Il 6 novembre 1975 nella sala concerti del St. Martin’s College of Art di Hornsey, una località a nord di Londra, è in programma un concerto di una giovane e sconosciuta band il cui nome ha già fatto sobbalzare gli austeri responsabili della scuola: Sex Pistols. È la prima volta che il gruppo formato da Johnny Rotten, Paul Cook, Steve Jones e Glen Matlock si esibisce in pubblico. Privi di qualunque conoscenza musicale sono stati assemblati in fretta e furia da Malcom McLaren, il proprietario del “Sex”, un centro di ritrovo di giovani anticonformisti della capitale britannica, anche lui alle prime armi come manager, se si eccettua un’esperienza di sei mesi con i New York Dolls. La loro confidenza con gli strumenti è del tutto approssimativa e il repertorio annunciato prevede vari brani “facili” di Small Faces e Who. Quando iniziano a suonare la sala concerti è invasa da un rumore impressionante, al limite del dolore per le orecchie dei presenti. La struttura musicale, poi, è inesistente: pochi giri di basso, ritmi tiratissimi con la batteria che sembra fuggire per conto suo, mentre la chitarra, distorta, ripete all’infinito gli accordi. La melodia non esiste o, meglio, è un lungo e lancinante urlo che accompagna la voce nasale di Johnny Rotten. I pochi ragazzi che assistono al concerto sono spaventati e affascinati al tempo stesso da quella mescola anarchica di suoni lanciati sulle loro teste. Non c’è tempo di riprendersi. I brani si susseguono con la velocità della luce. Dopo una, due, tre, quattro canzoni veloci, secche, inafferrabili, il rumore tocca l’apice, sottolineato dal tremore ossessivo delle vetrate, e invade l’intero edificio. Dall’inizio del concerto non sono passati più di dieci minuti quando un’impiegata dell’ufficio di segreteria della scuola decide che si sono passati tutti i limiti. Esce con passo deciso dal suo ufficio, entra nella sala concerti tenendo le mani ben premute sulle orecchie, s’infila dietro al palco e stacca la spina che alimenta l’impianto. «Voi siete pazzi! Vi prego di andarvene subito!» Finisce così il primo concerto di una band destinata a diventare il simbolo del punk britannico.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
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