrime agli occhi violano la sacralità dell’inno nazionale britannico per salutare l’ultimo concerto del loro gruppo preferito. I destinatari di tanto affetto sono i Cream, una band formata dal chitarrista Eric Clapton, dal bassista Jack Bruce e dal batterista Ginger Baker che fin dall’inizio si mette in evidenza per la sua carica rinnovatrice. Il gruppo scardina le regole di un codice non scritto che costringe i brani a non superare la durata di tre, quattro minuti, con brevi improvvisazioni confinate all’interno di rapidi break solistici. Il limite è dettato dalle leggi dell’industria discografica, scettica nei confronti degli album di lunga durata e più incline a privilegiare il disco a 45 giri di rapido consumo e di minor costo. I Cream rovesciano completamente la struttura, dilatando all’infinito i brani e lasciando ciascun componente libero di esprimere, senza cronometro, creatività e abilità strumentale. Con Jimi Hendrix e pochi altri diventano una sorta di pilastro musicale della controcultura psichedelica tanto che per la copertina del loro secondo album Disraeli gears scomodano Martin Sharp, uno degli illustratori della rivista underground “Oz”. Quando si accorgono che la loro carica innovativa si sta esaurendo rifiutano di diventare delle “icone viventi” e di ripetersi all’infinito. Annunciano con molto anticipo il loro scioglimento e organizzano un concerto d’addio per salutare il pubblico. Il 26 novembre 1968 la sala della Royal Albert Hall è testimone di un commosso e appassionato atto d’amore del pubblico nei confronti del gruppo. Al termine dell’esibizione le ragazze e i ragazzi presenti si alzano in piedi e intonano con le gole strette dal magone l’inno nazionale inglese God save the Queen, (Dio salvi la Regina), trasformato in God save the Cream. L’intero concerto viene filmato da Tony Palmer nel suo film "Goodbye Cream". Pur commossi, i soli a non prendersi sul serio restano i tre musicisti tanto che Jack Bruce qualche anno dopo così descriverà l’epopea del gruppo: «I Cream? Abbiamo fatto qualche bella suonata insieme, abbiamo guadagnato un po’ di soldi e poi… abbiamo chiuso. Tutto qui».


25 novembre, 2022

25 novembre 1970 - Chi ha ucciso Albert Ayler?

Il 25 novembre 1970 le acque newyorkesi dell’East River restituiscono il corpo del sassofonista Albert Ayler. La fine di uno degli artisti neri più popolari di quel periodo non è dovuta alla casualità né a un suicidio. Ayler è stato ucciso e poi gettato nelle acque del fiume. I suoi assassini non avranno mai né un nome né un volto. Con lui scompare uno dei più geniali e contraddittori interpreti della riscossa dei neri d'America non soltanto nel jazz. La sua musica, sia nel percorso interno al free jazz che nella successiva e contrastata evoluzione, è pervasa dalla preoccupazione di non perdere le radici popolari e di farsi comprendere dalla "sua" gente. Per questo quando nei quartieri neri delle metropoli statunitensi si diffonde il seme fecondo della politicizzazione Ayler è uno dei primi artisti free a mettersi in discussione. Alla fine degli anni Sessanta la sua musica segna una svolta. Le sue improvvisazioni prendono sempre più in prestito gli accompagnamenti dal rhythm and blues e dal rock and roll. Non è un'apertura commerciale e nemmeno una presa di distanza dal free jazz, ma un tentativo di mettere in discussione l'asettica evoluzione staccata dal contesto sociale di riferimento. Lo fa e lo dice. «Mi piacerebbe suonare qualcosa che tutti possano canticchiare. Voglio suonare i motivi che cantavo quando ero piccolo e melodie popolari che tutto il mondo possa comprendere. Vorrei utilizzare quelle melodie come punto di partenza e lasciarle fluttuare all'interno dei miei brani. Da una semplice melodia vorrei passare a trame più complesse per tornare nuovamente nella semplicità andare poi oltre, verso suoni sempre più complessi e più densi». C'è una critica esplicita allo schema elitario in cui tende a rinchiudersi il free jazz e l'altrettanto esplicito tentativo di costruire una sorta di linguaggio musicale capace di connettere la tradizione con le nuove aspirazioni degli afroamericani. La sua morte chiude anticipatamente il discorso.


24 novembre, 2022

24 novembre 1979 - Barbra Streisand e Donna Summer battezzano lo stile Faltermayer

Il 24 novembre 1979 la "strana coppia" formata da Barbra Streisand e Donna Summer arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti con il brano No more tears (Enough is enough). Il produttore e l'artefice del successo è Harold Faltemeyer, un tedesco. La sua storia inizia quando è fattorino in uno studio di registrazione in Germania, ma passa le ore libere con l'équipe di Giorgio Moroder, uno dei protagonisti della rivoluzione tecnologico-musicale di quegli anni. Quando Moroder gli propone di lavorare con lui Harold non ci pensa due volte. Lascia l'impiego fisso e accetta. Nel 1978 segue il maestro a Los Angeles e collabora con lui alla realizzazione di varie colonne sonore. Vivere all'ombra di Moroder, però, non lo soddisfa. Si stacca dal maestro e inizia a camminare da solo producendo l'album Bad girls di Donna Summer, per il quale scrive anche alcune canzoni. Visti i buoni risultati decide di continuare. Geniale e intuitivo si fida più del suo istinto che dei consigli degli esperti. Quando inizia a lavorare alla produzione di Enough is enough lo guardano con scetticismo. In pochi credono alla possibilità di unire due personaggi così diversi come Donna Summer, la regina nera del lato più sexy della discomusic, e Barbra Streisand, la lady della canzone. Il successo gli dà ragione. Nel 1985 comporrà la colonna sonora del film "Beverly Hills Cop" e il suo nome entrerà per la prima volta nelle classifiche di vendita sia con l'album che con il singolo Axel F, un brano strumentale che segnerà la nascita ufficiale dello "stile Faltermayer".


23 novembre, 2022

23 novembre 1976 – Jerry Lee Lewis, una Derringer per Elvis

Mentre le prime luci dell'alba del 23 novembre 1976 cominciano a spazzare via il nero dell'orizzonte al centralino della polizia di Memphis l'agente di turno fatica a tenere gli occhi aperti. Si appresta a concludere l'ennesima nottata di lavoro quando una telefonata interrompe la sua sonnacchiosa routine. Un anonimo cittadino segnala la presenza di uno strano tipo lungo la recinzione che difende il giardino di Graceland, la estesa tenuta nella quale vive il suo esilio dorato Elvis Presley. Prima ancora di verificare la veridicità della telefonata le trasmittenti della polizia di Memphis lanciano l'allarme «Sembra che ci sia un pazzo nei pressi della villa di Elvis». L'ordine è quello di fare una verifica senza dare troppo nell'occhio e, soprattutto, senza disturbare l'illustre concittadino. Quando i primi agenti arrivano nelle vicinanze della recinzione della villa è giorno pieno. Non ci sono dubbi: un uomo visibilmente alterato sta chiamando Elvis Presley ad alta voce con in mano una Derringer, una pistola di ridotte dimensioni ma sufficiente a colpire e a uccidere. La situazione è decisamente critica. Quasi tutte le pattuglie in servizio nelle strade di Memphis convergono sul luogo e circondano lo sconosciuto che, visibilmente alterato, si guarda attorno, ride, piange, urla e brandendo la pistola continua a chiamare ad alta voce “The king”, il re. Chi è? Che cosa vuole? Mentre iniziano febbrili trattative perché getti la pistola e si lasci accompagnare a casa un agente appassionato di rock and roll lo riconosce: è Jerry Lee Lewis, The Killer, l'alfiere bianco del rock and roll più trasgressivo e meno rassicurante degli anni Cinquanta. Il giorno prima è finito in un fossato con la sua Rolls Royce e, dopo essere stato arrestato per guida in stato di ubriachezza, è stato rilasciato da non più di dieci ore. Sostiene di avere un paio di cosette da chiarire con “il re del rock and roll”, ma quando gli agenti gli si avvicinano non oppone resistenza e si lascia portare via. L'episodio provocherà l'ennesima campagna di stampa contro Jerry Lee Lewis, un artista inviso al music business per la sua incapacità di sottostare alle regole del mercato. Come sempre verrà dato per finito e qualche anno dopo dovrà sottostare a una difficilissima operazione allo stomaco, ma non sarà così. Negli anni Ottanta "Great balls of fire", un film su di lui interpretato da Dennis Quaid lo riporterà alla ribalta. Per il vecchio "Killer" sarà la terza resurrezione della carriera.


