20 novembre, 2019

20 novembre 1960 – Pier Paolo Pasolini difende Claudio Villa

Alla fine degli anni Cinquanta, nel pieno della sua battaglia contro le innovazioni indotte dal consumismo e dai modelli americani Pier Paolo Pasolini difende pubblicamente Claudio Villa sottoposto a una sorta di “processo” dal settimanale “Sorrisi e Canzoni”. Il cantante è accusato di essere espressione di forme artistiche sorpassate con l’aggravante di avere un atteggiamento aggressivo da “bullo” di periferia. Pasolini decide di prendere posizione e la sua firma prestigiosa compare in calce a un’arringa difensiva passata alla storia come un’appassionata dichiarazione di amore e di stima per il cantante. Questo è il testo pubblicato il 20 novembre 1960 sul n. 47 di “Sorrisi e Canzoni” e firmato per esteso da Pier Paolo Pasolini: «Mi piace il repertorio delle canzoni melodiche di Claudio Villa, perché mi piace il pubblico che ama questo stile popolare e verace. Approvo anche che Villa si scriva, si musichi e si interpreti le sue canzoni. Lui lo fa “nel suo piccolo”, come Charlot ha fatto “nel suo grande”. In quanto agli atteggiamenti da bullo, alla sua presunzione e agli atteggiamenti di sufficienza che si imputano al capo d’accusa numero due, io trovo che nella sua qualità di attore-cantante e di personaggio dello spettacolo, tali atteggiamenti gli si addicano, perché fanno, appunto, spettacolo. Disapprovo invece che Villa si dia a interpretazioni del genere urlato, anche perché io credo nella canzone come mezzo verace di espressione, e penso che il genere urlato non sia genuino. Vorrei che Claudio Villa fosse assolto, perché i cantanti mi sono simpatici e amo le canzoni».

19 novembre, 2019

19 novembre 1977 – Sonny Criss, uno dei più fedeli seguaci dello stile di Charlie Parke


Il 19 novembre 1977 muore il sassofonista Sonny Criss. Nato a Memphis, nel Tennessee il 23 ottobre 1927 viene registrato all’anagrafe con il nome di William Criss. Nel 1942 si trasferisce a Los Angeles dove comincia a suonare nelle ore libere con Shifty Henry. Terminati gli studi nell'inverno del 1946, Criss lavora con Sammy Yates, Johnny Otis, Howard McGhee, Al Killian, con un piccolo gruppo formato da Billy Eckstine al Billy Berg's e con Gerald Wilson. Nel 1948 viene chiamato da Norman Granz e compie diverse tournée con il Jazz at the Philharmonic, compresa anche agli inizi del 1950 quella con Billy Eckstine. Suona come indipendente a Los Angeles fino a quando viene scritturato da Stan Kenton per il Jazz Showcase '55, dopo di che dirige per un paio di anni gruppi sotto suo nome. L'anno successiva è a New York e in altre città della costa orientale con Buddy Rich e, nel 1959, torna a formare un proprio complesso. Partecipa a qualche trasmissione televisiva, chiamato da Bobby Troup, e appare in Europa tra il 1962 e il 1965. Tornato a Los Angeles continua il suo lavoro come free-lance dedicandosi, a partire dagli anni Settanta, all'insegnamento, anche a mezzo conferenze, rivolte ai giovani ottenendo numerosi riconoscimenti. Nel 1973 torna in Europa per esibirsi in numerosi concerti e registrazioni radiotelevisive. Di nuovo negli Stati Uniti continua la sua opera di insegnamento tornando poi in Europa e stabilendosi a Parigi nel 1974. Nella sua carriera ha inciso con Charlie Parker, Flip Phillips, Wardell Gray, Tommy Turk, Ralph Burns, Hollywood Jazz Concert e, sotto suo nome, per Mercury, Prestige, Impulse, Clef, Muse. Sonny Criss è considerato uno dei più fedeli seguaci dello stile di Charlie Parker, insieme a Sonny Stitt.




18 novembre, 2019

18 novembre 1960 – Kim, la figlia di Marty Wilde

Il 18 novembre 1960 a Londra nasce Kim Wilde, figlia di Marty Wilde, un cantante molto popolare in Gran Bretagna tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. La ragazza debutta come cantante nel 1981, all'età di vent'anni. Ben sostenuta da brani composti da suo padre e dal fratello Ricky Wilde, che le fa anche da produttore e chitarrista, Kim porta rapidamente in classifica i singoli Kids in America, Chequered love, Water glass/Boys, Cambodia e l'album Kim Wilde. Aiutata anche dalla sua bellezza mantiene la sua popolarità anche negli anni seguenti con gli album Catch as catch can, Teases and dares, The very best of , Another step, Close, Love moves, Love is holy e con l'antologico The singles collection 1981-1993. I suoi singoli di maggior successo sono View from a bridge, Love blonde, Rage to love, You keep me hangin' on, You came, Never trust a stranger e Four letter word, oltre al duetto con l'attore britannico Mel Smith in Rockin' around the Christmas Tree. Negli Stati Uniti i suoi album non sono mai andati oltre il trentesimo posto in classifica, nonostante il grande successo di You keep me hangin' on che nel 1987 è arrivato al primo posto della classifica dei singoli.

