Le rosse. Tutto il mondo ormai le chiama così, anche se non sono più i tempi in cui i colori delle auto in corsa corrispondevano alle nazioni produttrici e il rosso era, appunto, il colore dell’Italia. Oggi che gli sponsor e la commercializzazione degli spazi hanno cancellato questa identificazione tra colore e il paese, la Ferrari resta per tutti la nazionale rossa. Non si può spiegare compiutamente una passione, se no che passione sarebbe? E la storia della Ferrari è interamente scritta con le tinte vivide della passione fin da quando, Enzo Ferrari, un appassionato e competente collaudatore oltre che pilota alla corte dell’Alfa Romeo, inizia a sognare di poter costruire bolidi a quattro ruote interamente suoi. Il primo passo è la costituzione, il 16 novembre 1929, di una scuderia che porta il suo nome e che all’apparenza ha il solo scopo di far correre i soci. La sua sede è in Viale Trento e Trieste a Modena e, di fatto, è una filiale tecnico-agonistica dell’Alfa Romeo. Il tentativo di affrancarsi dall’ingombrante partnership dell’azienda milanese subisce un’accelerazione nel 1938 quando la casa del biscione decide di non affidare più le sue vetture a piloti e scuderie diverse da quella ufficiale. Un po’ per forza e molto per passione la “Scuderia Ferrari” si tramuta così nella Auto Avio Costruzioni Ferrari che oltre a fornire prodotti meccanici alla Compagnia Nazionale Aeronautica di Roma, alla Piaggio e alla RIV, inizia a lavorare alacremente a un progetto di una vettura da competizione. Nasce così la 815, la prima vettura fabbricata da Ferrari, un modello con un motore da otto cilindri in linea da 1,5 litri che ha lo chassis e le sospensioni della Fiat. Ne vengono realizzati due modelli che partecipano alla Mille Miglia del 1940. Una delle due è guidata da un giovane pilota che risponde al nome di Alberto Ascari. Allo scoppio della seconda guerra mondiale la Auto Avio Costruzioni accantona le velleità automobilistiche e produce macchine rettificatrici oleodinamiche per cuscinetti a sfere. Gli stabilimenti, trasferiti a Maranello, vengono semidistrutti dai bombardamenti. Enzo Ferrari non s’arrende. Alla fine del conflitto ricomincia da capo e il suo sogno finisce per diventare emblematico del sentimento del popolo italiano impegnato nella ricostruzione. Nei primi mesi del 1946 è già pronta la 125 Sport, l’auto della rinascita della Ferrari, un bolide rosso che porta il marchio del cavallino rampante nero su un rettangolo giallo. È l’inizio di una leggenda costellata di successi sportivi e di auto da sogno destinate a un pubblico ristretto ma competente, costruite una per una con la stessa cura maniacale che ha caratterizzato il rapporto tra Enzo Ferrari e l’automobile. La morte dell’antico fondatore, avvenuta nel 1988, non fermerà la passione..
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
16 novembre, 2019
14 novembre, 2019
14 novembre 1902 - Carlo Buti, l’ispiratore del “canto melodico all’italiana”
Il 14 novembre 1902 nasce a Firenze Carlo Buti, il cantante considerato uno degli artefici di quel genere che verrà più tardi definito come “canto melodico all’italiana”. Il suo stile innova profondamente le tecniche canore del tempo, contaminando l’impostazione lirico-tenorile dei cantanti da romanza con gli abbellimenti vocali e i gorgheggi degli stornellatori. Comincia a cantare fin da ragazzo nei locali della campagna fiorentina e nel 1931 si dedica a tempo pieno alla canzone napoletana cogliendo l’occasione offertagli dall’editore Francesco Feola, l’artefice delle edizioni “La canzonetta”, che lo presenta alla Piedigrotta di quell’anno. L’incontro con la melodia napoletana determina una svolta nella sua carriera: pubblica vari dischi di canzoni napoletane e comincia a farsi conoscere da un pubblico più vasto. Sul finire degli anni Trenta è protagonista del primo boom discografico della storia italiana con canzoni come Portami tante rose e Violino tzigano, grazie anche alla grande popolarità che gli deriva dal fatto di essere il primo cantante lanciato dalla radio. La sua voce diventa popolarissima e il suo successo attraversa anche i confini d’Italia. I suoi dischi ottengono, infatti, qualche anno dopo, un buon successo di vendite anche negli Stati Uniti. Eclettico e dinamico personaggio di spettacolo, interpreta anche film musicali di successo, come “Per uomini soli” del 1939 diretto da Guido Brignone. Tra i suoi successi, oltre alle già citate Portami tante rose e Violino tzigano, sono da ricordare Bombolo, Firenze, Stornelli toscani, Quel motivetto che mi piace tanto, Parlami d’amore Mariù, Reginella campagnola, Firenze sogna, Chitarra romana e Signorinella. Muore a Montelupo Fiorentino il 16 novembre 1963.
12 novembre, 2019
13 novembre 1921 – Eddie Calhoun, l'autodidatta
Il 13 novembre 1921 nasce a Clarksdale, in Mississippi, il contrabbassista Eddie Calhoun. Completamente autodidatta, dice di aver imparato la musica nelle strade di Chicago. Fa le sue prime esperienze professionali con Prince Cooper dopo aver prestato servizio militare nell'esercito. Tra il 1947 e il 1954 fa parte dei gruppi di Dick Davis, Ahmad Jamal, Horace Henderson, Johnny Griffin e ha suonato saltuariamente anche con Roy Eldridge, Billie Holiday, Miles Davis. Ma la sua collaborazione più duratura, dal 1955 in avanti, è stata quella con Erroll Garner; con il trio del famoso pianista scomparso ha partecipato a numerosi concerti negli Stati Uniti e In Europa e ha inciso molti dischi tra i quali i 33 giri Concert by the Sea e Campus Concert. Contrabbassista di grande esperienza, ha i suoi punti di riferimento in Red Callender e Wilbur Ware.