22 novembre, 2022

22 novembre 1971 – Fred Guy, le corde di Harlem

Il 22 novembre 1971 muore suicida il settantaduenne banjoista e chitarrista Fred Guy, l'uomo che, come ricorda Duke Ellington, «…conosceva Harlem palmo a palmo, era un tipo piuttosto serio, e aveva la tendenza di dar consigli al prossimo, ma la sua chitarra era un metronomo e il suo "beat" era sempre al posto giusto…». Pur essendo nato a Burkesville in Georgia, Fred vive ad Harlem fin dall'infanzia. Le corde dei suoi due strumenti sono le corde di Harlem, perché danno voce agli abitanti del suo quartiere. Impara da solo a suonare uno strumento apparentemente povero come il banjo e suona dove può. Il suo primo contratto professionale porta la firma del direttore d'orchestra Joseph C. Smith e rappresenta una svolta fondamentale: quelle poche righe gli fanno capire che di musica si può anche vivere. Guy ci prende gusto e, appena può, cerca di recuperare autonomia e indipendenza formando una propria orchestra cui attribuisce il nome di The Oriental. L'avventura non dura a lungo, anche perché nella primavera del 1925 se ne va con Duke Ellington. Nella band del Duke suona il banjo fino al 1934, poi passa alla chitarra. Negli anni del banjo la pennata che caratterizza il suo stile è preziosa per la pulsazione sonora e i suoi glissati contribuiscono a costruire la leggenda della big band. Quando passa alla chitarra la sua presenza si fonde nel resto della ritmica e diventa meno caratteristica. Verso la fine degli anni Quaranta, quando le grandi orchestre stanno terminando il loro ciclo, si ritira. Se ne va a Chicago e si adatta a fare per vent'anni il direttore di una sala da ballo poi la crisi e la voglia di dire basta.


21 novembre, 2022

21 novembre 1992 - Patty Smyth con la y

Il 21 novembre 1992 qualcuno pensa che ci sia un errore di stampa nella classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti. Al primo posto, infatti c'è il nome di Patty Smyth con il brano Sometime love just ain't enough, ma non ci sono errori. Non si tratta di Patti Smith, la poetessa del punk, ma proprio di Patty Smyth, la trentacinquenne ex cantante degli Scandal, nonché figlia di una delle poche donne manager della scena musicale degli anni Sessanta. Patty non è una novellina. Il suo debutto risale alla fine degli anni Settanta quando forma il gruppo new wave degli Smyth (altro nome che si presta a qualche equivoco!) che la fa conoscere e apprezzare dagli addetti ai lavori, ma non dal grande pubblico. Nel 1981 è la front woman degli Scandal, una band che ha in lei e nel suo amico Zack Smith (un altro!) gli elementi di punta. In questo periodo la ragazza riesce a costruirsi una propria immagine indipendentemente dalla band, che viene così schiacciata dalla sua crescente popolarità. Già sulla copertina del secondo album Warrior c'è scritto anche il suo nome oltre a quello del gruppo. Nonostante a Patty non dispiaccia l'idea di continuare con gli Scandal, il suo amico Zack decide di chiudere l'esperienza per dedicarsi alla composizione di jingles per spot pubblicitari. La scelta solistica diventa così inevitabile. Dopo l'album del debutto, Never enough del 1987, aspetta ben cinque anni prima di pubblicarne un altro. Vuol fare le cose per bene e ci riesce. Proprio dal secondo album Patty Smyth viene estratto il singolo che le regala il successo commerciale.


20 novembre, 2022

20 novembre 1973 – Ho suonato con gli Who, adesso posso anche morire…

Il 20 novembre 1973 la tournée statunitense degli Who fa tappa a San Francisco. Il quartetto sale sul palco accolto da un boato, ma fin dalle prime note si capisce che c’è qualche problema. Il batterista Keith Moon è visibilmente ubriaco. Prima di iniziare a suonare si è imbottito di tranquillanti e alcool e anche sul palco, tra un brano e l’altro, continua a bere. I compagni lo guardano preoccupati perché, pur abituati alle sue pazzie, temono il tracollo da un momento all’altro. Nonostante tutto, per un’ora la band dà il meglio di sé proponendo numerosi brani di Quadrophenia la nuova, monumentale, opera che, nelle intenzioni del chitarrista Pete Townshend, dovrebbe dare continuità al lavoro iniziato con Tommy. La scaletta del concerto prevede che, terminata l’esecuzione dei nuovi brani, gli Who regalino poi al pubblico una lunga carrellata dei loro brani più famosi. Proprio mentre il gruppo è impegnato in quest’ultima parte, Keith Moon sviene in scena. Inebetito dalla mistura di alcool e tranquillanti scivola a terra dal suo seggiolino privo di sensi e gli infermieri di servizio non possono far altro che portarlo via dal palco. La scena si svolge sotto gli occhi del pubblico ammutolito. Nel silenzio generale Pete Townshend si avvicina al microfono. «Hey, qualcuno tra voi se la sente di sostituire Keith alla batteria?». All’appello risponde un ragazzo che, aiutato dal servizio d’ordine, si fa largo fino al palco. Si chiama Scott Halpin, ha diciannove anni ed è arrivato a San Francisco da Muscatine, nello Iowa. È batterista per hobby e conosce a memoria tutti i brani degli Who, il suo gruppo preferito. Si sistema sul seggiolino mentre il bassista John Entwistle lo rassicura: «Vai via regolare, al resto ci penso io!» Emozionato e incosciente il giovane Halpin suona con gli Who gli ultimi tre brani del concerto e partecipa con il gruppo all’apoteosi finale tra i flash dei fotografi che lo immortalano abbracciato ai suoi musicisti preferiti. I cronisti presenti lo prendono d’assalto nell’intento di catturare le sue sensazioni. Lui, sudato, li guarda con gli occhi stralunati e risponde con un filo di voce: «È stata un’esperienza fantastica, adesso posso anche morire…».




