Il 27 giugno 1970, sull'onda del successo ottenuto alla manifestazione "Un disco per l'estate", arriva al primo posto della classifica dei singoli più venduti in Italia il brano Lady Barbara. La interpreta Renato Brioschi o, come recita la copertina del disco, Renato dei Profeti, dal nome della band di cui è leader. Resterà al vertice delle classifiche di vendita per oltre quattro mesi, ispirerà un film omonimo e diventerà una delle canzoni simbolo di quello che qualcuno, con un po' d'azzardo, chiamerà "pop sinfonico italiano". Il brano, in realtà, è una furba operazione d'aggancio con le sonorità del pop inglese di quel periodo: una melodia romantica supportata da un sontuoso arrangiamento in stile sinfonico, ricco d'archi. Lady Barbara segna la definitiva rottura tra il cantante e la sua band, che proseguirà in proprio. Il buon Renato, non più "dei Profeti", non riuscirà più a bissare lo straordinario successo del suo debutto come solista, anche se pian piano comincerà a farsi apprezzare come autore e produttore. Nel 1975 una sua canzone, Giochi senza età, passata quasi inosservata in Italia diventerà un grande successo in terra di Francia con il titolo La peure d'aimer nell'interpretazione di Jean Chevalier, il figlio del famoso Maurice. La vicenda si ripete qualche anno dopo quando un altro brano, Io voglio vivere viene snobbato dai discografici italiani ma diventa un successo internazionale nella versione francese di Gerard Lenorman. Come produttore è stato uno dei primi a credere in Eros Ramazzotti e, soprattutto, ha rischiato operazioni di qualità anche se non baciate dal successo, come la produzione di Gunfire, l'unico disco da solista del batterista Andy Surdi. La sua carriera di cantante sembra, invece, contraddire il coraggio dimostrato in altri campi. Costretto a ripetere all'infinito Lady Barbara per un pubblico in vena di ricordi, nel 1986 accetta persino di partecipare alla "reunion" nostalgica dei Profeti.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
26 giugno, 2019
25 giugno, 2019
26 giugno 1976 – Parco lambro, l’ultima Festa del Proletariato Giovanile
Il 26 giugno 1976 al Parco Lambro di Milano si apre la VI Festa del Proletariato Giovanile. Sesta e ultima. Organizzata dalla mitica e discussa testata dell’underground milanese Re Nudo con l’adesione di altre riviste come Falce e martello, A Rivista Anarchica, Umanità Nova e Rosso nonché di organizzazioni come il Partito Radicale, Lotta Continua e la IV Internazionale, promette «tre giorni di musica, cultura e dibattito politico». Come spesso accade le sigle non significano niente. Ogni ragazza e ogni ragazzo che confluisce in quell’immenso e spelacchiato spiazzo dove la terra e la polvere finiscono rapidamente per avere il sopravvento sulle sparute zolle d’erba rappresenta, innanzitutto se stessa o se stesso e la propria storia. Non è una festa asettica né viene percepita come tale, ma la vera molla della partecipazione è l’idea di passare cinque giornate in una sorta di paradiso possibile dove l’impegno politico e la gioia di vivere si mescolano con musica e divertimento. Se si fa l’analisi politica delle appartenenze ci sono gli anarchici, i radicali, i trotzkisti, quelli di Lotta Continua e dell’autonomia, tutti rappresentati nel cartello organizzatore, ma non mancano gruppi nutriti e visibili di militanti dell’MLS o di Avanguardia Operaia, giovani iscritti al PCI e al PSI, hippies un po’ fuori tempo e un gran numero di ragazzi e ragazze arrivati fin lì per esserci, vedere che cosa succede, ascoltare la musica e farsi sostanzialmente i fatti propri. I tempi sono frizzanti. Nelle elezioni politiche il PCI, che l’anno prima ha trionfato nelle consultazioni regionali cogliendo i frutti del clima nuovo che si respira nel paese, ha sfiorato il sorpasso della DC. La complicata e variegata galassia delle organizzazioni extraparlamentari di sinistra sta discutendo sulla possibilità di unificare gli sforzi per spostare in avanti teoria, prassi, comportamenti e vanità. Tra gli organizzatori (o in gran parte di essi) si dà quasi per scontato che il “dibattito” sull’argomento sia una passione che finirà per attraversare quasi per grazia divina tutto quel magma che viene definito “proletariato giovanile”. Molte sono le voci che vedono in questa definizione una sorta di nuovo soggetto politico da contrapporre a quello di “classe” e in ogni caso quasi tutti sono convinti che l’appuntamento al Parco Lambro debba essere per forza uno snodo fondamentale di questo dibattito. Chi osa soltanto pensare che il “proletariato giovanile” più che un concetto politico sia solo una semplificazione linguistica per definire una realtà frammentata e complessa di umori, speranze, bisogni, passioni e (perché no?) indifferenze, viene tacciato sostanzialmente di disfattismo. L’elemento centrale dell’evento dovrebbe essere, comunque, la musica. Tanta, buona e militante. Tutti gli artisti in programma, con l’eccezione parziale dell’unica “star” internazionale Don Cherry, sono accasati con etichette che oggi si chiamerebbero “indipendenti” (Ultima Spiaggia, Cramps, Intingo solo per citare le più note). Tra gli artisti annunciati ci sono, oltre al già citato Don Cherry, Sensations’ Fix, Ricky Gianco, Eugenio Finardi, Taberna Mylaensis, Canzoniere del Lazio, Area, Tony Esposito, Agorà, Carrozzone, Paolo Castaldi, Gianfranco Manfredi e un’infinità di improvvisate. Nessuno di loro percepisce il becco di un quattrino salvo un rimborso garantito soltanto a chi non è accasato con nessuna casa discografica. La scelta “indipendente” è rigorosa anche nella scelta di affidare la registrazione dei concerti all’etichetta “indipendente” Laboratorio che poi ne pubblicherà una parte nell’album Parco Lambro. Il cuore pulsante di quello che oggi chiameremmo con un po’ di disinvoltura “evento” è o dovrebbe essere la musica da vivere nella più completa libertà in un’area libera dalle suggestioni del capitale e, almeno in teoria, della società dei consumi. Gran parte dei ragazzi e delle ragazze che arrivano lì hanno in mente questo. Contrariamente a quanto scritto in postume esaltazioni, ma anche in postume denigrazioni, l’ingresso non è libero. C’è una tessera per tutte le giornate che costa 1.000 lire. Dà diritto all’ingresso e basta. Per la verità occorre riconoscere che con il procedere delle ore e delle giornate il numero di chi passa senza pagare nulla da varchi improvvisati tenderà a crescere. Il servizio d’ordine messo in piedi dagli organizzatori infatti, soprattutto negli ultimi giorni, è più occupato a sedare o a collaborare ai vari tumulti per occuparsi di portoghesi e autoriduttori o per presidiare militarmente il recinto che cinge il parco. Con o senza biglietto chi entra si trova in una sorta di grande e colorata fiera di stand politici e commerciali, iniziative, proposte e momenti di discussione, divertimento o anche soltanto di chiacchiera. Gli stand politici offrono materiale vario e anche vettovaglie e bevande a prezzi inizialmente modici e comunque inferiori a quelli dei chioschi affittati ai privati. I luoghi destinati alla musica sono fondamentalmente due: il palco centrale per i concerti degli artisti “da cartellone” e un prato laterale per le improvvisazioni e la musica acustica. Lo stesso prato ha il compito di ospitare anche dibattiti, spettacoli, teatrali, massaggi e momenti