17 novembre, 2019

17 novembre 1978 – Il primo album della Polizia


Il 17 novembre 1978 i Police pubblicano il primo album della loro non lunghissima storia. È Outlandos d'amour, un disco accolto con meraviglia dalla critica. Le recensioni sono entusiastiche al limite dell’apologia e descrivono il lavoro di Sting e compagni come «una raccolta di canzoni prepotenti e sfacciate che racchiudono l’intero messaggio di una generazione in piena formazione». Niente male per un gruppo che solo qualche mese prima aveva subito la censura della BBC nei confronti del brano Roxanne, tolto dalla programmazione radiofonica e televisiva per il testo, ritenuto offensivo… Al di là delle esagerazioni dell’epoca, cui non sono estranei i responsabili dell’ufficio promozionale di una casa discografica potente come la A&M, il disco rappresenta davvero una ventata d’aria nuova nella statica situazione del rock britannico di quel periodo, compresso tra lo strappo del punk e la noiosa ripetitività di un pop leggero e danzereccio. A questo va aggiunto che il gruppo, pur essendo di recente costituzione, non è formato da giovani musicisti di primo pelo. Sting, il cui vero nome è Gordon Matthew Sumner, ha alle spalle qualche anno con la Newcastle Big Band e i Last Exit, il batterista Stewart Copeland proviene da un gruppo di culto come i Curved Air e il chitarrista Andy Summers (all’anagrafe Andrew James Somers) ha all'attivo esperienze in gruppi come la Zoot Money's Big Roll Band, Eric Burdon & The Animals, i Soft Machine, le band di Kevin Ayers e Kevin Coyne, oltre ad una lunga collaborazione con il musicista tedesco Eberhard Schoerner. I tre, quindi, nonostante la giovane età, sanno quel che fanno. Outlandos d’amour è un album ricco di tensione, velocità e ritmo. Con la tipica struttura a tre, chitarra – basso – batteria, i Police frullano generi diversi, dal pop al reggae, e ottengono un prodotto gradevolmente provocatorio che non rinuncia alla secca immediatezza del punk. Non è che l’inizio di un lungo lavoro di sperimentazione destinato a proseguire anche dopo lo scioglimento della band, soprattutto per opera di Sting, ma questo è sicuramente uno di quei casi in cui… il buongiorno si vede dal mattino.



16 novembre, 2019

16 novembre 1929 – Inizia la leggenda delle rosse

Le rosse. Tutto il mondo ormai le chiama così, anche se non sono più i tempi in cui i colori delle auto in corsa corrispondevano alle nazioni produttrici e il rosso era, appunto, il colore dell’Italia. Oggi che gli sponsor e la commercializzazione degli spazi hanno cancellato questa identificazione tra colore e il paese, la Ferrari resta per tutti la nazionale rossa. Non si può spiegare compiutamente una passione, se no che passione sarebbe? E la storia della Ferrari è interamente scritta con le tinte vivide della passione fin da quando, Enzo Ferrari, un appassionato e competente collaudatore oltre che pilota alla corte dell’Alfa Romeo, inizia a sognare di poter costruire bolidi a quattro ruote interamente suoi. Il primo passo è la costituzione, il 16 novembre 1929, di una scuderia che porta il suo nome e che all’apparenza ha il solo scopo di far correre i soci. La sua sede è in Viale Trento e Trieste a Modena e, di fatto, è una filiale tecnico-agonistica dell’Alfa Romeo. Il tentativo di affrancarsi dall’ingombrante partnership dell’azienda milanese subisce un’accelerazione nel 1938 quando la casa del biscione decide di non affidare più le sue vetture a piloti e scuderie diverse da quella ufficiale. Un po’ per forza e molto per passione la “Scuderia Ferrari” si tramuta così nella Auto Avio Costruzioni Ferrari che oltre a fornire prodotti meccanici alla Compagnia Nazionale Aeronautica di Roma, alla Piaggio e alla RIV, inizia a lavorare alacremente a un progetto di una vettura da competizione. Nasce così la 815, la prima vettura fabbricata da Ferrari, un modello con un motore da otto cilindri in linea da 1,5 litri che ha lo chassis e le sospensioni della Fiat. Ne vengono realizzati due modelli che partecipano alla Mille Miglia del 1940. Una delle due è guidata da un giovane pilota che risponde al nome di Alberto Ascari. Allo scoppio della seconda guerra mondiale la Auto Avio Costruzioni accantona le velleità automobilistiche e produce macchine rettificatrici oleodinamiche per cuscinetti a sfere. Gli stabilimenti, trasferiti a Maranello, vengono semidistrutti dai bombardamenti. Enzo Ferrari non s’arrende. Alla fine del conflitto ricomincia da capo e il suo sogno finisce per diventare emblematico del sentimento del popolo italiano impegnato nella ricostruzione. Nei primi mesi del 1946 è già pronta la 125 Sport, l’auto della rinascita della Ferrari, un bolide rosso che porta il marchio del cavallino rampante nero su un rettangolo giallo. È l’inizio di una leggenda costellata di successi sportivi e di auto da sogno destinate a un pubblico ristretto ma competente, costruite una per una con la stessa cura maniacale che ha caratterizzato il rapporto tra Enzo Ferrari e l’automobile. La morte dell’antico fondatore, avvenuta nel 1988, non fermerà la passione..


15 novembre, 2019

15 novembre 2002 – Il fischio del vapore


Il 15 novembre 2002 esce Il fischio del vapore, un disco realizzato a quattro mani da Francesco De Gregori e Giovanna Marini. L'apporto della Marini è più consistente di quello che potrebbe apparire e di quello che lei stessa tende ad accreditare quando dice che «In fondo io sono un ospite». L'impronta del lavoro di una più intelligenti ed eclettiche autrici e interpreti della musica italiana (il termine "cantautrice" è riduttivo) è ben presente in tutto l'album e lo si nota subito dall'impostazione della voce di De Gregori che è nuova e diversa dal solito. C'è poi, sul piano strumentale e degli arrangiamenti, una reciproca contaminazione che sembra nascere dal divertimento della mescola, più che dallo studio a tavolino. È uno dei tanti segni che denunciano come la collaborazione non sia un fatto episodico e isolato né una semplice conseguenza del concerto comune tenuto il 28 aprile a Roma in occasione dell’inaugurazione dell’Auditorium. Anche se le loro strade artistiche hanno avuto poche occasioni per intrecciarsi, i due si conoscono e si stimano da anni («Conosco Francesco da almeno trent’anni, quando lo ascoltavo o, meglio, ci ascoltavamo, al Folkstudio») e si sente. Pur essendo un disco realizzato in studio Il fischio del vapore ha però il calore, la spontaneità e la freschezza di una lunga jam session. Le sue tracce rimandano un'allegria interiore che fa bene al cuore. I brani sono quasi tutti "rubati" al fornitissimo canzoniere della tradizione popolare salvo due: L’abbigliamento di un fuochista, scritto dallo stesso De Gregori e già interpretato in duo con la Marini nell’album Titanic, e Lamento per la morte di Pasolini, composto di getto da Giovanna nei giorni successivi all'assassinio del regista-scrittore. Per la verità nella scaletta compare anche I treni per Reggio Calabria, una canzone della Marini che, però, preferiamo considerare ormai definitivamente acquisita dal largo e capiente fiume della tradizione. Quello proposto dal disco è un lungo viaggio nella storia d'Italia vista dalla parte degli "umili", scandita dai racconti, dagli umori, dai sentimenti e dalle passioni della cultura popolare. La narrazione recupera l'idea, inusuale per questi anni smemorati, che la storia non si nutre di intuizioni geniali, di capi azzeccati, di battaglie e di "colpi d'immagine", ma con il suo incedere imperfetto si dipana tra passato, presente e futuro mettendo in collegamento ciò che è stato fatto ieri con quello che si farà domani. Niente di quello che accade è senza conseguenze. In questo senso Il fischio del vapore parla alla politica e, come ammette lo stesso De Gregori, diventa un disco politico proprio «perché è fatto con canzoni del popolo e le storie del popolo non sono tutte vicende felici». Sbaglia invece chi, con una certa superficialità, ha etichettato questa operazione come una sorta di "ritorno agli anni Settanta". O non ha ascoltato il disco o è in malafede. Uno dei valori aggiunti di questo lavoro è, infatti, proprio il suo non essere un'operazione di recupero calligrafico della tradizione. A partire dall'apporto della band elettrica che accompagna il cantautore in concerto, l'intero album tiene ben salde le radici nella musica d'oggi e la leggerezza che rimanda nasce proprio dalla consapevolezza di entrambi gli interpreti che «quando uno fa un disco non deve mettere un puntello nella storia». In più sembra di cogliere una reciproca fascinazione tra due personaggi così diversi che finisce per aggiungere suggestione. Racconta Francesco che Giovanna Marini ha partecipato con grande curiosità alla stessa definizione degli arrangiamenti fino «...a dire la sua sui suoni della batteria piuttosto che sugli arrangiamenti o sul sound delle chitarre». Per noi non è una sorpresa, visto che proprio su queste pagine, sei mesi fa, aveva detto «Non capisco niente di country, rock e generi simili. Non appartengono alla mia cultura musicale e quindi non me li sento addosso. Trovo, però, che quello sia un mondo sonoro che ci sta vicino, che è prossimo alla nostra esperienza di cantanti della tradizione popolare. Canzoni come le mie, quelle di Gualtiero Bertelli o Ivan Della Mea, pur viaggiando su onde differenti da quelle di De Gregori, finiranno per incontrarsi».

