Il 29 dicembre 1982 muore a ottantasette anni Abramo Allione, uno dei pionieri dell'editoria musicale italiana. Nato a Torino nel 1910, a quindici anni se ne va a San Paolo del Brasile seguendo il padre, un industriale di tessuti. Due anni dopo il padre muore e lui torna nella sua città natale dove inizia a pubblicare "L'Estudiantina", un periodico dedicato sia alla musica classica che alla musica leggera. Alla rivista, il cui titolo pare ispirato a quello di un celebre valzer di Emil Waldteufel, collaborano compositori prestigiosi per l'epoca come Arona, Brunetti, Ravasegna e altri. In un epoca in cui molti considerano ancora la musica una sorta di nicchia per un'élite lui è uno dei pochi a prevederne una crescente diffusione di massa. Nel 1916 raddoppia. A "L'Estudiantina" affianca un secondo periodico, "L'Araldo Musicale, e contemporaneamente apre un negozio di musica sempre a Torino in via Carlo Alberto. Nel 1919 ottiene finalmente dalla Siae la sospirata qualifica di editore musicale e di compositore. Tre anni dopo apre anche una sede a Parigi. In questo periodo tra i suoi collaboratori ci sono i famosi autori di rivista Ripp e Bel Amì e il fiorentino Odoardo Spadaro, che pubblica per le sue edizioni la fortunata Ninna nanna delle dodici mamme. Pur con una sospensione tra il 1940 e il 1950 la sua attività non cesserà fino alla morte, anche se a partire dagli anni Settanta cederà l'editrice al figlio. Tra i grandi successi lanciati da Allione ci sono brani famosissimi come Creola, Sotto il cielo delle Antille e Nilo blu oltre a Il tango delle rose e Nannì.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
28 dicembre, 2018
28 dicembre 1928 – Nasce il Grand Terrace Café
Il 28 dicembre 1928 a Chicago, in uno stabile situato al 3955 di South Parkway viene inaugurato il Grand Terrace Café, un night club destinato a lasciare un segno nella storia del jazz e della città che lo ospita. Nell'atmosfera riscaldata dall'orchestra di Earl Hines il manager del locale Edward Fox intrattiene gli ospiti, tutti bianchi e muniti di regolare ed esclusivo invito, spiegando di essersi ispirato direttamente al celebre Cotton Club di New York. Il locale è in linea con la più ottusa applicazione di quell'apartheid mai dichiarato esplicitamente negli States dopo la guerra di Secessione, ma rigorosamente applicato ovunque ce ne sia la possibilità. L'entrata, infatti, è riservata alla sola clientela bianca. Tutte le persone più in vista di Chicago partecipano all'inaugurazione, autorità comprese, nonostante tutti sappiano che Fox è, in realtà, il prestanome di Joe Fosco, uno dei luogotenenti di Al Capone. L'orchestra di Earl Hines, inizialmente contattata soltanto per la serata inaugurale, viene riconfermata diventerà una sorta di gruppo fisso del locale totalizzando ben nove anni di ininterrotte presenze fino al 24 gennaio 1937, quando il Grand Terrace Café chiuderà i battenti. Non sarà, però, una chiusura definitiva, ma soltanto un cambiamento di facciata. Cinque mesi dopo, il 19 giugno dello stesso anno, infatti, il locale riaprirà al 317 della 35a Strada Est. Non ci sarà più il gruppo di Hines, sostituito dall'orchestra di Fletcher Henderson, cui subentrerà in seguito quella di Count Basie. Nel 1939 Earl Hines dedicherà al locale il brano Grand Terrace shuffle.
26 dicembre, 2018
26 dicembre 1929 - Monty Ludwig, talento e contrabbasso
Il 26 dicembre 1929 nasce a Pender, in Nebraska, il contrabbassista Monty Ludwig, registrato all’anagrafe con il nome di Monte Rex Budwig. Figlio d’arte segue la madre pianista e il padre sassofonista contralto nel vagabondaggio artistico dell’orchestra cui appartengono. In una situazione così la scelta di diventare musicista appare quasi naturale. Subito dopo aver terminato le scuole superiori a Los Angeles inizia a suonare il contrabbasso nei ristretti ambienti del jazz californiano non senza qualche aiuto da parte dei genitori. A partire dal 1950 comincia a muoversi da solo senza bisogno di spinte particolari. Proprio in quell’anno, infatti, ottiene il primo ingaggio regolare da Anson Weeks, e poi viene scritturato da Vido Musso. Quando tutto sembra andare bene la chiamata alle armi per il servizio militare rischia di tagliargli le ali. Lui comunque cerca di fare necessità virtù suonando con la big band dell'aviazione. Tornato a Los Angeles nel 1954, suona per Barney Kessee e Zoot Sims, quindi entra a far parte del trio di Red Norvo nel quale rimane più di un anno. Successivamente compie il primo grande salto di qualità diventando il contrabbassista di Woody Herman col quale suona a lungo, sia nell’orchestra, sia nelle formazioni più ridotte. Quando lascia Herman brilla ormai di luce propria. Pur unendosi al gruppo di Shelly Manne ogni tanto se ne va per partecipare ai concerti del quartetto di Benny Goodman a New York. È lui il contrabbassista dell’orchestra di Goodman nella famosa tournée in Giappone del 1964. Successivamente preferirà spaziare in vari campi componendo e suonando per la televisione e il cinema, senza rinunciare a prestare il suo contrabbasso alle registrazioni e alle esibizioni di artisti come Shelly Manne, Benny Goodman, Terry Gibbs, Carmen McRae, Sarah Vaughan, Charles McPherson e tanti altri.
