L’11 febbraio 1966 "Big", uno dei diffusissimi giornali di culto dei ragazzi degli anni Sessanta, spara sul Festival di Sanremo. «…Tutta la verità sul sabotaggio ai nostri…» recita il titolo in copertina. All'interno con un ampio servizio fotografico viene addirittura documentato quello che la rivista considera un vero e proprio sabotaggio operato scientemente nei confronti dei “complessi”, come vengono chiamate le rockband in quel periodo. Le critiche sono fondate. I gruppi “beat” (così si chiama in quegli anni il pop rock) per la prima volta ospitati in gara sul palco di Sanremo sono stati obbligati a suonare a bassissimo volume e con le casse amplificate alle spalle. Il suono così rientra nei microfoni, si sporca e non consente ai componenti delle band di ascoltarsi. Le esibizioni dei gruppi più amati dai giovani appaiono modeste e, in qualche caso, risultano addirittura fastidiose all’ascolto per chi segue il Festival di Sanremo alla radio o alla TV. In quella che “Big” chiama “trappola” cadono, soprattutto, l'Equipe 84, gli Yardbirds e i Renegades. Più che un complotto è un pasticcio nato da una combinazione tra l’ignoranza “tecnica” sulle esigenze del rock degli addetti agli impianti del Festival e da un po’ di dabbenaggine dei gruppi stessi che non si rendono conto della precarietà degli equilibri sonori e tecnici delle riprese televisive. Non a caso un gruppo più “scafato” come i Ribelli, vista la situazione, rinuncia alla batteria in scena, oltre che al sax di Natale Massara, affida all’orchestra quelle parti, lavora sulle “voci” e arriva in finale. Sottovalutato dai mezzi di comunicazione il “sabotaggio” dei “nostri” diventa per le riviste “giovanili” il primo grande momento di contrapposizione generazionale, una sorta di anticipazione della voglia di protagonismo delle nuove generazioni del dopoguerra e dell’esplosione delle lotte per cambiare la società italiana. Sulle pagine di “Big” si leggono considerazioni che vanno al di là della musica: «…È ora di finirla di considerare i giovani come una massa di ebeti, inesperti d'ogni problema della vita, o di volerli "finti-tonti" ad ogni costo...». Non diverso è l’atteggiamento di quello che può essere considerato il suo principale concorrente, cioè il settimanale “Ciao Amici”. Sulle pagine di questa rivista un lungo editoriale del direttore Luciano Giacotto parte da una serie di considerazioni di carattere musicale («…Doveva essere un festival beat, allegro e giovane, invece è stata una rassegna di motivi vecchi, superati e fuori del nostro tempo…») per poi alzare la polemica sull’aspetto generazionale dicendo «…Però, se riflettete un attimo, vi accorgerete che i motivi e i personaggi esclusi sono tutti giovani. È un'ulteriore conferma della mancanza di rispetto per i gusti e le esigenze dei giovani in tutte le manifestazioni che abbiano un'impronta di ufficialità….». Interessante appare anche la chiosa dell’editoriale: «…È stato un festival inutile? Forse no. Se è servito ancora una volta a mettere in evidenza la scarsa considerazione in cui sono tenuti i giovani in Italia…». Sono le prime scintille di una fiammata destinata a scuotere e a cambiare l’intera società italiana. Eppure gran parte degli osservatori, all’epoca, pensa che si stia parlando solo di musica leggera o poco più…
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento