Il 7 giugno 1971 a Palm Springs, in California, viene ritrovato il corpo del sessantasettenne batterista, cantante e direttore d’orchestra Ben Pollack. Si è impiccato. Le ragioni della tragica decisione sono sconosciute. C’è chi ipotizza dissesti finanziari e chi invece tenta di scavare nella sua travagliata vita sentimentale. Al di là delle motivazioni, se ne va per sempre uno dei protagonisti del jazz orchestrale, abile batterista dixieland e leader dalle grandi capacità. Nato a Chicago, nell'Illinois, inizia da ragazzo a suonare la batteria in vari gruppi studenteschi. Non ha ancora compiuto diciott'anni quando ottiene il suo primo ingaggio importante da Dick Shoenberg che lo scrittura per suonare con il suo gruppo al Navy Pier di Chicago. È l'inizio di un periodo frenetico in cui Ben vagabonda per gli Stati Uniti passando dalla band del pianista Izzy Wagner ai New Orleans Rhythm Kings, dal gruppo del clarinettista Larry Shields a quello di Harry Bastin. Nel 1924 entra in crisi. Stanco di quella vita torna alla sua Chicago, deciso ad abbandonare l'attività musicale e a dedicarsi, insieme con i familiari, al commercio delle pellicce. Dopo pochi mesi cambia idea e se ne va a New York in cerca di lavoro. Qui diventa per la prima volta leader rilevando per quasi un anno l'orchestra di Harry Bastin. Chiusa la parentesi torna a Chicago per suonare nella band di Art Kassel, ma l'esperienza come leader gli è piaciuta. Nel 1926 forma la sua prima vera orchestra. Da quel momento il suo nome diventa una garanzia sulla qualità della band. Per quasi vent'anni organizza e dirige varie formazioni mentre la sua popolarità si allarga a macchia d'olio. Nel 1943 diventa anche impresario e due anni dopo fonda anche una propria etichetta discografica: la Jewel Company. Negli anni Sessanta abbandona l'ambiente musicale per dedicarsi alla gestione di un ristorante a Palm Springs, in California. Non si muove più fino al disperato e mai completamente chiarito suicidio.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
06 giugno, 2019
6 giugno 1960 – L'irrequieto Steve Vai
Il 6 giugno 1960 nasce a Long Island, New York, Steve Vai, uno dei chitarristi più versatili e tecnici del rock degli anni Ottanta e dei primi anni novanta. A tredici anni suona per la prima volta in pubblico con i Rayge, una band formata insieme a un gruppo di compagni di scuola. Proprio nella stagione degli studi ha la fortuna di avere per maestro un chitarrista leggendario come Joe Satriani, impegnato nell'insegnamento per risolvere i suoi problemi finanziari. L'incontro con Satriani lascia il segno sullo stile del giovane Steve che, per completare la sua formazione, frequenta anche i corsi di jazz e musica classica al Berklee College di Boston. Nel 1979 si trasferisce a Los Angeles dove la sua tecnica e la sua versatilità colpiscono un musicista attento come Frank Zappa. A diciannove anni non ancora compiuti si ritrova così a ricoprire l'impegnativo ruolo di chitarra solista nella band di uno dei più geniali personaggi del rock. L'esperienza lo irrobustisce e lo stimola a sviluppare un progetto solistico che, dopo varie difficoltà, si concretizza nel 1984 con la pubblicazione dell'album Flex-able. Il disco, nonostante qualche inevitabile ingenuità, propone un'interessante miscela stilistica nella quale sono evidenti i richiami al rock, al jazz e alla musica classica che in qualche brano sfiora anche l'avanguardia sperimentale. L'esperienza solistica non riesce a trovare continuità, se si eccettua la pubblicazione di Flex-able leftovers, una sorta di seconda versione rivista e corretta dell'album del debutto. Due anni dopo, perciò, Steve si unirà per un breve periodo agli Alcatrazz, entrando poi a far parte della band di David Lee Roth, con cui resterà fino al 1988. Nel 1989 si entrerà a far parte degli Whitesnake. Ormai considerato anche dagli stessi musicisti come uno dei migliori chitarristi in circolazione, ritenterà con maggior fortuna l'esperienza solistica negli anni Novanta, pubblicando album Passion & warfare e Sex & religion.
05 giugno, 2019
5 giugno 1977 – Muore Sleepy John Estes
Il 5 giugno 1977 muore a Brownsville, nel Tennessee il bluesman Sleepy John Estes. Nato a Estes Ripley, Tennessee, 25 gennaio 1904, John Adams, questo è il suo vero nome, è uno degli esponenti più significativi del blues di campagna, che trova in lui un interprete molto particolare e sensibile, Sleepy John Estes ha avuto una carriera musicale che può nettamente dividersi in due parti, con un muro costituito da quei dieci anni di totale silenzio che vanno dal 1952 al 1961. Nella prima come nella seconda fase della sua fervida attività invece, egli ha modo di porre in evidenza capacità musicali e sostegni ispirativi che fanno dei suoi testi poetico-musicali alcuni tra i documenti umani più interessanti della storia del blues. Inizia a dedicarsi a questa attività poco dopo il suo trasferimento a Brownsville dalla natia Ripley, ma la vera e propria carriera ha inizio dopo la morte del padre nel 1920, e dopo che in seguito a una ferita riportata durante una partita di football, perde l'uso dell'occhio sinistro. Da qui quella sua immagine un po' dimessa, con larghi occhiali neri a coprire il difetto, con cui è stata tramandata la sua leggenda. Sleepy John Estes comincia ad avere successo dopo l'incontro con il giovanissimo Hammie Nixon, armonicista di buona levatura con cui inizia a percorrere in lungo e in largo le regioni del sud fino al 1934, quando si uniscono a un “medicine show”. Alla coppia si aggiunge anche Yank Rochelle. Negli anni '40 il maggior successo è costituito dal brano Someday Baby Blues, mentre il bluesman va progressivamente perdendo anche l'altro occhio fino a divenire del tutto cieco nel 1949. Si stabilisce allora a Memphis sopravvivendo con una magra pensione offertagli dallo stato del Tennessee, e smette di suonare e di esibirsi. Il suo nome cade nel più completo silenzio fino al 1961 quando il regista David Blummenthal lo chiama a Chicago e lo convince a tornare a esibirsi. Inizia così la sua seconda carriera durante la quale incide parecchi dischi e partecipa a vari festival. All’inizio degli anni Settanta arriva anche in Europa.
