30 novembre, 2018

1° dicembre 1981 – Lascio i Depeche Mode ma non è un dramma


«Non capisco perché mi facciate tutte queste domande. Me ne vado e basta. Sì, lascio il gruppo, ma non mi sembra poi un fatto sorprendente. Ho voglia di fare altre cose, di inseguire nuovi progetti. Non deve esserci necessariamente un motivo particolare. Non ho litigato con nessuno e non c’è alcuna divergenza con i miei compagni che, del resto, possono continuare tranquillamente senza di me… » Scorbutico e indisponente il 1° dicembre 1981 il leader dei Depeche Mode Vince Clarke così replica alle imbarazzanti domande dei giornalisti dopo il suo annuncio di voler lasciare la band di cui è stato fondatore e anima fino a quel momento. Al di là dell’insistenza della stampa specializzata nel voler ricercare cause nascoste, la decisione suscita sorpresa perché arriva a meno di un mese dalla pubblicazione del fortunato album Speak and spell. Ci si chiede anche quale sarà il destino di una delle più geniali band del tecno-pop dopo l’abbandono di Clarke, autore dell’intero repertorio del gruppo e artefice della inusuale struttura strumentale composta soltanto da un set di sintetizzatori. La notizia sembra preludere allo scioglimento e non manca chi lo dà per scontato. Non sarà così. La leadership dei Depeche Mode passerà a Martin Gore che si mostrerà all’altezza del compito guidando il gruppo in una lunga e fortunata serie di successi. Clarke, invece, ricomincia da capo dando vita agli Yazoo insieme alla cantante Alison Moyet, che in quel periodo si fa chiamare con il curioso nomignolo di Alf. Coronata da un rapido successo, la scelta non placa la sua irrequietezza creativa e la voglia di misurarsi con sempre nuove imprese. Dopo aver piazzato tre singoli e due album nelle prime tre posizioni della classifica, il progetto Yazoo si chiude all’apice del successo nell'estate del 1983, a soli diciotto mesi di distanza dalla nascita. Clarke dà quindi vita agli Assembly insieme all’ex Undertones Feargal Sharkey, ma anche questa avventura è solo una tappa di passaggio nella sua incredibile carriera. Nel 1984 pubblica un’inserzione sulla rivista “Melody Maker" per cercare un cantante all’altezza del suo nuovo progetto. Rispondono in quarantadue. Li ascolta tutti, poi sceglie Andy Bell con il quale formerà l’ennesimo gruppo di successo: gli Erasure.

24 novembre, 2018

25 novembre 1921 - Matthew Gee jr, un trombone sofisticato


Il 25 novembre 1921 nasce a Houston, nel Texas Matthew Gee jr. considerato uno dei principali trombonisti di stile be bop del dopoguerra. Influenzato soprattutto agli inizi da Trummy Young, preferisce poi prendere la strada indicata da J. J. Johnson adottando uno stile molto sofisticato che gli consente di trasferire su uno strumento massiccio come il trombone le melodie complicate e sottili proprie del be bop. Gee questa sua caratteristica la conserva sia quando suona in piccoli gruppi sia quando si trova in formazioni più grosse. Da giovane affina la sua preparazione musicale all'Alabama State Teachers' College e quindi comincia a suonare professionalmente con musicisti come Joe Morris, Gene Ammons, Dizzy Gillespie e Count Basie. Nel 1952 collabora con il sassofonista Illinois Jacquet con cui compie una tournée in Europa nel 1954. Da allora continua a suonare sempre su buoni livelli. Nel dicembre del 1959 fa parte della formazione orchestrale di Duke Ellington che incide gli undici pezzi contenuti nell’album Blues in Orbit nel quale suona anche il flicorno in Swingers Get.


24 novembre 1991 – Finisce il calvario di Freddie Mercury


Il 24 novembre 1991 è giovedì, un giorno banale per morire. Eppure proprio di giovedì, consumato da una lunga agonia, muore di AIDS Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar nel 1946, in arte Freddie Mercury, uno dei simboli degli anni Ottanta, emblema rutilante dei Queen. Qualche tempo prima alla domanda «Come vorresti essere ricordato dai posteri, dal mondo dello spettacolo?», aveva risposto «Oh, non lo so. Non ci ho pensato... non so, morto e andato. No, non ci ho pensato e non ci penso... mio dio, ma quando sarò morto si ricorderanno di me? Non voglio pensarci, dipende da voi. Credo che quando sarò morto non m’importerà gran che, anzi a me non fregherà proprio più niente». La sua morte diventa un simbolo della battaglia contro la terribile malattia che, nell'immaginario collettivo, "uccide la diversità". Lo diventa suo malgrado, amplificando e, in parte, sublimando le incertezze e le contraddizioni della sua vicenda personale e artistica. «La nostra è una guerra contro un nemico implacabile. Non c'è tempo per le incertezze né per le giustificazioni: chi non c'è è un disertore» tuona Elizabeth Taylor, uno dei primi personaggi del mondo dello spettacolo a impegnarsi concretamente contro l'AIDS. E nella prima ondata di mobilitazione Freddy non c'è. Né lui, né il suo gruppo vivono la passione politica o l'impegno sociale. Pur essendo musicalmente nati negli anni Settanta interpretano con largo anticipo la cultura degli anni Ottanta, del disimpegno, della fuga dai valori condivisi e della ricerca estetizzante. All'epoca dell'esplosione del punk, nel 1977, i Queen sono l'incarnazione di tutto ciò che il movimento disprezza pubblicamente. Nel 1984 finiscono addirittura nella "lista nera" compilata dalle Nazioni Unite degli artisti che, fregandosene della lotta contro l'apartheid, accettano di suonare in Sudafrica. Per ben otto sere consecutive suonano a Sun City, la Las Vegas della nazione simbolo del razzismo, città che per altri loro colleghi è divenuta invece il simbolo di una battaglia planetaria contro la discriminazione razziale. Non c'è premeditazione, ma semplice disinteresse per tutto ciò che accade fuori dalla loro ristretta visuale. Professionali, senza opinioni e buoni venditori di se stessi diventano una sorta di band esemplare per il music business e anche l'omosessualità di Freddie lungi dall'essere proclamata come una bandiera di libertà viene vissuta come un fatto privato e personale come si conviene alle "persone per bene". Pur essendo campioni di vendite sono però poco amati dalla critica che considera la loro storia musicale sostanzialmente finita nel 1975 con la pubblicazione di A night at the Opera, l'album di Bohemian Rhapsody, una sorta di manifesto musicale che mescola in modo geniale hard rock, pomposità barocca e melodramma. Pochi mesi prima della morte di Mercury l'idea di un gruppo ormai arrivato alla frutta è divenuta più generale. Ciascuno dei componenti sembra più impegnato nei propri progetti individuali per far pensare a un nuovo colpo d'ala. Lo stesso Freddie coltiva con attenzione le potenzialità della sua straordinaria voce, uno strumento capace di valorizzare canzoncine di cui, senza la sua interpretazione, non rimarrebbe neppure il ricordo. In questa situazione si inserisce la morte di Freddy. Una fine straziante, che lo accomuna a moltissimi altri, e lo trasforma in un simbolo della lotta contro l'AIDS. È la catarsi. La sua mai rivendicata omosessualità si fa bandiera e il suo calvario finale diventano l'emblema di un impegno internazionale contro un morbo che ha fra i suoi più stretti e fedeli complici la discriminazione. In pochi mesi viene organizzato nello stadio di Wembley a Londra “A concert for life - Tribute to Freddie Mercury”, un grande concerto i cui proventi sono destinati a finanziare la ricerca contro l'AIDS. Centinaia di milioni di spettatori assistono all'evento, rimandato in settanta nazioni diverse, compreso anche quel Sudafrica, finalmente uscito (e non grazie ai Queen) dal lungo tunnel dell'apartheid. La vera anima dell'evento è da ricercare nel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo da anni impegnati su questo fronte e che hanno un'agguerrita testimonial proprio nell'attrice Elizabeth Taylor. Nessuno si nega all'invito. Sul palco allestito nello stadio di Wembley sfila l'élite della musica pop internazionale di quel periodo, dai Metallica agli Extreme, dall'ideatore di Live Aid Bob Geldof agli Spinal Tap, dai Def Leppard ai Guns N’ Roses, dall'italiano Zucchero agli irlandesi U2 in collegamento via satellite da Sacramento in California. Particolarmente emozionanti sono le esecuzioni delle canzoni di Freddie Mercury da parte di una lunga serie di amici, a partire da George Michael che canta Year of 39 da solo, These are days of our lives con Lisa Stanfield e Somebody to love insieme al London Community Gospel Choir. David Bowie esegue Under pressure in coppia con Annie Lennox mentre Elton John dedica all'amico scomparso le commoventi versioni di Bohemian rhapsody con l'aiuto di Axl Rose e, soprattutto, di The show must go on, il brano che i Queen giurano solennemente di non eseguire più dopo la morte del loro leader. La morte di Freddy esalta la solidarietà ma anche il music business che, ancor più di quando era in vita, ne sfrutta voce, immagine, registrazioni e inediti al di là di ogni immaginazione come accade con il miliardario remix di Living on my own, una disinvolta operazione commerciale priva di rispetto ma molto redditizia. Il music business oggi lo ricorda con un'alluvione di iniziative commerciali che non aggiungono nulla al suo valore artistico. C’è chi preferisce ricordarlo per quello che era: un'artista con luci e ombre, una voce unica, ma soprattutto un uomo, una persona, uno fatto di carne e ossa come noi che è morto di AIDS dopo un lungo calvario di sofferenze.