14 novembre, 2019

14 novembre 1902 - Carlo Buti, l’ispiratore del “canto melodico all’italiana”

Il 14 novembre 1902 nasce a Firenze Carlo Buti, il cantante considerato uno degli artefici di quel genere che verrà più tardi definito come “canto melodico all’italiana”. Il suo stile innova profondamente le tecniche canore del tempo, contaminando l’impostazione lirico-tenorile dei cantanti da romanza con gli abbellimenti vocali e i gorgheggi degli stornellatori. Comincia a cantare fin da ragazzo nei locali della campagna fiorentina e nel 1931 si dedica a tempo pieno alla canzone napoletana cogliendo l’occasione offertagli dall’editore Francesco Feola, l’artefice delle edizioni “La canzonetta”, che lo presenta alla Piedigrotta di quell’anno. L’incontro con la melodia napoletana determina una svolta nella sua carriera: pubblica vari dischi di canzoni napoletane e comincia a farsi conoscere da un pubblico più vasto. Sul finire degli anni Trenta è protagonista del primo boom discografico della storia italiana con canzoni come Portami tante rose e Violino tzigano, grazie anche alla grande popolarità che gli deriva dal fatto di essere il primo cantante lanciato dalla radio. La sua voce diventa popolarissima e il suo successo attraversa anche i confini d’Italia. I suoi dischi ottengono, infatti, qualche anno dopo, un buon successo di vendite anche negli Stati Uniti. Eclettico e dinamico personaggio di spettacolo, interpreta anche film musicali di successo, come “Per uomini soli” del 1939 diretto da Guido Brignone. Tra i suoi successi, oltre alle già citate Portami tante rose e Violino tzigano, sono da ricordare Bombolo, Firenze, Stornelli toscani, Quel motivetto che mi piace tanto, Parlami d’amore Mariù, Reginella campagnola, Firenze sogna, Chitarra romana e Signorinella. Muore a Montelupo Fiorentino il 16 novembre 1963.


12 novembre, 2019

13 novembre 1921 – Eddie Calhoun, l'autodidatta


Il 13 novembre 1921 nasce a Clarksdale, in Mississippi, il contrabbassista Eddie Calhoun. Completamente autodidatta, dice di aver imparato la musica nelle strade di Chicago. Fa le sue prime esperienze professionali con Prince Cooper dopo aver prestato servizio militare nell'esercito. Tra il 1947 e il 1954 fa parte dei gruppi di Dick Davis, Ahmad Jamal, Horace Henderson, Johnny Griffin e ha suonato saltuariamente anche con Roy Eldridge, Billie Holiday, Miles Davis. Ma la sua collaborazione più duratura, dal 1955 in avanti, è stata quella con Erroll Garner; con il trio del famoso pianista scomparso ha partecipato a numerosi concerti negli Stati Uniti e In Europa e ha inciso molti dischi tra i quali i 33 giri Concert by the Sea e Campus Concert. Contrabbassista di grande esperienza, ha i suoi punti di riferimento in Red Callender e Wilbur Ware.

12 novembre 1970 – Harold Eugene Gifford, in arte Gene Gifford

Il 12 novembre 1970 muore a Memphis, nel Tennessee il chitarrista Harold Eugene Gifford, conosciuto dagli appassionati di jazz come Gene Gifford. Nato ad Americus, in Georgia, il 31 maggio 1908 cresce musicalmente a Memphis, nel Tennessee. Dopo aver fatto le prime esperienze in complessi studenteschi, per qualche tempo suona come banjoista con l'orchestra di Bob Foster a El Dorado e successivamente con la formazione di Lloyd Williams e con i Watson's Bell Hops. Nel 1927 dà vita a un suo gruppo con cui si esibisce in vari locali e teatri del Texas. L’anno dopo è con Blue Steele e in questo periodo passa dal banjo alla chitarra. All’inizio degli anni Trenta è a Detroit dove il noto impresario Jean Goldkette lo scrittura come chitarrista nella Orange Blossom Band, primo nucleo della famosa Casaloma. È l'arrangiatore principale di quell’orchestra di cui determina lo stile e le caratteristiche. Alla fine degli anni Trenta se ne va per dedicarsi all’attività di orchestratore prima di diventare, nel 1943, il chitarrista-arrangiatore della formazione di Bob Strong. Nel 1948 torna per un paio d’anni con Glen Gray in una nuova formazione della celebre Casaloma. Negli anni Cinquanta lascia l’attività di strumnentista per lavorare come fonico e arrangiatore. Alla fine degli anni Sessanta si stabilisce a Memphis dove insegna musica. Brillante arrangiatore di orientamento jazzistico deve la sua fama a brani come Casaloma Stomp, White Jazz o Stompin' Around, considerati anticipatori dello swing.