04 giugno, 2019
4 giugno 1990 – Inizia Beautiful
Alle 14.30 del 4 giugno 1990 Raidue trasmette la prima puntata di “Beautiful”, una soap-opera destinata a ottenere un successo del tutto inaspettato che arriverà a toccare la punta di ben sette milioni di fedeli telespettatori a puntata. Destinate dai programmisti RAI a coprire lo spazio estivo lasciato libero da un’altra soap-opera, “Quando si ama”, le avventure della famiglia Forrester, contro ogni previsione, appassioneranno gli italiani e alimenteranno un business ricchissimo di gadget, riviste e poster. È l’ennesima conferma della fortuna delle soap opera nel nostro paese iniziata sull'onda del successo di “Dallas” tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. I campioni sono “Capitol”, “Quando si ama” e, soprattutto “Beautiful”. Lunghissimi e ripetitivi nella loro struttura nella cultura popolare occupano uno spazio simile a quello del fotoromanzo degli anni Cinquanta e Sessanta. La loro capacità attrattiva deriva dall’abilità con la quale nella narrazione vengono mescolati gli ingredienti in modo da assecondare il gusto del pubblico. Sono saghe famigliari che raccontano di intrighi, tradimenti e inganni. Nel caso di “Capitol” le famiglie dei Clegg e dei McCandless lottano tra loro per la conquista della Casa Bianca, cioè del potere, sul cui altare vengono sacrificati sentimenti, emozioni e passioni. Gli stessi ingredienti sono rovesciati in “Quando si ama” dove le vicende d’amore diventano il centro d’interesse della narrazione, mentre le carriere, le ambizioni, gli affari ne costituiscono l’elemento di disturbo. È una sorta di remake di “Giulietta e Romeo” dove il ruolo dei Capuleti e Montecchi è assunto dalle famiglie Alden e Donovan. “Beautiful”, invece, rappresenta un po’ la sintesi di entrambe le strutture narrative. Gli intrighi incrociati di tre famiglie di Los Angeles tengono in piedi una storia ambientata nel mondo degli stilisti ricca di intrighi sentimentali e affaristici. “Capitol” è la meno fortunata delle tre e finirà per essere cancellata dalla stessa CBS, la sua casa produttrice, quando esploderà la febbre di “Beautiful”.
02 giugno, 2019
3 giugno 1987 – Addio a Segovia
Dopo una carriera leggendaria e costellata da trionfi mai tributati ad alcun chitarrista prima di lui, muore a Madrid il 3 giugno 1987, ucciso da un attacco cardiaco Andrès Segovia considerato da parte della critica come il più grande chitarrista del Novecento. Stilare in questo campo delle classifiche non è mai facile, ma senza dubbio il suo apporto stilistico, teorico e in qualche caso i consigli tecnico-costruttivi, hanno contribuito in maniera decisiva a rivoluzionare l’utilizzo della chitarra cosiddetta “classica” come strumento solista da concerto. Alla sua cultura dell’innovazione non è estranea la sua stessa storia che lo vede dapprima misurarsi con il violoncello e solo successivamente con la chitarra, seguendo un percorso in cui lo studio continuo e costante è la base fondamentale per poter raggiungere risultati importanti, ma l'originalità è un elemento aggiuntivo che solo l’intelligenza e l’istinto applicati alla tecnica possono dare. Proverbiale resta la sua indicazione della “cultura dello studio” come base fondamentale per poter eccellere. Una testimonianza esemplare in questo senso arriva dall’aneddoto che circola da decenni in cui si racconta che alla domanda «Scusi, ma perché lei si esercita otto ore al giorno?» egli, già celebrato e famoso, abbia risposto «…perché, se non lo faccio, il primo giorno me ne accorgo io, il secondo se ne accorgono i critici e il terzo se ne accorge anche lei». Per lui, però, lo studio è solo la base da cui partire, non il mezzo attraverso il quale arrivare ai risultati. Oltre allo studio c’è quell’insieme di disciplina interiore, curiosità e genialità che fa di un bravo strumentista un grande e, in qualche caso, un grandissimo concertista. In questo senso si può dire che il suo insegnamento, e le conseguenze rivoluzionarie che esso ha avuto sulla tecnica chitarristica moderna non derivano da alcuna scuola. Segovia stesso ha sostenuto in più d’un occasione di essere stato il maestro e l'allievo di se stesso. Con il gusto del paradosso ha giocato anche con i termini definendosi un “autodidatta” della musica classica. Al di là del senso dell’umorismo con il quale tende ad accompagnare la sua avventura musicale oggi in molti ritengono che nella storia della chitarra il fenomeno di Segovia sia paragonabile a quello di Paganini nella storia del violino. Oltre alle indiscutibili qualità tecniche gli va riconosciuto il grande merito di avere ridato nuova vita a un’infinita lista di partiture antiche come la famosa trascrizione per chitarra della Ciaccona per violino solo di Bach, che meravigliò pubblico e critica nella sua prima esecuzione a Parigi nel 1935. Al suo lavoro si devono altre meraviglie come, per esempio, l'adattamento di musiche dei liutisti rinascimentali, la rivalutazione di autori classici della chitarra come Giuliani e Sor, il recupero di quelli legati alla tradizione ottocentesca o impressionista e le trascrizioni di brani pianistici dei suoi conterranei Albeniz e Granados Segovia nasce a Linares, in Andalusia, il 18 febbraio 1893. A partire dall’età di quattro anni si dedica alla musica studiando prima il violoncello e poi la chitarra. Proprio con quest’ultimo strumento fa la sua prima breve esibizione in pubblico nel 1909 a Granada. Ha sedici anni e qualche anno dopo tiene a Madrid il suo primo concerto nel quale interpreta alcune trascrizioni per chitarra di Francisco Tárrega insieme a vari brani di Johann Sebastian Bach che lui stesso ha provveduto a sviluppare e trascrivere per il suo strumento. Da quel momento e per tutta la sua carriera il suo lavoro è finalizzato a qualificare sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista strettamente musicale la chitarra classica, che ancora agli inizi del Novecento era sostanzialmente ignorato, quando non disprezzato perché "troppo popolare". È lui che, lavorando gomito a gomito con un gruppo di liutai di fiducia, crea la chitarra classica"moderna", utilizzando le corde in nylon in grado di produrre un timbro più consistente e un volume più alto di quelle precedentemente adottate. Grazie a lui in qualche decennio si è finalmente ottenuto il recupero e la strutturazione di un vero repertorio classico per questo strumento sia attraverso le numerose trascrizioni operate in proprio, sia per le nuove composizioni scritte appositamente per lui da molti compositori stimolati dal suo successo. Dopo il primo concerto parigino del 1924 la sua popolarità inizia ad allargarsi prima all’Europa e poi al mondo. Nel 1928 una famosissima tournée statunitense lo consacra come il “più grande chitarrista classico” del mondo e davanti alla sua porta si allunga la fila di musicisti che disposti a scrivere brani per il suo repertorio. Per lui scrivono compositori come gli spagnoli Joaquin Turina, Joaquin Rodrigo e Manuel de Falla, il brasiliano Heitor Villa-Lobos, l’italiano Mario Castelnuovo-Tedesco e il messicano Manuel M. Ponce destinati a diventare il primo e più popolare nucleo di quella generazione di autori cui ancora oggi viene dato il nome di “Compositori segoviani”.