09 novembre, 2018

10 novembre 1964 - Dietro ai Beefeaters c'è Miles Davis

Il 10 novembre 1964 la Columbia scrittura i Beefeaters, un gruppo formato da tre cantanti e chitarristi: David Crosby, un tipo con alle spalle cinque anni di lavoro nei locali folk, Gene Clark già componente dei New Christy Minstrels e Jim McGuinn, la cui fila di collaborazioni è lunghissima e comprende i Limeliters e il Chad Mitchell Trio, oltre alle band di Bobby Darin e Judy Collins. I tre si sono incontrati nei primi mesi dell'anno al Trobadour di Los Angeles e proprio in quel locale, uno dei più frequentati templi del folk di quel periodo nasce l'idea di mettersi insieme. Il primo nome scelto per il gruppo è quello di Jet Set, poi cambiato in Beefeaters. Sono, dunque, insieme da poco più di sei mesi e tuttavia la Columbia accetta di metterli sotto contratto. Per quale ragione? In realtà i ragazzi hanno un santo in paradiso e non lo sanno. Si chiama Miles Davis. Il trombettista li ha ascoltati per caso ed è rimasto favorevolmente impressionato. Ha intuito che, dietro l'acustica un po' monotona dei loro brani forse troppo uguali c'è stoffa. Per questo li ha "raccomandati" alla Columbia che si è fidata e li ha scritturati. Qui incontreranno Jim Dickson, un discografico convinto che dall'incontro tra i nuovi suoni del beat britannico e le vecchie melodie del folk statunitense possa nascere qualcosa di nuovo. I tre ragazzi gli daranno ragione. Poco tempo dopo, con l'aggiunta di Chris Hillman e Michael Clarke, cambieranno nome e diventeranno i Byrds. Non sarà l'unico cambiamento di nome. Qualche tempo dopo Jim McGuinn si convertirà all'induismo cambiando nome in Roger.


20 ottobre, 2018

21 ottobre 1996 - I cantautori non sono il diavolo!


Il 21 ottobre 1996 il programma televisivo “Roxy Bar” condotto da Red Ronnie ha un ospite d’eccezione e inusuale. Si tratta del cardinale Ersilio Tonini. Il prelato dovrebbe confrontarsi con il cantautore Francesco De Gregori dopo le polemiche scatenate dal L’Osservatore Romano, il giornale del Vaticano, nei confronti dei cantautori italiani per l’utilizzazione di Dio nei loro testi. Il confronto, annunciato dalla stampa come una sorta di resa dei conti tra la musica dei giovani e la Chiesa, attira l’attenzione di milioni di spettatori. Contrariamente alle previsioni non c’è battaglia, ma un gesto ufficiale di conciliazione da parte dell’autorevole esponente della Chiesa Cattolica. Al termine del faccia a faccia con Francesco De Gregori, infatti, il cardinale Ersilio Tonini, si alza e abbraccia il cantautore esclamando «Posso ringraziare Dio di avere fatto uno come te».

01 ottobre, 2018

1° ottobre 1908 – Nasce la Ford Model T

Il 1° ottobre 1908 un emozionato Henry Ford annuncia la nascita dell’auto dei suoi sogni. È la mitica Model T, che verrà soprannominato "Tin Lizzie" da milioni di americani. Un’automobile semplice nel funzionamento e brillante nelle prestazioni, destinata a essere insignita quasi cent’anni dopo del titolo di “Auto del secolo” da una giuria di esperti e giornalisti specializzati. Nei vent’anni di produzione la Ford costruirà 15.458.781 vetture del Modello T, un record che resterà imbattuto per oltre 50 anni! La capacità produttiva viene supportata da un’innovazione destinata a lasciare il segno quando Henry Ford adatta il concetto di catena di montaggio alla produzione automobilistica riuscendo ad abbattere i tempi di produzione a livelli mai visti prima. L’innovazione produttiva è affiancata da un’altra serie di innovazioni sul piano dei rapporti sociali: la casa automobilistica raddoppia la paga giornaliera dei suoi operai e riduce l’orario di lavoro a otto ore giornaliere. Anche la frase con cui Ford convince i riottosi soci è rimasta emblematica: «Se riduci le paghe, riduci il numero dei tuoi clienti». I parametri della linea di montaggio fordista trascinano tutta l’industria statunitense. La morte del fondatore, avvenuta nel 1947, non ferma la marcia della Ford Motor Company che, riorganizzata da Henry Ford II, rinnova la sfida al mercato con modelli di grande successo e suggestione come la Thunderbird del 1955, la Mustang lanciata nel 1964 e la celebre Fairlane. Viene potenziata anche la produzione europea che, nel 1976, vede il lancio della Fiesta, uno dei maggiori successi tutti i tempi di casa Ford con oltre 12 milioni di esemplari prodotti finora. 