09 novembre, 2019

9 novembre 1963 – La prima volta di Joan Baez

Il 9 novembre 1963 Joan Baez entra per la prima volta nella classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti. È soltanto al novantesimo posto, ma la presenza assume una valenza simbolica, perché ottenuta con un singolo che ha sulla facciata principale una versione di We shall overcome registrata dal vivo durante una manifestazione antirazzista svoltasi al Miles College di Birmingham, in Alabama. A questo va aggiunto che il brano è stato eseguito dalla stessa folk singer a Washington qualche mese prima, il 28 agosto, durante la grande marcia per i diritti civili che ha bloccato il centro della capitale degli Stati Uniti. La sua presenza in classifica, al di là del significato commerciale, diventa un modo per verificare i passi avanti compiuti dalla battaglia per la propagazione di nuove idee di libertà, pace e fratellanza all’interno della società statunitense, soprattutto tra le generazioni più giovani. È un inno, una colonna sonora che accompagna la lunga marcia di chi insegue il sogno di un’America diversa. Non a caso tre anni prima, in una chiesa assediata dai razzisti, la voce di Martin Luther King aveva intonato proprio We shall overcome e le sue note, a partire dal 4 maggio 1961, sono state diffuse in tutte le strade degli stati del sud dai colorati autobus dei predicatori erranti di libertà, ribattezzati Freedom Riders dalla nazione nera. L’ingresso nella classifica dei dischi più venduti di Joan Baez, una bianca dal cuore d’ogni colore, funziona da cassa di risonanza e dà forza al movimento per i diritti civili. Il messaggio politico viaggia sulle ali della musica ed entra nelle case di tutti. Anni dopo la stessa Baez così ricorderà quell’evento: «Fu allora che cominciai a vedere nella canzone folk un vero strumento di cultura alternativa e a capire che la coscienza politica poteva essere mescolata alla musica e diventare un messaggio forte. Fu Pete Seeger, furono i vecchi folksinger a farmelo capire. Prima non lo accettavo. Ero una purista, musicalmente parlando, e non potevo sopportare la commistione tra musica e politica, non sopportavo nulla che non fosse il folk tradizionale, asettico e lontano nel tempo. Poi ho aperto gli occhi…».


08 novembre, 2019

8 novembre 1987 – Jacques Anquetil, l’uomo-orologio

L’8 novembre 1987 il cancro uccide il francese Jacques Anquetil, una leggenda del ciclismo. Amante dello champagne e dei piaceri della vita, l'atleta che i tifosi francesi hanno ribattezzato “Maître Jacques” è stato il più grande cronoman della storia del ciclismo. Vincitore di due Giri d’Italia, nel 1960 e nel 1964, è stato un attento amministratore della sua forza, preferendo all’impegno assiduo, una scelta oculata delle gare che gli permettesse di potersi godere anche la vita senza doversi sottoporre alle restrizioni tipiche della vita degli atleti della sua epoca. Nato l’8 gennaio 1934 a Mont Saint-Aignan, in Francia, ha spesso assunto posizioni di aperta contestazione dell’establishment ciclistico, da lui considerato in più occasioni autoritario e indifferente alla fatica e ai problemi dei ciclisti. Conclusa la carriera ha lavorato nel campo del giornalismo e svolse l’incarico di Commissario Tecnico della nazionale ciclistica transalpina ai mondiali.





07 novembre, 2019

7 novembre 1972 - Con Black Ace se ne va un pezzo del blues texano


Il 7 novembre 1972 si spegne all'età di sessantasette anni il cantante e chitarrista Black Ace, uno dei esponenti più significativi del blues texano. La sua morte non fa notizia perché da tempo il bluesman non si esibisce più e preferisce passare le giornate dietro al bancone dell'"Ace's Dark Room", il negozio di articoli fotografici che ha aperto a Fort Worth, nel "suo" Texas, lo stato dove è nato nel lontano 1905 a Hughes Springs. Il suo vero nome è Babe Kyro Lemon Turner. Per molto tempo la sua attività di bluesman si svolge quasi esclusivamente all'interno dei confini del Texas. Come molti esponenti del blues rurale il ragazzo è attaccatissimo alle sue origini contadine e alle contrade che lo hanno visto crescere. Non ha neppure un nome d'arte visto che gli è sufficiente troncare il suo lunghissimo nome anagrafico in combinazioni diverse per trovarsene uno nuovo ogni volta. Il suo isolamento cessa quando, cedendo alle lusinghe di suo amico registra Black ace, il brano che gli dà un'inaspettata notorietà e un nome d'arte definitivo. Ormai divenuto per tutti Ace Black prende sul serio il nuovo ruolo e inizia a migliorare la propria tecnica. Lavora a lungo sulle corde e aggiunge alla sua dote anche la chitarra hawayana nella quale viene istruito da Oscar Buddy Woods. Uscito dall'isolamento texano per molti anni si esibisce in tutti gli Stati Uniti, con una preferenza per quelli meridionali, dove si sente più a suo agio nel comunicare con la gente. Negli anni Sessanta molla tutto per aprire il negozio di articoli fotografici a Fort Worth, dove lavora fino alla morte.


05 novembre, 2019

6 novembre 1938 – P. J. Proby, il rocker col codino

Il 6 novembre 1938, a Houston, nel Texas nasce James Marcus Smith destinato a diventare un personaggio di spicco della scena musicale con il nome di P. J. Proby. Inizia a esibirsi in pubblico a soli undici anni e a diciassette ottiene, grazie a Jackie De Shannon, il suo primo contratto discografico. Nonostante la sua precocità Proby non riesce a sfondare negli Stati Uniti, ma sotto l'abile guida di Brian Epstein diventa uno dei cantanti più popolari in Inghilterra, debuttando nel 1964 nello show dei Beatles “Around The Beatles”. Famoso anche per il suo codino, inusuale in quel periodo, e per l'abbigliamento in stile “rivoluzione francese”, per un paio d'anni colleziona successi con brani come Hold me, Somewhere I apologize, Let the water run down, That means a lot, Maria, You need love e I can't make it alone. Nel 1968, ormai in declino, torna negli Stati Uniti. Si parla nuovamente di lui nel 1971, quando ritorna a Londra per interpretare Jago nel musical "Catch my soul", versione rock dell'Otello. Nel 1977 è uno dei protagonisti del musical "Elvis" con Shakin' Stevens.