01 giugno, 2019
2 giugno 1969 – Stinson se ne va nel sonno
Il 2 giugno 1969 a Boston, nel Massachusetts, muore durante il sonno il ventiquattrenne Albert Forrest Stinson jr, uno dei migliori contrabbassisti della scena jazz degli anni Sessanta. Nato a Cleveland, nell'Ohio, si nutre di musica già nei primi anni di vita. Sua madre, infatti, è una cantante lirica specializzatasi in musica sacra. È lei a curare che il piccolo Albert si avvicini alla musica senza il rigido rispetto dei vincoli tecnici che limitano gli orizzonti di chi studia un solo strumento. Il ragazzo cresce con varie esperienze strumentali, studia pianoforte, sassofono, trombone e tuba. All'età di quattordici anni scopre il contrabbasso e se ne innamora. Senza smettere di approfondirne le tecniche inizia a esibirsi in pubblico in varie band della sua zona. Nel 1961, appena sedicenne, viene notato da Terry Gibbs che gli offre di unirsi a lui. È la prima scrittura importante della sua carriera. Nei primi mesi dell'anno successivo accetta le proposte di Frankie Rosolino e si unisce al suo gruppo, ma ci resta per poco. Nell'estate, infatti, entra a far parte della band diretta da Chico Hamilton, con la quale resta a lungo, pur non disdegnando periodiche esperienze con altri strumentisti, come quella, breve ma intensa, al fianco di Marian McPartland. Nell'ottobre 1965 Charles Lloyd, che ha da poco lasciato la band di Chico Hamilton, gli propone di unirsi a lui. Stinson accetta e per un po' fa parte di un quartetto che ha in Lloyd l'elemento unificante. Quando la morte mette precocemente fine alla sua carriera è in tournée con il gruppo di Larry Coryell ed è ormai considerato uno dei migliori e più promettenti contrabbassisti di quel periodo. In particolare la critica apprezza di lui, oltre all'eccellente tecnica, la capacità di muoversi su un progetto musicale che si colloca decisamente all'avanguardia per la sua epoca. Nonostante le molte e fantasiose ipotesi contenute nelle varie biografie, le cause vere della morte resteranno sconosciute.
1 giugno 1940 – Yolande Bavan, la cingalese dalla voce stregata
Il 1° giugno 1940 nasce a Ceylon, in quell'isola che oggi si chiama Sri Lanka, la cantante Yolande Bavan e il nome con cui viene registrata all'anagrafe dell'isola è quello di Yolande Mari Wolffe. Suo padre è un pianista professionista che fin dal primo giorno di vita della piccola immagina per lei un grande futuro da concertista. Non ha ancora compiuto tre anni quando inizia a studiare il pianoforte. Più che una bambina prodigio è una sorta di "forzata della tastiera", tanto che, verso i dieci anni, stanca di passare le ore davanti alla lunga serie di tasti bianchi e neri non abbandona gli studi musicali, ma passa al violoncello. La musica strumentale, soprattutto quella classica e sinfonica, e la ripetitività dei concerti l'annoiano. In più vorrebbe coltivare meglio la sua voce perché, dopo anni passati a suonare si accorge che le piacerebbe fare la cantante. All'inizio degli anni Cinquanta è ancora una bambinetta quando scopre il jazz e se ne innamora. Con l'aiuto determinante del direttore d'orchestra australiano Graeme Bell e, soprattutto, della pianista giapponese Toshiko Akiyoshi diventa una piccola celebrità, non solo nel suo paese, ma anche in Australia. Quando, nel 1955, compie quindici anni ha già all'attivo un paio di tournée australiane e può contare su un programma settimanale interamente dedicato a lei dalla radio cingalese. L'anno dopo decide di trasferirsi nella vecchia Europa. Anche a Londra la sua voce "stregata", ricca di sonorità estranee alla tradizione jazzistica occidentale, affascina l'ambiente del jazz. Per qualche anno passa da un gruppo all'altro, senza soluzione di continuità. Tra gli artisti che, in momenti diversi, la vogliono al loro fianco, ci sono Joe Harriott, Vic Ash e Humphrey Lyttelton. Nel 1962 quando Annie Ross è costretta per motivi di salute a lasciare il trio vocale Lambert, Hendricks & Ross, famoso in tutto il mondo per le sue vocalizzazioni di temi famosi, Dave Lambert e John Hendricks chiedono proprio alla ventiduenne Yolande Bavan di prendere il suo posto. L'avventura è consacrata da un notevole successo discografico ma quando, nel 1964, il trio si scioglie definitivamente, Yolande ha già nuovi progetti. Come accaduto con il pianoforte e il violoncello, si lascia alle spalle anche i concerti canori. Si dedicherà al teatro attraversando l'oceano per entrare a far parte della New York Shakespeare Company.