24 settembre, 2018

24 settembre 2004 – Le scarpe appese al cielo

Dalla sera del 24 settembre 2004 e per tre giorni un lungo filo di acciaio viene sospeso tra i vicoli e le piazze dei paesi di Genazzano e Zagarolo. Attaccate al filo, illuminate nella notte, ci sono migliaia di scarpe usate provenienti da tutto il mondo. Ciascuna di esse ha una storia, è stata cercata, è arrivata per posta, è stata scambiata dai bambini nelle scuole. Rappresentano l’impronta dei passi, del lento avanzare dell’umanità sulle polverose strade della storia. Dove c’è un’impronta di una scarpa, lì c’è il segno della vita e del passaggio di una persona. A Genazzano e Zagarolo sono migliaia i passi sospesi nel cielo per accompagnare l’edizione 2004 di “Stradarolo”, la rassegna artistica ideata qualche anno prima dai Têtes de Bois e divenuta uno degli appuntamenti culturali più interessanti della penisola. A Stradarolo le arti si confondono, la danza si mescola con la poesia e la musica con l’illusione della parola e delle immagini. E se chiedete ai Têtes de Bois di spiegarvi la scelta del tema “Passi”, delle scarpe appese, vi rispondono con una visione: «C’è un passo che appartiene a ogni uomo, un verso, una piega ed è appeso sopra la tua testa, è arte e testimonianza. La scarpa di un uomo che forse oggi è felice, è triste, è in carcere, è morto per la libertà o per amore o per dolore, è un assassino o un torturatore, una donna che è diventata madre o magari vive da poche ore a poche metri da te e a migliaia dalla compagna sperduta della scarpa che vedi appesa». Non servono altre parole per capire che la suggestione visiva trova solidi agganci nella mente e nel cuore. Tu chiamale, se vuoi, emozioni… In mezzo a tutto c’è una tavola rotonda visionaria, grande sette metri, una tovaglia di lenzuola usate e cucite disegnate dai bambini con piedi colorati. È un simbolo d’incontro tra persone che tengono il passo ma non mancano di memoria. Intorno si parla, si canta, si suona, si raccontano passione e compassione, passi e passeggiate, storie spassose e sogni appassiti. Tutto comincia il 24 settembre al Ponte di Genazzano con “The bridge”, uno spettacolo aereo di danza acrobatica e prosegue il 25 e il 26 con le presenze o, per restare in tema, i passaggi musicali e parlati di Sergio Endrigo, Francesco Di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso, Ricky Gianco, Marco Paolini e i Mercanti di Liquore, Giuseppe Cederna, Giancarlo Dotto, Luca Madonia, Enzo Pietropaoli, Pinomarino, Giovanna Summo, Massimo Pasquini, Giampaolo Ceroni, Canio Loguercio, Emilio Casalini, Jonathan Giustini, Tiziana Dal Pra, Giovanni Lo Cascio, Francesco Lo Cascio, la Banda dei Falsari e l’astronauta Guidoni in diretta telefonica… C’è anche la radio, con un’edizione in loco del programma “Radioscrigno” condotto da Dario Salvatori.

21 agosto, 2018

21 agosto 1930 – La difficile carriera di Christiane Legrand

Il 21 agosto 1930 nasce ad Aix-les-Bains, in Francia, Christiane Legrand, una delle più importanti voci femminili del jazz europeo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. La sua è una famiglia destinata a lasciare più d'una traccia nella storia musicale del Novecento. Il padre, infatti, è il clarinettista, sassofonista e compositore Raymond Legrand, mentre il fratello minore, il pianista Michel Legrand, otterrà uno straordinario successo sia come strumentista e compositore jazz che come autore e interprete di musiche e brani per il cinema. Chiusa tra i due talenti della famiglia Christiane fatica non poco a imporsi in un ambiente chiuso e un po' maschilista come la scena jazz francese degli anni Cinquanta. Dopo gli studi di piano non si rassegna alla carriera dell'insegnamento. A partire dal 1954 inizia a cantare in varie band, comprese quelle del fratellino. Contemporaneamente, nel 1955, trova ospitalità in un gruppo vocale considerato all'avanguardia per l'epoca. Sono i Blue Stars. Successivamente cambieranno nome in Double-Six e finiranno per essere osannati dalla critica come il primo gruppo europeo capace di cimentarsi in un nuovo stile vocale basato sui virtuosismi e l'arte quasi surrealista dell'allitterazione. Sono gli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta e Christiane diventa una delle voci francesi più importanti di quel periodo. La sua popolarità non resta, però, confinata nei ristretti confini del jazz. Più volte spazia nel pop attraverso la porta del cinema. È sua la voce femminile che canta nel film "Les Parapluies de Cherbourg" di Jacques Demy, la cui colonna sonora porta la firma del "fratellino" Michel Legrand. L'avventura con i Double-Six finisce nel 1965. Per un po' si esibisce con Ward Swingle, ma poi lascia. Preferisce seguire da vicino i nuovi gruppi vocali che si ispirano allo stile che l'ha resa famosa. Muore il 1° novembre 2011. Del suo periodo con i Double Six resta una testimonianza straordinaria nell'album Dizzy Gillespie et Les Double-Six.



