10 dicembre, 2019

10 dicembre 1982 – “Only you” a cappella


Il 10 dicembre 1982 al vertice della classifica britannica dei singoli più venduti c’è una nuova versione di Only you, il brano che un anno prima aveva ottenuto un buon successo nell’interpretazione degli Yazoo, l’insolito duo formato da Alison Moyet con l'ex Depeche Mode Vince Clarke. La versione che occupa il primo posto delle classifiche britanniche nel 1983 è eseguita “a cappella”, cioè senza l’accompagnamento strumentale. Artefice di questa curiosa operazione sono i Flying Pickets, un insolito gruppo vocale britannico formato, all'inizio degli anni Ottanta, da Rick Lloyd, David Brett, Brian Hibbard, Red Stripe, Ken Gregson e Garth Williams. Il loro primo singolo di successo è proprio Only you. L’exploit non dura molto. Dopo il singolo When you're young and in love vedranno la loro popolarità ridursi alla stessa velocità con cui era cresciuta.



09 dicembre, 2019

9 dicembre 2002 – “Terra Maris” degli Indaco


Lunedì 9 dicembre 2002 a La Palma Club di Roma viene presentato rigorosamente dal vivo Terra Maris, il nuovo album degli Indaco, la band formata nel 1996 dall'incontro di Rodolfo Maltese, chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso, con il polistrumentista Mario Pio Mancini e il percussionista Arnaldo Vacca. Una delle caratteristiche di questo gruppo è sempre stata quella di mettere in difficoltà gli amanti delle definizioni "strette" di stile, di coloro, cioè, cui piace incasellare in una sorta di schema qualunque esperienza musicale. Gli Indaco, da questo punto di vista, sono difficilmente definibili, visto che si muovono in un'area vasta di contaminazioni tra stili di confine, mescolando la world music, la new age, l'ambient, l’etno-rock e l’etno-jazz. Per Terra Maris, che è il quarto album della loro storia, approfittano della presenza di ospiti prestigiosi come Eugenio Bennato, Mauro Pagani, Daniele Sepe, Paolo Fresu, Andrea Parodi e altri, per spostare in avanti la loro ricerca. Il risultato sono undici brani di notevole intensità con un filo conduttore interno e parecchie variazioni stilistiche. La novità più rilevante è data dalla maggior presenza, rispetto al passato, di brani cantati, frutto dell'allargamento della formazione storica composta da Rodolfo Maltese, Mario Pio Mancini, Arnaldo Vacca, Pierluigi Calderoni, Luca Barberini e Carlo Mezzanotte alla voce particolare di Gabriella Aiello. Il risultato è un'opera decisamente più matura delle tre precedenti che non rinuncia a confrontarsi con le esperienze più interessanti del panorama musicale mediterraneo. Quattro brani lasciano il segno. Il primo è Amargura giocato sulle voci della Aiello e di Andrea Parodi, l'ex vocalist dei Tazenda oggi scomparso. Il secondo è la ballata Terza Qualità composta e interpretata da Eugenio Bennato, nelle cui atmosfere si coglie l'eco dell'esperienza dei Musicanova e il terzo è il sofisticato Aran debitore di parte della propria suggestione alla tromba di Paolo Fresu. Ultimo, ma solo in ordine d'esposizione, è un Norvegian wood lontanissima per ispirazione e per clima dall'originale dei Beatles. Come in un gioco di specchi gli Indaco nascondono Lennon e McCartney dietro alle evoluzioni di un etno-jazz originale e, talvolta, eccentrico. Chi cercasse i Beatles li può ritrovare soltanto verso il finale quando, come uscendo da un cilindro magico, l'esecuzione ritorna sui binari originali.