25 dicembre, 2018
25 dicembre 1954 – Johnny Ace, il primo morto del rock
Il giorno di Natale del 1954 Johnny Ace finisce la sua vita a ventidue anni con un buco in testa e passa inconsapevolmente alla storia come il primo dei “morti del rock”. Dopo di lui la lista delle morti violente si allungherà all’infinito alimentata senza soluzione di continuità da processi di autodistruzione personale, fenomeni di fanatismo assassino e storie di vite bruciate in un mattino. Johnny diventerà il simbolo di tutto questo, il primo passo di una storia drammatica, la faccia oscura del music business e Paul Simon nel 1983 gli regalerà The late great Johnny Ace una delle canzoni più intense dell’album Heart and Bones. Il ragazzo muore nei camerini del City Auditorium di Houston, mentre insieme ai suoi Beale Streeters sta partecipando al Negro Christmas Dance, un concerto a più voci con tutti i protagonisti di quel genere di rhythm and blues che ancora non ha un nome e che tra qualche anno si chiamerà rock and roll. Si spara per un gioco stupido, una roulette russa apparentemente senza rischi dove il peso dell’unico proiettile dovrebbe ruotare l’oliatissimo tamburo della sua calibro 22 verso il basso in modo da non mettere mai il colpo in canna. Qualcosa si inceppa e Johnny ci lascia le penne. Una fine stupida favorita da quello stesso amore per le armi da fuoco che in questi anni sta decimando i protagonisti dalla scena rap e hip hop. Anche il suo funerale segnerà l’inizio di un rito destinato a ripetersi. Più di cinquemila persone accorreranno al Clayborn Temple di Memphis per accompagnare nell’ultimo viaggio la bara trasportata a mano e scortata da personaggi destinati a diventare protagonisti del rock e del rhythm and blues come Little Junior Parker, Roscoe Gordon, Harold Conner, Don Robey, B.B. King e Willie Mae Thornton. Sull’onda dell’emozione i suoi dischi arriveranno al vertice della classifica delle vendite e il music business scoprirà come, a volte, la morte per i padroni della musica renda di più della vita. Pezzi gradevolmente commerciali come My song, The clock e Pledging my love, che in condizioni normali non sarebbero durati più a lungo di una stagione, vengono consacrati dalla fine tragica del loro interprete e si trasformano in long sellers, cioè in un affare di lunga durata per i detentori dei diritti. E anche il giovane John M. Alexander, in arte Johnny Ace, ex pianista prodigio dei gruppi di Memphis inventatosi balladeer un po’ per gioco e un po’ per sfida, entrerà nella storia e, contemporaneamente, insegnerà agli squali della nascente industria discografica una lezione di cui faranno tesoro. Gli eccessi, i drammi e le tragedie personali cessano di essere un fatto privato, come accaduto fino a quel momento nel jazz e anche nella musica classica, per diventare uno dei tanti elementi promozionali di quel grande affare costruito attorno alla diffusione di massa della musica e dei prodotti collegati. Tutto ciò comincia nel 1954 in un camerino quando un ragazzo di ventidue anni uccidendosi in un gioco stupido entra nella storia. È da quel momento che la morte dei protagonisti della scena musicale inizia a entrare nei bilanci del music business sotto la voce “promozione”.
24 dicembre, 2018
24 dicembre 1966 – Tommy James & The Shondelles registrano "I think we’re alone now"
Il 24 dicembre 1966 Tommy James & The Shondelles registrano I think we’re alone now, il brano di maggior successo della band che verrà poi ripreso nel 1980 da Lene Lovich. La canzone segna il culmine del momento d’oro di Thomas Jackson (questo è il nome vero di Tommy James) uno degli emblematici protagonisti del successo della "bubblegum music", un genere caratterizzato dall’orecchiabilità non ossessionante, la ballabilità e il disimpegno. Nato a Daytona, nell’Ohio porta ancora i calzoni corti quando forma il suo primo gruppo battezzato Tommy James & The Tornados. Successivamente Si unisce agli Shondells, un gruppo di Greensboro, sobborgo di Pittsburgh, composto dal chitarrista Joe Kessler, dal sassofonista George Magura, dal batterista Vinnie Pietropaoli, dal tastierista Ronnie Rosman e dal bassista Mike Vale. L’inizio dell’avventura non è incoraggiante. Nel 1963 infatti l'album At the saturday hop e il singolo Hanky Panky fanno fiasco. La delusione è tanta e il gruppo si separa. Il destino però ha in serbo un altro finale. Tre anni dopo, nel 1966, un dj dell'emittente radiofonica KDKA di Pittsburgh comincia a mettere sul piatto in modo ossessionante proprio Hanky Panky. Il disco, ormai fuori mercato, diventa il più richiesto e il più prenotato in città tanto che viene ristampato dalla Roulette e in pochi giorni arriva al vertice delle classifiche di vendita con oltre un milione di copie vendute negli Stati Uniti. Visto il successo la casa discografica rintraccia in tutta fretta il buon Tommy e, denaro alla mano, lo convince a rimettere in piedi la sua band. Gli Shondells rinascono così con una formazione che comprende, oltre a Tommy e ai “vecchi” Mike Vale e Ronnie Rosman, il chitarrista Eddie Gray e il batterista Peter Lucia. È l'inizio di un successo travolgente. Fino al 1970 Tommy James and The Shondells riescono a piazzare venti brani consecutivi nelle classifiche, tutti scritti da Tommy James e Bob King con la supervisione, obbligatoria per contratto, della coppia di autori e produttori Bo Gentry e Ritchie Cordell. A differenza di altri gruppi della "bubblegum music" Tommy e la band fanno intravedere una notevole potenzialità musicale, che sembra eccessivamente compressa dalla necessità di sfornare prodotti di rapida commercializzazione. I think we're alone now rappresenta il culmine di una parabola scandita da brani come Out of the blue, Get out now o Mony Mony. Alla fine il gruppo, stanco di essere imprigionato nella monotonia commerciale della bubblegum music si libera della produzione di Gentry e Cordell e decide di autoprodursi. Il primo risultato è la splendida Crimson and clover registrata in due versioni: una di cinque minuti e mezzo per l'album omonimo e una ridotta per il singolo. Nel 1970 Tommy viene colpito da un collasso in Alabama e la band finisce anche se gli Shondells proseguiranno per un po’ con il nome di Hog Heaven.