17 agosto, 2018

17 agosto 1964 – You really got me

Il 17 agosto 1964 la Pye Records pubblica You really got me. Il brano sarà il primo grande successo dei Kinks, uno dei gruppi più spigolosi degli anni Sessanta che più di altri incarna lo spirito ribelle delle bande giovanili dell'epoca. La loro selvaggia irruenza sul palco piace ai Mods, ma è amata anche dai Rockers e verrà presa a esempio dai protagonisti del punk. I Kinks nascono, di fatto, nel 1962 intorno ai fratelli Davies, Ray e Dave soprannominati "Rock Brothers" per la mania di ascoltare i dischi ad altissimo volume. Entrambi chitarristi formano il primo nucleo della band con il batterista Mick Avory e il bassista Peter Quaife. Per un po' si fanno le ossa come gruppo d'accompagnamento del cantante Robert Wace, un onesto mestierante che diventerà il loro manager. La storia non va avanti per molto, perché alla fine del 1963 decidono di proseguire da soli. Notati dal produttore Shel Talmy ottengono il primo contratto discografico con la Pye Records e si mettono subito al lavoro in sala di registrazione. Nel mese di febbraio del 1964 pubblicano il loro primo singolo, una cover di Long tall Sally, il brano di Little Richard. Il disco passa quasi inosservato e non va meglio al successivo You do something to me. Decisi a non mollare i quattro lavorano all'idea di realizzare un brano che possa avere la stessa carica esplosiva delle loro esibizioni dal vivo. Nasce così You really got me. Nonostante sia già pronto alla fine della primavera la loro casa discografica prende tempo tentando di convincerli ad ammorbidirne l'impatto con un arrangiamento meno selvaggio e duro. Sono in molti a dubitare che quel selvaggio e grezzo miscuglio di rock urlato e blues nero possa interessare a un mercato che si sta ormai evolvendo in forme più raffinate, ma Ray Davies e i suoi compagni tengono duro. You really got me esce così com'è. In pochi mesi conquista i giovani di tutto il mondo e diventa uno dei più longevi brani della storia del rock.



05 agosto, 2018

5 agosto 1975 - Stevie Wonder, quel miliardario ragazzo del ghetto

C’è chi pensa sia una vergogna, chi invece sostiene che è la rivincita di un ragazzo nero non vedente contro il suo destino. In ogni caso la notizia è di quelle che sembrano nate apposta per far discutere. Il 5 agosto 1975 Stevie Wonder rinnova il contratto discografico con la Motown per sette anni. Per quel che riguarda l’entità finanziaria del contratto, non vengono emessi comunicati ufficiali, ma voci bene informate parlano di una cifra che si aggira intorno ai tredici milioni di dollari. È una somma da capogiro, un record per quegli anni, il più ricco contratto mai stipulato fino ad allora tra un artista e una casa discografica. Non resterà né l’unico, né il più alto, ma tredici milioni di dollari sono decisamente troppi, anche per un personaggio come Wonder cui sembrava che la vita non dovesse regalare nulla. Nato prematuro a Saginaw, nel Michigan, Steveland Morris, questo è il suo vero nome, perde l’uso della vista per il malfunzionamento della sua incubatrice. È l’ultimo di tre fratelli e la madre, Lula Hardway, giura a se stessa di non fargli pesare la sua condizione. Mantiene il giuramento anche quando il padre se ne va. Stringe i denti e con i tre figli si trasferisce a Breckenridge, uno dei quartieri più poveri di Detroit. Il piccolo Stevie passa il tempo con il gioco che più gli piace: la musica. Il suo primo strumento musicale è una batteria giocattolo con la quale batte il tempo delle canzoni della radio. I regali dei vicini arricchiscono la sua strumentazione. Il piccolo canterino anima con la sua voce il quartiere finché, un giorno, un altro ragazzo del ghetto, Gerald White parla di lui a suo fratello Ronnie, che canta nei Miracles di Smokey Robinson. “Fammi sentire quello che sai fare con la voce, ragazzo!” Quello che ascolta lo lascia di stucco. Lo porta negli studi della Motown per farlo ascoltare da Brian Holland. A dodici anni Stevie Wonder ottiene così il suo primo contratto discografico. D’ora in poi la sua famiglia non avrà più problemi economici.


30 luglio, 2018

30 luglio 2004 - “Pace e male” dei Têtes de Bois

Il 30 luglio 2004 i Têtes de Bois presentano il loro nuovo lavoro intitolato Pace e male. Visto il successo ottenuto con l’album Ferré, l’amore e la rivolta potevano vivacchiare di rendita sfruttando ancora per un po’ il “giocattolo” Ferré attingendo alla corposa produzione del cantautore francese, ma il gruppo non è fatto così. Il suo volo non è quello degli uccelli rapaci che girano in tondo attorno alla preda. Non ci sono prede, ma passioni, nel cuore di questa band che da tempo viaggia lungo le imperscrutabili rotte degli stormi migranti. «Ferré ce l’abbiamo sempre vicino, è nel nostro cuore e nella nostra musica – ci dice Andrea Satta, la voce del gruppo non solo sul palco – viaggia con noi sulle nuove strade. È un amico vivo, un compagno d’avventure, e gli amici e i compagni non si mummificano nel ricordo». E così dopo due anni ci regalano Pace e male, un doppio album che ha il sapore della strada, degli spazi liberi, il gusto del confronto e della contaminazione unito alla leggerezza del pensiero aperto. «In questa avventura abbiamo imbarcato un sacco di amici, ciascuno dei quali ha regalato un pezzo di sé». Sono davvero tanti e diversi gli apporti in voci, idee e suoni, un lungo elenco che comprende musicisti come Daniele Silvestri, Mauro Pagani, Ugolino e Antonello Salis, attori come Paolo Rossi e Marco Paolini, giornalisti ad assetto variabile come Gianni Mura e un ex ciclista, Davide Cassani. Come sempre il lavoro dei Têtes de Bois fa impazzire gli ostinati amanti delle classificazioni rigide. C’è di tutto, rock, classica, teatro, strada, un caleidoscopio musicale in cui tutto si mescola senza violenza per generare nuovi e differenti colori. È musica colta che parla della realtà quotidiana, la racconta attraverso piccole storie che in cui vive la forza dei grandi temi, dal lavoro (Buongiorno Arturo) alla guerra, all’imperialismo (Abbasso Nixon), alla critica sociale. A ben vedere è proprio questa capacità di raccontare la realtà minuta attraverso il linguaggio poetico l’eredità vera di Ferré, un modo di farlo rivivere rifuggendo dagli scimmiottamenti delle cover. È anche un modo di legare il presente con il passato senza trasformare quest’ultimo in un album di fotografie, perché, come ricorda Andrea Satta, la memoria è un elemento strategico nella battaglia per cambiare lo stato delle cose possibili: «La memoria è l’elemento che può fare la differenza in un mondo in cui il video, i sistemi di comunicazione e di persuasione di massa tendono a cancellare la capacità di discernere e di pensare. Anche l’indignazione è pilotata. Spesso mi sorprendo a pensare che quando non ci sarà più mio padre che è stato in campo di concentramento anche il nazismo diventerà una figurina innocua. Mi fa paura un mondo in cui i mass media controllano anche la nostra capacità critica, scegliendo i temi sui quali scatenare l’indignazione dell’opinione pubblica. Il nostro lavoro sulle storie, sulle piccole vicende quotidiane è un modo di recuperare la memoria guardando avanti, di uscire dal sapere enciclopedico, la vera tragedia della cultura di questo tempo che riduce a sintesi e cancella la molteplicità». Chissà, forse è per questo che l’album è doppio, per non cadere nella trappola della sintesi forzata…