08 dicembre, 2019

8 dicembre 1925 – Jimmy Smith, the incredible, il primo organista elettronico del jazz


L'8 dicembre 1925 nasce a Norristown, in Pennsylvania, Jimmy Smith, all’anagrafe James Oscar Smith, il tastierista che per primo ha utilizzato l'organo elettronico nel jazz. Soprannominato “The Incredibile” per la sua tecnica straordinaria, figlio di due pianisti professionisti a nove anni vince un concorso per giovani talenti e partecipa a vari programmi radiofonici nei panni del "bambino prodigio". Nel 1942 entra a far parte del gruppo del padre. Non abbandona, però, gli studi. Frequenta i corsi contrabbasso alla Hamilton School of Music e quelli di pianoforte della Orenstein School. Nel 1952 è il pianista e l'organista dei Sotones di Don Garner. Tre anni dopo sceglie di passare definitivamente all'organo formando un trio con il quale si esibisce regolarmente al Bohemia Café di New York. Proprio grazie alle esibizioni in questo locale si conquista la stima e il rispetto di quasi tutta la critica dell'epoca. Dotato di una tecnica straordinaria, in breve tempo fa compiere all'utilizzo dell'organo elettronico nel jazz un salto evolutivo paragonabile a quello realizzato da Charlie Christian per la chitarra elettrica. Jimmy, infatti, è il primo musicista ad accorgersi delle notevoli potenzialità dello strumento e ne fa un uso decisamente diverso da quello riservato fino a quel momento al pianoforte o all'organo da chiesa. Senza le sue tecniche, le sue ricerche sulla sonorità e, soprattutto, la sua capacità d'innovazione, probabilmente il mondo del jazz avrebbe mantenuto ancora per lungo tempo un atteggiamento di estrema diffidenza nei confronti di questo strumento. A partire dal 1962 allarga i suoi confini musicali in quell'area indefinita che sta tra il jazz e il rhythm and blues. Diventa così molto popolare anche tra il pubblico interessato a una musica più commerciale. Sull'onda del successo nel 1973 compone una suite "The portuguese soul" che viene poi pubblicata in un album in cui lo stesso Smith è affiancato dalla big band di Thad Jones e Mel Lewis. Negli anni Sessanta e Settanta figura quasi sempre ai primi posti nei referendum tra i lettori indetti dalle riviste specializzate. Progressivamente si fa sempre più catturare dalle tentazioni e, soprattutto, dalle possibilità economiche che gli offre il music business. Per questa ragione si dedica con crescente assiduità alla musica commerciale. Nonostante tutto l'ambiente jazzistico non lo considererà mai un "traditore" e accoglierà sempre con entusiasmo i suoi periodici ritorni.



07 dicembre, 2019

7 dicembre 1968 – Un’indimenticabile prima della Scala


La sera del 7 dicembre 1968 a Milano è prevista la tradizionale “prima” che apre la stagione lirica del Teatro della Scala. Da anni la borghesia milanese ha trasformato questa occasione in un evento di grande mondanità in cui fare sfoggio di ricchezza ed eleganza. Il clima che si respira in città, però, è diverso dal solito. Nelle scuole si vive un periodo di grande fermento con una lunga serie di assemblee e di occupazioni. Sono gli universitari i più attivi in un movimento che, malgrado le contraddizioni, sta abbandonando l’aspetto un po’ folcloristico di contrapposizione generazionale per assumere sempre più i caratteri di un aperto rifiuto del sistema. Gli studenti, senza grande clamore, si sono dati appuntamento proprio nella Piazza della Scala con un passaparola che non è sfuggito alle autorità preposte a garantire l’ordine costituito. Per “prevenire incidenti” nel pomeriggio la polizia ha iniziato a presidiare la piazza con discrezione, anche se nessuno pensa che ci sia davvero una situazione di pericolo. Gli organi di stampa e le autorità considerano improbabile l’eventualità di una massiccia contestazione e prevedono piuttosto la presenza un po’ goliardica di qualche colorito gruppetto marginale. Il pomeriggio scorre via tranquillo e, mentre scendono le prime ombre della sera, gli scarni gruppetti di ragazzi e ragazze arrivati alla spicciolata sembrano confermare le tranquillizzanti previsioni della vigilia. Man mano che le ore passano però il loro numero cresce tanto che la Questura manda altri agenti di polizia a rafforzare il contingente della piazza. Nel frattempo arrivano i primi spettatori. Una salva di urla, fischi e sberleffi è il saluto con il quale vengono accolti dai giovani. I ragazzi e le ragazze, trattenuti a stento dal robusto cordone di poliziotti, bersagliano gli abiti eleganti e le pellicce della “Milano bene” con un nutrito lancio di uova e di ortaggi. Nonostante qualche inevitabile momento di tensione la polizia si limita a controllare, mentre il leader del movimento studentesco Mario Capanna al megafono invita gli agenti a ribellarsi agli ordini ricevuti e a schierarsi dalla parte dei giovani. La serata è destinata a restare a lungo nella memoria del capoluogo lombardo.