30 maggio, 2019
31 maggio 1980 – "Funkytown" e i misteriosi Lipps Inc.
Il 31 maggio 1980 arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti un brano intitolato Funkytown. Si tratta di musica di facile ascolto, dalla chiara impronta dance, ma che non nasconde alcune originali soluzioni sonore di derivazione jazz. Lo interpreta una band sconosciuta che risponde al nome di Lipps Inc. Sull'onda del successo del singolo il gruppo entra in classifica anche con l'album Mouth to mouth. Parallelamente al successo cresce anche la curiosità su quale sia l'identità degli esecutori. Nessuno tra gli addetti ai lavori ha, infatti, sentito mai parlare dei Lipps Inc. C'è chi ipotizza che si tratti dell'escursione commerciale di un gruppetto di artisti jazz. Una vaga biografia del gruppo diffusa frettolosamente dall'ufficio stampa della loro etichetta non fuga i dubbi di chi sospetta che si tratti dell'ennesimo "gruppo fantasma" costruito a tavolino. Alla fine il mistero viene svelato. I Lipps Inc. non esistono. Dietro quella sigla si nasconde un progetto musicale ideato dell'autore e produttore Steven Greenberg. Lui è tutto il gruppo. Ha scritto di suo pugno Funkytown e gran parte dei brani dell'album ma non si è fermato lì. Con una serie di accurate sovraincisioni ha partecipato direttamente alla realizzazione del disco cantando, suonando il sintetizzatore, la batteria e il basso. Il resto delle parti musicali è stato eseguito da vari musicisti di studio di formazione jazz e la voce solista è stata prestata dalla cantante Cynthia Johnson che ha anche provveduto a registrare su tonalità diverse quasi tutti i cori delle canzoni. La rivelazione finisce per accrescere l'interesse e la curiosità intorno al lavoro del Lipps Inc. Steven Greenberg pubblicherà altri due album con quella sigla e centrerà ancora un paio di successi con brani come una personalissima e originale versione di Howlong, una canzone di Paul Carrack degli Ace e Designer music. Poi, stanco del giocattolo, passerà ad altri progetti.
29 maggio, 2019
30 maggio 1983 - Woodstock è morta
Il 30 maggio 1983 a San Bernardino, in California, si chiude uno dei più devastanti e discussi raduni musicali dei primi anni Ottanta: l'US ‘83 Festival. Il bilancio di quella che era stata presentata come la "nuova Woodstock" è impressionante: tre morti, centotrentacinque feriti e centoquarantacinque arresti. I commenti dei mass media, quasi tutti tendenti a dimostrare come questo tipo di raduni siano ormai fuori tempo, danno un risalto amplissimo agli aspetti negativi. C'è chi parla di «Tre giorni di musica e sangue» parafrasando il «pace, amore e musica» di Woodstock e chi auspica, senza mezzi termini, l'abolizione definitiva di questi «raduni di droga, violenza e musica assordante e insulsa». Una vera e propria ondata di melma, in sintonia con il cambiamento del clima culturale, si rovescia sulla cultura rock. Una fragile diga di resistenza viene eretta dai giornali della cultura underground che, proprio partendo dagli stessi dati del bilancio finale, rovesciano l'impostazione di chi vorrebbe cancellare i grandi raduni. Nella sostanza la controcultura alternativa punta il dito sulla eccessiva commercializzazione di questo tipo di manifestazioni che, per soddisfare le esigenze delle case discografiche, non esitano a far esibire sullo stesso palco gruppi, artisti e stili musicali diversi, talvolta contrastanti. La tesi è chiara: «Sono le major che provocano incidenti». Come si fa, sostengono questi fogli, a far convivere i fans degli Stray Cats o dei Mötley Crüe, bianchi che più bianchi non si può e talvolta un po' razzisti (non sempre per colpa delle band) con il punk militante e radicale dei Clash? Un raduno non è un catalogo e le mescole possono diventare esplosive. In ogni caso dopo qualche settimana più nessuno si ricorderà più dei morti e, tantomeno, degli incidenti. I grandi raduni supersponsorizzati continueranno, lasciando però ai margini le band più impegnate. Lo spirito di Woodstock è finito da tempo, seppellito dal mercato.
28 maggio, 2019
29 maggio 1985 - Heysel, trentasei morti per una coppa
La sera del 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, dove sta per avere inizio la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, i tifosi inglesi più esagitati, finiti in un settore contiguo a quello occupato dai supporter bianconeri, tra spinte e cariche travolgono il sottile sbarramento che divide le due zone e finiscono in quella occupata dagli italiani. Sotto la spinta delle persone che tentano di fuggire in preda al panico cede una delle strutture dello stadio. Muoiono trentotto persone, in gran parte tifosi italiani. Per ripristinare una parvenza di ordine e per soccorrere i feriti occorrono alcune ore, al termine della quali l’UEFA decide di far svolgere ugualmente la partita in un clima teso, allucinato e innaturale. La decisione susciterà aspre polemiche. Negli occhi dei telespettatori che assistono all’evento resta la drammatica immagine finale della telecronaca su Raidue, con i giocatori della Juventus che alzano la coppa appena conquistata mentre sul video scorrono i numeri telefonici ai quali le famiglie possono telefonare per verificare se qualche loro congiunto è tra le vittime.