di meditazione collettiva. Nelle intenzioni e anche nella dislocazione la VI edizione della Festa del Proletariato Giovanile sembra davvero aver fatto tesoro delle esperienze precedenti visto che solo pochi anni prima sulle rive del Ticino a Zerbo in provincia di Pavia il “proletariato giovanile” si erano ritrovato, per dirla con Finardi, «a fare Woodstock sulla riva del fiume» attrezzati con acqua, sole e poco altro. Insomma, tutto dovrebbe andare per il verso giusto, ma non è così. Fin dalla sua costruzione la VI Festa del Proletariato Giovanile sembra nascere sotto nefasti auspici. Il Comune di Milano, che pure concede l’uso del Parco, nega l’allacciamento dell’acqua e decide di non svolgere il servizio di pulizia concordato. Per l’acqua in qualche modo si supplisce anche perché il cielo spesso fa le bizze, ma per la pulizia ben presto il fai da te lascia spazio al più prevedibile letamaio diffuso. I dispetti del Comune non finiscono qui visto che, inopinatamente, arriva anche a interrompere la fornitura di energia elettrica. Per metterci una pezza gli organizzatori sono costretti a noleggiare generatori e ad aggiustarsi con allacciamenti di fortuna. Tutto questo sotto una pioggia battente e di fronte a decine di migliaia di persone arrivate nel pomeriggio e costrette ad attendere per ore tra acqua e cavi sparsi l’inizio dei concerti. Nonostante tutto la Festa parte e la musica riesce a far dimenticare i piccoli inconvenienti. Le difficoltà, però, se da un lato rendono epiche le giornate e i concerti, dall’altro fanno da catalizzatore delle differenze e del nervosismo latente che attraversa i rapporti tra i vari gruppi che compongono quello che oggi definiremmo “movimento”. Le contraddizioni si mutano in conflitto e la dialettica muore di fronte al vibrare della violenza. A dispetto delle ricostruzioni un po’ forzate va subito detto che la maggioranza dei ragazzi arrivati al Parco Lambro non è direttamente protagonista degli episodi più inutili e odiosi. La parte musicale finisce per diventare un’oasi di ristoro e viaggia per conto suo mentre la maionese della politica impazzisce e invece di amalgamarsi finisce per separare irrimediabilmente i suoi componenti. L’idea di una Festa che si trasforma in una rissa generale è stata inventata dai media dell’epoca e anche dall’eccessiva enfasi data da ogni gruppo alle responsabilità degli “altri”. Il casino coinvolge una frangia corposa ma non la totalità dei partecipanti che osserva con curiosità e qualche volta con stizza quel che accade. Tutto accade nel secondo giorno. La situazione precaria delle strutture e l’afflusso di persone superiore a quello previsto fanno sì che gli stand (anche quelli politici) si adeguino rapidamente alle leggi di mercato applicando consistenti aumenti a panini e bevande (una lattina di birra vine portata a 350 lire da tutti). La stessa regola, con qualche aggiustamento verso l’alto, viene applicata anche dallo stand dei polli arrosto per recuperare le perdite subite con il cattivo funzionamento dell’impianto elettrico. Il disagio provocato da queste decisioni invece di essere risolto con una discussione che coinvolga tutti, compresi i gruppi politici che nei loro stand si sono adeguati all’andazzo generale, provoca la rottura del fragile equilibrio tra le componenti. Ciascuno cerca di egemonizzare la protesta per proprio conto. Il gioco a “chi ce l’ha più lungo” vede un’escalation di azioni “esemplari”. La più pericolosa è il tentativo di esproprio proletario al vicino Supermercato di Via Feltre, che rischia di dare il pretesto alla polizia per entrare nel parco affollato da migliaia di ragazzi e ragazze arrivati solo per la musica. Poi ci sono le “bravate” inutili come l’assalto alla “Capanna dello Zio Tom”, uno storico chiosco del parco, e il saccheggio del furgone che trasporta i polli surgelati destinato a diventare il simbolo negativo delle giornate. Infine ci sono le cazzate, vale a dire, regolamenti di conti interni ai servizi d’ordine e ai militanti delle varie organizzazioni con qualche pestaggio sparso e la distruzione totale dello stand del FUORI, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, per la prima volta presente e non senza discussioni alla Festa. L’unica iniziativa utile appare l’occupazione del vicino Istituto “Molinari” che consente ai partecipanti di non passare la notte sotto la pioggia. L’esplosione violenta delle contraddizioni lascia tracce pesanti sulla Festa e non solo perché evidenzia come il grosso dei partecipanti non si sia lasciato coinvolgere dalle “paturnie” e dagli scazzi, ma perché il rischio è che salti tutto. Viene quindi indetta un’assemblea per decidere il da farsi. Inizia nel prato destinato ai dibattiti ma poi, vista la scarsa partecipazione, si trasferisce sul Palco Centrale per “coinvolgere tutti”. In realtà non riesce ad appassionare il grosso dei ragazzi e delle ragazze e quando poco più di un migliaio votano per alzata di mano la stragrande maggioranza decide che è tempo di smetterla con le cazzate e di andare avanti con la musica. I concerti continuano e restano nel cuore di chi ci è stato come una gemma preziosa da portare nel proprio scrigno dei ricordi. Non così per le valutazioni politiche di fatti che vedono la rottura in mille rivoli del movimento. Alcuni degli artisti presenti mettono in musica questi concetti. E se Gianfranco Manfredi canta lo sgomento di fronte al riemergere delle divisioni («E stiamo tutti insieme, ma ognuno sta per sé/la ricomposizione si sogna ma non c’è/ognuno nel suo sacco o nudo fra il letame/solo come un pulcino bagnato o come un cane») Eugenio Finardi va giù duro e diretto («All’alba del ‘76 il mito era crollato/perso nei calci a un pollo surgelato/tra fiumi di cazzate nella foga del momento/ci si prende a sprangate anche dentro al movimento»). Negli anni successivi in molti rifletteranno su quegli episodi a partire dallo stesso Andrea Valcarenghi, deus ex machina della Festa, fondatore e direttore di “Re Nudo” che in “Non contate su di noi” scrive «Nessuno ipotizzò quello che sarebbe successo, nessuno accennò alla possibilità che la proiezione collettiva dei fantasmi della disperazione avrebbe materializzato mostri da combattere. Nessuno previde che per tanti di noi ancora è necessario darsi un nemico esterno per potere sentirsi uniti contro qualcosa o qualcuno…». C’è il senso della delusione e dello sfacelo in quelle anche l’analisi non si può concludere lì. La VI Festa del Proletariato Giovanile ha messo a nudo le contraddizioni e i limiti delle organizzazioni extraparlamentari e l’incapacità di percepire le diversità come un valore. Ha messo in discussione l’idea della continua frantumazione organizzativa pian piano degenerata in una sorta di guerra per bande poco politica e molto adolescenziale (indipendentemente dall’età dei partecipanti). Scrive Marisa Rusconi nell’introduzione al libro fotografico “La Festa del Parco Lambro”: «…Proprio lì, dallo sfacelo del mito di un certo modo di stare insieme... c’era già l’embrione di un nuovo movimento, o meglio, della trasformazione del movimento e della sua separazione in diversi filoni, spesso contraddittori…». Ecco, forse la chiave è proprio lì. Nel giugno 1976 finiva un’epoca e ne iniziava un’altra. Il crocevia era nel Parco Lambro anche se, come spesso succede, chi c’era non poteva accorgersene.
