Il 27 Agosto 1950 lo scrittore Cesare Pavese, uno degli autori più amati del dopoguerra, muore suicida ingoiando una forte dose di barbiturici in una camera al secondo piano dell'Hotel Roma a Torino, a due passi dalla stazione di Porta Nuova. Non lascia scritti, a parte un'annotazione, sulla prima pagina di una copia dei “Dialoghi con Leucò”, sul comodino al fianco del letto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.» La morte di Pavese arriva proprio all’apice del successo, nell’anno in cui ha ottenuto il Premio Strega uno dei più ambiti riconoscimenti letterari italiani, per il romanzo “La bella estate”. I giornali popolari guardano con stupore alla scomparsa, per molti versi inspiegabile di questo fragile e introverso autore, tra i più amati del dopoguerra, che diviene rapidamente un simbolo dell’eterna contraddizione tra impegno politico e disagio esistenziale. Al mondo della cultura, invece, il suicidio di Pavese, pur improvviso e doloroso, non appare così inaspettato. L’autore da tempo aveva manifestato il tormento esistenziale di chi sente sempre più come l’esistenza come una fatica. Un anno dopo la sua scomparsa l’editore Einaudi pubblicherà la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
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