28 maggio 1891 – La prima volta di Nicola Maldacea
Il 28 maggio 1891 al Salone Margherita di Napoli fa il suo debutto Nicola Maldacea. Emozionato l'artista propone al pubblico un paio di macchiette che ottengono un buon successo. Inizia così la storia artistica di uno dei personaggi più popolari del café chantant italiano. Nato a Napoli il 29 ottobre 1870 frequenta, giovanissimo la “scuola di declamazione e recitazione” di Carmelo Marroccelli con scarsi risultati. Nonostante lo scetticismo dei suoi insegnanti il ragazzo ha talento e molta voglia di arrivare. Immediatamente dopo il debutto vagabonda per i locali italiani dove pian piano la sua popolarità cresce fino a farne una delle più pagate star del cafè-chantant. Ottiene uno straordinario successo anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti dove si esibisce nel 1922 in una leggendaria tournée con Ria Rosa. Anche il cinema si accorge di lui e gli affida ruoli significativi in film come "Kean" nel 1940 e "Miseria e nobiltà" nel 1941. Le dispendiose passioni per il gioco e per le belle donne lo costringono a lavorare fino al giorno della sua morte, che avviene a Roma il 5 marzo 1945.
27 maggio, 2019
27 maggio 1940 – Inizia la storia del Quartetto Cetra
Il 27 maggio del 1940 il gruppo vocale Egie debutta al teatro Valle di Roma con “Caccia al passante”, uno spettacolo ideato e scritto dal Agenore Incrocci, che si firma con lo pseudonimo di Age e che è destinato a diventare uno dei grandi autori. Il nome del gruppo è la sigla ottenuta assemblando le iniziali dei nomi dei componenti: Enrico Gentile, Giovanni Giacobetti detto ‘Tata’, Iacopo Jacomelli e Enrico De Angelis. sulla falsariga dei gruppi vocali americani d’ispirazione jazzistica. Dopo la sostituzione di Jacomelli con Virgilio Savona cambiano nome in Quartetto Ritmo, per diventare poi Quartetto Cetra con l’arrivo di Felice Chiusano al posto di Gentile. L’esordio ai microfoni della radio avviene l’8 ottobre del 1941, quando, accompagnati dall’Orchestra Zeme, cantano Il Visconte di Castelfombrone. Nello stesso periodo, però, anche Enrico Gentile, il solista, è costretto a lasciare i compagni per adempiere agli obblighi militari e al suo posto arriva un giovane di Fondi in provincia di Latina, Felice Chiusano. Nel 1945 registrano un brano, Pietro Vughi il ciabattino, destinato a restare nella storia della canzone come il primo boogie woogie italiano. Nel mese di ottobre del 1947 in occasione di un concerto al Teatro delle Arti di Roma, la bolognese Lucia Mannucci sostituisce De Angelis, richiamato sotto le armi. Due anni dopo ottengono un grande successo con il brano Nella vecchia fattoria, una divertente rielaborazione di una vecchia filastrocca irlandese. Nel mese di settembre del 1951 vincono il prestigioso premio “Passerella d’oro” per la loro partecipazione alla rivista “Gran baldoria” di Garinei e Giovannini.. Nel 1954 partecipano al Festival di Sanremo con ben sei canzoni, tra cui la popolarissima Aveva un bavero. L’anno dopo vincono il primo Festival Internazionale della Canzone di Venezia, accoppiati a un duo composto da Carla Boni e Gino Latilla, con il brano Vecchia Europa. L’elenco dei riconoscimenti ottenuti nella loro carriera è lunghissimo e va dalla Maschera d’oro e dal Microfono d’Argento del 1956, al Telegatto del 1982. I quattro componenti del gruppo vengono insigniti dei titoli di Cavalieri del lavoro nel 1985 e di Commendatori della Repubblica nel 1988. Alla fine del 1988, dopo la morte di Tata Giacobetti si esibiscono ancora come I Cetra fino al 1990 quando la scomparsa di Felice Chiusano mette fine per sempre alla loro storia. Nel nutritissimo repertorio del gruppo ci sono canzoni come In un vecchio palco della Scala, Un bacio a mezzanotte, Vecchia America, Un romano a Copacabana, La vita è un paradiso di bugie, Musetto, Un disco dei Platters, Ricordate Marcellino, Un raggio di sole, Aprite le finestre, Mamma mia dammi cento lire, Donna, Bambino e Voglia di swing che, insieme a quelle già citate, sono tra le più rappresentative di quasi mezzo secolo di storia della canzone italiana.
26 maggio, 2019
26 maggio 1920 – Peggy Lee, la Norma Jean del North Dakota
Il 26 maggio 1920 nasce a Jamestown, nel North Dakota, Norma Jean Egstrom destinata a diventare, con il nome d'arte di Peggy Lee, una delle più popolari cantanti del periodo d'oro del rock and roll. Bionda e bianchissima, ancora adolescente si innamora della musica nera, in particolare del jazz. A diciassette anni debutta con l'orchestra di Will Osborne e successivamente canta con vari gruppi vocali che si esibiscono soprattutto nei locali della California. La svolta decisiva nella sua carriera avviene a Chicago nel 1941, quando Benny Goodman la ascolta quasi per caso e la scrittura per la sua orchestra. Ha soltanto ventun anni ma il debutto nella big band del "Re dello swing" non la spaventa. Nel 1942 la sua interpretazione di Why don't you right? fa il giro del mondo. L'anno dopo sposa il chitarrista Dave Barbour e lascia la formazione di Goodman per continuare come solista. Il matrimonio e la assillante gelosia di Barbour ne frenano la carriera, anche se proprio al fianco del chitarrista ottiene i primi lusinghieri risultati come compositrice. Nonostante qualche interpretazione di buon di successo e alcune apparizioni cinematografiche la sua stella sembra appannarsi sempre di più tanto che qualcuno si inizia a parlare di un suo prematuro ma inesorabile declino. Smentendo questi profeti del malaugurio gli anni Cinquanta segnano invece la definitiva consacrazione di Peggy Lee come uno dei personaggi musicali più interessanti di quel periodo. Liberatasi dall'ingombrante presenza di Barbour, da cui divorzia nel 1952, centrerà una lunghissima serie di successi come cantante, come compositrice e anche come attrice. Il suo percorso musicale verrà scandito dal successo di brani come Lover, Johnny guitar, Waiting for the train to come in e tanti altri. Nel 1955 la sua drammatica interpretazione nel film "Pete Kelly's blues" (Tempo di Furore) le varrà la nomination all'Oscar. Come compositrice collaborerà con quasi tutti i protagonisti del jazz e della musica orchestrale di quegli anni, da Duke Ellington a Quincy Jones, da George Shearing a Benny Carter. La sua versatilità artistica le consentirà di superare indenne anche la bufera del beat reinventandosi geniale conduttrice di show televisivi di successo e confermandosi come una delle grandi "signore della canzone" del dopoguerra. Muore a Bel Air il 21 gennaio 2002.