21 luglio, 2018

22 luglio 1954 – Al Di Meola, batterista mancato

Il 22 luglio 1954 nasce a Bergenfield, nel New Jersey, il chitarrista Al DiMeola. A cinque anni comincia a picchiare sui tamburi di una batteria tra la disperazione dei famigliari e dei vicini di casa. Le proteste e la crescente insofferenza del quartiere fanno sì che, dopo qualche anno, le lezioni di batteria lascino il posto allo studio di un nuovo e meno problematico strumento: la chitarra. Proprio con le corde e la cassa armonica ha modo si svilupparsi lo straordinario e precoce talento musicale del piccolo Al. Ha soltanto undici anni, anche se ne dimostra qualcuno di più, quando forma la sua prima rockband. Inizialmente non proprio disposti ad assecondare quello che considerano un hobby, i suoi famigliari cedono alle insistenze del ragazzo e gli passano il sostegno economico necessario a frequentare il prestigioso Berklee College of Music di Boston. Qui Al DiMeola si trova a suo agio. Alterna gli studi alle esibizioni e ben presto riesce a conquistarsi un posticino nella band di Barry Miles. L'avventura dura soltanto qualche mese ma si rivela un passaggio decisivo per la sua carriera. Grazie ai buoni uffici del suo amico ed estimatore Larry Coryell a soli diciannove anni entra a far parte dei Return To Forever di Chick Corea. I suoi virtuosismi e la magica purezza del suo tocco vengono esaltati dall'esplosione del jazz rock. La critica è unanime nel considerarlo uno chitarristi più importanti del genere. La conclusione dell'esperienza dei Return To Forever non cambia la sua vita. Nel 1976 debutta come solista con l'album Land of the midnight sun. L'anno dopo per la realizzazione del suo secondo album Elegant gypsy può contare sulla collaborazione attiva e sulla partecipazione di grandi musicisti come Jan Hammer, Lenny White, Steve Gadd, Mingo Lewis e il chitarrista classico spagnolo Paco de Lucia. Superata indenne anche la fine del periodo d'oro del jazz rock, si presenta all'appuntamento degli anni Ottanta pubblicando il doppio album Splendido Hotel con la collaborazione, tra gli altri, di Chick Corea. In quel periodo oltre al lavoro in solitario realizza un'interessante collaborazione con i chitarristi John McLaughlin e Paco de Lucia che sfocia in una lunga serie di concerti dal vivo. Appassionato ricercatore, Al DiMeola svilupperà negli anni successivi innovative esperienze con moltissimi musicisti, compreso il geniale giapponese Stomu Yamashta.


12 luglio, 2018

13 luglio 1985 - Bob Geldof, un'immaginetta

“Un giorno Dio voleva trovare una soluzione al problema della carestia in Africa e, probabilmente per sbaglio, ha bussato alla porta di Bob Geldof. Quando questo irlandese trasandato ha aperto la porta, dopo qualche perplessità deve aver pensato: Oh, al diavolo, andrà bene anche lui!”. In questo modo singolare la rivista “Life” esprime il proprio ammirato stupore nei confronti dell’iniziativa di Bob Geldof, il cantante dei Bootown Rats, principale artefice della mobilitazione del rock a favore delle popolazioni africane colpite dalla carestia. Il 13 luglio 1985 sono un miliardo e mezzo i telespettatori di tutto il mondo che assistono al “Live Aid”, il più grande concerto benefico della storia della musica rock. E non è casuale che l’organizzatore sia proprio un artista non di primissimo piano e da tempo impegnato sui problemi sociali del suo paese. L’ambiente, infatti, è diffidente nei confronti dei grandi nomi, dopo le truffe e le vergognose speculazioni del “Concerto per il Bangladesh” organizzato anni prima da George Harrison e divenuto famoso perchè nessuno dei soldi raccolti era arrivato a destinazione. In molti ci provano, ma solo Geldof ce la fa e porta quasi in contemporanea su due palchi costruiti negli Stadi di Wembley e di Filadelfia in sedici ore del megaconcerto quasi tutti i vecchi e nuovi personaggi del rock e del pop mondiale. Il successo dell’evento provoca un effetto imitazione e nei mesi successivi una pioggia di dollari si riverserà sugli organismi internazionali impegnati nella lotta contro la carestia africana. Il Live Aid resta nella storia del rock ma rischia di cambiare per sempre la vita del suo ideatore. Bob Geldof, ribattezzato “Santo Bob” viene anche proposto per il Premio Nobel per la Pace e per qualche tempo non riesce più a trovare qualcuno che ne prenda sul serio le ambizioni e le qualità artistiche. L’immagine salvifica che lo accompagna finisce per pesare come un macigno sulla sua carriera di cantante, costringendolo a ripartire quasi da zero e finisce per farlo sempre più assomigliare a una tranquillizzante immaginetta.

08 luglio, 2018

8 luglio 1914 - Billy Eckstine, Mr. B: voglio un'orchestra leggendaria!

L'8 luglio 1914 nasce a Pittsburgh, in Pennsylvania, il cantante Billy Eckstine, detto Mr. B e registrato all'anagrafe con il nome di  William Clarence Eckstein. Il canto è la sua specialità ma nella sua carriera non mancano esibizioni alla tromba, al trombone a pistoni e alla chitarra. Dopo aver studiato alla Howard University di Washington, ottiene vari ingaggi come cantante e direttore di sala in numerosi locali notturni di Buffalo, Detroit e Chicago. Il suo primo insegnante di musica è Maurice Grupp, un giornalista del “Metronome” che gli dà lezioni di tromba e molti preziosi consigli sulla tecnica di emissione del fiato. La svolta nella sua carriera avviene nel 1938 quando il sassofonista Budd Johnson, dopo averlo ascoltato in un locale, lo presenta a Earl. L'anno dopo Eckstine entra a far parte stabilmente della formazione di Hines ben preso ne diventa l'attrazione per il modo inconsueto di presentarsi sul palcoscenico e per uno stile di canto inusuale basato su una serie di note vibrate che si alternano ai fortissimo degli ottoni. Lo storico del jazz Barry Ulanov, a proposito della sua voce, scrive: «Quando urlava Jelly, Jelly, il titolo del suo più famoso blues, sembrava un grido nel vuoto di una caverna». Lasciato Hines nel 1943 inizia a darsi da fare come solista nei night ma già nella primavera de1 1944, sempre insieme a Budd Johnson, decide di dare vita a un'orchestra innovativa e chiede al suo manager Billy Shaw di reclutare gli orchestrali fra i boppers. Nasce così una formazione straordinaria che schiera personaggi come Dizzie Gillespie, Fats Navarro, Kenny Dorham, Miles Davis alle trombe, Gene Ammons, Dexter Gordon, Wardell Gray, Lucky Thompson al sassofono tenore, Charlie Parker, Sonny Stitt al contralto, Leo Parker al sassofono baritono, John Malachi e Clyde Hart al pianoforte, Tommy Potter al contrabbasso, Art Blakey alla batteria. Gli arrangiamenti vengono di volta in volta curati da Dizzy Gillespie, Tadd Dameron, Budd Johnson e Jerry Valentine. I cantanti sono Sarah Vaughan e lo stesso Eckstine. Il successo dell'orchestra spinge molti strumentisti a cercare fortuna da soli. La crisi delle grandi orchestre fa il resto. Nel 1947 Eckstine scioglie l'orchestra e si dedica esclusivamente all'attività di cantante solista. Dalla fine degli anni Cinquanta in avanti l'attività di Eckstine si è svolge prevalentemente nei Casinò del Nevada o in vari tour all'insegna della nostalgia. Muore a Pittsburgh, il Pennsylvania, l'8 marzo 1993