24 giugno, 2019
25 giugno 1949 – Nasce la classifica della musica nera
Il 25 giugno 1949 vengono per la prima volta pubblicate negli Stati Uniti le classifiche dei dischi rhythm and blues più venduti. In un paese in cui all'epoca per gran parte degli uomini e delle donne dalla pelle nera i diritti umani sono ancora da conquistare il segnale è importante al punto che di lì a poco gli sviluppi della musica nera contribuiranno a cambiare i gusti del pubblico bianco, soprattutto giovane, che, sedotto dalla ritmica e dai vocalizzi della musica dei neri, finirà per rifiutare le orchestrazioni pop derivate dai musical. Le classifiche di vendita del rhythm and blues sono in realtà un modo per dare spazio, anche se in un contenitore separato, alla musica nera. Il termine “rhythm and blues” infatti viene utilizzato per indicare la musica leggera nera di quel periodo, cioè la musica esplosiva e ritmata destinata a quella parte della popolazione che era ancora esclusa dai club, dai teatri e dai cinema di prima visione.
24 giugno 1931 – La prima volta di "Casa mia (Casetta de’ Trastevere)"
Al festival poetico-musicale indetto a Roma in occasione della Festa di S. Giovanni del 1931 viene presentata per la prima volta al pubblico il brano Casa mia (Casetta de’ Trastevere). L’autore è Alfredo Del Pelo, considerato, insieme a Romolo Balzani, uno degli esponenti più rappresentativi della scuola degli stornellatori romani degli anni Venti. Del Pelo, che si esibisce alla famosa Taberna Ulpia, destinata a essere distrutta negli anni Trenta dagli sventramenti decisi dal Duce per realizzare la via dell’Impero, ha composto questa canzone l’anno prima insieme ad Alberto Simeoni e Ferrante Alvaro De Torres e ha voluto provare il suo effetto sul pubblico (oggi si direbbe “testarla”) in occasione dell’importante rassegna. Presentata fuori concorso diventa ben presto uno dei canti della tradizione della capitale.
23 giugno, 2019
23 giugno 1950 – Il sogno di Bom-Bay Carter
Il 23 giugno 1950 a Chicago, nell’Illinois, nasce Bom-Bay Carter, uno dei protagonisti della generazione degli anni Settanta dei bluesmen chicagoani. All'anagrafe si chiama William Carter, ma nessuno più se lo ricorda, così come nessuno ricorda quando e come gli sia stato messo il nomignolo di Bom-Bay. A chi glielo chiede risponde che non c'è alcun significato particolare e che è sempre stato chiamato così. Suo padre è di Dan Richmond, uno che con l’armonica e la chitarra ci sa fare. Per la verità ci sa fare anche il piccolo Bom-Bay che invece di andare a scuola preferisce passare le ore in giro per le strade a soffiare nell'armonica. A sette anni la sua carriera scolastica si può già dire compromessa. Sembra che agli insegnanti non piaccia il suono dell'armonica, soprattutto quando stanno parlando, ma lui insiste a suonare anche nelle ore di lezione. Gli sembra che il mondo della scuola funzioni all'incontrario: in strada tutti insistono perché suoni, in aula non vedono l'ora che la pianti. Il mondo degli adulti non gli piace, ma ritiene che, in fondo, non sia un suo problema. Non ha ancora compiuto dieci anni e già si diverte a suonare anche la chitarra. Il padre lo incoraggia a continuare. È un osso duro il ragazzino, non molla mai e dopo l'armonica e la chitarra scopre il basso elettrico. Si esibisce per un po' con gli amici di suo padre, ma poi decide di tentare la fortuna da solo. Ha quindici anni quando inizia a suonare in alcuni locali della West Side e della South Side di Chicago ma non è proprio da solo. I primi contratti riguardano un duo composto, oltre lui, dal chitarrista Charles Griffin, detto anche "Little Nick". È l'inizio di una lunga carriera che si svolgerà prevalentemente a Chicago perché il ragazzo non ama viaggiare e, soprattutto, pensa che il blues sia davvero blues solo a Chicago. Negli anni Sessanta suona spesso con Lee Jackson e Johnny Young, ma non è indifferente al richiamo di nomi come Richard Gary, Howlin’ Wolf, Sunnyland Slim e Homesick James. Inafferrabile e volubile non si fa legare da nessuno, anche se nel 1972 entra per un po' nella formazione di J. B. Hutto e accetta addirittura di andare in tournée. Non abbandona però la sua band personale, che lui stesso ha chiamato Blues Unlimited, con cui registra nel 1974 i primi dischi. Il suo sogno, non tanto segreto, è però quello di aprire un proprio locale a Chicago. Ci riuscirà alla fine del 1975 quando inaugurerà il “Black Spider” con un concerto che durerà fino alla mattina.