24 maggio, 2019
25 maggio 1972 – Horse with no name
Il 25 maggio 1972 il singolo Horse with no name degli America arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti. Il successo del trio che trascina in alto anche l'album America coglie tutti di sorpresa, a partire dalla loro casa discografica, la Warner Brothers, decisamente scettica nei confronti della band. Formatisi a Londra sull'onda del successo di Crosby, Stills, Nash & Young, gli America sono composti dall'inglese Dewey Bunnell e dagli statunitensi Dan Peek e Gerry Beckley. Cantanti e chitarristi di buon mestiere, i tre decidono di fare sul serio nel 1969 quando iniziano a girare per locali esibendosi in una lunga serie di cover intervallate da qualche raro pezzo di produzione propria. Quando la Warner pubblica Horse with no name la critica lo stronca sulla base di due sostanziali argomenti: la struttura della canzone è troppo semplice e la voce di Dewey Bunnell è identica a quella di Neil Young. Il giudizio è talmente negativo che anche la casa discografica non si fa grandi illusioni. Quando, a pochi giorni dall'uscita del disco, arrivano i primi dati delle vendite, alla Warner pensano a un errore di calcolo: 600.000 copie vendute! I giovani orfani delle melodie dei Beatles e dei provvisoriamente disciolti Crosby, Stills, Nash & Young fanno di loro i nuovi idoli del momento. Alfieri di un country rock morbido e del più totale disimpegno politico e sociale non riusciranno a durare a lungo. Ben presto la carenza di idee innovative, considerata all'inizio uno dei pregi della loro musica, si rivelerà un limite insormontabile. Costretti a ripetersi all'infinito nel ruolo di cantori di un mito californiano patinato e del tutto sganciato dalla realtà finiranno per annoiare anche i loro più affezionati sostenitori. Nel 1977 Dan Peek sceglie la vita mistica e gli America diventano due. La loro storia continuerà tra abbandoni e ritorni improvvisi sull'onda della nostalgia, senza però lasciare tracce importanti.
23 maggio, 2019
24 maggio 1974 – Il giorno che se ne andò Duke Ellington
Il 24 maggio 1974, dopo una lunga malattia, muore al Columbia Presbyterian Medical Center di New York il settantacinquenne Duke Ellington, all'anagrafe Edward Kennedy, uno dei più importanti direttori d'orchestra, pianisti e autori della storia del jazz. La sua vena creativa e la sua abilità nella direzione influenzano in modo determinante la musica della prima metà del Novecento e successivamente non mancano di esercitare un notevole fascino anche sulle nuove generazioni di artisti rock. Figlio di un maggiordomo della Casa Bianca, nasce a Washington e, nonostante il colore della sua pelle, vive un'infanzia privilegiata e riceve un'educazione raffinata e borghese che gli varrà l'appellativo di Duke (Duca). Pianista dall'età di sette anni, a diciotto è già un apprezzato professionista. Nel 1924 se ne va a New York per dirigere un quintetto da ballo. L'anno dopo è il protagonista in assoluto delle serate al Cotton Club, il locale jazz più famoso ed esclusivo della città dove resta fino al 1931. In questo periodo compone i suoi primi capolavori come Creole love call ed East St. Louis toodle-oo. Tenta anche di cimentarsi, senza molta fortuna, in un'opera di più largo respiro dalle profonde radici nere come "Creole rhapsody", stroncata e poi rivalutata dalla critica perché in anticipo sui tempi. Negli anni Trenta compone una serie di brani destinati a restare nella storia della musica del Novecento come In a sentimental mood, Sophisticated lady e Prelude to a kiss, ma lo spazio di un brano gli sta stretto. Il suo sogno è quello di musicare una sorta di poema epico sulla lunga marcia dei neri negli Stati Uniti dalla schiavitù alla definitiva affrancazione. Ci riesce nel 1943 quando alla Carnegie Hall esegue per la prima volta la suite Black brown and beige. Da quel momento, pur senza rinunciare a comporre brani di breve durata, privilegia opere di più vasto respiro: dalle suite ai poemi sinfonici, ai balletti alle grandi pagine corali. Considerato uno dei più grandi geni della musica afroamericana non si fa travolgere dalle mode e si guadagna il rispetto delle giovani generazioni degli anni Sessanta e Settanta. Prima che la malattia lo immobilizzasse aveva composto tre "Concerti sacri" che rappresentano un po' il suo testamento musicale. Alla sua morte l'orchestra che ne porta il nome passa nelle mani del figlio Mercer.