06 luglio, 2018

7 luglio 1901 - Vittorio De Sica, Il primo divo italiano del cinema sonoro

Il 7 luglio 1901 a Sora, una cittadina che all’epoca è in provincia di Caserta e oggi in quella di Frosinone nasce Vittorio De Sica. Per ragioni di studio si trasferisce a Napoli, città cui resterà per sempre legato da grande affetto. Il suo esordio nel cinema avviene nel 1918 quando interpreta una parte di secondo piano nel film “Il processo Clémenceau”. Nel 1924, conclusi gli studi, decide di dedicarsi a tempo pieno al teatro specializzandosi nel personaggio del giovanotto brillante e scanzonato. Parallelamente all’attività teatrale continua a frequentare i set cinematografici e dopo una serie di film minori arriva al successo nel 1932 con “Gli uomini, che mascalzoni...”, un film di Mario Camerini nel quale canta Parlami d'amore Mariù, il primo successo come cantante della sua carriera. In breve tempo diventa il primo vero divo italiano del cinema sonoro grazie a una fortunata serie di commedie sentimentali. Anche sul piano musicale centra una lunga serie di successi con brani come Ludovico, Tu solamente tu, Dicevo al cuore, Dammi un bacio e ti dico di sì e Allegro yankee. Nel 1943 dirige “I bambini ci guardano”, il film che segna l’inizio della sua collaborazione con lo sceneggiatore Cesare Zavattini. La storia anticipa le novità tecniche e tematiche della sua produzione successiva. Nel dopoguerra realizzando due capolavori del neorealismo: “Sciuscià” del 1946 e “Ladri di biciclette” del 1948, entrambi premiati con l’Oscar. Nonostante gli impegni cinematografici non abbandona mai del tutto la musica leggera. Tre anni prima della sua morte, avvenuta nel 1974 a Parigi realizza l’album De Sica anni Trenta in collaborazione con il figlio Manuel. Attore e regista di grande talento Vittorio De Sica ha lasciato un segno chiaro anche nella storia della canzone italiana. Il suo primo grande successo come cantante arriva all’inizio degli anni Trenta con Parlami d’amore Mariù. È proprio in quel periodo che una parte della critica italiana inizia a paragonarlo al grande Maurice Chevalier, uno dei grandi protagonisti dello spettacolo internazionale. Il giovane De Sica mostra però di non apprezzare particolarmente il paragone e nel 1936 approfitta di un’intervista per farlo sapere a tutti: «Mi si chiama in giro lo Chevalier italiano. Si tratta di un ingiusto battesimo al quale mi ribello per infinite ragioni…». Espone le differenze tra lui e lo chansonnier francese e alla fine spiega quale sia la canzone principale: lui non si ritiene un semplice cantante ma «…un autore drammatico che per proprio diletto, prima che per altrui, canta anche canzoni…». Nonostante l’atteggiamento personale un po’ scontroso nei confronti della canzone, negli anni Trenta Vittorio De Sica è uno dei protagonisti più importanti e di maggior successo della scena musicale italiana come dimostra il numero notevole di suoi dischi a 78 giri pubblicati dalla Columbia. Nel 1932 sono cinque, salgono a ventisei nel catalogo della stessa etichetta del 1934 e raddoppiano ancora in quello del 1942. La casa discografica non dà troppo retta alle sue prese di distanza dalla canzone e ne sfrutta fino in fondo la popolarità e il talento. L’unica concessione alla sua richiesta di non essere confuso con gli altri cantanti è nella presentazione sulle pagine dei cataloghi della casa discografica dove viene descritto con questa frase un po’ contorta: «L’aristocratico artista della scena di prosa che ha dimostrato brillantemente come si possa fare dell’arte anche fuori dalla ribalta».

05 luglio, 2018

6 luglio 1957 - John? Piacere, mi chiamo Paul McCartney

Il 6 luglio 1957 i Quarrymen di John Lennon suonano in una festa nel sobborgo di Woolton. Un amico comune presenta a Lennon un ragazzo di nome Paul McCartney, che fa subito un'ottima impressione: sa accordare la chitarra, conosce tutte le parole di canzoni come Be Bop A Lula di Gene Vincent e suona gli accordi di Long tall Sally e di altri brani di Little Richard. Figlio di Jim McCartney un jazzista che negli anni Trenta era stato leader della Jim Mac's jazz band. Paul ha sviluppato una sua personale tecnica da mancino. Dopo quell'incontro a Woolton, Paul entra ufficialmente nei Quarrymen. John e Paul trascorrono interi pomeriggi insieme a esercitarsi, a sperimentare e imparare nuovi accordi, iniziando a stabilire quella stretta collaborazione tra due opposte personalità che sarebbe diventata il cuore delle imprese musicali dei Beatles. Verso la fine del 1957, John Lennon e Paul McCartney sono ormai in grado di comporre canzoni. E la prima canzone di Paul, I lost my little girl, viene presentata da McCartney al gruppo come una sorta di riparazione a una serata disastrosa alla chitarra solista. Il brano è buono ed entra nel repertorio. Inizia qui una storia lunga, lunghissima...

04 luglio, 2018

5 luglio 1966 - Linciate i Beatles!