23 dicembre, 2018
23 dicembre 1941 – Tim Hardin, il cantautore che discende da un fuorilegge
Il 23 dicembre 1941 nasce Tim Hardin, l'ultimo in ordine di tempo rampollo di una famiglia il cui capostipite è il celebre fuorilegge John Wesley Harding, un tipo svelto con la pistola delle cui gesta narrano molte canzoni del folklore popolare statunitense. Il piccolo Tim impara a suonare la chitarra e dopo aver saldato i debiti con la scuola e il servizio militare, inizia a sbarcare il lunario nei folk-clubs di Boston. Sono da poco iniziati gli anni Sessanta. Il folk è in grande fermento sotto la spinta di personaggi storici come Pete Seeger o Peter, Paul & Mary e l’incalzare di nuovi protagonisti come Joan Baez e Bob Dylan. Tim è attratto soprattutto da quest’ultimo, un arruffato e scontroso cantautore dalla voce nasale che ha dedicato anche un brano al suo antenato fuorilegge. Boston è troppo piccola per lui che decide di andarsene al Greenwich Village, il cuore e l’anima del nuovo movimento folk. In breve tempo diventa uno degli animatori della scena musicale alternativa insieme a Judy Collins, Phil Ochs, Tom Paxton e molti altri. Le sue composizioni escono dai canoni tradizionali del folk per farsi contaminare dai generi musicali più diversi. Non si sente prigioniero di uno stile e i suoi concerti alla testa di una band di cui fa parte anche il futuro leader dei Mountain Felix Pappalardi diventano un appuntamento da non mancare. Nel 1966 pubblica l’album Tim Hardin I, il primo di una lunga serie, anche se i suoi brani sono destinati a vivere di vita propria al di là dell’interpretazione dell’autore. Nico, l’inquietante e dolcissima cantante dei Velvet Underground, inserisce nel suo album Chelsea girl molte composizioni di Hardin e i Nice di Keith Emerson, profeti del nascente progressive britannico, eseguono nel loro concerto newyorkese al Fillmore East una versione della sua Hang to dream immortalata nell’album The Nice del 1969. Non è finita qui, perchè all’inizio degli anni Settanta la sua Reason to believe ottiene uno straordinario successo commerciale nell’interpretazione di Rod Stewart. Il successo arricchisce Tim Hardin ma non lo convince a cambiare vita. Sempre più ai margini dello star system e troppo innamorato dell’eroina morirà d’overdose il 29 dicembre 1980 durante la registrazione dell’ennesimo album.
21 dicembre, 2018
22 dicembre 1984 – Like a virgin
Il 22 dicembre 1984 Madonna arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti con il singolo Like a virgin. La gigantesca campagna promozionale che ha preparato il terreno all'esplosione della cantante italoamericana ha finalmente raggiunto il suo scopo. Non si tratta di un successo casuale, anzi... La potente macchina promozionale della Warner Brothers da mesi sta preparando questo risultato. La scelta stessa del brano che fa da apripista all'album omonimo è destinata a suscitare polemiche. Le organizzazioni statunitensi per la difesa della morale, da sempre sul piede di guerra per questa ragazza poco vestita che si fa chiamare irrispettosamente Madonna, cadono nella trappola tesa loro dai geniali esperti di comunicazione della major e scatenano un putiferio per l'accostamento tra il concetto di verginità e il nome blasfemo. Il rapporto tra le proteste e le vendite è diretto. Mentre si grida alla bestemmia un video realizzato senza badare a spese porta attraverso MTV il volto e soprattutto il corpo di Madonna nelle case di tutti i giovani statunitensi. Le immagini seppelliscono forse definitivamente l'immagine precedente della cantante, ribelle e un po' punk, per imporre quella della donna fatale vestita da corsetti studiati apposta per colpire la fantasia dei più inguaribili feticisti. La campagna, studiata in ogni dettaglio e senza sbavature, si nutre di apparizioni pubbliche che richiamano i servizi fotografici. Madonna cessa di essere una persona per entrare nell'immaginario collettivo come una sorta di icona-sexy. Toccherà l'apice in occasione della consegna degli MTV Awards quando la cantante arriverà vestita esattamente come appare sulla copertina del disco, con un improbabile abito da sposa composto da una guépière e da una sottogonna bianca tempestata da mille cuoricini. Il gioco tra sensualità e simboli di purezza è volutamente "appesantito" dall'ostentazione costante di croci che diventano orecchini e pendenti. Al di là dei giudizi di merito il risultato sarà esattamente quello che la Warner Brothers si aspetta. Like a virgin resterà per un mese e mezzo al vertice della classifica dei singoli negli Stati Uniti e pian piano conquisterà anche la più smaliziata Europa. Finisce così l'epopea della donna ribelle e anticonformista portata sullo schermo dal film "Cercasi Susan disperatamente" e nasce una star patinata costruita a tavolino. La qualità annega nei lustrini, ma la Warner Brothers può festeggiare.