19 novembre, 2022

19 novembre 1968 – Diana Ross e la regina d’Inghilterra

Negli anni Sessanta il Royal Variety Show è uno dei più importanti appuntamenti per la nobiltà britannica. Si tratta di uno spettacolo musicale di beneficenza che si svolge a Londra, cui prende parte l’intera famiglia reale, con la regina in prima fila. Il programma è, ogni anno, arricchito dalla presenza di ospiti illustri e di fama internazionale. Si privilegiano, ovviamente, gli interpreti britannici, ma non si disdegna di invitare qualche star straniera di successo. Nell’edizione del 1968, che si svolge il 19 novembre, il ruolo di ospite speciale spetta alle Supremes, il trio di punta della Motown, guidato da una Diana Ross che molti danno ormai sul piede di partenza, pronta a debuttare come solista. Il gruppo ha alle spalle un quadriennio di successi con oltre quaranta milioni di dischi venduti in tutto il mondo e non si fa certo mettere in soggezione dall’idea di cantare davanti alla regina d’Inghilterra. Diana Ross, Mary Wilson e l’ultima arrivata Cindy Birdsong, che da un anno ha preso il posto di Florence Ballard, sono “vecchie volpi” (non in senso anagrafico) del palcoscenico. Il concerto procede quindi su binari tranquilli di fronte a un pubblico ordinato come si conviene quando è presente la famiglia reale al gran completo. Verso la fine, però, le due compagne fanno un passo indietro e lasciano Diana Ross sola davanti al microfono, mentre la musica si ferma. La cantante inizia a parlare: «Non ho molte occasioni di parlare a persone potenti come chi mi sta davanti oggi. Io, come vedete, sono nera, mentre voi siete bianchi. Io canto e voi mi ascoltate, poi quando tutto è finito ce ne andiamo insieme dalla sala. Questo non succede sempre. Ci sono posti nel mondo, compreso alcuni stati del mio paese, gli Stati Uniti, dove neri e bianchi non hanno gli stessi diritti, non possono neanche uscire dalla stessa porta. Vorrei che ci pensaste quando tornate nelle vostre case». Mentre la Ross si allinea alle sue compagne nella sala cala un silenzio imbarazzato. Qualcuno, dalle ultime file batte timidamente le mani, altri lo seguono. In breve tutta la platea, compresi i membri della famiglia reale, si alza in piedi e prolunga per due minuti l’applauso. Diana Ross ringrazia e annuncia il brano seguente.


18 novembre, 2022

18 novembre 1986 – Londra in piedi per Suzanne

Il 18 novembre 1986 il lungo tour europeo di Suzanne Vega fa tappa alla Royal Albert Hall di Londra. La cantante si esibisce nel primo di due concerti ripresi dalle telecamere della BBC i cui passaggi migliori vengono raccolti in un video che fa il giro del mondo. Quando appare sul palco è tesa. La band che l’accompagna è composta da Sue Evans alle percussioni, Marc Shulman alla chitarra, Mike Visceglie al basso, Anton Sanko alle tastiere e Stephen Ferrera alla batteria. Sono i cinque musicisti di cui si fida di più e che non la tradiscono mai. Sono loro che l’aiutano a superare la paura e l’emozione per l’atteso debutto londinese. Al termine del concerto il pubblico balza in piedi e saluta con un’ovazione la minuta folk singer arrivata dagli Stati Uniti. Nata a Santa Monica, in California, nel 1960 Suzanne si trasferisce poi con la famiglia a New York dove si iscrive all'High School of Performing Arts, frequentando i corsi di danza e di musica. Sognatrice e vagabonda, impara a suonare la chitarra e cerca di guadagnare i primi soldi cantando nei locali del Greenwich Village. All’inizio degli anni Ottanta il suo nome comincia a circolare con sempre maggior frequenza nel mondo del folk newyorkese, anche se i produttori, la guardano con diffidenza. La voce particolare e i testi poetici delle sue canzoni sono considerate un po’ fuori moda in un periodo in cui l’immagine e la superficialità sembrano essere divenuti i principali, se non gli unici, punti di riferimento della produzione discografica. Quando riesce a pubblicare il suo primo disco ha già venticinque anni e una serie lunghissima di concerti alle spalle. Tra i pochi che credono in lei c’è Lenny Kaye, l’ex chitarrista del gruppo di Patti Smith. È lui che, più di tutti, ne intuisce le potenzialità ed è disposto a rischiare in proprio diventando co-produttore di Suzanne Vega, il suo album d’esordio. A dispetto degli scettici, il successo è immediato e la timida ragazza diventa popolarissima in tutto il mondo. Il 18 novembre 1986 il pubblico britannico saluta in lei una delle più promettenti interpreti di un genere, il folk, capace di rinnovarsi e di continuare anche contro gli “esperti del mercato”.


17 novembre, 2022

17 novembre 1985 – Bianca Star, la figlia dell'anarchico Ceccarelli

Il 17 novembre 1985 muore a Roma Bianca Star. Ha ottantasette anni ed è stata una della più importanti soubrette, attrici e cantanti del teatro di varietà italiano. Il pubblico televisivo l'ha scoperta un anno prima quando ha cantato in diretta il brano Sinnò me moro nella trasmissione "Italia sera". Quello che il pubblico non sa è che suo vero nome è Bianca Ceccarelli e che suo padre era Aristide Ceccarelli, un anarchico coinvolto nel processo contro Pietro Acciarito, l'uomo che nel 1897 tentò di accoltellare Umberto I e successivamente assolto. La vita avventurosa del padre non può non coinvolgere la piccola Bianca che a cinque anni se ne va a Buenos Aires, in Argentina, dove resta per alcuni anni. Quando torna a Roma con la madre inizia a frequentare un laboratorio per imparare il mestiere di sarta. La ragazza, però, è incuriosita dalla nascente industria cinematografica. Dopo molti tentativi ottiene un contratto con la Caesar Film e, alla fine degli anni Dieci debutta su grande schermo con il nome di Bianca Renieri, ma all'ambiente della celluloide preferisce il teatro. Debutta come soubrette all’Eden di Napoli in una rivista di Diana Mac Gill, che le appioppa il nome di Bianca Star, e diventa una delle beniamine del pubblico napoletano. Nel 1925 è la primadonna della compagnia di Odoardo Spadaro a Firenze, dove colpisce la fantasia del pittore futurista Primo Conti, che le chiede di posare per due grandi tele. Tornata a Napoli si innamora perdutamente e lascia le scene. Anche quando la sua storia sentimentale finisce non torna più sulla sua decisione. Negli anni Cinquanta accetta di registrare alcuni brani, ma senza grande entusiasmo. Sfuggente e schiva preferisce chiudersi nel suo alloggio, in un angolo di palazzo Brancaccio a Roma dimenticata da tutti. Per anni non si parla più di lei fino a quando il suo nome torna improvvisamente alla ribalta nel 1981 dopo la pubblicazione di un intrigante libro autobiografico intitolato "I miei anni Venti". Due anni dopo la casa discografica Belmusic ripubblica in singolo due vecchi brani da lei interpretati in gioventù, Borgo antico e Desiderio ‘e sole che ottengono un insperato successo di critica. Da quel momento l'ultraottantenne Bianca Star accetta di uscire, sia pur saltuariamente, dalla sua prigione dorata. Dopo la già citata partecipazione televisiva, nel 1984, un anno prima di morire, pubblica l’album Le canzoni d’amore di Bianca Star, con sei canzoni registrate negli anni Cinquanta e sei brani incisi per l’occasione.