21 maggio, 2019
22 maggio 1924 – Charles Aznavour dalla Piaf al grande successo
Il 22 maggio 1924 nasce a Parigi Charles Aznavourian, destinato a diventare famoso con il nome di Charles Aznavour. Il lieto evento avviene per caso sul territorio francese dove i suoi genitori, profughi armeni, stanno aspettando un visto per trasferirsi negli Stati Uniti. Suo padre è il baritono Micha Aznavourian, figlio di un cuoco dello zar Nicola II, mentre sua madre Knar proviene da una famiglia di commercianti armeni stabilitisi in Turchia. Il tempo passa e il visto per gli Stati Uniti non arriva. Il vecchio Micha decide allora di aprire un piccolo ristorante armeno dove gli avventori possono trovare cibo e musica. Il locale, situato in Rue de la Huchette, diventa una luogo di ritrovo di artisti, in particolare musicisti e attori di teatro. Il piccolo Charles respira fin dai primi anni di vita questa atmosfera e ne resta affascinato. Nel 1933, quando ha solo nove anni, i suoi genitori lo iscrivono alla scuola di Spettacolo per assecondare la sua intenzione di diventare attore. Il ragazzo ha stoffa e ben presto inizia ritagliarsi piccoli ruoli nel cinema e nel teatro. Nel 1939 però, mentre il mondo si prepara a una nuova follia bellica, il padre Micha si arruola volontario nell’Armée e il quindicenne Charles Aznavourian lascia la scuola per lavorare. Sembra la fine dell’avventura nel mondo dello spettacolo, ma non è così. Nel 1941 incontra un giovane compositore. Si chiama Pierre Roche. I due decidono di unire la loro creatività. Nasce il duo Aznavour-Roche destinato a diventare popolarissimo nei locali di Parigi. Per Charles Aznavour è l’inizio di una lunghissima carriera. Nel 1946 Charles Aznavour incontra Edith Piaf. L’incontro lascia il segno su entrambi. Lui le regalerà alcune bellissime canzoni e lei gli apre le porte degli Stati Uniti. Alla fine degli anni Quaranta il duo Aznavour-Roche parte per una lunga tournée nordamericana dalla quale il buon Charles ritorna solo. Roche è rimasto oltreoceano per amore. Aznavour, pur essendo uno dei più apprezzati autori dell’epoca fatica ad affermarsi come interprete. Scrive canzoni per la Piaf, Mistinguett, Patachou, Juliette Gréco e un’infinità di protagonisti della scena musicale parigina ma fatica a farsi apprezzare in proprio. La svolta avviene nel 1957 quando, dopo una fortunata tournée nell’Africa del Nord, ottiene un sorprendente successo all’Alhambra che prelude a un vero e proprio trionfo nel tempio della musica parigina: l’Olympia. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta la sua popolarità cresce a dismisura in tutto il mondo con brani come Sur ma vie, Parce que, Après l’amour e La mamma. I suoi dischi arrivano al vertice delle classifiche di moltissimi paesi e i teatri più prestigiosi ospitano i suoi concerti. Anche il cinema lo vede protagonista di successo sia come interprete che come autore di colonne sonore e di brani indimenticabili. Il passare del tempo non lascia tracce su Charles Aznavour che negli anni Ottanta colleziona trionfi dal vivo, successi discografici e buone frequentazioni cinematografiche. Nel 1988, quando un terribile terremoto scuote l’Armenia mietendo oltre cinquantamila vittime, crea la fondazione “Aznavour pour l’Armenie” e, insieme a Henri Verneuil, chiama a raccolta novanta protagonisti dello spettacolo francese per registrare la canzone Pour toi Armenie. Il disco vende un milione di copie e il ricavato va interamente al popolo armeno. L’iniziativa gli vale la nomina ad Ambasciatore permanente in Armenia da parte dell’Unesco. L’impegno sociale non cancella quello artistico costellato da dischi straordinari come gli album Aznavour 2000 o Je voyage, e concerti memorabili come quello tenuto nel 1990 al Palais des Congrès di Parigi con la sua amica Liza Minnelli, quello di Montreux del 1997 per festeggiare i suoi cinquant’anni di carriera e quello svoltosi sempre al Palais des Congrès di Parigi del 2004 per festeggiare il proprio ottantesimo compleanno. Nel frattempo è diventato padrone dei suoi diritti visto che nel 1992 ha acquistato l’intero catalogo della società d’edizioni fonografiche Raoul Breton che oltre ai suoi brani comprende gran parte delle opere di Gilbert Bécaud, Edith Piaf e Charles Trenet. La sua popolarità non ha confini generazionali visto che nel 1999 i frequentatori dei siti Internet della CNN e di Time lo indicano, insieme a Elvis Presley e Bob Dylan come uno dei cantanti simbolo del ventesimo secolo. La Francia non ha voluto essere da meno. L’8 ottobre 2001 in una cerimonia ufficiale svoltasi all’Eliseo il Presidente Jacques Chirac l’ha decorato per i suoi meriti artistici. Come ha avuto più volte occasione di ripetere, i riconoscimenti ufficiali gli fanno piacere ma non lo cambiano. Il nuovo millennio lo vede nuovamente sulla breccia con dischi, concerti e qualche gesto eclatante come nell’aprile del 2002 quando canta la Marsigliese durante la mobilitazione contro il leader dell’estrema destra xenofoba Jean-Marie Le Pen ammesso al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi. Muore il 1° ottobre 2018.
20 maggio, 2019
21 maggio 1944 - Carmen Villani una voce blues protagonista del cinema sexy
Il 21 maggio 1944 nasce a a Ravarino, in provincia di Modena, Carmen Villani, uno dei personaggi più singolari della storia dello spettacolo italiano, passata dal successo come cantante con una straordinaria voce nera al ruolo di bomba erotica in una serie di pellicole di grande successo nella commedia sexy all’italiana . La sua carriera inizia nel 1959 quando a soli quindici anni vince il Concorso per voci nuove di Castrocaro. In possesso di una voce dai toni blues viene invitata, unica cantante di musica leggera, al Festival Jazz di Sanremo e nel 1962 è a fianco di Gian Maria Volontè nel film dei Fratelli Taviani "Un uomo da bruciare" nel quale canta il brano Un domani per noi. Con l'esplosione del beat ottiene un buon successo con canzoni come La verità, Passa il tempo, Bada Caterina e Chitarre contro la guerra, con la quale vince il premio della critica al Festival delle Rose. Nel 1967 partecipa al Festival di Sanremo con Io per amore insieme a Pino Donaggio e a "Un disco per l'estate" con Ho perduto te. Torna sul palcoscenico sanremese nel 1969 con Piccola piccola in coppia con Alessandra Casaccia, nel 1970 con Hippy, insieme a Fausto Leali e nel 1971 in coppia con Domenico Modugno con Come stai. Nel 1975 debutta nel filone della commedia sexy con il film “La supplente” di Guido Leoni ottenendo un rapido e inaspettato successo. Da quel momento la canzone diventa un hobby e il cinema sexy una professione.