19 dicembre, 2018
20 dicembre 1907 – Cousin Joe, il bluesman che amava i fiumi
Il 20 dicembre 1907 nasce a Wallace, in Louisiana, il pianista e cantante blues Cousin Joe. Registrato all'anagrafe con il nome di Joseph Pleasant, fa le sue prime esperienze musicali accompagnando al pianoforte e all'organo i cori gospel delle chiese battiste della Louisiana, a quell'epoca rigorosamente riservate ai neri. Dagli altari passa poi ai locali di New Orleans e, soprattutto, ai battelli che scivolano lenti sul Mississippi carichi di un'umanità varia i cui si mescolano turisti, faccendieri, giocatori di professione e semplici passeggeri. Qui entra a far parte degli Hats & Coats, una gruppo specializzato nell'intrattenimento di cui fa parte anche un altro personaggio leggendario della musica di New Orleans: Captain John Handy. La sua voce calda e, soprattutto, le storie e le battute con le quali intrattiene il pubblico tra un brano e l'altro, fanno di lui un vero e proprio showman del blues. All'inizio degli anni Quaranta la proposta della Piron Band e le sue note si fanno più jazzate mentre accompagnano le navigazioni dei Battelli Steambot e Silver Slipper, due imbarcazioni che hanno fatto la storia del jazz di New Orleans. Nel 1945 il grande Sidney Bechet lo vuole con lui in sala di registrazione. Bastano quei pochi dischi registrati per la King Jazz a dargli l'immortalità. Eccitato dal successo dà retta agli impresario che vogliono portarlo via da New Orleans. Se ne prima a Chicago e poi a New York, ma non riesce a sopportare la vita di quelle città. Si chiude in se stesso, diventa malinconico e perde quella verve che caratterizzava le sue esibizioni sui battelli. Agli amici confessa di sentire la mancanza del grande fiume e della sua gente. La nostalgia finisce per avere il sopravvento. Nel 1948 torna sulle rive del suo amato Mississippi, in quella comunità nera del french quarter che non ha mai smesso di amarlo. Ritrova i vecchi amici e, soprattutto, ritrova un pubblico fedele pronto ad accorrere come un tempo ad ascoltare le sue lunghe storie alla Preservation Hall, alla Bourbon House o al Moulin Rouge. Ritrovata la voglia di suonare e di cantare giura a se stesso di non lasciare più New Orleans. Manterrà fede al giuramento, anche se a modo suo. Non lascerà mai completamente la sua città, ma scoprirà nell'Europa una sorta di seconda patria, «un paese che non ti fa sentire straniero». E in Europa accetterà di suonare dovunque, con una predilezione particolare per quelle città che sono attraversate da un fiume…
19 dicembre 1986 – Assolto Ozzy per "Suicide solution"
Il 19 dicembre 1986 il giudice John L. Cole mette la parola fine a una causa intentata dai genitori del diciannovenne John McCollum, suicidatosi nel gennaio dello stesso anno, contro Ozzy Osbourne e la sua casa discografica. La vicenda si inquadra nella ossessiva campagna condotta con grande dispiegamento mediatico negli anni Ottanta contro la musica rock ritenuta "demoniaca" e "corruttrice della sana gioventù americana". Il procedimento contro uno dei più discussi esponenti dell'hard rock e dell'heavy metal dovrebbe aprire la strada a una sostanziale censura nei confronti dei testi ritenuti "pericolosi". Il presupposto su cui si basa è insidioso. Infatti, secondo la tesi dei genitori, il ragazzo si sarebbe ucciso perché suggestionato dal brano Suicide solution di Osbourne. Da qui nasce una vicende giudiziaria che ha come apparente elemento centrale la richiesta di un risarcimento, ma che invece tende a introdurre la possibilità del sequestro di brani potenzialmente "corruttori". L'iniziativa, sostenuta dai media conservatori, è insidiosa perché punta a dividere l'opinione pubblica contraria alla censura costringendola a schierarsi al fianco di un personaggio ambiguo come Ozzy Osbourne, i cui brani fanno spesso a pugni con i princìpi del pluralismo e della tolleranza. La critica progressista, però, non cade nella trappola: non rinuncia a criticare testi, canzoni e atteggiamenti di Osbourne ma, contestualmente, ne difende la libertà d'espressione. La sentenza chiude la querelle rigettando il ricorso perché «nessuno può essere perseguito per una propria creazione artistica».