16 novembre, 2022

16 novembre 1990 – Tre rockstar contro l’Irangate

Sono migliaia gli spettatori che affollano il 16 novembre 1990 lo Shrine Auditorium di Los Angeles. La loro composizione è variegata. Ci sono moltissimi giovani, ma non mancano persone più attempate. L’atmosfera tranquilla e di paziente attesa precede un concerto che vede riunite sullo stesso palco tre stelle della scena musicale statunitense di quel periodo: Bruce Springsteen, Jackson Browne e Bonnie Raitt. L’insolita ed eccezionale riunione a tre basterebbe da sola a fare del concerto un avvenimento da ricordare, ma c’è di più. Essa segna il culmine di una grande mobilitazione contro il pericolo d’insabbiamento dell’Irangate, la sporca storia di finanziamenti e di vendite d’armi e di droga tra Stati Uniti e Iran destinata a finanziare i Contras, gli oppositori armati del legittimo governo sandinista del Nicaragua. Negli ambienti governativi statunitensi c’è chi è intenzionato a “mettere una pietra sopra” alla faccenda e chi arriva addirittura a considerare i protagonisti “benemeriti patrioti al servizio della lotta anticomunista”. Contro questo tentativo si sono mossi Comitati, Associazioni, cittadini e parlamentari dando vita a una mobilitazione dell’opinione pubblica che segna una decisa inversione di tendenza dopo una decina d’anni di “torpore reaganiano”. Proprio per evitare colpi di mano da parte dell’establishment alcune Associazioni hanno deciso di intentare una causa legale direttamente nei confronti del governo. Nell’atto di citazione si chiede alla magistratura di dichiarare illegale l’operazione, condizione indispensabile per evitare l’insabbiamento “politico” e per poter aprire la strada all’incriminazione dei responsabili. La serata musicale del 16 novembre serve proprio a raccogliere soldi per sostenere la causa legale. Al termine del concerto, quando il pubblico chiede insistentemente il bis agli artisti, Jackson Browne torna sul palco e propone agli spettatori: «Servono altri soldi per la nostra battaglia. Se siete d’accordo, ci ritroviamo qui domani sera. Noi suoniamo ancora e voi lo fate sapere ai vostri amici.» L’idea è buona. L’utile delle due serate sarà di seicentomila dollari, una cifra sufficiente a iniziare la causa legale.


15 novembre, 2022

15 novembre 1982 - Julian Cope resta solo

Il 15 novembre 1982 Julian Cope scioglie, a quattro anni dalla loro formazione, i Teardrop Explodes. Si chiude così la storia del gruppo più significativo dei tre nati dalle ceneri dei Crucial Three. Formati a Liverpool dal geniale e poliedrico Julian Cope, cantante, bassista e autore di tutti i loro brani, con il tastierista David Balfe, il chitarrista Alan Gill e il batterista Gary Owyer, i Teardrop Explodes sono stati uno dei gruppi di frontiera del periodo punk regalando album di grande fascino come Kilimanjaro e Wilder. La forte personalità di Julian, però, non accetta di restare rinchiusa negli angusti limiti di una band e, nonostante il successo, ha bisogno di nuovi spazi. Negli anni successivi Cope diventerà più di un semplice cantante solista. La sua attività spazierà dai concerti e dai dischi alla poesia e, soprattutto, all'attività politica. Esponente di quell'importante area di musicisti di sinistra organizzatasi nella battaglia d'opposizione alle politiche liberiste della Thatcher, non baratterà mai la ricerca del successo con la rinuncia alla sua autonomia. Su questa strada perderà parte dei fans dei Teardrop Explodes, ma costruirà nuovi rapporti con un pubblico più disposto a seguirlo nelle sue evoluzioni. La sua produzione discografica sarà torrenziale e costellata, oltre che da album "ufficiali", da una polverizzata presenza su una lunga serie di produzioni indipendenti. A dispetto della sua indifferenza nei confronti del mercato centrerà ancora nel 1991 il grande successo internazionale con Peggy suicide, una sorta di inquietante viaggio attraverso i mali del mondo.


14 novembre, 2022

14 novembre 1963 – La leggenda del bracciante Stovepipe Daddy

Il 14 novembre 1963 muore a Chicago, nell’Illinois, Stovepipe Daddy, una delle grandi leggende del blues rurale. È vicino ai novant'anni, ma nessuno sa davvero quanti anni abbia. Di lui si conosce il vero nome, Johnny Watson, e la città di nascita, Mobile, in Alabama. Di più non è dato di sapere anche se sostiene di essere nato nel 1870. Bracciante agricolo, Stovepipe, che deve il suo nomignolo al caratteristico cappello a cilindro da cui non si separa mai, inizia a cantare accompagnandosi con la chitarra e l'armonica per le strade dell'Alabama. Negli anni Venti mette insieme anche una piccola band, i Rabbit Foot Minstrels, destinata, però, a chiudere i battenti per mancanza di fondi. Nel 1930, dopo aver sposato un'altra vagabonda cantante di blues, Mississippi Sarah, unisce il proprio destino artistico a quello della sua compagna. Il duo diventa molto popolare nelle campagne degli Stati del Sud con le sue canzoni che narrano storie dolorose e malinconiche di vita contadina e d'amore. Dopo la morte di Sarah Stovepipe Daddy se ne va a Chicago e l'orizzonte delle sue esibizioni si riduce al quartiere di Maxwell Street. I locali lo ospitano volentieri e i musicisti sono tra i più assidui frequentatori delle sue esibizioni. Adotta anche, saltuariamente, un nuovo nome d'arte: Reverend Alfred Pitts. Di lui probabilmente non sarebbe rimasto nulla se il musicologo Paul Oliver, uno dei maggiori studiosi statunitensi di blues, non si fosse messo sulle sua tracce. Dopo un lungo peregrinare lo rintraccia a Chicago, lo intervista e tenta di convincerlo a lasciare una traccia registrata delle sue canzoni. Stovepipe Daddy resta affascinato dall'incontro con Oliver, ma non è disposto a lasciare che qualcuno "catturi" la sua voce su un nastro magnetico. Il musicologo non demorde. Lo aiuta a sopravvivere e, pian piano, riesce a incrinare la sua diffidenza. Alla fine Stovepipe cede e si lascia condurre in una sala di registrazione dopo aver ottenuto la garanzia di potersene andare in qualunque momento. È una leggenda vivente quella che, sottobraccio a Paul Oliver, entra con un po' di timore negli studi dell'Heritage Records. I tecnici guardano tra il rispettoso e il divertito quel vecchio con il cappello a cilindro, la chitarra e l'armonica che fatica a tenere la distanza giusta dal microfono. Le tracce registrate finiranno per restare una delle più preziose testimonianze della leggenda di Stovepipe Daddy, l'ex bracciante che da solo valeva un'orchestra.


13 novembre, 2022

13 novembre 1981 – La foto di Mao sulla copertina dell'album

Il 13 novembre 1981 arriva nei negozi britannici l’album Tin drum dei Japan. È un disco che suscita curiosità fin dal titolo, preso in prestito da un romanzo di Gunther Grass, lo scrittore tedesco del Gruppo 47. Le maggiori discussioni riguardano, però, l’immagine di copertina, nella quale il leader della band, David Sylvian, è fotografato con un grande poster di Mao alle spalle. La foto è in bianco e nero, con la luce che, nonostante una lampadina al centro della scena, arriva di taglio da sinistra e dà ancor più risalto all’immagine del “grande timoniere”. Sylvian, famoso per i suoi make up e per l’ostentata ambiguità sessuale, è vestito in modo sobrio e con un paio d’occhiali da vista che ne rafforzano l’atteggiamento serioso. Il messaggio implicito è quello di un grande rispetto. Uno dei personaggi-simbolo della trasgressione non solo musicale si avvicina con un’insolita sobrietà all’immagine del Presidente Mao, che all’inizio degli anni Ottanta non ha più la carica simbolica che aveva dieci anni prima nell’immaginario collettivo delle giovani generazioni. La scelta dei Japan suscita sorpresa e, inevitabilmente, più di una polemica. Non mancano reazioni indignate, appelli alla sostituzione della copertina e inviti a boicottare la band. Sylvian non commenta, non risponde. Parlano per lui i brani dell’album, dallo splendido Ghost a Vision of China, a Cantonese boy elementi di un successo commerciale che non ha precedenti nella storia della band. Tin drum vola alto nelle classifiche di vendita, ma rappresenta l’apoteosi e, insieme, l’inizio della fine per i Japan. Al termine del tour che segue l’uscita del disco il gruppo annuncerà, infatti, il suo scioglimento. Le polemiche contribuiscono ad allargare le incomprensioni tra Sylvian e i suoi compagni. Il leader, accusato di imporre le sue scelte al resto del gruppo, non si difende. Prende semplicemente atto della situazione. I Japan pubblicheranno ancora un album, Oil on canvas, registrato dal vivo nel corso della loro ultima tournée, che arriverà nei negozi a separazione avvenuta. Finisce così la storia di quella che è stata considerata per lungo tempo una delle più interessanti bands della new wave britannica.