12 novembre 1970 – Harold Eugene Gifford, in arte Gene Gifford
Il 12 novembre 1970 muore a Memphis, nel Tennessee il chitarrista Harold Eugene Gifford, conosciuto dagli appassionati di jazz come Gene Gifford. Nato ad Americus, in Georgia, il 31 maggio 1908 cresce musicalmente a Memphis, nel Tennessee. Dopo aver fatto le prime esperienze in complessi studenteschi, per qualche tempo suona come banjoista con l'orchestra di Bob Foster a El Dorado e successivamente con la formazione di Lloyd Williams e con i Watson's Bell Hops. Nel 1927 dà vita a un suo gruppo con cui si esibisce in vari locali e teatri del Texas. L’anno dopo è con Blue Steele e in questo periodo passa dal banjo alla chitarra. All’inizio degli anni Trenta è a Detroit dove il noto impresario Jean Goldkette lo scrittura come chitarrista nella Orange Blossom Band, primo nucleo della famosa Casaloma. È l'arrangiatore principale di quell’orchestra di cui determina lo stile e le caratteristiche. Alla fine degli anni Trenta se ne va per dedicarsi all’attività di orchestratore prima di diventare, nel 1943, il chitarrista-arrangiatore della formazione di Bob Strong. Nel 1948 torna per un paio d’anni con Glen Gray in una nuova formazione della celebre Casaloma. Negli anni Cinquanta lascia l’attività di strumnentista per lavorare come fonico e arrangiatore. Alla fine degli anni Sessanta si stabilisce a Memphis dove insegna musica. Brillante arrangiatore di orientamento jazzistico deve la sua fama a brani come Casaloma Stomp, White Jazz o Stompin' Around, considerati anticipatori dello swing.
09 novembre, 2019
9 novembre 1963 – La prima volta di Joan Baez
Il 9 novembre 1963 Joan Baez entra per la prima volta nella classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti. È soltanto al novantesimo posto, ma la presenza assume una valenza simbolica, perché ottenuta con un singolo che ha sulla facciata principale una versione di We shall overcome registrata dal vivo durante una manifestazione antirazzista svoltasi al Miles College di Birmingham, in Alabama. A questo va aggiunto che il brano è stato eseguito dalla stessa folk singer a Washington qualche mese prima, il 28 agosto, durante la grande marcia per i diritti civili che ha bloccato il centro della capitale degli Stati Uniti. La sua presenza in classifica, al di là del significato commerciale, diventa un modo per verificare i passi avanti compiuti dalla battaglia per la propagazione di nuove idee di libertà, pace e fratellanza all’interno della società statunitense, soprattutto tra le generazioni più giovani. È un inno, una colonna sonora che accompagna la lunga marcia di chi insegue il sogno di un’America diversa. Non a caso tre anni prima, in una chiesa assediata dai razzisti, la voce di Martin Luther King aveva intonato proprio We shall overcome e le sue note, a partire dal 4 maggio 1961, sono state diffuse in tutte le strade degli stati del sud dai colorati autobus dei predicatori erranti di libertà, ribattezzati Freedom Riders dalla nazione nera. L’ingresso nella classifica dei dischi più venduti di Joan Baez, una bianca dal cuore d’ogni colore, funziona da cassa di risonanza e dà forza al movimento per i diritti civili. Il messaggio politico viaggia sulle ali della musica ed entra nelle case di tutti. Anni dopo la stessa Baez così ricorderà quell’evento: «Fu allora che cominciai a vedere nella canzone folk un vero strumento di cultura alternativa e a capire che la coscienza politica poteva essere mescolata alla musica e diventare un messaggio forte. Fu Pete Seeger, furono i vecchi folksinger a farmelo capire. Prima non lo accettavo. Ero una purista, musicalmente parlando, e non potevo sopportare la commistione tra musica e politica, non sopportavo nulla che non fosse il folk tradizionale, asettico e lontano nel tempo. Poi ho aperto gli occhi…».
08 novembre, 2019
8 novembre 1987 – Jacques Anquetil, l’uomo-orologio
L’8 novembre 1987 il cancro uccide il francese Jacques Anquetil, una leggenda del ciclismo. Amante dello champagne e dei piaceri della vita, l'atleta che i tifosi francesi hanno ribattezzato “Maître Jacques” è stato il più grande cronoman della storia del ciclismo. Vincitore di due Giri d’Italia, nel 1960 e nel 1964, è stato un attento amministratore della sua forza, preferendo all’impegno assiduo, una scelta oculata delle gare che gli permettesse di potersi godere anche la vita senza doversi sottoporre alle restrizioni tipiche della vita degli atleti della sua epoca. Nato l’8 gennaio 1934 a Mont Saint-Aignan, in Francia, ha spesso assunto posizioni di aperta contestazione dell’establishment ciclistico, da lui considerato in più occasioni autoritario e indifferente alla fatica e ai problemi dei ciclisti. Conclusa la carriera ha lavorato nel campo del giornalismo e svolse l’incarico di Commissario Tecnico della nazionale ciclistica transalpina ai mondiali.
05 novembre, 2019
6 novembre 1938 – P. J. Proby, il rocker col codino
Il 6 novembre 1938, a Houston, nel Texas nasce James Marcus Smith destinato a diventare un personaggio di spicco della scena musicale con il nome di P. J. Proby. Inizia a esibirsi in pubblico a soli undici anni e a diciassette ottiene, grazie a Jackie De Shannon, il suo primo contratto discografico. Nonostante la sua precocità Proby non riesce a sfondare negli Stati Uniti, ma sotto l'abile guida di Brian Epstein diventa uno dei cantanti più popolari in Inghilterra, debuttando nel 1964 nello show dei Beatles “Around The Beatles”. Famoso anche per il suo codino, inusuale in quel periodo, e per l'abbigliamento in stile “rivoluzione francese”, per un paio d'anni colleziona successi con brani come Hold me, Somewhere I apologize, Let the water run down, That means a lot, Maria, You need love e I can't make it alone. Nel 1968, ormai in declino, torna negli Stati Uniti. Si parla nuovamente di lui nel 1971, quando ritorna a Londra per interpretare Jago nel musical "Catch my soul", versione rock dell'Otello. Nel 1977 è uno dei protagonisti del musical "Elvis" con Shakin' Stevens.