04 novembre, 2019

5 novembre 2002 – Not in my name


Il 5 novembre 2002 a Roma viene presentato ufficialmente Not in my name, un album di canzoni contro la guerra edito dal quotidiano "Liberazione" e realizzato da quattordici gruppi e artisti italiani. Il progetto, curato da Michele Anelli, Gianni Lucini e Paolo Pietrangeli, è nato sottoponendo ai gruppi e agli artisti una lista di canzoni "storiche" del rock, del pop e della tradizione che avessero al centro il tema del rifiuto della guerra e della pace e chiedendo agli stessi di "reinterpretarli" filtrandoli attraverso la loro sensibilità artistica. Il risultato è un disco di notevole interesse e di grande suggestione con brani di una lunga serie di autori che va da Dylan a Fossati, da Country Joe McDonald a De André, da Lennon a Tenco, da Pietrangeli a De Gregori, al "primo" Guccini. Tutti i brani però, appaiono "nuovi" perché ciascuno è "ripensato" e filtrato attraverso la personalità degli interpreti finendo per disegnare una caleidoscopica rassegna dei linguaggi principali della musica di oggi. Accanto a Gang, Paolo Pietrangeli, Ratoblanco, Groovers, Mirafiori Kids e gran parte dei gruppi emergenti della canzone d'impegno la lista degli interpreti vede anche il gradito ritorno in sala di registrazione di Tommaso Leddi e Umberto Fiori, cioè il chitarrista e il cantante dei leggendari Stormy Six, che hanno regalato all'album un brano originale. Molti sono stati gli apporti "illustri" alla realizzazione del progetto, come quella di Jaré, un gruppo dietro al quale si nasconde il nome di Mauro Sabbione, il protagonista della svolta elettropop dei Matia Bazar di Vacanze romane nonché tastiera aggiunta dei "vecchi" Litfiba in El Diablo e dei nuovi in Elettromacumba. Tra le collaborazioni importanti c'è poi da annoverare anche la presenza di Fabrizio Barale degli Yo Yo Mundi nel brano registrato dal Gruppo Spontaneo di Musica Moderna. Il missaggio finale del CD è stato curato da Daniele Denti, l'indimenticato chitarrista dei Settore Out passato poi alla live band di Gianna Nannini. In un periodo in cui da più parti si criticano gli artisti italiani perché, pur prendendo posizione contro la guerra, faticano a elaborare un progetto collettivo, "Liberazione" ha fatto un piccolo miracolo.



4 novembre 1966 - Gli angeli del fango

Il 4 novembre 1966 una fitta serie di nubifragi si abbatte sull’Italia. Venezia viene ricoperta dall’acqua per ventitrè ore mentre Firenze, una delle più belle città storiche del nostro paese, dopo essere stata sommersa per tre metri dalle acque dell’Arno, resta a lungo isolata dal resto del paese. Il bilancio finale parlerà di circa dodicimila sfollati e una settantina di morti. L’evento colpisce l’immaginazione dell’Italia intera e una fiumana di volontari, in gran parte giovani, decide di non restare con le mani in mano ma di correre ad aiutare la città. Giovani di tutte le regioni con zaini e sacchi
a pelo, in autostop, in treno e con mezzi di fortuna partono per il capoluogo toscano intenzionati a dare il loro contributo soprattutto al salvataggio dei beni culturali. Accade così che la colorata e un po’ disprezzata generazione dei capelli lunghi e delle minigonne si renda protagonista di una straordinaria prova della sua capacità di muoversi al di fuori di qualunque struttura istituzionale. A Firenze li si vede lavorare fianco a fianco con le forze dell’ordine, i vigili del fuoco e i militari. L’opera delle migliaia di ragazze e ragazzi si rivelerà preziosa e l’Italia, improvvisamente si accorgerà che questi giovani, chiamati fino al giorno prima con un po’ di disprezzo “capelloni” e “ninfette” non sono poi il diavolo. Dei nuovi sentimenti si farà interprete, tra gli altri, Giovanni Grazzini, l’inviato del Corriere della Sera che li ribattezzerà “Angeli del fango” scrivendo: «d’ora in avanti nessuno si permetta più d’insultarli».


03 novembre, 2019

3 novembre 1946 - Una sola radio


A partire dal 3 novembre del 1946 le trasmissioni radiofoniche diventano uniche su tutto il territorio nazionale. Lo annuncia, con non poca soddisfazione, la RAI (Radio Audizioni Italia), l'ente di stato per le radiodiffusioni che da pochi mesi ha sostituito l’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), una sigla troppo legata all'esperienza del regime fascista per poter sopravvivere. Tutta la penisola torna così a essere riunita via etere. Nel periodo precedente alla Liberazione, infatti, i collegamenti tra il Nord occupato dai tedeschi dove era nata la Repubblica di Salò e il Sud in mano agli alleati non esistevano più. Il fronte, che passava attraverso la famosa Linea Gotica, divideva in due l’Italia anche per quel che riguardava la radiodiffusione. Ripristinati i collegamenti fra le stazioni settentrionali e quelle meridionali, anche la radio può riprendere finalmente a irradiare programmi omogenei su tutto il territorio italiano. Fa eccezione la Sardegna, temporaneamente esclusa dall’unificazione della rete. Gli ascoltatori possono sintonizzarsi su due canali distinti in onde medie: la Rete rossa e la Rete azzurra. Inutile dire che la musica fa la parte del leone proponendo una nuova generazione di interpreti, alcuni dei quali riabilitati dopo essere stati colpiti dalla censura fascista. Il pubblico impara così a conoscere i nomi del Quartetto Cetra, Lelio Luttazzi, Gorni Kramer e di molti altri. L'unificazione della rete di radiodiffusione non sarà l'unica novità. Nuove applicazioni tecnologiche sono, infatti, in arrivo. Sull’esempio di quanto avviene nel resto del mondo si inizia a considerare l’opportunità di utilizzare per le trasmissioni radiofoniche la modulazione di frequenza, meno soggetta a interferenze e a disturbi. In breve tempo anche i tecnici italiani saranno in grado di operare in questo campo e il 1° ottobre 1948 entrerà in funzione a Milano la prima stazione sperimentale di radiodiffusione a modulazione di frequenza.