22 giugno, 2019
22 giugno 1936 – Kris Kristofferson, tra poesia, canzoni e cinema
Il 22 giugno 1936 a Brownsville, nel Texas nasce il cantante, autore e attore di successo Kris Kristofferson. Negli anni del College la sua prima passione è la letteratura: compone poesie e scrive un paio di romanzi trovando anche qualcuno disposto a pubblicarli e leggerli. Durante il servizio militare resta, però, affascinato dalla possibilità di aggiungere la musica alle parole. L'emozione per la scoperta è tanta che quando, nel 1965, viene congedato, rifiuta la cattedra di Letteratura a West Point e decide di dedicarsi anima e corpo alla musica. A sostenerlo nella scelta c'è il cantante country Johnny Cash, suo grande estimatore, che da tempo insiste perché il ragazzo si applichi con più continuità alla composizione di testi per le canzoni. Si lascia alle spalle West Point e si trasferisce a Nashville. Qui sbarca il lunario scrivendo canzoni per i vari personaggi del country e qualche ballata d'impegno sociale. È proprio in questo periodo che vede la luce Me and Bobby McGee, un brano che conosce un discreto successo nel 1969 nell'interpretazione del cantante Roger Miller e che un paio d'anni dopo diventa uno dei cavalli di battaglia di Janis Joplin. La sua produzione alimenta il repertorio di personaggi di primo piano della scena country come Gordon Lighfoot, Johnny Cash e Willie Nelson. Meno bene vanno le cose quando decide di interpretare da solo i propri brani. Pubblica, infatti, una lunga serie di album senza infamia né lode, tre dei quali in coppia con Rita Coolidge che per qualche anno diventa anche sua moglie. Una nuova svolta nella sua carriera arriva nel 1971 quando Dennis Hopper lo vuole nel suo film "The last movie" (Fuga da Hollywood), uno dei manifesti più confusi della generazione hippie. La piccola e, tutto sommato, marginale partecipazione alla pellicola di Hopper gli apre le porte del cinema. In breve diventa uno dei personaggi più interessanti del cinema degli anni Settanta. Gran parte del merito va al regista Sam Peckinpah che gli affida due parti significative in "Pat Garrett & Billy The Kid" e "Voglio la testa di Garcia" e il ruolo del protagonista in "Convoy, trincea d'asfalto". Tra i suoi successi di quel periodo c'è anche il remake di "È nata una stella" al fianco di Barbra Streisand. Nel 1980 è tra gli attori scelti da Michael Cimino per lo sfortunato film-denuncia "I cancelli del cielo". L'attività cinematografica lo porterà a trascurare quella musicale, anche se non mollerà mai del tutto né la sala di registrazione né le esibizioni dal vivo.
21 giugno, 2019
21 giugno 1968 – I Deep Purple? Cinque ragazzi di campagna
Il 21 giugno 1968 la Parlophone, un'etichetta minore di proprietà della EMI, pubblica Hush, il primo singolo di una nuova band britannica che risponde al nome di Deep Purple. Il brano non sembra niente di speciale, ma in breve tempo arriva ai primi posti delle classifiche statunitensi. L'avvenimento spinge la critica e i media a dedicare un po' più d'attenzione a quello che, fino a qualche tempo prima, era considerato uno dei tanti gruppi che popolavano la scena musicale britannica di quel periodo. Scoprono così che questi cinque "ragazzi della selvaggia campagna dell'Hertfordshire", non sono proprio dei novellini. Il carismatico tastierista John Lord, l'anima del gruppo, ha precedenti importanti nel jazz e una lunga militanza negli Artwoods, mentre il bassista Nicky Simper è reduce dall'esperienza di Johnny Kidd & The Pirates. Il chitarrista risponde al nome di Ritchie Blackmore, un vagabondo che negli anni precedenti è stato anche in Italia con i Trip e ha accompagnato per qualche mese Riki Maiocchi, l'ex cantante dei Camaleonti. Il batterista Ian Paice e il cantante Rod Evans sono stati, infine, recuperati con annunci sulla stampa specializzata. Questo è dunque il gruppo che ha conquistato l'America fin dal primo disco. Un colpo di fortuna? Sono in molti a crederlo e qualcuno si azzarda anche a scriverlo con il rischio di fare l'ennesima figuraccia. I "cinque ragazzi di campagna", infatti, alla faccia degli scettici, dopo un annetto passato a mettere a punto le idee entusiasmeranno il mondo e diventeranno uno dei più grandi gruppi hard rock di tutti i tempi. L'assestamento definitivo della band coinciderà con il primo cambiamento di formazione. Nicky Simper e Rod Evans verranno sostituiti dal bassista e dal cantante degli Episode Six: Roger Glover e Ian Gillan. La scelta sarà determinante per la continuità, ma soprattutto per la personalità della band. Nel 1970 l'album Deep Purple in rock segnerà l'inizio della loro folgorante ascesa vendendo più di un milione di copie mentre le tranquille classifiche dei singoli, caratterizzate in quel periodo da tanti brani gradevoli e rassicuranti, verranno sconvolte dall'arrivo di un ciclone sonoro come Black night, considerato ancora oggi uno dei primi esempi di heavy metal commerciale. Il mondo intero imparerà così ad amare la voce selvaggia di Ian Gillan, la nitida sonorità della chitarra di Ritchie Blackmore, il talento creativo di Lord e le atmosfere sonore delle sue tastiere.
19 giugno, 2019
19 giugno 1971 - Chirpy chirpy cheep cheep
Il 19 giugno 1971 al vertice della classifica britannica arriva il brano Chirpy chirpy cheep cheep interpretato dai Middle Of The Road, una band fino a quel momento sconosciuta dal grande pubblico e formata dalla cantante Sarah Carr, dal bassista Eric Campbell Lewis, dal chitarrista Ian Campbell Lewis e dal batterista Ken “Ballantyne” Andrew. La loro storia inizia alla fine degli anni Sessanta quando si formano a Glasgow con il nome di Part Four. Successivamente decidono di cambiare nome in Los Caracos dopo aver modificato il loro repertorio dedicandosi alla musica latina. Non sono artisti professionisti. Come molti giovani appassionati di quel periodo di giorno lavorano di giorno e alla sera suonano. Nel 1970 cambiano ancora nome. Diventano Middle Of The Road e decidono di provare a dedicarsi alla musica a tempo pieno. Dopo essere arrivati in Italia per un tour, vengono scritturati dal produttore Giacomo Tosti e restano qui da noi. Da quel momento grazie anche alle canzoni scritte dal britannico Lally Stott, iniziano a conquistare le classifiche europee con un sound estremamente commerciale e affine alla "bubble gum music” d’oltreoceano. Tra i loro principali successi ci sono Chirpy chirpy cheep cheep, Tweedle dee tweedle dum, Soley soley, Sacramento e Samson & Delilah. In due anni la band passa dall'anonimato al successo per tornare poi nell'anonimato più assoluto dopo aver venduto cinque milioni di dischi.