04 novembre, 2019
5 novembre 2002 – Not in my name
Il 5 novembre 2002 a Roma viene presentato ufficialmente Not in my name, un album di canzoni contro la guerra edito dal quotidiano "Liberazione" e realizzato da quattordici gruppi e artisti italiani. Il progetto, curato da Michele Anelli, Gianni Lucini e Paolo Pietrangeli, è nato sottoponendo ai gruppi e agli artisti una lista di canzoni "storiche" del rock, del pop e della tradizione che avessero al centro il tema del rifiuto della guerra e della pace e chiedendo agli stessi di "reinterpretarli" filtrandoli attraverso la loro sensibilità artistica. Il risultato è un disco di notevole interesse e di grande suggestione con brani di una lunga serie di autori che va da Dylan a Fossati, da Country Joe McDonald a De André, da Lennon a Tenco, da Pietrangeli a De Gregori, al "primo" Guccini. Tutti i brani però, appaiono "nuovi" perché ciascuno è "ripensato" e filtrato attraverso la personalità degli interpreti finendo per disegnare una caleidoscopica rassegna dei linguaggi principali della musica di oggi. Accanto a Gang, Paolo Pietrangeli, Ratoblanco, Groovers, Mirafiori Kids e gran parte dei gruppi emergenti della canzone d'impegno la lista degli interpreti vede anche il gradito ritorno in sala di registrazione di Tommaso Leddi e Umberto Fiori, cioè il chitarrista e il cantante dei leggendari Stormy Six, che hanno regalato all'album un brano originale. Molti sono stati gli apporti "illustri" alla realizzazione del progetto, come quella di Jaré, un gruppo dietro al quale si nasconde il nome di Mauro Sabbione, il protagonista della svolta elettropop dei Matia Bazar di Vacanze romane nonché tastiera aggiunta dei "vecchi" Litfiba in El Diablo e dei nuovi in Elettromacumba. Tra le collaborazioni importanti c'è poi da annoverare anche la presenza di Fabrizio Barale degli Yo Yo Mundi nel brano registrato dal Gruppo Spontaneo di Musica Moderna. Il missaggio finale del CD è stato curato da Daniele Denti, l'indimenticato chitarrista dei Settore Out passato poi alla live band di Gianna Nannini. In un periodo in cui da più parti si criticano gli artisti italiani perché, pur prendendo posizione contro la guerra, faticano a elaborare un progetto collettivo, "Liberazione" ha fatto un piccolo miracolo.
02 novembre, 2019
2 novembre 1975 – Muore assassinato Pier Paolo Pasolini, l’eretico fustigatore del boom
Il 2 novembre 1975 su una spiaggia di Ostia viene ritrovato il corpo sfigurato di Pier Paolo Pasolini. Poche ore dopo il ritrovamento viene annunciato l’arresto del suo assassino. È il diciassettenne Giuseppe Pelosi, detto “Pino la rana” che confessa di averlo ucciso dopo un litigio e di averlo poi investito casualmente con l’automobile mentre fuggiva in preda al panico. Muore così uno dei protagonisti assoluti della cultura del Novecento italiano. Scrittore, poeta, critico, sceneggiatore e regista cinematografico, Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, l’anno in cui Mussolini va al potere. Il padre Carlo Alberto Pasolini è ufficiale di fanteria, mentre la madre, Susanna Colussi, è una maestra elementare. Il piccolo Pier Paolo trascorre l’infanzia e la prima giovinezza girovagando al seguito del padre, ufficiale di carriera. Se ne va prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e Reggio Emilia, anche se il luogo che ama di più è Casarsa, la cittadina friulana dove è nata sua madre, che lui descriverà come un «… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana». Il rapporto con il padre non è facile e il giovane sviluppa un attaccamento fortissimo nei confronti della madre. Terminato il liceo, nel 1939 s’iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, e nel 1942 pubblica a proprie spese, Poesie a Casarsa, una raccolta di composizioni poetiche in dialetto friulano. In quell’anno il padre cade prigioniero degli inglesi in Africa. Chiamato alle armi il giovane figlio dell’ufficiale Pasolini non ci resta per molto. L’8 settembre 1943 butta la divisa e torna a Casarsa dalla madre. Gli ultimi anni della guerra e i primi dopo la liberazione sono tragici e segnati dalla morte del fratello minore partigiano. Alla fine degli anni Quaranta, dopo un periodo d’insegnamento nella scuola media di Valvasone, viene sospeso dall’incarico perché omosessuale e nei suoi confronti viene avviato anche un vero processo. Per tentare di ricominciare se ne va con la madre a Roma dove riesce a sbarcare il lunario insegnando in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese. Nella capitale vedono la luce “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” due fra i romanzi più importanti di Pier Paolo Pasolini. Vede la luce anche “Le ceneri di Gramsci”, un’opera poetica che gli vale il Premio Viareggio del 1957. La letteratura però non è sufficiente a mantenerlo. Per arrotondare le scarse entrate inizia a lavorare anche come sceneggiatore cinematografico. Tra il 1957 e il 1961 sono undici le sceneggiature firmate da Pasolini che considera cinema e scrittura due forme espressive strettamente complementari e non alternative. I suoi romanzi e le sue poesie, infatti, sono ricche, infatti, di elementi per cosi dire “cinematografici”, mentre le sceneggiature dei suoi film hanno spesso una autonoma e solida validità letteraria. La sua avventura cinematografica nasce un po’ per incoscienza e un po’ per caso. Pur non essendo in possesso di una particolare preparazione tecnica, ma sorretto dall’ispirazione interiore, fa il suo esordio come regista nel 1961 con il film “Accattone”, con il quale porta sul grande schermo il suo interesse e la sua simpatia per le fasce più marginali del sottoproletariato romano. Nel lavoro di quel periodo è evidente la solidarietà con il mondo che il boom della società italiana sta lasciando al margine. I suoi personaggi sono diseredati, dimenticati da ogni chiesa e partito, dei quali lui cui ammira gli istintivi valori culturali che sopravvivono alla miseria materiale e morale, ma che nella sua visione pessimista sono però destinati a soccombere di fronte ai miti del “benessere” e della normalità piccolo-borghese. Negli anni successivi la sua narrazione cinematografica si arricchisce di un afflato religioso d’impianto squisitamente laico disegnando una sorta di cattolicesimo “eretico” che