«Ognuno di noi è la somma di tutti i momenti della propria vita. Quel risultato è, nel bene e nel male, unico». Scandisce bene le parole il Liga, per non essere frainteso perché vuol far capire che nel nuovo album c’è lui e la sua vita. Si intitola Nome e Cognome, ed esce il 16 settembre 2005 con qualche brano anticipato dal vivo in un concertone tenuto il 10 settembre a Reggio Emilia e un singolo, Il giorno dei giorni, già in rotazione sulle radio da una settimana. A distanza di tre anni e mezzo da Fuori come va il rocker emiliano ci riprova. Non è la prima volta che Ligabue si racconta nelle canzoni, anzi si può dire che gli spunti biografici siano un po’ la specialità delle sue storie in musica. Questa volta però le emozioni, le riflessioni e qualche considerazione sembrano prevalere sul gusto dell’affabulazione e del racconto. In qualche momento rischiano addirittura di essere eccessive tanto da far apparire il Liga nel ruolo inusuale di predicatore dispensatore di consigli. Forse questo è un po’ il limite di un disco nato dall’esigenza del cantautore di fare un punto sulla propria vita. Più che un’autobiografia sembra un’istantanea scattata con una macchina fotografica non digitale. Un autoritratto? Lui non si schernisce per il paragone perché in fondo «ogni artista, quando si esprime, disegna il proprio autoritratto. È un autoritratto “interno”, l’autoscatto alla propria anima. Mi è capitato di farlo anche in passato, quando ripenso ai miei dischi precedenti, ai temi che contengono mi sembra proprio di vedere delineati i miei tratti, la mia vita di allora…». Questa volta, però, la scelta autobiografica sembra rispondere a un disegno voluto che si intuisce anche dal punto di vista musicale nei passaggi morbidamente liquidi che sembrano sottolineare i momenti più intimamente emotivi dell’album. Sono sfumature che non passano inosservate quando la struttura musicale è quella classica del rock con chitarra, basso, batteria e giusto qualche sprazzo di tastiere. Siamo sul terreno del rock mainstream, quello in cui Ligabue da sempre si trova a suo agio, ma il tocco appare più delicato del solito e, in qualche caso, addirittura struggente, come in Lettera a G. in cui il Liga riflette sulla vita e sulla morte: «G. era un cugino, ma era come se fosse un fratello per me. È lo stesso di cui ho parlato in “Una delle storie d’amore di Via Cairoli”, un racconto di “Fuori e dentro il Borgo”. Siamo stati bambini insieme, adolescenti insieme, adulti insieme. Abbiamo avuto gli stessi sogni, gli stessi desideri e, a volte, le stesse ragazze. In questi anni ho visto andarsene prima mio padre, poi qualcuno che ha condiviso il palco con me e ora G. La sua morte mi ha spinto a una profonda riflessione sulle strade che prende la vita…». Nell’album c’è anche una chissà quanto involontaria risposta/citazione al Jannacci di Ci vuole orecchio, in Vivere a orecchio, una tirata un po’ funk che inneggia alla sua voglia di percorrere le strade della vita senza lasciarsi condizionare da altri con la capacità di «metterci tutto/e forse stonare di brutto…». Il buon Luciano sostiene che si tratta di «…una canzone dove racconto la mia maggior ambizione, il traguardo verso il quale cerco di pedalare da una vita: vivere a orecchio, senza spartiti o ricette prescritte da altri…». Il Ligabue-pensiero con la solita voglia di essere un po’ profeta e un po’ chiassoso amicone trova spazio anche in brani come il già citato singolo Il giorno dei giorni, dove torna l’ossessione di vivere intensamente senza sprecare un attimo del proprio tempo e la consapevolezza che si può vivere così solo «…se sei di fianco alla persona giusta…». Simile nel titolo, ma non nel clima musicale è Giorno per giorno, mentre Happy Hour gioca con i paradossi del «si dice che…», una frasettina che può cambiare una vita. Molto più interiori appaiono Cosa vuoi che sia e anche l’innodica Le donne lo sanno. In un disco così intimista non poteva mancare l’amore. Il Liga lo attraversa spaziando dall’ossessione febbrile di un uomo la cui donna passa la notte con un altro in È più forte di me, alla pace del sentimento appagato di Sono qui per l’amore, passando per l’incontro tra due anime che si ritrovano dopo una burrascosa separazione in L’amore conta. L’album è stato registrato a Correggio con l’inusuale presenza di ben due co-produttori. Allo storico collaboratore Fabrizio Barbacci si è aggiunto, infatti, anche Luca Pernici. Tre capocce per un disco solo non sono un po’ troppe? «Beh – confessa Ligabue - vista dopo questa idea dei due co-produttori è stata forse azzardata ma alla fine si è rivelata vincente. Devo confessare che tre teste per pensare a un solo album in certi momenti sono sembrate anche a me troppe, ma sentivo il bisogno di aprire gli orizzonti, di provare qualcosa di nuovo, di aggiungere quella testa in più che potesse mettere in discussione il nostro metodo abituale». Infine il titolo Nome e Cognome vuole essere un manifesto, un segno per difendere l’unicità di ogni persona: «Si affannano a metterci tutti dentro grandi contenitori appiattenti: generazione, pubblico, audience, gente… E poi a fianco di parole così generiche si mettono un paio di aggettivi pretendendo di descriverci tutti: la generazione annoiata, sognatrice, rassegnata e via così. Io credo che chiamare gli uomini e le donne per Nome e Cognome sia un gesto di rispetto verso la diversità e la storia personale di ciascuno…».
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