18 giugno, 2019
18 giugno 2004 – Il giorno in cui i Marmaja persero Elia
Il 18 giugno 2004 muore improvvisamente Elia Mantovani, il chitarrista dei Marmaja. «Nessuno potrà ascoltare dal vivo il nuovo disco, perché Elia dal 18 giugno non c’è più». L’emozione è palpabile nella voce di Guido Frezzato il front man di uno dei gruppi storici di quel genere che in modo alquanto impreciso viene definito “combat rock”. Nella frase c’è più di una verità perchè l’uscita di Marmaja, il terzo album della loro storia, coincide con la morte improvvisa di Elia Mantovani, la chitarra grafica del gruppo, il levigatore delle atmosfere, il cesellatore delle evoluzioni sonore. Per capire quanto di lui ci sia nel disco è sufficiente leggere la title track dove la sua firma compare in sette brani su dodici o ascoltarlo con orecchio allenato per accorgersi come nei primi cinque brani tutto giri intorno alla sua chitarra. La scomparsa stende un’ombra sul futuro del gruppo. In una lunga intervista proprio Frezzato chiarisce le intenzioni della band. «Ci manca e ci mancherà sempre perché i Marmaja non sono soltanto un gruppo musicale, ma un laboratorio, una comunità unita e solidale nel profondo. La sua scomparsa apre una ferita dolorosa in quella comunanza di sentimenti e idee che sta alla base del nostro lavoro. Non molleremo, ripartiremo da lì e andremo avanti. Non lo sostituiremo. Ridistribuiremo i ruoli e continueremo per la nostra strada». E a chi gli chiede se non sia paradossale che tutto questo avvenga dopo la pubblicazione di un album in cui la band sembra trovare una nuova fisionomia sonora, più solare, quasi gioiosa, risponde: «È la morte che è paradossale, non la sua scadenza temporale. L’album nasce dalla voglia di ragionare intorno all’idea del domani, di un futuro che ci piaceva immaginare ricco anche di gioia, di giocare un po’ con le promesse, il mistero, le speranze che l’idea del domani alimenta». La chiave è forse nella canzone di Bertelli Vedrai come è bello? «È anche lì, ma è soprattutto in quell’allegria sudamericana che caratterizza le musiche e gli arrangiamenti. Il folk è solo un pezzo della nostra storia, così come gli echi balcanici ieri e, oggi, le atmosfere sudamericane. Chiudere i Marmaja in un genere fa torto alla nostra storia che è improntata al confronto, alla voglia di conoscere e sperimentare senza preoccuparsi dell’etichetta. Nel disco confluiscono tante idee ed esperienze, compresi un paio di progetti paralleli di cui alcuni di noi fanno parte come il bossa rock degli Iguana Sana o del jazz samba del Trio Brasil. Noi raccontiamo storie, parliamo del lavoro, della vita della gente, delle sue speranze e anche delle sue lotte. È un modo di fare politica, anche se diverso da chi sceglie la canzone-slogan col riff ripetuto da cantare con il pugno alzato, ma è il nostro».
17 giugno, 2019
17 giugno 1938 – Nicuzza se ne va
Il 17 giugno 1938, a Napoli, muore a ventidue anni fra atroci sofferenze la cantante Nicuzza, una delle più popolari interpreti femminili di café chantant. Nata il 5 aprile 1906 a Messina e registrata all’anagrafe con il nome di Maria Sergi a quindici anni scappa di casa e se ne va a Napoli dove studia canto facendosi mantenere dal suo maestro. Graziosa ed eccentrica nel 1923 debutta come cantante nei Café Chantant interpretando brani come Ninì, La spagnola, L’ingenua e ‘A frangesa. Tra le sue performances più famose c’è l’interpretazione di Balocchi e profumi spargendo sul pubblico fiori ed essenze profumate. Con le sue mossette, le gonne alzate al momento opportuno e la voce sensuale conquista una lunga serie di uomini importanti dell’epoca che si innamorano perdutamente di lei. Partecipa a varie audizioni di Piedigrotta e vive rocambolesche avventure fino al punto da ritrovarsi sul capo un mandato di comparizione per “comportamento scandaloso”. Accade nel gennaio del 1938, quando in Italia c’è un regime dittatoriale, ma lei non se ne cura. Una notte ruba una divisa militare a un amante occasionale e fugge in Africa Orientale dove si esibisce in vari locali. A giugno, quando tutto sembra ormai a posto, s’imbarca per tornare in Italia. Nel viaggio di ritorno s’ammala a causa di una dolorosa malattia tropicale e muore in clinica pochi giorni dopo essere sbarcata a Napoli.
16 giugno, 2019
16 giugno 1979 - Ring My Bell
Il 16 giugno 1979 arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti in Gran Bretagna un brano dall'arrangiamento in sintonia con la moda imperante della Disco Music. Si intitola Ring my bell. Lo interpreta una cantante dalla splendida voce, ma del tutto sconosciuta al grande pubblico. Si chiama Anita Ward ed è nata ventun anni prima a Memphis, nel Tennessee. Dietro alle spalle ha una lunghissima carriera di cantante gospel iniziata fin da bambina nel coro della sua chiesa. Proprio in una delle esibizioni a sfondo religioso in una delle tante chiese della zona dove vive viene notata dal manager Chuck Holmes che, affascinato dalla sua voce, le propone di tentare la carriera solistica. Nel 1971, a tredici anni, inizia quindi a tenere concerti come cantante di gospel e soul. Ben presto il suo nome diventa popolarissimo tra gli amanti del genere, grazia anche ad alcuni dischi registrati "a cappella", cioè senza accompagnamento orchestrale. Cosa c'entra una cantante come lei con la disco music? Tutto accade quando le viene offerto di registrare Songs of love il primo album "con accompagnamento" della sua carriera. Inizialmente si pensa di sfruttare i suoi brani più conosciuti e più impegnativi svecchiandoli con arrangiamenti specifici, ma poi, si sa, l'appetito vien mangiando. Il diavolo tentatore assume le vesti del produttore Frederick Knight che suggerisce di aggiungere qualche brano più commerciale al suo repertorio. In particolare le offre di interpretare Ring my bell, una canzone inizialmente composta per l'undicenne Stacy Lattisaw, una delle tante cantanti-bambine di quel periodo. Pur senza esserne completamente convinta la Ward accetta. Il singolo, in linea con i canoni della Disco Music, diventa un successo mondiale. Non avrà, però, seguito. L'improvvisa popolarità finisce per spaventare Anita Ward che dopo qualche tempo tornerà al gospel e al soul più tradizionale lasciandosi alle spalle l'exploit del singolo milionario.