17 dicembre, 2018
17 dicembre 1978 – Don Ellis, una tromba e tanti generi
Il 17 dicembre 1978 a North Hollywood, in California, muore a quarantaquattro anni il trombettista Don Ellis. Nato a Los Angeles e registrato all’anagrafe con il nome di Donald Johnson Ellis assorbe l’amore per la musica dalla madre organista. Inizia giovanissimo a suonare la tromba e ancora studente guida già gruppetti a suo nome che si esibiscono nelle feste da ballo. Dopo essersi diplomato in composizione presso il conservatorio del New England a Boston, nel 1956 suona con l'orchestra del batterista Ray McKinley e tra il 1957 e il 1958 mentre veste la divisa presta la sua tromba a varie band militari di stanza in Germania. Finita la leva e tornato negli Stati Uniti suona con il sassofonista Charlie Barnet e con il trombettista Maynard Ferguson. Nel 1961 forma un proprio trio che l'anno dopo diventa un quartetto con cui riscuote grande successo. Nello stesso periodo collabora anche con il celebre arrangiatore George Russell. Nel 1963 forma la Improvisational Workshop Orchestra e nello stesso anno stupisce pubblico e critica con il suo virtuosismo solistico in Improvisations, una composizione di Larry Austin eseguita insieme alla New York Philharmonic diretta da Leonard Bernstein. Nel 1964 collabora con il compositore e studioso Gunther Schuller. Convinto che in musica nessuno possa mai sentirsi arrivato nello stesso anno si trasferisce a Los Angeles per riprendere a studiare teoria, composizione e armonia presso l'università della California. In quel periodo viene attratto dalle culture musicali asiatiche e forma lo Hindustani Jazz Sextet che gestisce in parallelo con una big band di ventitrè elementi. Successivamente se ne va a Buffalo, dove insegna nella locale università grazie a una borsa di studio offertagli dalla Fondazione Rockefeller. Instancabile sperimentatore si cimenta fino alla morte in tutti i generi possibili dimostrando un eclettismo in grado di produrre spesso frutti originali e stimolanti.
15 dicembre, 2018
16 dicembre 1988 – L'AIDS si porta via Sylvester
Il 16 dicembre 1988, dopo una lunga agonia, a quarantadue anni chiude definitivamente i conti con l'AIDS Sylvester, all'anagrafe Sylvester James, uno dei protagonisti più brillanti della Disco Music. Nato a Los Angeles nel 1946 si avvicina alla musica cantando gospel nella chiesa del suo quartiere. I cori gospel sono la più diffusa e, spesso unica scuola musicale per gran parte dei ragazzi e delle ragazze che agli occhi della classe dominante hanno la sfortuna di avere la pelle nera. Dal gospel al soul e al blues il salto è meno lungo di quel che si crede. Sylvester, stanco di una vita senza prospettive, se ne va a San Francisco. Qui entra in contatto con un ambiente che gli piace, ricco di stimoli, iniziative e fantasia. Dopo aver militato nel gruppo soul dei Cockettes, scopre il jazz e se ne innamora. In breve tempo diventa il leader della Hot Band, una formazione che propone strane mescole tra le sonorità del jazz orchestrale e le armonizzazioni vocali dei gruppi gospel. Nelle esibizioni si fa affiancare da un gruppo vocale femminile composto da tre sue care amiche: Martha Wash, Jeanie Tracy e da Izora Rhodes, la futura componente delle Weather Girls. All'inizio degli anni Settanta, quando il soul della Stax e della Motown ha da tempo conquistato anche il pubblico bianco, decide di sbarcare il lunario proponendosi come interprete dei brani più famosi del nuovo genere. Nel 1973 pubblica anche un album, intitolato Lights out San Francisco" che non riscuote molta fortuna, ma ne consolida la popolarità di interprete affidabile e adatto ai locali da ballo. Verso la metà degli anni Settanta, ormai trentenne, non nutre particolari illusioni sul suo destino, né sogna di diventare una star. Canta e pensa che, in fondo, non gli è andata male, visto che ha la possibilità di vivere senza doversi inventare ogni giorno un lavoro come molti di quelli che sono nati nel suo quartiere. In realtà la sua vita sta per cambiare. Nel 1977 il soul cambia ritmo, esplode la Disco Music con il film "La febbre del sabato sera" e lui si ritrova al vertice delle classifiche di vendita con il singolo Over and over. Inaspettatamente diventa una star internazionale. Sforna un successo dopo l'altro e si ritrova anche sul set del film "The rose". Le sorprese della sua vita non sono però finite. Scopre di aver contratto l'AIDS. Reagisce, continua a lavorare ma alla fine del 1987, dopo l'album Mutual attraction, la malattia entra nello stadio terminale.
14 dicembre, 2018
15 dicembre 1930 – Lilian Terry, l'italiana d'Egitto
Il 15 dicembre 1930 da padre maltese e madre italiana nasce al Cairo in Egitto la cantante Lilian Terry. A nove anni inizia a studiare pianoforte e a diciassette, quando ormai si è trasferita a Roma con la famiglia, si diploma presso l'Accademia di Santa Cecilia. Qualche anno dopo è una delle ospiti fisse del Circolo del Jazz della capitale. Nel 1953 è la prima cantante jazz ad apparire in video, con Nicola Arigliano e Memo Remigi, in una trasmissione sperimentale della sede RAI di Milano. L'anno dopo conduce il programma radiofonico "Canta Lilian Terry" che la rivela al grande pubblico. La sua popolarità è destinata ad allargarsi a macchia d'olio dopo la partecipazione a programmi televisivi di grande successo come "Totò club" e "Il mattatore" con Vittorio Gassman. È una delle pochissime voci femminili del jazz italiano che riesca ad affermarsi senza rinunciare alle sue radici. Nel 1962 conduce il programma televisivo "Abito da sera" nel quale canta con una lunga serie di jazzisti italiani e stranieri. In questo periodo raggiunge l'apice del successo commerciale con il brano My hearts belongs to daddy. Fino al 1969 partecipa a moltissime manifestazioni musicali in tutto il mondo, lavora alla realizzazione di varie colonne sonore, conduce trasmissioni radiotelevisive e pubblica numerosi dischi. Successivamente, però, sceglie di ridurre l'attività di cantante privilegiando quella di organizzatrice e conduttrice di programmi radiotelevisivi. Tra i suoi impegni c'è anche quello di promozione della musica jazzistica nell'ambito della Federazione Jazz di cui è socia fondatrice.