12 novembre, 2022

12 novembre 1966 – La battaglia di Sunset Strip

Nel 1966 il Sunset Boulevard di Los Angeles, su cui s’affacciano due locali dove si suona musica rock come il Whisky a Go-Go e il Pandora’s Box, è il ritrovo preferito dai giovani. La via, che attraversa il quartiere di Sunset Strip è ormai divenuta un grande laboratorio all’aperto di colori, idee, parole e musica. Come sempre accade in questi casi non tutti sono contenti. C’è chi mugugna, chi pensa che la situazione danneggi il mercato immobiliare e chi non apprezza perché non gli piacciono le novità. Annusata l’aria, i giornali conservatori, sostenuti dalla parte più perbenista della città, iniziano una massiccia campagna contro queste ragazze e questi ragazzi dai capelli lunghi che «bloccano i marciapiedi, strabordano in strada rallentando il traffico, si lasciano andare a effusioni che offendono il pudore e fumano marijuana in pubblico». Ripetono che lo scandalo deve finire e che le autorità non possono far finta di niente. Infatti non fanno finta di niente. La notte del 12 novembre 1966 la polizia entra nel quartiere e inizia la sua opera di bonifica a colpi di manganello e lacrimogeni. In breve Sunset Strip diventa un campo di battaglia. I giovani fronteggiano per ore le forze dell’ordine prima dell’inevitabile capitolazione e fuga. Gli incidenti, divenuti famosi come “La battaglia del Sunset Strip”, ispirano al chitarrista Stephen Stills la canzone For what it's worth che, incisa dalla band in cui milita in quel periodo, i Buffalo Springfield, diventerà un grande successo. Anni dopo Stills così descriverà l’accaduto: «Ero appena tornato dal Nicaragua e mi sono trovato di fronte a una scena allucinante. C’erano centinaia, forse migliaia di ragazzi su un lato della strada e altrettanti, se non di più, poliziotti, sull’altro. In America Latina quando si verificava una scena del genere era in corso un colpo di stato. Mi ricordo che ho pensato che forse stavo assistendo alla caduta del governo statunitense per mano dei militari. Quando è finito sono corso a casa e ho scritto la canzone di getto. L’ho fatta ascoltare agli altri del gruppo e loro, entusiasti, l’hanno voluta incidere subito. Ancora oggi, se ripenso a quella sera, mi vengono i brividi».


11 novembre, 2022

11 novembre 1991 – Un concerto per curare Mary Wells

Sono molti gli artisti che l’11 novembre 1991, si esibiscono sul palco del Celebrity Theatre di Los Angeles, in California per dare una mano alla cantante Mary Wells, ammalata di cancro. Ci sono personaggi di fresca fama, come Natalie Cole, e grandi voci ormai entrate nella leggenda, come Dionne Warwick. Il gruppo più nutrito è, però, costituito dai suoi compagni d'avventura d'un tempo, i protagonisti del periodo d’oro del Detroit Sound, guidati da Stevie Wonder e Isaac Hayes. Sono loro che per primi hanno voluto il concerto per raccogliere fondi destinati ad aiutare la cantante, che nella lunga lotta contro il cancro ha consumato tutte le sue risorse. In un sistema sanitario come quello statunitense i soldi sono l’unica possibilità per continuare a combattere contro la sua malattia. Per questo è stato organizzato il concerto. Da tempo Mary Wells ha lasciato le scene. Nata il 13 maggio 1943 a Detroit, inizia a cantare all’età di dieci anni e a diciotto firma il suo primo contratto con Berry Gordy jr. il fondatore della Motown. In brevissimo tempo diventa una delle prime star del Detroit Sound insieme ai Miracles, Marvin Gaye, i Temptations, le Supremes, le Marvelettes e il piccolo Stevie Wonder. Già nel 1961 centra il suo primo successo con Bye bye baby. La lista si allunga a dismisura con una serie di dischi fortunati fino a Two lovers, il suo primo disco d'oro. Verso la metà degli anni Sessanta Mary lascia la Motown per passare all'Atlantic ma la scelta non si rivela una delle più felici. Il cambiamento d’ambiente e una serie di produzioni sbagliate finiscono per comprometterne la carriera. Un nuovo cambiamento di casa discografica non serve a farle recuperare la popolarità dei suoi momenti migliori. Decide allora di ritirarsi a vita privata senza però uscire completamente dall'ambiente. Sposa il compositore Cecil Womack e continua a frequentare i suoi vecchi compagni d’avventura. Quando s’accorge di essere ammalata tira fuori la sua grinta migliore e s’impegna in una lunga battaglia destinata a consumarla sia fisicamente che economicamente. I soldi raccolti nel concerto del Celebrity Theatre di Los Angeles le daranno la possibilità di tirare avanti, ma la sua battaglia contro la malattia è destinata alla sconfitta. Morirà pochi mesi dopo, il 26 luglio 1992.


10 novembre, 2022

10 novembre 1987 – Terence Trent D'Arby: non canto per un paese senza memoria

Il 10 novembre 1987, Terence Trent D’Arby, uno degli idoli degli adolescenti della fine degli anni Ottanta deve esibirsi a Vienna, in Austria. I biglietti per il suo concerto, che fa parte di un lungo tour europeo, sono esauriti da tempo. Da giorni, però, circolano voci su una sua possibile rinuncia all’esibizione nella capitale austriaca, anche se gli organizzatori smentiscono. In effetti sarebbero difficili da capire le ragioni di un improvviso forfait del cantante. È giovane, sulla cresta dell’onda, deve promuovere il suo nuovo disco e, soprattutto, ha un impegno contrattuale rigido ed estremamente oneroso: perché mai dovrebbe mettersi nei guai per un capriccio? Man mano che la data dell’esibizione si avvicina, però, le voci si fanno più insistenti e diventano una certezza il 10 novembre quando gli organizzatori annunciano in tutta fretta che il concerto è rinviato. Non ci sono altre notizie o, meglio, ce ne sono troppe. Si parla di un’improvvisa indisposizione, di eccessivo affaticamento, e si ipotizzano nuove date per l’esibizione. L’incertezza dura poco. Già nella tarda mattinata il cantante fa sapere che sta benissimo e che il concerto in programma a Vienna non è rinviato, ma annullato. A chi gli chiede il motivo della clamorosa decisione Terence Trent D’Arby spiega di aver voluto protestare contro la rielezione a Presidente della Repubblica austriaca di Kurt Waldheim, un uomo che nel passato si è compromesso con il nazismo. «Mi è stato fatto presente che in democrazia ognuno sceglie chi gli pare e che io non devo condizionare le scelte politiche di chi mi viene ad ascoltare. Sono d’accordo. Anch’io, però, ho il diritto di avere opinioni e di scegliere quello che mi piace e quello che non mi piace. Gli austriaci hanno voluto confermare a presidente della repubblica un collaborazionista dei nazisti, l’hanno fatto liberamente e io rispetto la loro scelta. Sono però altrettanto libero di non cantare per un popolo senza memoria. Non vado a Vienna. Il concerto è annullato». E a chi gli fa presente il rischio di dover pagare una salatissima penale risponde: «Non è detto. Vedremo… comunque c’è chi ha dato ben più di qualche soldo per combattere contro il nazismo… ».