19 maggio, 2019
20 maggio 1937 – L'ultima registrazione di Robert Johnson
Il 20 maggio 1937 a Dallas, in Texas, il venticinquenne Robert Johnson chiude la seconda e ultima seduta di registrazione della sua carriera iniziata il giorno prima. L’altra è di qualche mese prima ed è un po’ più lunga visto che si svolge tra il 23 e il 27 novembre 1936 a San Antonio, sempre nel Texas. In quelle due sedute si concentra la sua intera produzione discografica, composta da meno di trenta canzoni, quasi tutte destinate all’immortalità come Crossroads, Love In Vain, Sweet Home Chicago, Preachin' The Blues, Dust My Broom, Stones In My Passway, Come On In My Kitchen, Hellbound On My Trail e la cupa e disperata Terraplane Blues. Nato l’8 maggio 1911 ad Hazlehurts nel Mississippi Robert Johnson è uno dei grandi autori e interpreti del blues rurale e le sue canzoni segnano una tappa significativa nella storia del blues. Le sue testimonianze discografiche sono pochissime un po’ per la sua riluttanza a chiudersi in sala di registrazione e un po’ perché la sua vita finisce presto. Viene infatti assassinato il 13 agosto 1938. Dopo la sua morte per oltre vent'anni il suo ricordo resta affidato agli artisti neri, come Ellmore James che, nel 1952, riporta al successo Dust my broom. Negli anni Sessanta, con l'emergere del rock blues bianco, la sua opera viene recuperata soprattutto dai gruppi britannici e diventa parte della stessa storia del rock nell'interpretazione di artisti come Captain Beefheart che incide Terraplane Blues, i Cream con Crossroads, i Rolling Stones con Love in vain e Stop breakin' down, Eric Clapton con Crossroads, For untile late, Ramblin' on my mind, John Mayall e tanti altri.
18 maggio, 2019
19 maggio 1971 – Il nuovo jazz dei C.C.C.
Il 19 maggio 1971 i C.C.C. (Creative Construction Company), un sorta di gruppo cooperativo di jazz formato dal violinista Leroy Jenkins, dal sassofonista Anthony Braxton, dal trombettista Leo Smith e dal batterista Steve McCall si esibiscono a New York. Nati l'anno prima in quella straordinaria fucina che è l'area di Chicago, sono considerati un'anomalia nella scena jazz di quel periodo. La loro musica fa storcere il naso ai puristi e ai tradizionalisti perché, pur essendo basata su una logica strutturale quasi geometrica che punta, però, la sua attenzione sui diversi piani del colore sonoro. Le assonanze e le dissonanze sono il gioco attorno al quale ruota la loro creatività che affonda le sue radici nel lavoro iniziato qualche anno prima dai singoli componenti. Non è un caso che nel 1968 Anthony Braxton abbia inciso un album intitolato Three composition of new jazz avvalendosi dell'apporto di Jenkins e Smith, gli stessi che condividono con lui l'esperienza dei C.C.C.. Il concerto newyorkese è un po' una sorta di esame di maturità per la band, il cui stile non è ancora stato classificato, ma di lì a poco verrà definito "musica creativa". Nei giorni precedenti le pagine dedicate al jazz dei giornali cittadini hanno "pompato" l'avvenimento con un dibattito i cui toni sono andati anche al di là degli aspetti banalmente musicali. Sostenitori e detrattori aspettano, dunque, al varco la band per riprendere ad accapigliarsi. I quattro musicisti sono un po' perplessi, ma abbozzano. Si presentano sul palco con un organico rinforzato dal pianista Muhal Richard Abrams e dal contrabbassista Richard Davis. Iniziano a suonare in sordina, un po' legati dalla strana atmosfera che aleggia in sala. Poi si scaldano e pian piano sciolgono anche il pubblico. Il concerto newyorkese del 19 maggio resterà nella storia della band come uno dei più significativi della band e con il materiale registrato verrà prodotto il miglior disco in assoluto targato C.C.C.
18 maggio 1958 – Toyah, la regina della new wave
Il 18 maggio 1958 nasce a Birmingham, in Gran Bretagna, la cantante Toyah, all'anagrafe Toyah Willcox, una delle voci più originali e più celebrate della new wave britannica. Fin da ragazzina la sua prima idea non è quella di cantare, ma di diventare attrice. Frequenta regolari corsi di teatro e sembra avere davvero la stoffa per fare carriera in tutti i campi della recitazione. Partecipa a un musical della BBC, lavora con il National Theatre e si fa notare in film come "Jubilee", "Il grano è verde" e, soprattutto, "Quadrophenia", ispirato all'omonima opera rock degli Who, oltre che nel serial televisivo "Dr. Jekyll & Mr. Hyde". Quella della recitazione non resta, però, la sua unica passione. Con il passare degli anni ne coltiva un'altra. Si chiama musica. Parallelamente all'attività di attrice forma nel 1977 la sua prima band e un paio d'anni dopo pubblica l'album Sheep farming in barnet e il singolo Victims of the riddle. Nel 1980 pur senza abbandonare il cinema viene insignita del titolo di "rivelazione femminile dell'anno" per gli album Toyah Toyah Toyah e The blue meaning. Sono gli anni di maggior successo per quella che tutti chiamano "la regina della new wave" e vengono scanditi dai record di vendite di album come Anthem e The Changeling. Come accade per tutti i personaggi legati a un genere, la crisi della new wave finisce per appannare la sua stella. A sorpresa, però, nel 1986 torna alla ribalta per il sodalizio con Robert Fripp, l'ex leader dei King Crimson, divenuto anche suo compagno nella vita. I due pubblicano insieme l'album The lady of the tiger e partono per un lungo e, per molti versi, straordinario tour accompagnati da una band di cui fanno parte anche Trey Gunn e il batterista Paul Beavis. L'esperienza accanto a Fripp le consentirà di affrontare gli anni successivi con maggior personalità. Il personaggio della regina della new wave lascerà il posto a una preparata e apprezzata signora della canzone.
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