02 novembre, 2019

2 novembre 1975 – Muore assassinato Pier Paolo Pasolini, l’eretico fustigatore del boom

Il 2 novembre 1975 su una spiaggia di Ostia viene ritrovato il corpo sfigurato di Pier Paolo Pasolini. Poche ore dopo il ritrovamento viene annunciato l’arresto del suo assassino. È il diciassettenne Giuseppe Pelosi, detto “Pino la rana” che confessa di averlo ucciso dopo un litigio e di averlo poi investito casualmente con l’automobile mentre fuggiva in preda al panico. Muore così uno dei protagonisti assoluti della cultura del Novecento italiano. Scrittore, poeta, critico, sceneggiatore e regista cinematografico, Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, l’anno in cui Mussolini va al potere. Il padre Carlo Alberto Pasolini è ufficiale di fanteria, mentre la madre, Susanna Colussi, è una maestra elementare. Il piccolo Pier Paolo trascorre l’infanzia e la prima giovinezza girovagando al seguito del padre, ufficiale di carriera. Se ne va prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e Reggio Emilia, anche se il luogo che ama di più è Casarsa, la cittadina friulana dove è nata sua madre, che lui descriverà come un «… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana». Il rapporto con il padre non è facile e il giovane sviluppa un attaccamento fortissimo nei confronti della madre. Terminato il liceo, nel 1939 s’iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, e nel 1942 pubblica a proprie spese, Poesie a Casarsa, una raccolta di composizioni poetiche in dialetto friulano. In quell’anno il padre cade prigioniero degli inglesi in Africa. Chiamato alle armi il giovane figlio dell’ufficiale Pasolini non ci resta per molto. L’8 settembre 1943 butta la divisa e torna a Casarsa dalla madre. Gli ultimi anni della guerra e i primi dopo la liberazione sono tragici e segnati dalla morte del fratello minore partigiano. Alla fine degli anni Quaranta, dopo un periodo d’insegnamento nella scuola media di Valvasone, viene sospeso dall’incarico perché omosessuale e nei suoi confronti viene avviato anche un vero processo. Per tentare di ricominciare se ne va con la madre a Roma dove riesce a sbarcare il lunario insegnando in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese. Nella capitale vedono la luce “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” due fra i romanzi più importanti di Pier Paolo Pasolini. Vede la luce anche “Le ceneri di Gramsci”, un’opera poetica che gli vale il Premio Viareggio del 1957. La letteratura però non è sufficiente a mantenerlo. Per arrotondare le scarse entrate inizia a lavorare anche come sceneggiatore cinematografico. Tra il 1957 e il 1961 sono undici le sceneggiature firmate da Pasolini che considera cinema e scrittura due forme espressive strettamente complementari e non alternative. I suoi romanzi e le sue poesie, infatti, sono ricche, infatti, di elementi per cosi dire “cinematografici”, mentre le sceneggiature dei suoi film hanno spesso una autonoma e solida validità letteraria. La sua avventura cinematografica nasce un po’ per incoscienza e un po’ per caso. Pur non essendo in possesso di una particolare preparazione tecnica, ma sorretto dall’ispirazione interiore, fa il suo esordio come regista nel 1961 con il film “Accattone”, con il quale porta sul grande schermo il suo interesse e la sua simpatia per le fasce più marginali del sottoproletariato romano. Nel lavoro di quel periodo è evidente la solidarietà con il mondo che il boom della società italiana sta lasciando al margine. I suoi personaggi sono diseredati, dimenticati da ogni chiesa e partito, dei quali lui cui ammira gli istintivi valori culturali che sopravvivono alla miseria materiale e morale, ma che nella sua visione pessimista sono però destinati a soccombere di fronte ai miti del “benessere” e della normalità piccolo-borghese. Negli anni successivi la sua narrazione cinematografica si arricchisce di un afflato religioso d’impianto squisitamente laico disegnando una sorta di cattolicesimo “eretico” che trova il suo momento culminante nel 1964 con “Il Vangelo secondo Matteo”. Negli anni della contestazione, la sua posizione dissente sia dai palazzi del potere che dai nuovi oppositori, ai quali attribuisce il tentativo di omologare l’intero tessuto sociale dell’Italia al modello piccolo-borghese spazzando via i valori dell’Italia precapitalistica e contadina. Accusa i contestatori del Sessantotto di essere i portatori di un nuovo potere e, negli anni successivi, pur continuando a militare nel Partito Comunista (che lo aveva sospeso nel 1949 per la sua omosessualità) critica aspramente il “conformismo di sinistra”. Le modalità del suo assassinio così come sono state diffuse non convincono. Non tutti credono alla versione raccontata dal ragazzo e molti amici dell’intellettuale scomparso sosterranno negli anni successivi la tesi di un vero proprio agguato premeditato ed eseguito da un gruppo numeroso. Sergio Citti, regista attore e amico di Pasolini dichiara pubblicamente che «...Quella notte Pelosi era insieme ad altre quattro persone e quelle persone erano lì per uccidere Pier Paolo... Pier Paolo era scomodo. Scriveva cose scomode, anche sul Corriere . No, non fu un incidente, una lite: Pier Paolo fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che Pasolini dovesse morire...». Già due settimane dopo il ritrovamento del suo corpo la giornalista Oriana Fallaci in un lungo articolo su “L’Europeo” ipotizza per la prima volta che il poeta, scrittore e regista sia stato ucciso in un agguato premeditato cui avrebbero partecipato più persone. L’ipotesi viene ripresa più volte nel corso degli anni e argomentata anche da inchieste giornalistiche accurate e ben documentate. Nessuna delle ricostruzioni riesce però a far riaprire le indagini finché nel 2005 è lo stesso Pino Pelosi annunciare in un seguitissimo programma televisivo: «Non sono io l’assassino di Pasolini ma tre uomini sui 45 anni, dal forte accento siciliano, scesi da una 1500 Fiat targata Catania, che lo assalirono gridandogli “Fetuso, arruso, sporco comunista” e minacciando di uccidere i miei genitori se non avessi taciuto su ciò che avevo visto quella notte».