06 dicembre, 2019

6 dicembre 1983 – La signora in blu se ne va


Il 6 dicembre 1983 muore a ottantadue anni a Parigi Lucienne Boyer, soprannominata la “Dame en bleu”, la signora in blu, una delle cantanti francesi più applaudite degli anni Trenta. Personaggio carismatico della scena francese, nonostante i trionfi nei luoghi mitici dello spettacolo e del music hall parigino appena può torna a esibirsi nei piccoli spazi dove è iniziata la sua storia. Al palcoscenico dell’Olympia lei preferisce l’intimità raccolta dei cabaret, degli angusti locali fumosi e affollati dove non c’è separazione tra artista e pubblico e dove l’unica trovata scenica consiste in un solo riflettore fisso su lei. Si fa accompagnare da una piccola orchestra formata da pianoforte, violino, violoncello e contrabbasso che agli occhi dei puristi ha il torto di avere un buco d'un paio d'ottave fra il violino e il violoncello per l’assenza della viola. Anche l’accompagnamento musicale ridotto al minimo contribuisce a dar risalto alla sua voce, a una tecnica vocale capace di dispensare emozioni preziose come piccoli gioielli cesellati da un abile artigiano. In un’epoca in cui le grandi cantanti del music hall cambiano vestito e scenografia quasi a ogni canzone Lucienne Boyer si veste di semplicità. Considerata la prima grande “cantante intimista” della scena musicale francese influenzerà con il suo stile vocale sia Juliette Gréco che Barbara. Emilienne-Henriette Boyer nasce il 18 agosto 1901 a Parigi, nella zona di Montparnasse. Suo padre fa lo stagnino mentre la madre è una modista e anche la piccola, se il diavolo non ci mettesse la coda, nelle previsioni dei genitori dovrebbe ritagliarsi un futuro nello stesso campo della madre. A cambiare radicalmente e rapidamente le prospettive interviene lo scoppio di una guerra mondiale, la prima, che si porta via per sempre il padre e costringe la giovane Emilienne-Henriette a lavorare in un fabbrica per la costruzione di obici destinati al fronte. Sono anni difficili che la ragazza affronta con quella sfrontatezza tipica dei giovani che sta al limite tra coraggio e incoscienza. Bella, anzi bellissima secondo i suoi primi ammiratori, attira l’attenzione di artisti e perdigiorno vari che le promettono il paradiso. Lei non si lascia confondere e accetta di diventare la modella di pittori come Foujita e Modigliani, anche se la sua vera vocazione resta la canzone. Non ha ancora compiuto sedici anni quando comincia a esibirsi sui palcoscenici dei locali notturni parigini, in particolare quelli dell’Eldorado e di Chez Fyscher dove canta accompagnata dal pianoforte di un grande compositore di successi come Georges Van Parys. Proprio in questo vagabondare canterino nella notte della Ville Lumiére fa l’incontro che le cambia la vita. Al termine di un’applaudita esibizione al Concert Mayol, uno dei più famosi cabaret parigini dell’epoca, viene infatti avvicinata da un personaggio entusiasta. Si chiama Lee Schubert, è un impresario che arriva dagli Stati Uniti ed è rimasto stregato dalla voce e dalla presenza scenica di quella giovanissima cantante. Ha intenzione di portarla con sé la di là dell’oceano. La ragazza l’ascolta e poi firma un contratto che prevede sette mesi di concerti nei locali di Broadway. La durata della permanenza a Broadway alla fine sarà prolungata a nove mesi e il suo ritorno in Francia varrà vissuto un po’ come una sorta di tradimento dal pubblico statunitense. Emilienne-Henriette Boyer è ormai diventata per tutti Lucienne Boyer. L’esperienza statunitense le regala la popolarità più grande che la bella ragazzina canterina di Montparnasse potesse sperare. Nonostante il successo Lucienne resta perplessa. Non son tanto le fatiche degli spostamenti né la frenesia della vita a farla sentire a disagio quanto la dimensione dei palchi e l’eccessiva ricchezza scenografica che fa da sfondo ai suoi concerti nei teatri. La ragazza pensa che i grandi spazi non siano il luogo adatto per