Il 5 luglio 1966 è l’ultimo giorno di permanenza dei Beatles a Manila, una tappa della loro tournée asiatica. Tutto è andato bene, nonostante il soliti eccessi d'entusiasmo del pubblico. Si sono rivelate infondate anche le preoccupazioni circa i rischi di contestazione in un paese cattolico come le Filippine dopo le dichiarazioni rilasciate da John Lennon un paio di mesi prima sui «Beatles più famosi di Gesù Cristo». Il clima nell'entourage del gruppo è eccellente. Un incidente, per la verità, c’è stato, ma appartiene più alla sfera diplomatica che al loro modo di concepire la vita. Nessuno dei quattro, infatti, se l’è sentita di partecipare a un ricevimento organizzato in loro onore dalla terribile Imelda, la moglie di Marcos, padre-padrone delle Filippine. Fino all’ultimo la rappresentanza diplomatica britannica a Manila ha fatto pressione perchè i quattro cambiassero idea, ma non c’è stato nulla da fare. «Siamo stanchi e poi ci annoieremmo a morte. Non ci va di essere ostentati come gioielli. Preferiamo starcene per conto nostro...». L’ufficio stampa della band ha ritenuto opportuno, comunque, inviare alla first lady una serie di fotografie autografate e vari regali di cortesia. Tutto a posto? Tutt’altro. Il presidente Marcos è furente con «quei quattro capelloni spocchiosi». Presto, però, sarà tutto finito. I Beatles e i loro collaboratori salgono sul piccolo corteo di auto che li deve condurre all’aeroporto. La folla che li attende è immensa. Un robusto cordone di polizia li protegge mentre entrano nella grande hall dell'aerostazione. Improvvisamente, però, gli agenti si ritirano e se ne vanno. Le migliaia di fans urlanti ci mettono un po’ a capire quello che sta succedendo, ma poi, aizzati da alcuni provocatori disposti in modo strategico, si accorgono che la band non più alcuna protezione. È un assalto. C’è chi tenta di strappare loro un pezzetto d’abito o una ciocca di capelli per ricordo, ma c’è anche chi lancia oggetti e brandisce bastoni con l’evidente scopo di colpire per far male. È la vendetta di Marcos che si materializza in questo modo. In tutta l’area dell’aeroporto non c’è più un solo agente in divisa. Protetti più dalla velocità delle gambe che dai loro collaboratori i quattro si riparano in un locale di difficile accesso. Potranno imbarcarsi sull’aereo soltanto dopo l’intervento della rappresentanza diplomatica britannica e grazie all'aiuto materiale e alla protezione di un nutrito gruppo di volontari scelti tra il personale dell’aeroporto.



4 luglio 1971 - La leucemia uccide Donald McPherson dei Main Ingredient

Il 4 luglio 1971 muore di leucemia Donald McPherson, il leader del gruppo soul dei Main Ingredient. Cinque giorni dopo avrebbe compiuto trent’anni e da tempo combatteva la battaglia contro la malattia. La sua morte sembra chiudere la storia dei Main Ingredient, il gruppo vocale di cui è stato fondatore alla fine degli anni Cinquanta con i suoi amici Luther Simmons Jr. e Tony Sylvester. Per alcuni anni la loro non è stata una vita facile. Per necessità più che per scelta si adattano ad accompagnare i cantanti della scuderia Red Bird di Leiber & Stoller. Questo è il loro lavoro principale anche se ogni tanto riescono a ritagliarsi, a fatica, un piccolissimo spazio quando ottengono un buon successo con She blew a good thing con il nome di Poets. La loro disponibilità ad accettare un ruolo subalterno e, soprattutto, la loro costante necessità di sopravvivere, li costringe, però, a tornare nell’anonimo ruolo di accompagnatori vocali dei colleghi più fortunati. Solo nel 1966, in parte per il crescente successo ottenuto dal soul sulla scena musicale internazionale e, in parte, perchè i problemi di sopravvivenza sono ormai alle spalle, iniziano a pensare seriamente alla possibilità di proporsi in proprio. In un primo momento sembrano intenzionati a recuperare il vecchio nome di Poets, ma poi prevale la scelta di rompere i ponti con il passato. Nascono così i Main Ingredient. Come spesso accade, le buone intenzioni non bastano da sole a garantire il risultato. Per qualche tempo il gruppo fatica a trovare spazio in una scena, quella del soul, monopolizzata ormai da vecchi e nuovi personaggi che godono di maggiori simpatie presso le case discografiche. Più di una volta, di fronte alle delusioni e alle difficoltà, pensano di abbandonare tutto e tornare al vecchio, sicuro, mestiere degli accompagnatori vocali. Quando stanno per mollare arriva, improvviso, il successo, scandito da una serie di brani che entrano nelle classifiche dei dischi più venduti come I'm so proud, Spinnin' around e Black seeds keep on growing. La morte di McPherson interrompe però quella che sembrava una cavalcata trionfale. Dopo qualche tentennamento i suoi compagni decidono di continuare sostituendolo con Cuba Gooding e per un paio d’anni danno l'impressione di reggere bene alla perdita del loro leader. Nel 1974 l'addio di Sylvester, intenzionato a dedicarsi alla produzione, segna l'inizio del declino.

02 luglio, 2018

3 luglio 1930 - Tommy Tedesco, dal jazz al pop

Il 3 luglio 1930 nasce a Niagara Falls, New York, il chitarrista Tommy Tedesco, all'anagrafe Thomas Tedesco. Debutta sulla scena jazz nel 1953 con la formazione di Ralph Marterie e quindi si trasferisce a Los Angeles. Suona per qualche tempo con il trio di Joe Burton, e subito dopo forma un proprio gruppo con il quale si esibisce al Lighthouse. Nella seconda metà degli anni Cinquanta suona con Dave Pell e quindi con Chico Hamilton, Buddy De Franco, Jack Montrose, Mat Mathews, Herb Geller e altri. Nel pop ottiene un grande successo soprattutto nelle colonne sonore. Muore il 10 novembre 1997 a Northridge, in California.