09 novembre, 2022

9 novembre 1985 – Il tradimento di Jan Hammer

Visto il successo della serie televisiva, in pochi si meravigliano quando, il 9 novembre 1985, il brano Miami Vice theme del tastierista Jan Hammer balza in vetta alla classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti. Più difficile da digerire per chi lo conosce da tempo è il deciso scivolamento commerciale di un musicista divenuto negli anni Settanta uno dei monumenti del rock progressivo più aperto alle contaminazioni jazz. Nato a Praga, tastierista con un passato da buon batterista e solidi studi musicali, lavora a lungo negli ambienti jazzistici conquistandosi la stima e l'amicizia di molti protagonisti della scena musicale di quel periodo. Tra le sue esperienze più importanti ci sono incisioni e concerti al fianco di Sarah Vaughan, Elvin Jones e Jeremy Steig. All'inizio degli anni Settanta è uno dei riferimenti più importanti dell'evoluzione jazzistica del progressive. Fa parte della prima storica formazione della Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin con la quale resta fino al 1974. Chiusa l'esperienza forma il Jan Hammer Group, una band decisamente instabile, costruita per essere, più che altro, il supporto della sua attività solistica e soggetta a frequenti variazioni di componenti in funzione delle diverse necessità. L'esperienza produce una lunga serie di album interessanti tra cui uno splendido live insieme a Jeff Beck. Alla fine degli anni Settanta un lungo periodo di silenzio discografico precede un nuovo contratto con la CBS, due album con Neal Shon dei Journey e, infine, la scelta di dedicarsi quasi esclusivamente alla realizzazione di colonne sonore per il cinema e la televisione. La sua prima esperienza è, nel 1983, la composizione della musica per il modesto "Nudi in paradiso" di John Avildsen. Miami Vice theme resterà il suo più grande successo in questo campo. Trascinato dal singolo anche l'album con le musiche dei telefilm della serie volerà alto mantenendosi al primo posto della classifica statunitense per ben undici settimane e battendo così il record di permanenza in classifica per colonne sonore, stabilito da Henry Mancini con The Music from Peter Gunnel nel 1959. Si ripeterà nel 1987 con Escape from TV e nel 1989 con Snapshots, inframmezzati dalla pubblicazione dei brani migliori della sua produzione precedente nell'album The early years. Negli anni Novanta, con una nuova inversione di rotta, Jan Hammer finirà per percorrere le strade della new age music.


08 novembre, 2022

8 novembre 1971 – Sly alza la voce

L'8 novembre 1971 al vertice della classifica degli album più venduti negli Stati Uniti arriva There’s a riot goin’ un crudo e violento atto d’accusa sulla situazione degli afroamericani negli Stati Uniti realizzato da Sly & The Family Stone. La band multirazziale di Sylvester Stewart (questo è il vero nome di Sly) a sorpresa butta alle ortiche la sua immagine felice, danzereccia ed energetica per imboccare la strada dell'impegno. Si tratta di una violenta e imprevista svolta a sinistra che cancella d'un colpo le "buone vibrazioni" e quello spirito di festa continua che ha caratterizzato, fino a quel momento, la produzione discografica del gruppo. Con l'appoggio convinto dei suoi compagni Sly decide di fare musica solo per la sua gente. La spensierata leggerezza dei testi che l'hanno portato al successo lascia posto a storie che raccontano la discriminazione e la povertà dei neri d'America e parlano del crimine e della droga come di una via di fuga per cambiare la propria vita. Denunciano gli arruolamenti forzati per andare a combattere nel Vietnam ma, soprattutto, parlano della crescita di una borghesia nera che, invece di affrontare la questione dei diritti civili e della pari dignità per tutti, contribuisce a mantenere inalterati i vecchi privilegi. È evidente in questa scelta il peso delle idee del Black Panthers Party, la cui influenza tra gli artisti neri è stata esponenziale. Da tempo Sly è sospettato di finanziare i gruppi dell'area più radicale. Alcuni giornali conservatori lo descrivono come un tossicodipendente "ricattato" dalle Pantere Nere che godrebbero di una sorta di "pizzo" sugli spettacoli e sulle vendite dei dischi. In realtà, a differenza di altri non nasconde le sue simpatie politiche. Viene dal ghetto e quando il ghetto lo chiama risponde. La sua scelta, lungi dall'essere superficiale, è consapevole e dettata dalla voglia di non mescolarsi con quella borghesia nera che è diventata il bersaglio delle sue canzoni. Artisticamente è l'anello di congiunzione fra il soul degli anni Sessanta, che con lui cessa di essere in stato di soggezione di fronte al rock bianco, e il funk dei gruppi che troveranno la loro consacrazione negli anni Settanta. Alla sua genialità artistica saranno debitori artisti come i Funkadelic, i Parliament e Prince. La svolta a sinistra, però, non sarà indolore. Gli eccessi e la sua esuberanza, fino a quel momento considerati elementi di colore del personaggio, gli si ritorceranno contro. Infine, puntuale, arriverà anche l'arresto per droga e il carcere.



07 novembre, 2022

7 novembre 1967 – Fairport Convention, i menestrelli elettrici del folk-revival

Il 7 novembre 1967 un gruppo sconosciuto pubblica il suo primo singolo che, pur non suscitando grandi entusiasmi tra il pubblico, è destinato ad attirare l’attenzione del critica. Il disco in questione è If I had a ribbon bow dei Fairport Convention, una band che sembra voler riproporre gli antichi suoni della tradizione britannica pur utilizzando una modernissima strumentazione elettrica. I ragazzi non sono ancora al meglio, la ricerca musicale appare ancora grezza e un po’ forzata, ma nelle sonorità proposte dalla sua prima fatica discografica sono già presenti gli elementi che di lì a qualche anno faranno di loro i più autorevoli protagonisti del momento magico del folk-revival britannico. La formazione, instabile e più tesa a trovare una propria identità stilistica che a curare la produzione, è composta dai cantanti Judy Dyble e Ian Matthews, dai chitarristi Richard Thompson e Simon Nicol, dal bassista Ashley Hutchings e dal batterista Martin Lamble. L’anno dopo la Dyble se ne va e viene sostituita da Sandy Denny, una cantante dalla voce cristallina, ancora oggi considerata una delle più grandi interpreti britanniche di quel periodo. La ricerca del gruppo si orienta decisamente verso il passato. Il più convinto assertore della necessità di attingere direttamente e senza mediazioni al patrimonio popolare è il bassista Hutchings, ma decisivo per la definizione più compiuta della linea stilistica è l’arrivo del violinista e mandolinista Dave Swarbrick. Soprannominato Swarb quest’ultimo è un musicista solido che sa cosa vuole e si è fatto le ossa suonando con lo Ian Campbell Group e con altre formazioni attive nel campo della ricerca sul folclore tradizionale. Il suo apporto si rivela fondamentale nella realizzazione di Liege and lief, l’album pubblicato nel 1969 che viene universalmente considerato come l’atto di nascita del folk-revival britannico. La voce di Sandy Denny e il violino di Swarb la fanno da padroni. Quest’ultimo, soprattutto, guida con il suo violino un fiammeggiante medley di danze irlandesi e, insieme a Thompson lega in modo incantevoli i tappeti sonori destinati a sostenere la straordinaria vocalità della Denny. Il grande successo commerciale arriva inaspettato e rischia di compromettere la stabilità della band. I concerti, i dischi, le pubbliche relazioni e tutti gli obblighi che derivano dalla popolarità vanno stretti a un gruppo come i Fairport Convention, composto da musicisti di forte individualità e con la passione della ricerca. Non si sottopongono volentieri alle interviste e spesso non sanno cosa dire. In più l’industria discografica, intenzionata a investire sul folk revival, tende a smembrare la band per moltiplicare i possibili guadagni. Quasi tutti i componenti, a partire da Sandy Denny, formano dei gruppi paralleli, ma senza abbandonare per sempre la famiglia dei Fairport Convention. Proprio l’intelligenza dei suoi componenti, infatti, salva l’esistenza del gruppo che, lungi dal diventare una gabbia chiusa in se stessa, si dà una struttura aperta lasciando libero ciascun musicista di andarsene e tornare quando vuole. «La nostra è la fedeltà a un’idea, a un ponte lanciato da un gruppo di musicisti di oggi a chi nel passato anche molto lontano ha suonato e cantato musiche meravigliose» dice Swarb con il piglio di chi sa di aver dato vita a un nuovo genere. Sulla strada tracciata dai Fairport Convention si muoveranno bands come i Pentangle, gli Steeleye Span, la Albion Band, gli Amazing Blondel, i Lindisfarne, gli Strawbs, i Renaissance e tanti altri. Le canzoni si popolano di personaggi leggendari e figure mitologiche, mentre il linguaggio non rifiuta espressioni arcaiche prese direttamente dalla tradizione. I giovani, stanchi della ripetitività del beat e dei suoi interpreti dalle foto patinate, scoprono la musica dei loro avi. Il folk-revival non durerà a lungo, ma dalla sua breve stagione nasceranno i primi germogli del rock progressivo.