01 novembre, 2019

1° novembre 1926 – Lou Donaldson, dal clarinetto al sax contralto

Il 1° novembre 1926 a Badin, nel North Carolina nasce il sassofonista Lou Donaldson. Figlio di un predicatore che di mestiere fa l’insegnante di musica, apprende le prime nozioni musicali in famiglia e a quindici anni, inizia a studiare clarinetto. È durante il servizio militare prestato in marina che prende la decisione di lasciare il suo strumento di legno per il metallo del sax contralto. Congedato, nel 1950 frequenta il Darrow Institute dove incontra Charlie Parker, Sonny Stitt e altri boppers. Dopo varie esperienze si trasferisce a New York dove incidere per la Blue Note prima in una formazione guidata da Horace Silver e poi anche sotto suo nome. Dopo un breve passaggio al al rhythm and blues torna al jazz dando vita a una propria band con la quale suona in alcuni tra i più importanti club di New York, dal Five Spot all’Half Note, al Play House e tanti altri. Nell’autunno del 1965 arriva in Europa per una breve permanenza al Golden Circle di Stoccolma. Dopo aver inciso per quattro anni per la Cadet, ritorna alla Blue Note. Considerato dalla critica come un allievo di Charlie Parker, in realtà Donaldson ha due facce. La prima decisamente e rigorosamente jazz hard bopper e la seconda nata nel rhythm and blues ed evoluta nel funky.

31 ottobre, 2019

31 ottobre 2003 – Frankie Hi-Nrg Mc era un autarchico


Ci sono anche Franca Valeri, Arnoldo Foà, Antonio Rezza, Paola Cortellesi e Pacifico in Ero un autarchico, l’album che vede la luce il 31 ottobre 2003. L’artefice è Frankie Hi-Nrg Mc, uno dei personaggi più significativi dell'hip-hop italiano dei primi anni Novanta, capace di essere, insieme, innovativo e campione di vendite. Arriva nei negozi sei anni dopo il suo ultimo lavoro in studio La morte dei miracoli, un periodo lunghissimo per un ambiente che è abituato a capitalizzare in fretta le azioni consolidate. Frankie, al secolo Francesco Di Gesù, nonostante i successi la prende con calma ma non sta fermo. La sua creatività si sperimenta anche in altre direzioni. Prova a realizzare alcuni video-clip per sé, poi ci prende gusto e lavora ai filmati musicali di altri come Nocca, Flaminio Maphia, Tiromancino e Pacifico. Sul piano strettamente musicale spiccano le collaborazioni con Alice, Puff Daddy, Nas, Alter Ego, Shel Shapiro, Banda Osiris e, soprattutto la partecipazione all'album The world according to RZA, uscito quest'anno dalla factory dei Wu-Tang Clan, che sembra avergli ridato la voglia di lavorare a un progetto musicale nuovo e più ampio. L'album che esce il 31 ottobre Ero un autarchico, un voluto omaggio a Nanni Moretti, segna una svolta decisa rispetto al passato almeno sul piano musicale. Le atmosfere sono meno cupe e la sua voce non ha i connotati della disperazione presenti soprattutto nel disco precedente, anche se le parole restano di pietra, ben tagliata e dura come il diamante. In Generazione di mostri spiega che «Rivoluzione resta un vocabolo impronunciabile/se l'unico scontro possibile/è tra parti di popolo/che vivono gomito a gomito/e non si accorgono di essere identiche…» e in Rap lamento usa l'accetta contro un'opposizione che rischia di assomigliare troppo alla "squadraccia" di governo del centro-destra. Strepitoso è Morsi e rimorsi, un taglia e incolla dell'intervento di Arnoldo Foà per il "no" all'abrogazione del divorzio nel 1974, smontato e ricomposto in una dichiarazione attualissima. La critica è radicale, ma a dispetto delle apparenze, non prevale mai la tentazione qualunquista: «Io sono geneticamente di sinistra, ma non posso ignorare le deficienze di questa sinistra prigioniera di piccole beghe di condominio. Ci sono milioni di salotti che assomigliano a tante piazzette Venezia e la sinistra si muove in punta di forchetta quando tutti ci si dovrebbe tirare su le maniche». Questa è l'aria che tira nel disco e che, a partire dal 13 novembre a Verona dà anche sostanza al nuovo tour di Frankie Hi-Nrg Mc accompagnato da una band che schiera Francesco Bruni alla chitarra, Lino De Rosa al basso, Ninja alla batteria e Skizo al piatto dei vinili.