15 giugno, 2019
15 giugno 1933 – Sergio Endrigo, il cantautore che piace ai poeti
Il 15 giugno 1933 nasce a Pola, nell'Istria, Sergio Endrigo, uno dei più interessanti cantautori italiani, amico e collaboratore di poeti e scrittori. All'inizio degli anni Cinquanta sbarca il lunario cantando nei night club della provincia di Trieste i classici standard della canzone americana senza rinunciare a una sorta di "vita artistica parallela" in cui compone ed esegue, per ristretti gruppi d'amici, canzoni di sua composizione. Nel 1960 viene scritturato dalla Ricordi, la casa discografica di Milano impegnata a dare spazio alle esperienze dei primi cantautori. Tra i brani che vedono la luce nell'ambito di questa esperienza ci sono I tuoi vent'anni e La brava gente. L'avventura milanese, però, non lo soddisfa completamente per cui se ne va a Roma. Nel 1963 arriva il primo successo discografico con Io che amo solo te. Tre anni dopo partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo con Adesso sì in coppia con gli inglesi Chad & Jeremy. Nel 1968 è il primo cantautore a vincere la rassegna sanremese insieme a Roberto Carlos con Canzone per te. Negli anni successivi, nonostante il buon successo commerciale, la sua carriera si avvia, però, a una nuova svolta. L'orizzonte cantautorale gli va ormai stretto e dopo un memorabile recital al Piccolo Teatro di Milano da cui viene tratto anche un album doppio, decide di dedicarsi alla ricerca di nuovi punti d'incontro tra musica, poesia e letteratura. Inizia così a scrivere canzoni con parole che portano la firma di poeti come Ignazio Buttitta, Giuseppe Ungaretti e Pier Paolo Pasolini. L'esperimento ottiene risultati inaspettati, tanto da portarlo al vertice delle classifiche di vendita con canzoni per bambini come La casa e Il pappagallo i cui testi nascono dalla penna sognante e curiosa del poeta brasiliano Vinicius De Moraes. Accanto alla canzone vive esperienze politiche intense nell'ambito della sinistra e riceve consensi per la sua interpretazione nel film "Tutte le domeniche mattina" di Carlo Tuzii, prodotto dalla RAI e presentato al Festival Internazionale del Cinema di Venezia. Dall'amicizia e dalla collaborazione con lo scrittore Gianni Rodari nasce nel 1974 la canzone Ci vuole un fiore. Vari album scandiranno la prosecuzione della sua carriera anche se i cambiamenti del clima culturale e politico non favoriranno le sue scelte musicali. Riservato e schivo, Endrigo proseguirà con impegno e convinzione per la sua strada anche quando le sue scelte artistiche non incontreranno più il favore del grande pubblico. Muore a Roma il 7 settembre 2005.
14 giugno, 2019
14 giugno 1972 – L'ultimo concerto di Simon & Garfunkel, anzi no
Il 14 giugno 1972 nel corso dello show organizzato da Warren Beatty al Madison Square Garden per raccogliere fondi da destinare alla campagna elettorale di McGovern, il candidato della sinistra democratica alla presidenza degli Stati Uniti, Simon & Garfunkel tengono quello che, nella loro biografia ufficiale, verrà indicato come l'ultimo vero concerto del duo. Da tempo i rapporti interni alla coppia non sono più idilliaci ed entrambi i musicisti stanno ormai rincorrendo progetti solistici. Finisce qui, in questa sorta di convention politica e musicale un sodalizio iniziato sui banchi di scuola recitando insieme in una versione scolastica di "Alice nel paese delle meraviglie": Paul Simon nella parte del Coniglio Bianco e Art Garfunkel in quella del Gatto del Chesire. Nel 1957, sempre in coppia, pubblicano il loro primo disco sotto lo pseudonimo di Tom & Jerry. La delusione per i risultati li spinge a cercare fortuna come solisti: Art con il nome di Arty Garr e Paul prima come Jerry Landis e poi come cantante dei Tico & The Triumphs. Si ritrovano nel 1964 quando suonano insieme nei locali folk del Village newyorchese. Il vero artefice delle fortune del duo è, l'anno dopo, Tom Wilson, già collaboratore di Bob Dylan durante la sua "svolta elettrica", che aggiunge alla loro versione acustica del brano The sound of silence una base grintosa con basso, chitarra elettrica e batteria. Il singolo, in poche settimane, arriva al primo posto della classifica statunitense. È il primo grande successo di Simon & Garfunkel, la "coppia d'oro" capace di vendere nei cinque anni successivi più di venti milioni di dischi con brani indimenticabili come America e, soprattutto, Mrs. Robinson, il tema conduttore del film "Il laureato" diretto da Mike Nichols e interpretato da Dustin Hoffman. Nel 1970 pubblicano quello che è tuttora considerato il loro capolavoro, l'album Bridge over troubled water, che frutta al duo ben cinque Grammy Awards. La separazione dopo il concerto del 14 giugno 1972, pur se agli addetti ai lavori non giunge del tutto inaspettata, sorprende i fans di tutto il mondo. Nonostante tutto la vera storia di Simon & Garfunkel finisce qui. Ci saranno periodiche riunioni come quella in Central Park davanti a mezzo milione di spettatori, ma avranno tutte lo stucchevole sapore della nostalgia e dell'evento commerciale.
12 giugno, 2019
13 giugno 1979 – La leucemia si porta via Demetrio Stratos
Il 13 giugno 1979 muore in una clinica di New York Demetrio Stratos, una delle voci più significative della musica degli anni Settanta, voce solista degli Area ed ex cantante dei Ribelli. Ha trentaquattro anni e il suo poderoso fisico si è arreso alla leucemia dopo un calvario durato mesi. Il giorno dopo a Milano si svolgerà un grande concerto per onorarne la memoria che vedrà la partecipazione di decine di migliaia di giovani. Parte delle esibizioni verranno pubblicate nel doppio album 1979 - Il concerto, da molti ritenuto il manifesto conclusivo di un’epoca e di una generazione. Inizialmente organizzata per raccogliere fondi da destinare alle costose cure cui si sottoponeva il cantante, la manifestazione diventa un omaggio postumo che vede la partecipazione di moltissimi artisti, tra i quali Eugenio Finardi, Antonello Venditti, gli Skiantos, i Kaos Rock, il Banco del Mutuo Soccorso, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini e i suoi compagni degli Area. Proprio parallelamente alla sua militanza in questo gruppo Demetrio aveva sviluppato interessanti ricerche sull'uso della voce pubblicate in album sperimentali come Metrodora del 1976 e Cantare la voce del 1978. Sempre nel 1978, il 17 dicembre, quando già il terribile male che l’ha colpito inizia a far sentire le prime avvisaglie, si esibisce al Teatro Massimo di Milano in un affollatissimo concerto di rock & roll delle origini con una band improvvisata composta dal violinista e armonicista Mauro Pagani, dal batterista Walter Calloni, dal chitarrista Paolo Tofani e dai bassisti Stefano Cerri e Paolo Donnarumma. I brani migliori della serata vengono pubblicati in un album, Rock and roll exibition, che resta una straordinaria testimonianza della sua voglia di vivere. Nel 1990, undici anni dopo la sua morte, parte dei lavori di ricerca condotti da Demetrio sulle possibilità della voce verranno raccolti e pubblicati nell’album Le milleluna. Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1945 dopo aver attraversato gli anni del beat con i Ribelli nei quali arriva alla metà degli anni Sessanta insieme ad Angel Salvador, l'ex bassista de Los Bravos, nel 1972 diventa l’alfiere degli Area, la band che più di altre con la sua musica fortemente politicizzata, estremista e rabbiosa identifica la generazione degli anni Settanta. La morte di Demetrio chiuderà, nei fatti, l’avventura del suo gruppo nonostante il successivo e modesto album Tic Tac.