trova il suo momento culminante nel 1964 con “Il Vangelo secondo Matteo”. Negli anni della contestazione, la sua posizione dissente sia dai palazzi del potere che dai nuovi oppositori, ai quali attribuisce il tentativo di omologare l’intero tessuto sociale dell’Italia al modello piccolo-borghese spazzando via i valori dell’Italia precapitalistica e contadina. Accusa i contestatori del Sessantotto di essere i portatori di un nuovo potere e, negli anni successivi, pur continuando a militare nel Partito Comunista (che lo aveva sospeso nel 1949 per la sua omosessualità) critica aspramente il “conformismo di sinistra”. Le modalità del suo assassinio così come sono state diffuse non convincono. Non tutti credono alla versione raccontata dal ragazzo e molti amici dell’intellettuale scomparso sosterranno negli anni successivi la tesi di un vero proprio agguato premeditato ed eseguito da un gruppo numeroso. Sergio Citti, regista attore e amico di Pasolini dichiara pubblicamente che «...Quella notte Pelosi era insieme ad altre quattro persone e quelle persone erano lì per uccidere Pier Paolo... Pier Paolo era scomodo. Scriveva cose scomode, anche sul Corriere . No, non fu un incidente, una lite: Pier Paolo fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che Pasolini dovesse morire...». Già due settimane dopo il ritrovamento del suo corpo la giornalista Oriana Fallaci in un lungo articolo su “L’Europeo” ipotizza per la prima volta che il poeta, scrittore e regista sia stato ucciso in un agguato premeditato cui avrebbero partecipato più persone. L’ipotesi viene ripresa più volte nel corso degli anni e argomentata anche da inchieste giornalistiche accurate e ben documentate. Nessuna delle ricostruzioni riesce però a far riaprire le indagini finché nel 2005 è lo stesso Pino Pelosi annunciare in un seguitissimo programma televisivo: «Non sono io l’assassino di Pasolini ma tre uomini sui 45 anni, dal forte accento siciliano, scesi da una 1500 Fiat targata Catania, che lo assalirono gridandogli “Fetuso, arruso, sporco comunista” e minacciando di uccidere i miei genitori se non avessi taciuto su ciò che avevo visto quella notte».
01 novembre, 2019
1° novembre 1926 – Lou Donaldson, dal clarinetto al sax contralto
Il 1° novembre 1926 a Badin, nel North Carolina nasce il sassofonista Lou Donaldson. Figlio di un predicatore che di mestiere fa l’insegnante di musica, apprende le prime nozioni musicali in famiglia e a quindici anni, inizia a studiare clarinetto. È durante il servizio militare prestato in marina che prende la decisione di lasciare il suo strumento di legno per il metallo del sax contralto. Congedato, nel 1950 frequenta il Darrow Institute dove incontra Charlie Parker, Sonny Stitt e altri boppers. Dopo varie esperienze si trasferisce a New York dove incidere per la Blue Note prima in una formazione guidata da Horace Silver e poi anche sotto suo nome. Dopo un breve passaggio al al rhythm and blues torna al jazz dando vita a una propria band con la quale suona in alcuni tra i più importanti club di New York, dal Five Spot all’Half Note, al Play House e tanti altri. Nell’autunno del 1965 arriva in Europa per una breve permanenza al Golden Circle di Stoccolma. Dopo aver inciso per quattro anni per la Cadet, ritorna alla Blue Note. Considerato dalla critica come un allievo di Charlie Parker, in realtà Donaldson ha due facce. La prima decisamente e rigorosamente jazz hard bopper e la seconda nata nel rhythm and blues ed evoluta nel funky.
31 ottobre, 2019
31 ottobre 2003 – Frankie Hi-Nrg Mc era un autarchico
Ci sono anche Franca Valeri, Arnoldo Foà, Antonio Rezza, Paola Cortellesi e Pacifico in Ero un autarchico, l’album che vede la luce il 31 ottobre 2003. L’artefice è Frankie Hi-Nrg Mc, uno dei personaggi più significativi dell'hip-hop italiano dei primi anni Novanta, capace di essere, insieme, innovativo e campione di vendite. Arriva nei negozi sei anni dopo il suo ultimo lavoro in studio La morte dei miracoli, un periodo lunghissimo per un ambiente che è abituato a capitalizzare in fretta le azioni consolidate. Frankie, al secolo Francesco Di Gesù, nonostante i successi la prende con calma ma non sta fermo. La sua creatività si sperimenta anche in altre direzioni. Prova a realizzare alcuni video-clip per sé, poi ci prende gusto e lavora ai filmati musicali di altri come Nocca, Flaminio Maphia, Tiromancino e Pacifico. Sul piano strettamente musicale spiccano le collaborazioni con Alice, Puff Daddy, Nas, Alter Ego, Shel Shapiro, Banda Osiris e, soprattutto la partecipazione all'album The world according to RZA, uscito quest'anno dalla factory dei Wu-Tang Clan, che sembra avergli ridato la voglia di lavorare a un progetto musicale nuovo e più ampio. L'album che esce il 31 ottobre Ero un autarchico, un voluto omaggio a Nanni Moretti, segna una svolta decisa rispetto al passato almeno sul piano musicale. Le atmosfere sono meno cupe e la sua voce non ha i connotati della disperazione presenti soprattutto nel disco precedente, anche se le parole restano di pietra, ben tagliata e dura come il diamante. In Generazione di mostri spiega che «Rivoluzione resta un vocabolo impronunciabile/se l'unico scontro possibile/è tra parti di popolo/che vivono gomito a gomito/e non si accorgono di essere identiche…» e in Rap lamento usa l'accetta contro un'opposizione che rischia di assomigliare troppo alla "squadraccia" di governo del centro-destra. Strepitoso è Morsi e rimorsi, un taglia e incolla dell'intervento di Arnoldo Foà per il "no" all'abrogazione del divorzio nel 1974, smontato e ricomposto in una dichiarazione attualissima. La critica è radicale, ma a dispetto delle apparenze, non prevale mai la tentazione qualunquista: «Io sono geneticamente di sinistra, ma non posso ignorare le deficienze di questa sinistra prigioniera di piccole beghe di condominio. Ci sono milioni di salotti che assomigliano a tante piazzette Venezia e la sinistra si muove in punta di forchetta quando tutti ci si dovrebbe tirare su le maniche». Questa è l'aria che tira nel disco e che, a partire dal 13 novembre a Verona dà anche sostanza al nuovo tour di Frankie Hi-Nrg Mc accompagnato da una band che schiera Francesco Bruni alla chitarra, Lino De Rosa al basso, Ninja alla batteria e Skizo al piatto dei vinili.