2 luglio 1928 - Line Renaud, la ragazza del music hall

Il 2 luglio 1928 a Pont de Nieppe nasce Line Renaud. «Dalle brume del Nord della Francia alle luci di Hollywood e di Las Vegas». Così è stata sintetizzata la straordinaria avventura di Line Renaud, l’applaudita vedette dei music-hall parigini che negli anni Cinquanta porta le atmosfere e le canzoni degli chansonniers francesi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Bionda “come un angelo” brucia le tappe e arriva presto al grande successo internazionale dopo aver precocemente conquistato il pubblico parigino del music-hall. Per la sua storia artistica Line Renaud ha finito per diventare un po’ l’elemento di contatto, il ponte attraverso il quale due mondi dello spettacolo apparentemente lontani come quella francese e quello angloamericano si incontrano. La sua voce regala al pubblico d’oltremanica e d’oltreoceano i brani migliori della canzone d’autore della sua terra e, in una sorta di ideale compensazione, porta in Francia le versioni nella lingua di casa dei grandi successi internazionali. Quando prima il cinema e poi la televisione la chiamano, lei non si tira indietro. Si impegna con la costanza e l’instancabile voglia di migliorarsi che da sempre l’hanno caratterizzata finendo per allargare la sua popolarità anche a un pubblico diverso da quello che l’ha scoperta attraverso le canzoni. Proprio il cinema e la televisione le consentono di superare indenne il passare del tempo e la morte del grande amore della sua vita affacciandosi al nuovo millennio con una ritrovata voglia di nuove avventure artistiche.Il 2 luglio 1928 a Pont de Nieppe, un borgo del Nord della Francia vicino alla città d’Armentières, nasce una bambina. Si chiama Jacqueline Enté e, come i personaggi delle favole, ha i capelli d’oro e le guance rosse e vellutate come i petali di rosa. La madre è una stenodattilografa, mentre suo padre fa il camionista e nel poco tempo che gli resta suona la tromba nella banda municipale. La musica incanta la piccola Jacqueline e i genitori la incoraggiano. A sette anni vince il suo primo concorso canoro. Sono anni difficili per tutti. Sull’Europa aleggiano nuove nubi di guerra e suo padre, come gran parte degli uomini in grado di portare un’arma, viene richiamato. Finirà prigioniero e la sua assenza da casa durerà cinque anni. A prendersi cura di Jacqueline restano tre donne: sua madre e le due nonne, una delle quali possiede un caffè ad Armentières nel quale la biondissima ragazzina spesso si esibisce cantando per gli avventori. Nelle intenzioni della famiglia la musica dovrebbe restare poco più di un hobby per la sempre meno piccola Jacqueline, ma come spesso succede il destino ha in serbo qualche sorpresa. Nel 1942 la ragazza legge su un giornale l’annuncio dell’apertura delle audizioni per entrare al Conservatorio di Lille. Nella sua beata ingenuità non fa caso al fatto che l’ammissione al Conservatorio è prevista soltanto per le interpreti di canto classico. Si presenta davanti alla commissione e canta Sainte-Madeleine e Mon âme au diable, due canzoni scritte da Loulou Gasté, uno dei più popolari compositori di quel periodo. Nonostante le premesse l’audizione sortisce comunque un effetto. Al termine dell’esibizione Jacqueline viene avvicinata dal direttore di Radio Lille che vorrebbe scritturarla. Superate le resistenze di mamma e nonne a quattordici anni firma un contratto biennale per interpretare sulle onde della radio le canzoni di Loulou Gasté. Sceglie anche un nome d’arte. Jacqueline Enté diventa così Jacqueline Ray. Come Dio vuole anche la guerra finisce e gli occupanti nazisti lasciano finalmente la Francia. Nell’entusiasmo del dopoguerra Radio Lille finisce per essere un orizzonte troppo limitato per le ambizioni di Jacqueline che decide di tentare la fortuna a Parigi. Nel 1945 ottiene la sua prima scrittura alle Folies Belleville, uno dei più prestigiosi music-hall di quel periodo. Josette Daydé, la vedette dello spettacolo, la rende in simpatia e quasi per farle un regalo decide di presentarle quel Loulou Gasté che è da sempre il suo idolo e del quale interpreta ogni sera le canzoni. L’incontro è fatale per entrambi. Jacqueline ha sedici anni, il compositore ne ha trentasette, ventuno in più, ma tra i due è amore a prima vista. Gasté decide anche di seguirla sul piano artistico. Le impone un cambiamento radicale dell’impostazione scenica, uno stile nuovo, vestiti diversi e, ciliegina sulla torta, anche un nome d’arte più facile da ricordare. Jacqueline, troppo lungo, si accorcia in Line mentre il cognome della nonna materna, Renaud, sembra fatto apposta per restare nella memoria. Scritturata da Radio Luxembourg fa il suo debutto in un programma musicale della domenica che arriva in tutte le case di Francia. Dopo aver registrato qualche brano con la Pacific, in breve tempo si ritrova con un buon contratto discografico con la Pathé Marconi. Tutto scorre così veloce che la ragazza fatica a raccapezzarsi. La prima canzone pubblicata con la prestigiosa etichetta è Ma cabane au Canada, un brano scritto per lei da Loulou Gasté che vince il premio destinato al miglior debutto del 1949 al Gran Prix du Disque. Nello stesso anno canta al Théâtre de l’Etoile aprendo un concerto di Yves Montand e parte per la sua prima tournée fuori dai confini francesi. Il 1950 la vede collezionare un successo dopo l’altro con brani come Ma petite folie o Etoile de neiges, versioni francesi di grandi successi statunitensi di quegli anni. L’anno vede anche il suo trionfo come vedette all’ABC, uno dei music-hall più importanti di Parigi e il matrimonio con Loulou Gasté. Molto apprezzata anche dal pubblico britannico la ragazza comincia ad catturare anche le attenzioni del cinema. Nel 1951 gira il suo primo film. È “Ils sont dans les vignes” di Robert Vernay cui seguono, l’anno dopo, “Paris chante toujours” di Pierre Montazel e nel 1953 “La route du bonheur” di Maurice Labro. Nel 1954 Line Renaud viene scritturata dal Moulin Rouge. La sua popolarità è tale che il celebre locale si garantisce il tutto esaurito per tutti e quattro i mesi in cui il suo nome resta in cartellone. Proprio al Moulin Rouge la vede per la prima volta il comico e intrattenitore Bob Hope che l’invita a partecipare ben cinque puntate del suo show televisivo, forse il più popolare della televisione statunitense di quel periodo. Il successo è immediato. Line canta nei locali più prestigiosi d’oltreoceano e registra anche un brano in duo con Dean Martin intitolato Relaxed-vous. Per tutti gli anni Cinquanta farà la spola tra la Francia e gli Stati Uniti passando anche un lungo periodo a Las Vegas dove il suo nome in cartellone affianca quelli di personaggi come Frank Sinatra o Louis Armstrong. Continua a mietere successi anche nel cinema e, a partire dalla fine degli anni Sessanta, in televisione dove si fa apprezzare per la sua capacità di intrattenitrice e showgirl. Proprio alla televisione francese conduce nel 1973 il varietà “Line direct”. Gli anni passano ma Line sembra non accorgersene e nel 1980 festeggia i trent’anni di carriera al Casino con una serata cui partecipa tutta Parigi. La ventenne principessa del music-hall ha lasciato il posto a una matura e consapevole donna di spettacolo che non disdegna di spendere il suo nome e impegnarsi per cause come la battaglia contro la diffusione dell’AIDS in Africa e nei paesi poveri del mondo. Il lavoro e l’amore del pubblico sono due alleati preziosi che le consentono di superare anche la più brutta sorpresa che il destino potesse farle. L’8 gennaio 1995 alle otto del mattino nella loro casa di Rueil Malmaison, si porta via Loulou Gasté, l’uomo della sua vita. La scomparsa lascia un vuoto immenso e più di mille canzoni. Negli ultimi anni il cinema e la televisione tendono a prevalere sull’attività canora di Line Renaud anche se, di tanto in tanto non disdegna di tornare in sala di registrazione come accade nel 2002 quando, insieme a Charles Aznavour, Nana Mouskouri, Garou e tanti altri registra l’album Feelings, un dolcissimo omaggio al marito scomparso.