29 ottobre, 2019

29 ottobre 1980 – Georges Brassens, l'orso della canzone francese

Il 29 ottobre 1980 nel piccolo villaggio di Saint-Gély-du-Fesc, tra Séte e Montpellier muore Georges Brassens, un artista unico, un orso dotato di una genialità e un’ironia senza pari, scorbutico al punto da spaventare anche Fabrizio De André. Si racconta, infatti che il cantautore genovese, nonostante le parole di apprezzamento dello chansonnier per le versioni italiane delle sue canzoni da lui curate, non ha mai voluto incontrarlo temendo il suo brutto carattere. Nessuno può sapere se e quanto ci sia di vero in questa storia è vera ma non importa perchè certe storie hanno ragione d’esistere indipendentemente dalla loro veridicità. Aneddoti a parte Georges Brassens non ha mai avuto un bel carattere e il suo modo di scrivere canzoni non è differente dalla sua brusca capacità di relazione con il mondo. Mette al centro delle cure la parola. Come un artigiano perennemente insoddisfatto, la lima, la aggiusta, la adatta e quando non è convinto la sostituisce. Il risultato è una scrittura matematica che attraverso architetture ardite sviluppa un linguaggio raffinato con un rigore formale che non ammette deroghe. I suoi versi sono una costruzione perfetta, precisa come un orologio svizzero, complessa e insieme così semplice da poter essere cantati in coro dai liceali di buona famiglia come dagli avventori delle osterie o dai bambini. In questa fusione tra semplicità dei concetti e ricerca della perfezione formale c’è il segreto della grandezza e della longevità di Brassens. È il miracolo di quel coacervo di sentimenti, emozioni e passioni che l’umanità chiama da sempre poesia. Il suo non è il gioco dell’enigmista, l’esercizio senza scopo del letterato innamorato della propria cultura e delle proprie parole. In lui la poesia è forma ma anche sostanza. Le sue canzoni, pur attraversate da una febbrile tensione morale, si abbeverano alle sorgenti inesauribili dell’ironia e di quella capacità di benevolenza che gli antichi chiamavano “pietas” e che non può essere compiutamente rappresentata dalla sola parola “pietà”. Figlio di un muratore Georges Brassens nasce a Sète nel 1921 e lì nei dintorni muore sessant’anni dopo. In mezzo tra la nascita e la morte c’è una vita intensa, iniziata rubacchiando qua e là come un comune teppistello da strada e proseguita tra mille mestieri, compreso quello di spazzacamino e d’operaio alla Renault, passata per l’occupazione nazista, un campo di lavoro in Germania e l’adesione convinta al movimento anarchico. Quando arriva a Parigi non ha ancora compiuto vent’anni. Vive per lungo tempo a poche centinaia di metri dal parco che oggi porta il suo nome ubicato nei pressi del vecchio mattatoio. La capitale lo affascina, lo ispira e lo accompagna per quasi tutta la vita anche se non riesce mai a conquistarlo completamente tanto che quando sente che la morte sta per arrivare chiede di tornare a Sète, in quella che considera davvero casa sua. L’atteggiamento è in linea con un personaggio che nella propria vita si cura pochissimo della forma, diversamente da quanto accade nella sua poesia e nelle sue canzoni. Eppure, nonostante tutto, senza Parigi probabilmente non esisterebbe Brassens. È nella Parigi dei primi anni del dopoguerra, infatti, che trova gli umori giusti per far decollare le sue canzoni. Nella capitale francese respira l’aria degli esistenzialisti, sia pur senza troppo confondersi si mescola con gli intellettuali e gira per le cantine con il suo piccolo ensemble di derivazione jazz mettendo in musica le poesie di autori scomodi come François Villon. In questi fumosi locali negli anni Cinquanta nasce la sua fama di interprete della canzone sociale, erede della tradizione della chanson réaliste. I personaggi che popolano i suoi brani sono quasi sempre gli ultimi, quelli che vivono ai margini della società cosiddetta civile e, spesso, si prendono gioco anche degli intellettuali con le loro presunzioni. Nonostante tutto però proprio l’intellettualità parigina finisce per amarlo alla follia. Non è l’unica contraddizione del lungo percorso artistico di Brassens perché il gioco delle parti a volte è riserva sorprese inaspettate. A lui, anarchico e anti-istituzionale per eccellenza toccherà in sorte di ricevere encomi e riconoscimenti da alcune tra le più paludate e prestigiose istituzioni francesi. Se la poetica letteraria dei brani di Georges Brassens appare rigida nella sua definizione formale fino ad apparire più vicina all’Ottocento che al Novecento la musica non è da meno. Impermeabile alle mode e a qualunque evoluzione, la struttura di tutti i suoi dischi dal 1951 alla fine degli anni Settanta è sempre impostata su voce, chitarra e contrabbasso. Sbaglierebbe però chi s’immaginasse una lunga serie di brani sostanzialmente tutti uguali come accaduto alla canzone cantautorale italiana e anche a quella statunitense nella sua fase calante. Georges Brassens non attinge da quel pozzo. Per quel che riguarda i testi si riallaccia alla grande tradizione della chanson réaliste francese, quella che ha tradizionalmente per protagoniste le figure che popolano i bassifondi: vagabondi, poveri protettori, sbandati, prostitute, ladruncoli e delinquenti di strada. Prima di lui il genere era caduto nella stanca ripetitività didascalica. Lui impugna la ramazza, toglie la polvere, spazza le ragnatele e mette chanson la réaliste in relazione con le nuove pulsioni musicali derivate dal jazz e soprattutto dallo swing. In questa operazione fa tesoro della lezione surrealista di Charles Trenet che lui considererà sempre il suo maestro. Il risultato è che le sue canzoni, lungi dal restare aristocraticamente riservate a pochi intenditori, finiscono per diventare un patrimonio disponibile a tutti. Ascoltandole si piange e si ride, ci si indigna e ci si commuove perché le sue storie sono hanno una forza comunicativa cui non si può resistere. C’è chi gli ha rimproverato per questo una scarsa coerenza con la sua militanza nel movimento anarchico come se l’impegno politico e sociale in musica avesse il dovere di produrre solo inni. Lui non ha mai risposto lasciando che le canzoni parlassero da sole. La carica rivoluzionaria contenuta in storie come quella del gorilla che sodomizza l’autorità viaggia sul filo dell’ironia e dell’intelligenza. Se qualcuno non ce l’ha né Brassens né altri possono farci niente. Georges Brassens nasce il 22 ottobre 1921 a Sète, una città della Francia meridionale dove resta fino al 1940 quando va a Parigi. Appassionato di poesia nel 1942 riesce a pubblicare un volumetto con le sue composizioni che passa inosservato. Lavora come operaio alla Renault ma nel marzo del 1943 viene reclutato a forza dai tedeschi per il Servizio di Lavoro Obbligatorio e spedito in Germania. Non ci resta per molto. Sfruttando una licenza torna a Parigi e si nasconde in casa di Jeanne Le Bonniec, la bretone che l’ospiterà a pensione per una ventina d’anni. Dopo la Liberazione di Parigi nel 1946 aderisce alla Federazione Anarchica e scrive con vari pseudonimi sul giornale “Le Libertaire", Nello stesso periodo comincia a cantare in pubblico le sue canzoni. Negli anni successivi suona in vari locali. La svolta arriva il 6 marzo 1952 quando tra pubblico che l’ascolta c’è Patachou, uno dei personaggi più popolari del cabaret francese. Patachou resta impressionata dalle sue canzoni e lo ingaggia per aprire i suoi spettacoli. Tre giorni dopo, il 9 marzo Georges Brassens debutta al Trois Baudets, uno dei templi del cabaret parigino di quel periodo. È il successo. Prima della fine dell’anno incide il suo primo album. Da quel momento, pur tra alti e bassi, la sia carriera continuerà ininterrottamente fino alla fine degli anni Settanta. Nel mese di novembre del 1980 si ammala di cancro. Quando capisce di essere condannato decide di lasciare Parigi. Nell'estate del 1981 torna nella sua città natale e il 29 ottobre dello stesso anno muore nel piccolo villaggio di Saint-Gély-du-Fesc, tra Séte e Montpellier, dove è ospite del suo amico e medico Maurice Bousquet.