28 ottobre, 2019
28 ottobre 1945 – Elton Dean, uno dei Soft Machine
Il 28 ottobre 1945 a Nottingham, in Gran Bretagna, nasce il sassofonista Elton Dean, un tipo curioso che nella sua carriera non ha disdegnato di suonare anche tastiere e strumenti vari. Dopo le prime esperienze con vari gruppi semi-professionali di jazz tradizionale dà vita ai Soul Pushers, una propria band di musica soul.. Verso la metà degli anni Sessanta, entra a far parte della band di Long John Baldry dove incontra il trombettista Marc Charig e il pianista Keith Tippett destinati a diventare suoi compagni di strada in varie occasioni. Dopo aver suonato in uno dei tanti gruppi formati da Keith Tippett, nel 1969 entra a far parte dei Soft Machine, uno dei più dotati e geniali gruppi di rock progressivo. Proprio nei Soft Machine militano anche Robert Wyatt, Hugh Hopper e Michael Ratledge, musicisti che, come lui, sono destinati a lasciare un segno importante nelle varie forme di contaminazione tra il rock inglese e il jazz elettrico e nelle altre forme di musica di confine. Terminata la collaborazione con i Soft Machine nel 1972 suona coi Centipede, una formazione di cinquanta elementi diretta da Keith Tippett. Successivamente prosegue l'attività dando vita a vari gruppi dall’organico variabile come i Just Us, i Ninesense o l’Elton Dean Quintet. In tutte queste avventure gli saranno al fianco, oltre ai soliti Tippett e Charig, musicisti come il batterista Louis Moholo, il trombonista Nick Evans, il sassofonista Alan Skidmore e il contrabbassista Harry Miller. Muore a Londra l'8 febbraio 2006.
27 ottobre, 2019
27 ottobre 1988 – Rattle and hum
Dublino non è una città abituata ai grandi eventi cinematografici come le prime mondiali. In genere si preferisce lanciare un film in una delle grandi capitali della comunicazione, preferibilmente negli Stati Uniti, al centro dell’Impero. Gli U2 no. Per la prima di “Rattle and hum” il film che li vede nel ruolo di ispiratori e protagonisti hanno imposto alla produzione Dublino, la loro città, uno dei tanti cuori della periferia dell’Occidente. La capitale irlandese reagisce con orgoglio a questa scelta e, il 27 ottobre 1988 in occasione della prima mondiale del film sugli U2 si dimostra all’altezza della situazione accogliendo con simpatia la moltitudine di giornalisti, critici, fans e semplici curiosi che arrivano nei modi più disparati per assistere all’avvenimento. I fortunati che riescono ad assistere al film ne parlano con entusiasmo. La band si sottopone di buon grado alla conferenza stampa insieme al regista del film, Phil Joanou, un californiano di Los Angeles laureato in cinematografia all’università della sua città, la prestigiosa UCLA. Ha soltanto venticinque anni e dopo una collaborazione con Steven Spielberg in “Amazing stories” ha all’attivo soltanto “Three o’ clock high”, un cortometraggio realizzato in proprio nel 1986. «Perché proprio lui, vista la scarsa esperienza?» chiedono i cronisti a Bono e compagni. La risposta della band è chiara: «Perché il film non poteva funzionare se non c’era sintonia tra le parti. Molti registi affermati ci avevano informato della loro disponibilità a partecipare al progetto, ma incontrandoli ci rendevamo conto che ciascuno di loro pensava a noi come a degli oggetti da muovere, da interpretare a suo piacimento. L’ultima cosa che volevamo era che qualcuno trasformasse il film in un circo hollywoodiano». Per vari mesi Joanou e un suo assistente hanno seguito con due telecamere i membri del gruppo girando una quantità di materiale sufficiente a realizzare centodiciotto documentari da novanta minuti l’uno. Per il montaggio sono stati necessari circa dieci mesi di lavoro. L’accoglienza del pubblico è entusiastica, ma anche la critica non arriccia il naso, nonostante la struttura narrativa del film sia tutt’altro che originale: è sostanzialmente un documentario che racconta una tournée. Lo fa, però, con mano leggera e gradevole, evitando di santificare gli artisti. E questo, non solo in quel periodo, è un fatto raro
26 ottobre, 2019
26 ottobre 1931 - Little Junior Williams e Detroit Junior, due nomi un solo blues
Il 26 ottobre 1931 nasce ad Haynesville, in Arkansas, Emery H. Williams jr., destinato a diventare un bluesman famoso con due nomi d'arte in due epoche diverse della sua carriera: Little Junior Williams e Detroit Junior. Gli inizi della sua carriera si perdono nella notte dei tempi. Sballottato qua e là dalla sua famiglia che si sposta continuamente vive l'infanzia in una sorta di triangolo tra le città di Forrest City, Memphis e Pulaski (un piccolo centro dell'Illinois). In questo suo vagabondaggio apprende le prime nozioni musicali, non complete dal punto di vista formativo, ma sufficienti a dargli la possibilità di cantare accompagnandosi in modo accettabile con pianoforte e chitarra.