12 giugno 1963 – Addio a Bob Scobey
Il 12 giugno 1963 a Montréal in Canada, il cancro si porta via per sempre il trombettista Bob Scobey. Nato il 9 dicembre 1916 a Tucumcari, nel New Mexico, a soli due anni il piccolo Robert Alexander Scobey, come è registrato all’anagrafe, si trasferisce con la famiglia a Stockton in California. Proprio in questa cittadina Bob comincia a suonare la cornetta all'età di nove anni, passando poi alla tromba verso i quattordici. Per non lasciare niente al caso affianca le sue doti naturali con lo studio frequentando il Berklee College. La tromba diventa un mestiere a partire dal 1936 quando si fa professionista esibendosi con orchestre da ballo in vari club e teatri di San Francisco. Nel 1938 conosce Lu Watters che gli fa conoscere il jazz. Bob se ne innamora e in brave tempo diventa uno dei principali rappresentanti del cosiddetto San Francisco Style. Insieme a Lu Watters e a Turk Murphy partecipa alla costituzione della Yerba Buena Jazz Band, con la quale suona per molti anni consecutivi, prendendo parte anche alla registrazione della nutrita serie di dischi di successo per la Good Time Jazz. Il segreto delle fortune della Yerba Buena è in una sorta di revival aggiornato dei brani classici. In pratica la band riprende i pezzi di Oliver e di Morton e li ripropone arrangiandoli in modo spettacolare senza tradirne lo spirito e rispettandone, per quanto possibile, l'arcaicità del suono. Nel 1947 forma una sua jazz band nella quale in anni diversi si avvicenderanno personaggi di spicco come Jack Buck, Wally Rose, Burt Bales, Clancy Hayes, Bob Mielke, Bill Napier, Bob Short, Ralph Sutton, Abe Lincoln, Warren Smith. Alla testa del suo gruppo si esibisce nei più eleganti ritrovi di Oakland, Los Angeles e San Francisco, registrando parecchi dischi per la Good Time Jazz, la Victor e la Verve. In questi anni si afferma anche come valente solista dimostrando di aver bene assimilato la lezione di Armstrong. Verso la fine degli anni Cinquanta se ne va prima a New York e poi a Chicago dove suona e incide alla testa di una nuova formazione di cui fanno parte Jim Beebem, Gene Schroeder, Art Hodes, George Duvivier e Clancy Hayes. Un anno prima di morire attraversa tutta l’Europa con un lungo tour.
11 giugno, 2019
11 giugno 1948 - Apre il Club Saint-Germain
L'11 giugno 1948 a Parigi apre i battenti il Club Saint-Germain, forse il più noto circolo di jazz della capitale francese negli anni dell’immediato dopoguerra. Aperto in rue St. Benoit in un periodo che ancora oggi viene definito “il grande momento di Saint-Germain-des-Prés” per la straordinaria vivacità culturale che attraversa le vie del quartiere, il locale è destinato a ospitare uno dopo l'altro tutti i grandi nomi del jazz mondiale di passaggio a Parigi, sia quelli di stile mainstream che i protagonisti delle evoluzioni più moderne. Alla fine degli anni Sessanta entra in un declino che appare inarrestabile e, complici una serie di problemi relativi alla proprietà e alla gestione, finisce per chiudere i battenti. Non sarà per sempre perché dopo un’interruzione dell’attività durata qualche anno, riaprirà le porte ai musicisti jazz a partire dal 1979.
09 giugno, 2019
9 giugno 1943 - Kenny Barron, rivitalizzatore delle tecniche pianiste afro-americane
Il 9 giugno 1943 nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il pianista e compositore Kenneth "Kenny" Barron fratello del sassofonista Bill Barron. Dotato di uno stile vigoroso è considerato dalla critica uno degli artefici della rivitalizzazione delle tecniche pianiste afro-americane nel jazz degli anni Settanta. Fin da piccolo è immerso nell'ambiente musicale e per qualche periodo studia con la sorella di Ray Bryant. A quattordici anni ottiene la prima vera scrittura della sua carriera ed entra a far parte della band diretta da Mel Melvin, nella quale suona anche suo fratello, che probabilmente ha svolto un ruolo attivo nella vicenda del suo ingaggio. Due anni più tardi è con Philly Joe Jones e nel 1960 si sposta a Detroit per accompagnare la band di Yusef Lateef, disposto a tenerlo con sé per lungo tempo. Non dura. Ben presto, infatti, cede alle lusinghe della "grande mela" e se ne va a New York in cerca di fortuna. Qui per qualche tempo sbarca il lunario con varie scritture recuperategli dal fratello, ma poi trova finalmente una collocazione più stabile nella band di Ted Curson. Gli bastano pochi mesi per farsi notare e attirare l'attenzione dei protagonisti della scena jazz newyorkese di quel periodo. Alla fine del 1961 fa parte del sestetto di James Moody che lascia per entrare nel gruppo di Roy Haynes. Il suo vagabondare sembra finalmente giunto al termine nel 1962 quando prende il posto di Lalo Schifrin nel quintetto capeggiato da Dizzy Gillespie. Ci resterà quattro anni, poi riprenderà a girovagare alternando esperienze solistiche a collaborazioni importanti suonato con jazzisti del calibro di Freddie Hubbard, Jimmy Owens, Stanley Turrentine, il suo amico Yusef Lateef, Milt Jackson, Jimmy Heath, Stan Getz, Ron Carter e Buddy Rich, solo per citarne alcuni. A partire dal 1973 inizierà a insegnare teoria musicale, armonia e pianoforte presso la Rutgers University dove incontrerà un nuovo compagno d'avventure nel chitarrista Ted Dumbar.