13 dicembre, 2018
14 dicembre 1981 – Claudio Villa e Luciano Tajoli finalmente insieme
Il 14 dicembre 1981 in Versilia al teatro tenda Bussoladomani si svolge un concerto intitolato “Finalmente insieme” che unisce sullo stesso palco i due interpreti più rappresentativi della tradizione melodica italiana: gli amici-nemici Claudio Villa e Luciano Tajoli. L’idea è di Bernardini, il padre padrone della Bussola, è stata accolta con entusiasmo dai due protagonisti e il concerto arriva dopo quelli di Julio Iglesias, Miguel Bosè e Claudio Baglioni. Nonostante una serata da tregenda, fredda, con una pioggia torrenziale e un vento di libeccio che piega gli alberi, sono più di quattromila gli spettatori che accorrono in Versilia per l'evento. Villa e Tajoli non deludono il pubblico. Regalano tre ore e mezza di canzoni esibendosi in una sorta di botta e risposta musicale accompagnato da un’orchestra vera. Le voci dei due campioni della melodia si inseguono sugli arrangiamenti elaborati dal maestro Maraviglia, che si è sbizzarrito a dare respiro alle trombe e ai sax, chiamando spesso in primo piano anche la sezione ritmica. Le prime due ore di concerto seguono una scaletta precisa poi, per oltre un'ora, c'è spazio per canzoni a richiesta, senza limitazioni e senza esclusioni di sorta. A notte fonda, quando ancora sul tendone di Bussoladomani infuria la bufera e il pubblico preme davanti ai camerini per salutare gli artisti Claudio Villa non perde l'occasione per criticare il music business italiano «Da più di vent’anni considerano Luciano impresentabile perchè zoppo. Da dieci anni non mi vogliono perché son vecchio, eppure... eccoci qua alla faccia di chi ci vuole morti e seppelliti!».
12 dicembre, 2018
13 dicembre 1950 – Coo Coo il simpatico
Il 13 dicembre 1950 a New Orleans, in Louisiana, una crisi cardiaca stronca il cinquantenne Elmer "Coo Coo" Talbert, un trombettista con la vocazione del mattatore in scena. Personaggio amatissimo per la sua simpatia ottiene il suo primo, vero, contratto professionale a ventinove anni quando entra nella formazione della Olympia Band di Arnold Du Pas, un'orchestra che ha al clarinetto un campione del calibro di George Lewis. Inizia tardi, ma recupera presto il tempo perso. All'inizio degli anni Trenta, infatti, Kid Rena lo vuole nella sua brass band. Nel 1935 è nel gruppo fisso del Mamie's Beer Garden di New Orleans al fianco di strumentisti come Paul Barnes e di Johnny St. Cyr. Fin dalla più tenera età soffre i problemi cardiaci che, con il procedere degli anni, si fanno sempre più complicati e ne limitano le possibilità. Nel corso degli anni Quaranta viene chiamato a far parte stabilmente della jazz band del suo vecchio compagno George Lewis. Con questo gruppo lavorerà anche a varie sedute registrazione. Esuberante sulla scena e dinamico alla tromba, sfrutta la sua abilità vocale per lanciarsi in divertenti improvvisazioni spesso articolate su una sorta di botta e risposta con il pubblico. Un po' per l'epoca e un po' per la sua fondamentale riluttanza a chiudersi in sala di registrazione quando muore non lascia molto di sé. A parte qualche registrazione con la band di Lewis, i suoi migliori documenti discografici restano quelli incisi nel 1946 sotto la leadership di Albert Jiles, rarissimi perché provenienti da una seduta di registrazione privata realizzata in modo artigianale.
11 dicembre, 2018
12 dicembre 1951 – Si spegne la voce meticcia di Mildred Bailey
Il 12 dicembre 1951 muore a soli quarantaquattro anni Mildred Bailey, una delle grandi voci dell’epoca swing. Nata a Seattle, Washington, si fa notare per il suo timbro in cui si mescolano gli echi della tradizione bianca e le suggestive vocalizzazioni dei nativi americani. Lei stessa è una mescola tra il sangue dei visi pallidi e quello dei pellirosse. Il suo debutto sul palco avviene con i Rhythm Boys di Paul Whiteman nei quali militano anche Bing Crosby e suo fratello Al Ringer. A partire dal 1929, prima donna a entrare nell'organico di una grande orchestra da ballo, diventa la cantante fissa della big band dello stesso Witheman, il maggior leader bianco di quegli anni. Nell’orchestra suona anche il vibrafonista Red Norvo. Mildred se ne innamora, lo sposa e poi si mette in proprio con un’orchestra a suo nome nella quale affida al marito un ruolo da solista di primo piano. La sua popolarità si allarga a dismisura dopo la partecipazione a vari show radiofonici e gli Stati Uniti sono affascinati dalla sua voce ampia e profonda capace di arrivare al registro acuto senza scomporsi. Proprio la sua voce trasforma molte canzoni in grandi successi e uno su tutti, Downhearted Blues, diventa il suo cavallo di battaglia più famoso. Nata con le grandi orchestre preferisce suonare con le big band di Red Norvo, Teddy Wilson e John Kirby, i tre leaders preferiti, anche se non disdegna esibirsi qualche volta con complessi più piccoli come quelli di Eddie Lang, Jimmie Noone e Benny Goodman. Nel dopoguerra quando l’epoca delle grandi orchestre è praticamente finita in molti pensano a lei come all’erede di Bessie Smith, immaginandola come una nuova “signora del blues”. Le ipotesi restano tali perché la morte se la porta via.