Nel 1948 si stabilisce a Flint nel Michigan, dove comincia ad esibirsi soprattutto nelle feste private. Ha diciassette anni e si presenta con il suo vero nome. La svolta sul piano professionale avviene nei primi anni Cinquanta, quando ottiene un contratto fisso dal Mellowland Club di Pontiac e incide i primi dischi con la Great Lakes. La sua giovane età gli regala il primo nome d'arte. In questo periodo, infatti, diventa Little Junior Williams. Nel 1953 forma i Blues Champs, una band destinata ad avere vita breve. Dopo lo scioglimento del gruppo riprende a vagabondare offrendo i propri servigi come solista e suonando occasionalmente con l'orchestra del Circle Club di Flint. Nel 1956 va a Chicago a cercare fortuna. La trova nella band del chitarrista Eddie Taylor e, dal 1959, con i Royal Aces di Little Mack. In quel periodo l'etichetta Bea & Baby gli propone un nuovo contratto discografico. «Sei già sotto contratto con altri?». Il buon Emery non si ricorda i termini del contratto con la Great Lakes, ma dice di no. Per evitare guai decide di cambiare nome d'arte. Nasce così Detroit Junior. Nel 1967 verrà ingaggiato dal grande Howlin' Wolf con cui resterà fino alla metà degli anni Settanta, partecipando tra l'altro al festival blues di Ann Arbor del 1972.
25 ottobre, 2019
25 ottobre 2004 - Quando Papa Wemba venne accusato di favorire l’immigrazione clandestina
Il 25 ottobre 2004 a Bobigny, Parigi, inizia il processo intentato contro Papa Wemba, una delle star della world music mondiale, nato in Congo, cittadino belga e residente in Francia, accusato di vari reati collegati all’immigrazione illegale. Il musicista rischia una pena pesante, fino a dieci anni di carcere, per aver fatto entrare in Francia centinaia di cittadini congolesi con un’ingegnosa truffa ai danni delle leggi sull’immigrazione. Secondo l’accusa, infatti, Papa Wemba chiedeva visti per loro dichiarando che erano componenti del suo nutrito gruppo Vive La Musique. Sempre stando alla ricostruzione dell’accusa i cittadini congolesi, una volta ottenuto il visto per la Francia, non avrebbero fatto più ritorno in Congo. Con Papa Wemba, il cui vero nome è Jules Shungu Wembadio Pene Kikumba, saranno giudicate altre sette persone. Il musicista, che ha cinquantacinque anni, al momento del processo ha già trascorso in prigione quasi quattro mesi da quando ha preso avvio l’inchiesta.
24 ottobre, 2019
24 ottobre 1925 – Willie Mabon, una vita tra blues e camion
Il 24 ottobre 1925 nasce a Hollywood, nel Tennessee, il bluesman Willie Mabon. Come accade a molti altri protagonisti della storia del soul e del blues, la sua prima scuola di musica è il coro della chiesa del quartiere dove vive. Nel 1940, a quindici anni, convinto che il canto possa essere la sua definitiva scelta di vita, inizia a studiare pianoforte e armonica, ma l'anno dopo è costretto a cambiare progetti. La morte improvvisa della madre lo costringe a stabilirsi a Chicago dove alterna lavori saltuari a sporadiche esibizioni nei locali della città. La fine della seconda guerra mondiale lo sorprende al volante di un poderoso autocarro di proprietà di un'impresa di trasporti. Appena può, però, abbandona la vita vagabonda e senza orari per fare l'operaio in una fabbrica d'ascensori. Il lavoro è più duro ma gli lascia maggior tempo per la musica. I suoi amici di quel periodo si chiamano Memphis Slim e Sunnyland Slim, personaggi destinati a scrivere pagine importanti nella storia del blues. Nel mese di dicembre del 1946 forma con Lazy Bill Lucas ed Earl Dranes un trio che debutta al Tuxedo Lounge. L'esperienza di gruppo gli piace. Nel 1948 dà vita ai Blues Rockers e qualche tempo dopo forma addirittura una sorta di big blues band. Sono anni fortunati che lo vedono protagonista di innumerevoli successi discografici tra cui spicca, nel 1952, il singolo I don’t know e, nel 1953, I’m mad. In quel periodo vagabonda per le varie città degli Stati Uniti accompagnato da una band di sette elementi. Negli anni Sessanta, mentre sull'onda dell'esplosione del beat tutto il mondo scopre e impara ad amare il blues, lui comincia ad avere una crisi di rigetto nei confronti del music business. L'invadenza delle case discografiche e del sistema in generale finiscono per fargli rimpiangere gli anni della gioventù, duri ma caratterizzati da maggior libertà. Quando nessuno se l'aspetta abbandona tutto e torna a guidare camion. Accade alla fine del 1967, dopo una lunga serie di concerti nei club di Chicago. Per evitare problemi con la sua casa discografica entra in sala di registrazione e incide a tappe forzate i brani previsti dal contratto. Poi si cerca un posto da camionista e lascia tutto. La scelta non sarà definitiva. Dopo quattro anni sulle strade tornerà a esibirsi alla fine del 1972. L'anno dopo, invitato in tournée in Europa, scoprirà Parigi e non si muoverà più. Stabilirà la sua residenza nella capitale francese e troverà gli stimoli giusti per continuare.