mettere in risalto le sue canzoni e le sue raffinate tecniche vocali. Appena può torna al suo antico amore, i piccoli locali della notte parigina che l’hanno vista nascere, irrobustirsi e sbocciare al successo conquistando anche Broadway. Alla fine degli anni Venti investe gran parte dei primi cospicui guadagni che gli derivano dalla sua attività in un locale tutto suo. Si chiama Les Borgias e nelle sue intenzioni dovrebbe diventare una sorta di piccola tana, un luogo in cui rifugiarsi ogni volta che ha bisogno di ritrovare se stessa. La critica, che pure ha guardato con rispetto al suo exploit statunitense, la predilige nella versione più essenziale, quasi confidenziale e qualche anno dopo la considererà la prima, grande interprete di quel genere che verrà chiamato “chanson intime”. Sempre alla fine degli anni Venti entra per la prima volta in una sala di registrazione e ne esce piacevolmente sorpresa. Le piace molto il clima raccolto che si crea all’interno di quei piccoli spazi soprattutto in un’epoca in cui la tecnologia non prevede ancora manipolazione e tutti registrano in presa diretta. Sono gli anni di Tu me demande si je t’aime e, soprattutto, di Parlez-moi d’amour, il brano scritto con mano felice da Jean Lenoir che diventa un grande successo nel 1930 e le fa vincere la prima edizione del Gran Prix du Disque. Per tutti gli anni Trenta Lucienne Boyer è una delle indiscusse e più amate regine della notte parigina. Canzoni come Un amour comme le nôtre, Sans toi, Si petite, Les prénoms effacés, Je t’aime, Mon coeur est un violon e tante altre fanno volare alte sulla musica emozioni e sentimenti. Pur non lasciando volentieri Parigi, nel 1934 mantiene la promessa fatta al pubblico statunitense e torna a New York dove una pioggia di prenotazioni sommerge i suoi concerti al Rainbow Room e al Little Theater della quarantaquattresima strada. Da lì se ne va poi a Washington. I ripetuti successi delle sue esibizioni in Nordamerica convincono un gigante come la Paramount a proporle un contratto fisso, una scrittura in esclusiva che prevede la sua permanenza negli Stati Uniti con incisioni di dischi, tournèe e anche una pianificata carriera cinematografica parallela a quella di cantante. Le leggende dicono che la cifra offertale sia una di quelle alle quali è davvero difficile dire di no, ma lei lo fa. Dopo essersi presa un po’ di tempo per pensarci fa sapere ai “signori americani” che non può lasciare la Francia o, meglio, Parigi. Non le è facile spiegare come si sentirebbe persa senza le notti nei locali della capitale, i concerti in quelle sale così piccole che nessun americano probabilmente può riuscire a immaginarsele. Se riesca a convincerli della giustezza della scelta o meno non è dato di saperlo, quel che è certo è che dice no. Nel 1939 sposa il compositore Jacques Pills, popolarissimo anche come componente del duo Pills et Tabet, formato insieme a Georges Tabet. Dall’unione tra Lucienne e Jacques nel 1941 nasce Jacqueline, una bambina destinata a ottenere un buon successo come cantante e a vincere il Gran Prix du Disque nel 1960. Quando la storia d’amore con Jacques si conclude lei saluta e riprende la sua strada. Circondata dal rispetto e dall’ammirazione di tutto l’ambiente musicale francese Lucienne Boyer nei decenni successivi non si lascia condizionare dalle mode e riesce ad attraversare senza cedimenti le innovazioni degli anni Cinquanta e l’esplodere del rock and roll in tutte le sue varianti negli anni Sessanta. Con il passare degli anni riduce progressivamente la sua attività e negli anni Settanta le sue esibizioni pubbliche si fanno rarissime. Tra gli eventi più rilevanti dell’ultimo periodo della sua carriera c’è lo straordinario concerto del 1976 all’Olympia insieme a sua figlia Jacqueline. Nello stesso periodo il suo brano Un amour comme le nôtre vive una nuova stagione di successi tornando al vertice delle classifiche di vendita a più di quarant’anni dalla sua prima uscita.