10 dicembre, 2018
11 dicembre 1990 – Metal Gurus, l'altra faccia dei Mission
L’11 dicembre 1990 i Mission, consacrati dall’album Carved in sand tra le migliori band britanniche di quel periodo, chiudono un lungo tour che li ha portati in giro per l’Europa con il primo di due concerti alla Brixton Academy di Londra. Proprio nello stesso giorno arriva nei negozi un divertente brano natalizio ispirato al glam degli anni Settanta e intitolato Merry Christmas everybody. La copertina del disco lo attribuisce a un gruppo che risponde al nome di Metal Gurus, di cui nessuno ha mai sentito parlare. La concomitanza dei due avvenimenti sembra del tutto casuale, vista la differenza che c’è tra il genere proposto dai Mission e la musica destinata al rapido consumo. Nessuno si sarebbe sognato di cercare punti di connessione tra due fatti così distanti se una giornalista non avesse notato la presenza del disco tra le cianfrusaglie sparpagliate dai Mission nei camerini. «Hey, ragazzi, quel disco è uscito proprio oggi. Non è il vostro genere, ma vi piace?». La domanda ottiene risposte evasive e imbarazzate. Sempre più incuriosita dalle stranezze e dalle coincidenze, il giorno dopo decide di saperne di più su questi fantomatici Metal Gurus. Telefona all’ufficio stampa della casa discografica e ottiene altre risposte evasive destinate a non sciogliere il mistero su una band che osa riproporre gli schemi commerciali del glam all’inizio degli anni Novanta. Non s’arrende, continua a cercare e, passo dopo passo arriva alla verità: i Metal Gurus sono in realtà gli stessi Mission che, per evitare di compromettere l’immagine di gruppo impegnato, hanno firmato con uno pseudonimo. La rivelazione, lungi dal danneggiarla, alimenta la simpatia del pubblico nei confronti della band formata nel 1985 dal chitarrista e cantante Wayne Hussey e dal bassista Craig Adams dopo la loro separazione dai Sisters of Mercy. La formazione storica dei Mission è completata dal chitarrista Simon Hinkler e dal batterista Mick Brown. Hinkler, però, proprio nel periodo della “burla” del disco natalizio matura l’intenzione di chiudere l’esperienza. Quando se ne andrà verrà sostituito prima da Dave Woldfenden e successivamente da Paul Etchells. I cambiamenti ritarderanno la pubblicazione del nuovo album Masque che non vedrà la luce fino al 1992.
10 dicembre 1966 - Jeff Beck chiama Rod Stewart
Il 10 dicembre 1966 Jeff Beck, da poco orfano degli Yardbirds, alza il telefono e chiama un semisconosciuto cantante scozzese. Il suo nome è Rod Stewart, anche se negli ambienti è conosciuto come Rod The Mod, e da pochi mesi fa parte degli Shotgun Express, un gruppo formato dal futuro leader dei Camel Peter Bardens, dai futuri Bluesbreakers di John Mayall, nonché futuri Fleetwood Mac Mick Fleetwood e Peter Green, da Dave Ambrose e da Beryl Marsden. La formazione dopo un solo singolo, I could feel the whole world turn round, sembra già arrivata alla frutta. Jeff Beck pensa a lui per il ruolo di cantante nel gruppo che sta costituendo. Lo chiama e gli racconta che la banda si chiamerà semplicemente Jeff Beck Group e che ha già reclutato l'ex Birds Ron Wood alla chitarra e all’occorrenza al basso, l'ex batterista dei Pretty Things Viv Prince e l'ex bassista degli Shadows Jet Harris. Rod Stewart tergiversa un po’ poi si lascia convincere. Nasce così la prima formazione del Jeff Beck Group, un ensemble destinato a lasciare più un segno per la sua instabilità che per le tracce su disco. Ben presto, infatti, Prince e Harris se ne andranno e verranno sostituiti dall'ex batterista dei Tridents Ray Cooke e dal bassista Dave Ambrose. Successivamente anche Cooke e Ambrose lasceranno la band determinando il passaggio di Ron Wood al basso, e l’arrivo di ben tre batteristi in successione: prima Rod Colombes, poi Aynsley Dunball e infine Mickey Waller. Nell'estate del 1969, dopo un pugno di dischi, anche Rod Stewart deciderà di cambiare aria. Con lui se andrà anche Ron Wood. Insieme si uniranno agli Small Faces, da poco orfani di Steve Marriott, andatosene per formare gli Humble Pie e dall’unione prenderà il via una nuova fantastica storia, quella dei Faces.