23 ottobre, 2019
23 ottobre 1940 – Nasce Edson Arantes Do Nascimento, in arte Pelè
Il 23 ottobre 1940 a Tres Corações in Brasile nasce un bambino che viene registrato all’anagrafe con il nome di Edson Arantes Do Nascimento e che tutto il mondo conoscerà con il nome di Pelé. Lui stesso racconta di chiamarsi Edson in onore di Thomas Alva Edison e di non aver mai apprezzato particolarmente il nomignolo di Pelé. Nonostante le sue personali preferenze resta nella storia dello sport e del costume proprio con questo appellativo di due sole sillabe regalatogli da un compagno di scuola e di giochi quando era ancora un ragazzino e rimastogli appiccicato per tutta la vita. Talento naturale viene scoperto all'età di 11 anni dall'ex giocatore della nazionale brasiliana Waldemar de Brito che lo segue e si incarica di trovargli una collocazione. Quando entra a far parte della prestigiosa formazione del Santos ha soltanto quindici anni e non ne ha ancora compiuti sedici quando, nel mese di settembre del 1956, debutta contro il Corinthians segnando un gol. Due anni dopo i mondiali di Svezia lo consacrano tra gli dei del calcio mondiale. La fortuna non l’assiste quattro anni dopo, ai Mondiali del Cile del 1962. Attesissimo e in gran forma si fa male nel primo incontro e chiude lì la sua avventura. I suoi compagni vincono di nuovo il titolo ma lui deve accontentarsi di entrare nell’albo d’oro della manifestazione senza mai alzarsi dalla panchina. Il destino sembra prendersi gioco di lui anche nei mondiali del 1966 quando, colpito a uno stinco nel corso della terza partita contro il Portogallo deve uscire dal campo in barella e assistere al resto degli incontri dalla panchina. Questa volta, però, il tormento dura poco perché il Brasile viene rapidamente eliminato. Per rivedere il suo genio calcistico all’opera nella più grande e importante competizione internazionale di calcio si dovrà attendere Messico 1970 quando ormai trentenne, assistito dalla giovanile esuberanza di Jairzinho, Tostao, Rivelino e Carlos Alberto darà al mondo una serie di prove delle sue straordinarie qualità In quello che passerà alla storia come il primo Mondiale di calcio trasmesso a colori (anche se in Italia lo si vedrà ancora in bianco e nero) Pelé regala almeno tre perle rimaste negli annuari del calcio spettacolo. La prima è il tentativo di colpire la Cecoslovacchi con un pallonetto da metà campo, la seconda il colpo di testa contro l’Inghilterra impossibile per posizione e per dinamica cui risponde con una parata-capolavoro il portiere inglese Gordon Banks. Terza, ma soltanto in ordine di tempo, è la finta con la quale lascia scorrere il pallone oltre il portiere dell'Uruguay uscito fuori area, per poi recuperarlo e tirare verso la porta mancandola di un soffio. Nella finale contro l’Italia realizza il centesimo gol del Brasile in un Mondiale con un colpo di testa dopo essere stato sospeso in aria per un’eternità. Tarcisio Burgnich, il difensore italiano che ha l’ingrato compito di marcarlo, non si dimenticherà più quella giornata: «Prima della partita mi ripetevo che era un uomo di carne e ossa come me e come tutti gli altri, ma sbagliavo». Il Brasile vince il titolo e Pelé entra definitivamente nella leggenda. Il giorno dopo la finale sulla prima pagina del Sunday Times c’è scritto: «Come si scrive Pelé? D-I-O». Nel 1974 Pelé annuncia il suo abbandono del campo da gioco, ma non è vero. Un anno dopo accetta di andare a giocare nei Cosmos di New York «per portare il gioco più diffuso al mondo al pubblico nordamericano». L’esperienza si rivela molto remunerativa ma non ottiene i risultati sperati sul piano sportivo per cui appende definitivamente le scarpe al chiodo nel 1977 dopo aver realizzato 1.281 gol, un record insuperato che fa di lui il più grande cannoniere della storia del calcio.
19 ottobre, 2019
19 ottobre 1967 – Henderson Chambers ovvero quando il trombone da hobby diventa mestiere
Il 19 ottobre 1967 muore New York il cinquantottenne trombonista Henderson Chambers. Nato ad Alexandria, in Georgia, nel 1908 inizia a coltivare la passione per uno strumento inusuale come il trombone negli anni Venti, quando è ancora studente e suona con la banda del Morehouse College di Atlanta. Con il passare del tempo quello che sembrava un hobby diventa sempre più coinvolgente fino a quando, nel 1931, si trasforma definitivamente in un lavoro. Il primo direttore d'orchestra che gli offre un ingaggio professionale è Neil Montgomery. Per tutti gli anni Trenta la sua popolarità non va oltre i confini della Georgia dove suona con quasi tutte le orchestre impegnate nei locali jazz dello stato in cui è nato. Sono le cosiddette "territory bands", le orchestre territoriali che traggono vita e sostanza dal luogo dove sono nate e qui esauriscono il loro ciclo. La limitazione spaziale non ne diminuisce il valore, anzi. Alcune sono destinate a entrare nella storia del jazz e molte di queste schierano in vari periodi il trombone di Chambers. È il caso delle band di Doc Banks, Jack Jackson, Speed Weeb e Zack Whyte, solo per citare quelle più conosciute. Verso la fine degli anni Trenta Chambers è con l’orchestra del sassofonista Al Sears che lascia successivamente per passare a quella di Tiny Bradshaw. All’inizio degli anni Quaranta lascia la sua Georgia e se ne va a New York per suonare al Savoy Ballroom con Chris Columbus. Qui ha modo di farsi notare dalla critica e dal pubblico, suscitando consensi e stupore per il suo stile ricco di abbellimenti e sostenuto da una tecnica sopraffina. L’anno successivo viene ingaggiato da Louis Armstrong, con la cui orchestra entra per la prima volta in sala di registrazione nel 1941. Nel 1943 suona insieme a Don Redman e poi al clarinettista Edmond Hall, con il quale lavora per diversi anni. Proprio con l'orchestra di Hall accompagna il suo vecchio amico Louis Armstrong nel concerto alla Carnegie Hall dell’8 febbraio 1947, considerato uno dei migliori tra i tanti registrati dal trombettista nel corso degli anni Quaranta. Negli anni Cinquanta suona con Lucky Millinder, Count Basie, Buck Clayton, Cab Calloway, Duke Ellington e Mercer Ellington. Considerato ormai uno dei migliori trombonisti di scuola swing, rinuncia alla tentazione di dar vita a una propria orchestra e nel decennio successivo darà il suo contributo strumentale alla costruzione del mito di Ray Charles.