05 dicembre, 2019

5 dicembre 1958 - Danny Alvin, un italoamericano alla batteria


Il 5 dicembre 1958 il batterista Danny Alvin muore a New York City, la città dov’è nato il 29 novembre 1902. Figlio d’italiani e registrato all’anagrafe con il nome di Daniele Viniello inizia a fare della musica il suo mestiere nel 1918 quando entra a far parte della band che accompagna la cantante Sophie Tucker, l'ultima delle Red-Hot Mamas. Ci resta tre anni. Nel 1922 si esibisce a Chicago con vari gruppi d’ispirazione jazz, tra i quali spiccano quelli di Frankie Quartell e di Charlie Straight. Dopo un periodo trascorso con grandi orchestre da ballo dal 1930 al 1933 forma e dirige una propria band. Chiusa l’esperienza come leader si unisce al pianista Art Hodes con cui lavora senza interruzioni per tre anni. Nel 1936 si trasferisce a New York dove suona prima con il gruppo di Wingy Manone e poi con quello di Georg Brunis al Nick's. Proprio al Nick’s, dopo essere stato ingaggiato come musicista fisso, accompagna Brad Gowans, Mezz Mezzrow ed Eddie Condon. Nel 1947 è a Chicago col cornettista Doc Evans e con il pianista George Zack. Negli anni Cinquanta torna a sperimentarsi in qualità di leader formando una propria orchestra cui dà il nome di The Kings of Dixieland. Ritiratosi dalle scene dal 1955 fino alla morte gestisce un frequentatissimo jazz club.


04 dicembre, 2019

4 dicembre 2003 - A Bologna il pianoforte-contro di Gaetano Liguori


Alle 18,30 di giovedì 4 dicembre 2003, alla Libreria Melbookstore, Bologna incontra il pianoforte di Gaetano Liguori, uno dei personaggi più popolari ed emblematici del jazz italiano. L’incontro prende a pretesto la presentazione di "Gaetano Liguori, un pianoforte contro", un libro-intervista scritto da Claudio Sessa. Nel pomeriggio bolognese, guidato dallo scrittore Stefano Tassinari, si ripercorrono gli ideali di una generazione alternando le parole alla musica. Cresciuto nella Milano della contestazione e dei movimenti studenteschi, Liguori ha incarnato con entusiasmo la figura dell'artista militante, vivendo e traducendo in musica quarant'anni di storia d'Italia. Dalla creazione di un "circuito alternativo" che porterà nuove forme di cultura in ogni piazza della Penisola alla solidarietà internazionalista, dal rapporto con altre forme d'arte (teatro, cinema, poesia) all'approfondimento delle civiltà non occidentali, il lungo itinerario espressivo e umano di Liguori è la miglior prova che non c’è chi invece di atteggiarsi velleitariamente a profeta, ha tentato di cambiare davvero il mondo, giorno dopo giorno, con dedizione e senso della realtà, adattandosi alle mutate condizioni dei tempi senza perdere di vista i valori più veri.