06 novembre, 2022

6 novembre 1968 - Joe, il leone di Sheffied

Il 6 novembre 1968 Joe Cocker arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna con With a little help from my friends una versione "sporca" in chiave blues di un famoso brano dei Beatles. Il ventiquattrenne "leone di Sheffield" smentisce così in un colpo solo la Decca, la sua prima casa discografica che non aveva creduto in lui, e i suoi molti detrattori, convinti che il ragazzo fosse più bravo a scolar bottiglie che a cantare. Due elementi ne aiutano l'exploit. Il primo è l'aria differente che si respira sulla scena rock britannica ormai decisamente orientata verso un blues "pesante" e "psichedelico", dopo la sbornia delle allegre ballate rockeggianti. L'altro si chiama Chris Stainton, un eclettico musicista e arrangiatore che è riuscito a ricostruire il morale del buon Joe, la cui natura operaia era stata ferita a morte quando la Decca l'aveva licenziato. Che la strada fosse quella giusta lo si era capito qualche mese prima quando il singolo Marjorine, il primo per la Cube, la sua nuova casa discografica aveva fatto una breve e timida apparizione nelle ultime posizioni delle classifiche di vendita. Con With a little help from my friends inizia la lunga avventura di Cocker sulla scena rock internazionale. La sua vocalità è dichiaratamente antagonista dei generi alla moda. Lui stesso dichiarerà successivamente di essere stato «attratto dal blues perché mi sembrava fosse una musica onesta, incontaminata, la cui purezza contrastava enormemente con il pop inglese allora in voga». In questa ricerca si ispira al genio musicale di Ray Charles, cui ruba la capacità di legare il modo di cantare dei bluesmen a melodie conosciute, trasfigurandole. Come accade proprio nella sua versione di With a little help from my friends cui danno nerbo i ruggiti ispirati alle urla roche degli shouters del Delta del Mississippi. La sua strada è appena all'inizio. L'anno dopo la partecipazione al Festival di Woodstock lo farà entrare per sempre nella leggenda.


05 novembre, 2022

5 novembre 1988 – Una serata tra amici del blues per Johnny Winter

«È una serata tra amici del blues, per cui cercherò di non sprecare le parole!», così il 5 novembre 1988 il quarantaquattrenne chitarrista albino Johnny Winter saluta il pubblico dal palco della Riverwalk Blues Fest di Fort Lauderdale, in Florida. Il concerto conclude il tour promozionale dell’album Winter of ‘88, che segna il ritorno dell’artista dalla chioma bianca dopo dieci anni passati a sbarcare il lunario in piccoli club per qualche decina di amanti del blues. Nato a Leland, nel Mississippi, ma cresciuto nel Texas, inizia a suonare il clarinetto e l'ukulele, due strumenti che lascerà perché, confessa nelle note di copertina di uno dei suoi primi album, «nessuna bluesband voleva in formazione un bianco che suonava l’ukulele». Nei primi anni Sessanta va a Chicago dove suona con musicisti come B.B. King, Muddy Waters, Barry Goldberg e Mike Bloomfield. La sua grande occasione arriva nel 1968 quando un articolo sulla neonata rivista Rolling Stone lo fa conoscere a livello nazionale. Nel 1969 registra a Nashville il suo primo album ufficiale Johnny Winter al quale collaborano, oltre al fratello Edgar, vari bluesmen come Willie Dixon e Charley Horton. Da quel momento il suo nome diventa popolarissimo anche fuori dall’ambiente del blues e il suo successo sembra destinato a durare per sempre, scandito da dischi che scalano le classifiche di vendita. Dopo la pubblicazione dello splendido album Johnny Winter and live, registrato al Fillmore East di New York e in alcuni concerti in Florida, la fortuna gli presenta il conto. All’inizio degli anni Settanta gli eccessi e la droga lo costringono a ritirarsi dalle scene per quasi due anni. Quando riprende pubblica ancora vari dischi, ma il periodo migliore sembra passato e all’inizio degli anni Ottanta si ritrova a suonare il suo blues in piccoli locali, per un pubblico di appassionati. Rifiutato dalle major firma un contratto con l'etichetta indipendente Alligator e torna al suono delle origini. Carriera finita? Neanche per sogno. C’è la Warner che, sull’onda del rinnovato interesse per il blues lo rilancia in grande stile con l’album Winter of '88. Per questo il 5 novembre 1988 i fans lo salutano come ai vecchi tempi. Non smetterà più fino al 16 luglio 2014 quando viene trovato privo di vita nella sua stanza d'albergo vicino a Zurigo. Due giorni prima ha partecipato al Cahors Blues Festival in Francia. Le cause della morte non sono mai state rivelate.


04 novembre, 2022

4 novembre 1931 - Buddy Bolden, una leggenda seppellita in manicomio


Il 4 novembre 1931 tra il disinteresse generale e il silenzio dei media muore nel manicomio di Jackson, in Louisiana, il trombettista Buddy Bolden. Ha cinquantaquattro anni e da ventiquattro è, di fatto, seppellito vivo in un centro per malati mentali che assomiglia più a una prigione che a un ospedale. Muore così, solo come un cane, un personaggio di primissimo piano nella storia della musica di quel periodo che fra il 1900 e il 1906 ha goduto a New Orleans di grande popolarità. La stessa che negli anni successivi avranno musicisti come Louis Armstrong e pochi altri. Il suo fascino di uomo e di musicista nei primi anni del Novecento supera i confini ristretti del circuito del Garden District di New Orleans e la sua tromba inizia a sgretolare le regole del “ragtime” per creare i nuovi suoni da cui nascerà il jazz moderno. Ha, però, un problema: è nero e alcolizzato. Ecco perché la sua popolarità non impedisce alle autorità costituite di rinchiuderlo dopo un violento accesso d’ira provocato dall’etilismo acuto di cui soffre. È il mese d’aprile del 1907. Passano quasi due mesi prima che qualcuno stili un documento di ricovero del musicista in cui viene definito «pericoloso per gli altri». Nello stesso documento si rileva che «non ha tendenze suicide… non ha distrutto cose o altri oggetti… è quieto.., non ha familiari malati di mente… non ha avuto altri sintomi come epilessia o malattie ereditarie...». Nonostante tutto non uscirà più dal manicomio. Per ventiquattro lunghi anni vive (si fa per dire) separato dalla realtà e dalla musica delle grandi orchestre che, anche grazie al suo lavoro, stanno trovando nuove forme espressive. La reclusione forzata finisce il 4 novembre 1931 quando muore. Le cronache dell’epoca non parlano né della sua morte, né dei suoi funerali. Di quel periodo resta solo la memoria dei musicisti e gran parte delle notizie su di lui sono dovute al paziente lavoro di raccolta delle testimonianze da parte di Alan Lomax negli anni Quaranta e Cinquanta. Con la stessa velocità con cui è stato seppellito, però, nascerà la leggenda. Il 22 aprile 1933, un anno e mezzo dopo la morte di Buddy Bolden, il giornalista E. Belfield Spriggins scriverà di lui sul Louisiana Weekly. In un lungo servizio intitolato “Excavating Local Jazz” rileva l’importanza del suo apporto nel superamento del ragtime e lo ribattezza per la prima volta “King” Bolden, Re Bolden, un titolo postumo da parte di una società che l'ha rinchiuso per metà della sua vita in manicomio.