08 dicembre, 2018
9 dicembre 1955 – Funerali jazz per Joe Kid Avery
Il 9 dicembre 1955 muore a Waggeman, in Louisiana, il trombonista Joe "Kid" Avery. Ha sessantatré anni. La sua carriera musicale inizia nel 1912 quando si trasferisce a New Orleans e comincia a prendere lezione di trombone da Dave Perkins, pilastro fondamentale della celeberrima Jack Laine’s Reliance Brass e appassionato scopritore di giovani talenti. Nel 1915 il giovane Kid Avery entra a far parte della Tulane Orchestra diretta da Amos Riley. Nonostante la precarietà del rapporto, mai contrattualmente definito, ci resta, con varie interruzioni, per quasi cinque anni. Passa poi alla Black Eagle Band del cornettista Evan Thomas. All’inizio degli anni Trenta è uno dei protagonisti dello straordinario successo della Young Tuxedo Brass Band, la formazione diretta dal clarinettista John Casimir destinata a lasciare un segno importante nella storia del jazz. Successivamente si mette in proprio con una band dalla formazione variabile che avrà una vita lunghissima e che porta impresse le caratteristiche della sua concezione musicale: un suono compatto, vigoroso e aggressivo, senza abbellimenti, assoli o break. Nonostante la buona fama di cui gode ottiene soltanto nel 1949 il primo vero contratto discografico. Glielo offre la Paradox, una delle etichette più importanti di New Orleans che, nel mese di maggio di quell'anno, registra le sue prime performance insieme agli Speakeasy Boys del clarinettista Raymond Burke, con Wooden Joe Nicholas alla tromba, Johnny St. Cyr al banjo e Bob Matthews alla batteria. Da quel momento diventa un ospite fisso delle sale di registrazione di New Orleans. Memorabile resta la seduta del 13 maggio 1954 con gli Hot Five di Johnny St. Cyr che, per l'occasione, schierano, oltre a lui, Thomas Jefferson alla tromba, Willie Humphrey al clarinetto, Jeanette Kimball al pianoforte e Paul Barbarin alla batteria. La sua morte coglie di sorpresa l'ambiente del jazz di New Orleans che si sposta massicciamente a Waggeman, la sua città natale, per i funerali. Durante le esequie funebri suonano l'Eureka Brass Band al gran completo e tutti i suoi vecchi partner della Young Tuxedo Brass Band, compreso il trombonista Bob Thomas che esegue da solo una commovente versione di Oh didn’t he ramble. Anni dopo entrambi i gruppi registreranno un brano in sua memoria: Joe Avery’s piece la Young Tuxedo Brass Band e Joe Avery’s blues l’Eureka Brass Band.
8 dicembre 1980 - Viva Litfiba!
L'8 dicembre 1980, proprio il giorno in cui negli USA viene assassinato John Lennon, alla Rockteca Brighton di Firenze fa il suo debutto una nuova band destinata a diventare uno dei simboli della resistenza all’omologazione sulla scena rock italiana degli anni Ottanta. Sono i Litfiba, un gruppo nato dall’incontro tra il chitarrista Federico “Ghigo” Renzulli e il bassista Gianni Maroccolo, reduci dalle esperienza con Raf e i Café Caracas, con Piero Pelù l'ex cantante dei Mulinos Rock. La formazione è completata dal tastierista Antonio Taiazzi e dal batterista Francesco Calamai. Alla loro prima uscita pubblica i Litfiba mostrano inevitabili carenze d'impostazione. La loro musica, ricca di echi dark, appare debitrice nei confronti di band come i Cure e soprattutto i Joy Division. Pochi mesi dopo daranno alle stampe il loro primo progetto su vinile, un disco realizzato dalla Materiali Sonori di S. Giovanni Valdarno che comprenderà anche l'ipnotico Guerra, destinato a diventare il primo inno della band. Sono i primi passi, un po' incerti e confusi, di un band imperniata sul trio Pelù-Maroccolo-Renzulli che, con vari cambiamenti di formazione, diventerà una delle anime sonore delle esperienze alternative italiane degli anni Ottanta. La stessa storia dei Centri Sociali, in quel periodo divenuti preziose isole di resistenza alla progressiva individualizzazione delle giovani generazioni, si intreccerà spesso con la storia del gruppo. La fine del decennio terribile degli Ottanta vedrà la loro consacrazione definitiva e insieme l'inizio della disgregazione con una progressiva commercializzazione seguita dalla fuga di tutti i componenti storici tranne Ghigo Renzulli.
07 dicembre, 2018
7 dicembre 1957 - Il Musichiere
Sabato 7 dicembre 1957 alle 21.05 da uno dei sei studi del nuovissimo centro di produzione RAI di via Teulada a Roma va in onda la prima puntata de "Il Musichiere", un programma televisivo di quiz musicali scritto da Garinei e Giovannini che originariamente doveva intitolarsi "Conosci questo motivo?", versione italiana della popolarissima trasmissione statunitense "Name this tune". Presentato come una sorta di "Lascia o raddoppia?" musicale, "Il Musichiere" è, in realtà, il primo grande varietà televisivo del sabato sera. Gran parte del suo successo è dovuta alla conduzione di Mario Riva, un comico romano garbato e intelligente. Le musiche sono tutte di Gorni Kramer, compresa la famosissima sigla di chiusura, "Domenica è sempre domenica" composta insieme a Garinei e Giovannini. I motivi da indovinare vengono cantati da una coppia di cantanti fissi composta da Nuccia Bongiovanni e Paolo Bacilieri, mentre le vallette della prima edizione sono Lorella De Luca e Alessandra Panaro che, negli anni successivi, verranno sostituite da Carla Gravina e Patrizia Della Rovere e, più tardi ancora, da Brunella Tocci e Marilù Tolo. Il programma è interamente dedicato alla musica. Gli ospiti d'onore, anche quelli non musicali, vengono costretti a cantare in diretta da Mario Riva in ossequio all'impostazione generale della trasmissione. I telespettatori italiani avranno così modo di assistere alle esibizioni canore di attori come Gary Cooper, Jack Palance e Totò, di calciatori e, soprattutto, dei due grandi rivali Fausto Coppi e Gino Bartali costretti a cimentarsi addirittura in duetto.
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