03 dicembre, 2019

3 dicembre 1912 - Beppe Carta, un sardo al contrabbasso


Il 3 dicembre 1912 nasce a Bosa, in provincia di Oristano, Giuseppe Carta detto Beppe o anche Peppe, uno dei personaggi chiave del jazz italiano del primo dopoguerra. Diplomatosi in contrabbasso all'Accademia di Santa Cecilia a Roma, già negli anni Trenta fa parte di varie orchestre italiane e straniere guidate da grandi direttori come Alfredo Vitelli, Dick Stauff, Bruno Martelli, Armando Trovajoli, Enzo Ceragioli, Piero Morgan, Gorni Kramer e tanti altri. Dal 1939 al 1941 è a New York in pianta stabile. Nella Grande Mela suonato con vari musicisti americani. Nel 1944 e nel 1945 insieme a Mario Ammonini, Rolando Cecconi, Adriano De Carolis e Libero Tosoni fa parte del quintetto swing di Armando Trovajoli. All’inizio degli anni Cinquanta se ne va in Sudamerica e per ben tre anni, dal 1953 al 1956, suona a Bogotà (Colombia). Di ritorno in Italia partecipa all'attività dell'Hot Club di Roma entrando poi a far parte dell'orchestra di Musica leggera della Rai di Roma.
Muore nel mese di luglio del 1997.

02 dicembre, 2019

2 dicembre 1990 – Se ne va Sergio Corbucci, il regista che giocava con gli stereotipi


Il 2 dicembre 1990 muore Sergio Corbucci, un grande creatore di pellicole di successo. La sua morte avviene a Roma la stessa città in cui è nato il 6 dicembre 1927. Non ha ancora vent’anni quando entra in contatto con il mondo del cinema lavorando come giornalista. Le sue prime esperienze sul campo iniziano nei primi anni Cinquanta quando diventa aiuto di un celebre artigiano del cinema dell’epoca come il regista Aldo Vergano. Varie sceneggiature prevalentemente di commedie precedono il suo debutto alla regia nel 1951 con il drammone Salvate mia figlia. Dotato di un buon intuito e di un notevole eclettismo si cimenta con successo nei generi più disparati. Il primo grande successo arriva nel 1961, con I due marescialli, una commedia degli equivoci interpretata da Totò e Vittorio De Sica. Tra i principali protagonisti della stagione del western all’italiana ottiene negli anni successivi grandi successi dirigendo attori come Giancarlo Giannini, le coppie Renato Pozzetto – Adriano Celentano, Vittorio Gassman – Paolo Villaggio e Bud Spencer Terence Hill, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Laura Antonelli, Enrico Montesano e molti altri. Con i suoi amici Sergio Leone e Duccio Tessari è stato considerato uno dei migliori esponenti del western all’italiana, genere nel quale gioca a rovesciare gli stereotipi fissando nuove regole destinate a essere superate dalla pellicola successiva. Se in Django la scelta è quella di portare all’estremo la concezione dell’antieroe, in Johnny Oro del 1966 porta nella storia un branco di cattivissimi apaches rompendo la convenzione tacita dei western all’italiana che esclude di ricalcare la contrapposizione tutta statunitense tra “indiani e cow boy”. L’anno dopo si ripete con Navajo Joe un film che ha per protagonista un indiano interpretato dal quasi debuttante Burt Reynolds. Il gusto per l’azzardo narrativo lo porta a far vincere il cattivo e morire il buono ne Il grande silenzio del 1969 mentre le scommesse sui personaggi lo spingono a far debuttare la rockstar francese Johnny Halliday nel ruolo da protagonista ne Gli specialisti, sempre del 1969.