14 ottobre, 2019
14 ottobre 1977 – Bing Crosby, un soprannome nato da una striscia
Il 14 ottobre 1977 muore Bing Crosby, uno dei personaggi più importanti della musica pop statunitense. Nato a Tacoma, nello stato di Washington, il 2 maggio 1904 da Harry Crosby e Kate Harrigan, cresce a Spokane. La sua famiglia non se la passa benissimo e il ragazzo deve abbinare il lavoro allo studio per essere di aiuto alla numerosa famiglia. A otto anni viene soprannominato Bing, come il popolare personaggio della comic strip “Bingleville Bugle” di cui è un appassionato lettore. Studia alla Webster School e poi al Gonzaga Institute, retto dai Gesuiti, dove inizia, ma non completa, gli studi di legge. Le sue prime esperienze musicali risalgono al 1920, quando è batterista e cantante dei Juicy Seven, un gruppo scolastico. Nel 1921 entra a far parte dei Musicaladers un gruppo modellato sullo stile della Original Dixieland Jazz Band. In quegli anni dà vita anche a un duo novelty di canto e piano con il pianista del gruppo, Al Rinker, fratello della cantante Mildred Bailey. Nel 1925, dopo lo scioglimento dei Musicaladers, i due si trasferiscono a Los Angeles, e, grazie all'interessamento di Mildred Bailey, vengono ingaggiati dalla compagnia di vaudeville Fanchon & Marco al Boulevard Theatre di Los Angeles. Le loro interpretazioni jazzate di motivi di successo (San, China Boy, Copenhagen) integrate da effetti speciali mutuati dai Mound City Blue Blows e da occasionali battute comiche, ottengono un buon successo. Per questa ragione l'impresario Arthur Freed li scrittura per la rivista “The Morrisey Music Hall Revue”, messa in scena al Majestic Theatre di Los Angeles. Partecipano poi a uno spettacolo di varietà al Metropolitan Theatre, dove vengono notati da Paul Whiteman, allora all'apice della popolarità, che li aggrega alla sua orchestra come numero di attrazione. Il pubblico di Whiteman però non li apprezza particolarmente e il loro ruolo si riduce quasi esclusivamente al sottofondo vocale delle parti strumentali insieme ad altri vocalist della band. Le cose cambiano quando Whiteman scrittura Harry Barris, un giovane e dinamico pianista e cantante hot proveniente dall'orchestra di George Olsen dando vita ai Paul Whiteman's Rhythm Boys. Il buon successo ottenuto con brani come Mississippi Mud, scritto dallo stesso Barris, e From Monday On, sembra rilanciare Bing e il suo compagno, ma la loro caparbia insistenza a dare sempre maggiore spazio alle battute comiche a detrimento della parte musicale finisce per stancare il pubblico e lo stesso Paul Whiteman che li allontana dall’orchestra. Bing, Rinker e Barris si esibiscono nei teatri e nei night-club di varie città della California ottenendo un notevole successo al Monmartre Café di Los Angeles e un successivo ingaggio al prestigioso Cocoanut Grove di Hollywood. Nel frattempo Bing Crosby sposa la cantante e attrice Wilma Wyatt (Dixie Lee) decide di sfruttare la popolarità guadagnata nei locali con un proprio programma radiofonico dove le sue canzoni When the Blues of the Night e I Surrender Dear fanno faville. Sotto l’abile gestione del fratello maggiore Everett viene scritturato anche dalla casa cinematografica Paramount che lo trasforma in una star del cinema musicale hollywoodiano. La popolarità non lo abbandona più fino alla morte e non conosce appannamenti neppure quando, alla soglia dei settant'anni, riduce al minimo le sue apparizioni in pubblico. Il comico Bob Hope, suo grande amico ed estimatore, a chi vaticinava il declino di Bing dinanzi alla esplosione di Frank Sinatra (soprannominato "swoonatra" perchè faceva svenire le fans) agli inizi degli anni Quaranta, replicava con queste parole, che al di là del paradosso contengono un fondo di verità: «Non si preoccupi per Bing: quello è l'uomo che fece svenire la madre di Sinatra ed è anche l'uomo che fra una quindicina d'anni farà svenire la figlia di Sinatra».
13 ottobre, 2019
13 ottobre 1984 – Il primo cedimento commerciale degli U2
Il 13 ottobre 1984 entra nella classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna l’album The unforgettable fire degli U2, realizzato con la collaborazione di Brian Eno e del tecnico del suono canadese Daniel Lanois. Il titolo del disco è “rubato” da quello di una mostra di quadri dipinti dagli scampati al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki che i componenti della band hanno visitato a Chicago. «In quei quadri – dice Bono, il leader del gruppo – abbiamo visto l’orrore della strage, la disperazione di un mondo che ha l’impressione di essere arrivato a un punto di non ritorno. Abbiamo, però, visto anche la speranza di risollevarsi, la voglia di continuare a credere nell’alba di una nuova era di pace. Ci siamo immersi in quell’atmosfera e l’abbiamo fatta nostra. Abbiamo voluto dare a chi ci ascolta le stesse sensazioni. L’album è come una mostra di quadri, solo che le pennellate di colore, le sfumature, i disegni sono sostituiti da voci, ritmi e melodie, oltre che da parole». L’opera segna una svolta nella carriera degli U2 che, grazie anche al lavoro di cesello di Eno e Lanois, si presentano al pubblico con un suono diverso dal passato, meno aggressivo e violento. Le atmosfere sonore su cui si dipanano i brani sono morbide e curate, lasciando ai testi il compito di dare il senso della continuità con i lavori precedenti. Le canzoni danno il consueto spazio ai temi sociali, all’importanza della solidarietà e alla difesa dei diritti umani. Nonostante tutto, però, una parte della critica storce il naso, arrivando a parlare di svolta “commerciale” degli U2, e lascia intendere che si tratta del primo cedimento del gruppo nei confronti del music business.
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