03 novembre, 2022

3 novembre 1979 – The Jam: punk a chi?

Il 3 novembre 1979 entra nella classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna il singolo The Eton rifles dei Jam, un brano che segna anche dal punto di vista musicale la rottura definitiva del gruppo con il movimento punk. I suoni sono più morbidi del passato e la struttura del brano lascia intuire che la band sta attraversando un momento d’evoluzione. Il suo leader Paul Weller da tempo va ripetendo ai suoi interlocutori di non aver niente a che spartire con il punk e il suo nichilismo disperato: «Anche a me non piace questa società, ma credo che il mio impegno sia di cambiarla, non di lasciarmi distruggere…» Simpatizzante della sinistra laburista e attivamente impegnato sul piano sociale ha formato il gruppo nel 1972, quando era ancora quattordicenne, con il suo amico chitarrista Steve Brooks, il batterista Rick Buckler e il bassista Dave Wakler. Dopo qualche anno di apprendistato nei piccoli clubs del circuito del folk rock britannico, Wakler se ne va e viene sostituito da Bruce Foxton. Verso la metà degli anni Settanta Weller modifica profondamente l’impostazione della band che passa a un rock asciutto ed essenziale, sulla falsariga dei gruppi Mod degli anni Sessanta. Steve Brooks non è d’accordo e lascia i Jam. Il gruppo, divenuto un trio, in piena esplosione del punk si impone all’attenzione di critica e pubblico per i suoi a canoni stilistici, molto simili a quelli dei gruppi punk più evoluti. «Non siamo punk. Se proprio dovete fare riferimento a qualche genere, potete scrivere che ci ispiriamo agli Who e ai Kinks degli anni Sessanta…». L’equivoco, nonostante le dichiarazioni e le prese di distanza di Weller, è destinato a durare a lungo, anche per la furba campagna promozionale delle loro casa discografica, la Polydor, alla ricerca di un gruppo da contrapporre ai Sex Pistols ed ai Clash. Punk o no, i Jam conquistano il pubblico e la critica più attenta con brani come In the city, brano copiato poi dai Sex Pistols in Holidays in the sun. Il loro successo è destinato a durare oltre e nonostante la fine del punk. The Eton rifles è un passo importante di un’evoluzione che li porterà, nel 1980, a fare incetta di premi della critica: miglior gruppo dell'anno, miglior album (Setting songs), miglior autore (Weller), miglior chitarrista (Weller), miglior batterista (Buckler) e miglior bassista (Foxton).


02 novembre, 2022

2 novembre 1975 - Dylan e Ginsberg ricordano Kerouac

Il 2 novembre 1975 Bob Dylan è a Lowell, una cittadina del Massachusetts nella quale deve esibirsi con la Rolling Thunder Revue, il grande circo messo in piedi richiamando accanto a lui una lunga serie di vecchi amici come l’ex Byrds Roger McGuinn, Joan Baez, Mick Ronson, Scarlet Rivera, Joni Mitchell e altri. Il folksinger sta attraversando un periodo di intensa creatività e voglia di fare. In più sembra aver ritrovato il coraggio dei primi tempi della sua vicenda umana e artistica. Pochi mesi prima ha anche riscoperto l'impegno sociale pubblicando Hurricane, un'accorata e militante difesa del pugile Hurricane Carter accusato di omicidio. Insomma, il "nuovo" Dylan ha i tratti del vecchio combattente che aveva affascinato e trascinato i giovani degli anni Sessanta. Questo nuovo spirito è apparso evidente fin dal concerto d'avvio della Rolling Thunder Revue, avvenuto qualche giorno al Memorial Auditorium di Plymouth, sempre nel Massachusetts. La tappa di Lowell del suo tour gli da' la possibilità di compiere un gesto di grande valore simbolico nella riscoperta delle sue antiche ragioni. In un cimitero nei pressi della città, infatti, riposano i resti di Jack Kerouac, uno dei profeti della beat generation. Il buon Bob ha dato appuntamento a un altro vecchio amico che risponde al nome di Allen Ginsberg. I due si avviano insieme verso il luogo dove è sepolto Kerouac. Dylan ha con sé una chitarra chiusa nella custodia e Ginsberg un pacco di fogli di carta. Arrivati nei pressi della tomba si fermano un attimo in silenzio, poi il folksinger estrae la chitarra dalla custodia e inizia ad accordarla, mentre il suo compagno rilegge quanto scritto sui fogli. Quindi, come in una sorta di rispettoso show Bob suona alcuni brani con la chitarra e mentre Ginsberg improvvisa alcune poesie. Non sono soli. Con loro c'è anche un operatore che riprende tutto. L’omaggio dei due artisti al padre della "beat generation" verrà poi inserito nel film “Renaldo e Clara”.


01 novembre, 2022

1 novembre 1970 - Peck Curtis, cuore e percussione

Il 1° novembre 1970 muore d'infarto a Helena, nell’Arkansas, il cinquantottenne James “Peck” Curtis. Originario di Benoit nel Mississippi, fin da giovane è attratto dalla carica ritmica del blues. I suoi primi concerti, se così li si può chiamare, avvengono agli angoli delle strade dove il ragazzo urla a squarciagola i motivi imparati dai bluesmen viaggianti accompagnandosi con il battito delle mani o con un pezzo di legno. Quando le vicissitudini della vita lo portano a Helena, in Arkansas, cerca di inserirsi nelle varie bluesband del posto. Non sa suonare alcuno strumento, ma sa battere il ritmo che è un piacere. Scopre quindi il "washboard" (asse per lavare i panni), una tavola ricoperta da una lamiera ondulata da percuotere o strisciare in funzione del suono che si vuole ottenere. Trova così lo strumento per lui. Cantando e battendo fa carriera. Dai locali passa agli spettacoli viaggianti e per qualche tempo entra anche a far parte dei Rabbit Foot Minstrels, uno dei più conosciuti gruppi di vagabondi del blues. Nel frattempo ha trovato un altro strumento da suonare: il "jug", una sorta di bottiglione che, quando si soffia, fa un suono simile (si fa per dire) al contrabbasso. Padrone di due strumenti riesce a trovare un posto da titolare nella South Memphis Jug Band. È il 1933, anno in cui, invitato a definire il blues, avrebbe risposto così: «Il blues? È la somma di cuore e percussione!» Fedele a quella definizione si applica nello studio di uno strumento più avanzato di quelli che ha suonato fino a quel momento e diventa batterista. Non rinuncia a cantare, ma dietro a grancassa, piatti, tamburi e rullanti si fa notare. Alla fine degli anni Trenta suona con Howlin' Wolf e Robert Johnson e negli anni successivi accompagna le avventure di una lunga serie di giganti del blues, come Sonny Boy Williamson e Little Walter. Nel 1969, pochi mesi prima di morire, si era ritirato dalle scene perché il suo cuore gli aveva dato il primo brutto segnale.