08 giugno, 2019
8 giugno 1978 – Il primo album dei Dire Straits
L'8 giugno 1978, dopo qualche rinvio e non poche preoccupazioni, la Phonogram immette sul mercato il primo album di una nuova band: i Dire Straits. Il titolo del disco è lo stesso nome del gruppo. Inizia così la scalata al successo di una delle band più importanti del passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, composta dai chitarristi Mark e David Knopfler, dal bassista John Illsley e dal batterista Pick Whiters. L'album è stato realizzato negli Island Studios di Basing Street a Londra sotto le attente cure di Muff Winwood, fratello del famoso chitarrista Steve Winwood, e di Rhett Davies, un tecnico del suono con la fama di poter trasformare in oro tutto ciò che tocca. «Cerchiamo di fare presto e bene, perché abbiamo un budget molto limitato…» Queste sono le prime parole che ascoltano quando entrano in sala di registrazione. Il limite di spesa da non superare è di dodicimilacinquecento sterline: pochi per fare follie, ma sufficienti a produrre un buon disco. Tempo da perdere non ne hanno neanche i Dire Straits che da mesi hanno messo a punto undici brani tra i quali scegliere gli otto da inserire nell'album. Con un po' di rammarico accettano di scartare uno dei loro cavalli di battaglia negli spettacoli dal vivo: Nadine di Chuck Berry. Alla fine saranno quattro le canzoni sacrificate, perché proprio in una delle pause tra una seduta di registrazione e l'altra nasce Lions una canzone che entusiasma lo staff della produzione. Oltre al brano di Berry vengono così scartate Sacred loving, Eastbound train e Real girl. È interessante notare come successivamente tutti e tre gli "scarti" verranno recuperati, primo fra tutti Eastbound train che fa da retro al primo singolo della band Sultans of swing, pubblicato qualche settimana prima dell'album con funzioni di trailer. Nonostante le preoccupazioni e il budget limitato l'album Dire Straits risulta più che gradevole e curato in ogni dettaglio. Non è un disco destinato a vendere milioni di copie, ma fa da trampolino allo straordinario successo che attende il gruppo negli anni successivi. Nei brani si respirano già le atmosfere sonore che saranno la caratteristica più importante dei Dire Straits e anche la critica, inizialmente tiepidina, finirà per rivalutarne l'importanza fino a considerarlo come una delle migliori produzioni del gruppo.
06 giugno, 2019
7 giugno 1971 – Il suicidio di Ben Pollack
Il 7 giugno 1971 a Palm Springs, in California, viene ritrovato il corpo del sessantasettenne batterista, cantante e direttore d’orchestra Ben Pollack. Si è impiccato. Le ragioni della tragica decisione sono sconosciute. C’è chi ipotizza dissesti finanziari e chi invece tenta di scavare nella sua travagliata vita sentimentale. Al di là delle motivazioni, se ne va per sempre uno dei protagonisti del jazz orchestrale, abile batterista dixieland e leader dalle grandi capacità. Nato a Chicago, nell'Illinois, inizia da ragazzo a suonare la batteria in vari gruppi studenteschi. Non ha ancora compiuto diciott'anni quando ottiene il suo primo ingaggio importante da Dick Shoenberg che lo scrittura per suonare con il suo gruppo al Navy Pier di Chicago. È l'inizio di un periodo frenetico in cui Ben vagabonda per gli Stati Uniti passando dalla band del pianista Izzy Wagner ai New Orleans Rhythm Kings, dal gruppo del clarinettista Larry Shields a quello di Harry Bastin. Nel 1924 entra in crisi. Stanco di quella vita torna alla sua Chicago, deciso ad abbandonare l'attività musicale e a dedicarsi, insieme con i familiari, al commercio delle pellicce. Dopo pochi mesi cambia idea e se ne va a New York in cerca di lavoro. Qui diventa per la prima volta leader rilevando per quasi un anno l'orchestra di Harry Bastin. Chiusa la parentesi torna a Chicago per suonare nella band di Art Kassel, ma l'esperienza come leader gli è piaciuta. Nel 1926 forma la sua prima vera orchestra. Da quel momento il suo nome diventa una garanzia sulla qualità della band. Per quasi vent'anni organizza e dirige varie formazioni mentre la sua popolarità si allarga a macchia d'olio. Nel 1943 diventa anche impresario e due anni dopo fonda anche una propria etichetta discografica: la Jewel Company. Negli anni Sessanta abbandona l'ambiente musicale per dedicarsi alla gestione di un ristorante a Palm Springs, in California. Non si muove più fino al disperato e mai completamente chiarito suicidio.
6 giugno 1960 – L'irrequieto Steve Vai
Il 6 giugno 1960 nasce a Long Island, New York, Steve Vai, uno dei chitarristi più versatili e tecnici del rock degli anni Ottanta e dei primi anni novanta. A tredici anni suona per la prima volta in pubblico con i Rayge, una band formata insieme a un gruppo di compagni di scuola. Proprio nella stagione degli studi ha la fortuna di avere per maestro un chitarrista leggendario come Joe Satriani, impegnato nell'insegnamento per risolvere i suoi problemi finanziari. L'incontro con Satriani lascia il segno sullo stile del giovane Steve che, per completare la sua formazione, frequenta anche i corsi di jazz e musica classica al Berklee College di Boston. Nel 1979 si trasferisce a Los Angeles dove la sua tecnica e la sua versatilità colpiscono un musicista attento come Frank Zappa. A diciannove anni non ancora compiuti si ritrova così a ricoprire l'impegnativo ruolo di chitarra solista nella band di uno dei più geniali personaggi del rock. L'esperienza lo irrobustisce e lo stimola a sviluppare un progetto solistico che, dopo varie difficoltà, si concretizza nel 1984 con la pubblicazione dell'album Flex-able. Il disco, nonostante qualche inevitabile ingenuità, propone un'interessante miscela stilistica nella quale sono evidenti i richiami al rock, al jazz e alla musica classica che in qualche brano sfiora anche l'avanguardia sperimentale. L'esperienza solistica non riesce a trovare continuità, se si eccettua la pubblicazione di Flex-able leftovers, una sorta di seconda versione rivista e corretta dell'album del debutto. Due anni dopo, perciò, Steve si unirà per un breve periodo agli Alcatrazz, entrando poi a far parte della band di David Lee Roth, con cui resterà fino al 1988. Nel 1989 si entrerà a far parte degli Whitesnake. Ormai considerato anche dagli stessi musicisti come uno dei migliori chitarristi in circolazione, ritenterà con maggior fortuna l'esperienza solistica negli anni Novanta, pubblicando album Passion & warfare e Sex & religion.
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