01 dicembre, 2019

1° dicembre 1914 – Nasce la Maserati


Il 1° dicembre 1914 Alfieri Maserati, un giovanotto di origini vogheresi con la passione delle corse automobilistiche, apre a Bologna la Società Anonima Officine Alfieri Maserati un’Officina Meccanica autorizzata a dare assistenza alle vetture prodotte dalla Isotta-Fraschini. Alfieri è considerato una sorta di “mago” della meccanica e un geniale inventore. A lui si deve una candela d’accensione per motori a scoppio prodotta in serie in una fabbrica a Milano. Trasportata anche la produzione di candele in quel di Bologna, inizia a lavorare sui motori. Proprio montando sul telaio di un’auto della Isotta-Fraschini un motore aereo Hispano Suiza realizza la sua prima vettura vincente. Nel 1924 su incarico della Diatto progetta e costruisce un motore di 2000 cc, innovativo per quei tempi. Lo monta su una vettura della casa e, indossati casco e occhialoni, lo porta alla vittoria nella Parma-Poggio di Berceto. Quella che era una sorta di passione diventa l’attività prevalente. I motori di Alfieri Maserati sono competitivi e vincenti. Nel suo lavoro non è solo. Con lui ci sono i fratelli Ettore, Ernesto e Bindo, che nel 1932 lascerà la Isotta-Fraschini per aiutare i fratelli dopo la prematura morte di Alfieri. Ai tre va aggiunto anche Mario, che pur non essendo meccanico ma pittore contribuirà a suo modo alla causa comune disegnandone il marchio del Tridente ispirato alla statua di Nettuno di Bologna. Proprio nell’officina bolognese nel 1926 vede la luce la prima vettura interamente progettata in casa, la Maserati Tipo 26. La morte di Alfieri cambia le prospettive dell’azienda con l’emblema del tridente sul cofano. I fratelli nel 1937 cedono le Officine Alfieri Maserati e la Fabbrica Candele Maserati, ad Adolfo e Omer Orsi, industriali siderurgici Modenesi, mantenendo però il ruolo di responsabili tecnici della marca fino al 1947. In quell’anno, liberi dal contratto con Orsi fonderanno la OSCA (Officine Specializzate Costruzione Automobili) un’azienda con la sede in San Lazzaro di Savena che costruirà piccole Sport Cars e si cimenterà anche nelle corse in Formula 2.


30 novembre, 2019

30 novembre 1957 – Beniamino Gigli, il più grande tenore


Il 30 novembre 1957 muore a Roma Beniamino Gigli. Considerato uno dei più grandi tenori di tutti i tempi nasce il 20 marzo 1890 a Recanati e fin dalla più tenera età mette in mostra notevoli qualità vocali. Le umili condizioni della famiglia, però, sembrano costituire un ostacolo alla sua carriera. Nel 1911, insieme al fratello si trasferisce a Roma e, dopo varie peripezie, riesce a entrare al liceo musicale di Santa Cecilia. Nel 1914, dopo essersi diplomato a pieni voti, vince a Parma il concorso per cantanti lirici che segna l'inizio della sua straordinaria carriera di tenore. Il 15 ottobre 1914 debutta a Rovigo ne “La gioconda”, cui segue la “Manon” di Massenet al Teatro Carlo Felice di Genova. Da quel momento la sua popolarità cresce a dismisura. Nel numero di maggio del 1924, Musical America, la più autorevole rivista internazionale di musica di quegli anni, lo proclama “il più grande tenore del mondo”. Parallelamente alla carriera di tenore lirico sviluppa un’intensa attività nel campo della musica leggera e anche il cinema si accorge di lui e ne fa un divo di film musicali come “Non ti scordare di me” nel 1935 e “Mamma” nel 1940. Tra le sue interpretazioni più famose, nel campo della musica leggera, oltre a un vasto repertorio di canzoni napoletane ci sono brani come Mamma, Ave Maria, Non ti scordar di me e La canzone del cuore.

29 novembre, 2019

29 novembre 1917 - Nat Gershman, un violoncello prestato al jazz


Il 29 novembre 1917 nasce a Philadelphia il violoncellista Nathan Gershman detto Nat. Cresciuto in una famiglia di musicisti (suo fratello è un noto violinista) comincia a studiare musica da ragazzo, perfezionandosi al Curtis Institute of Music di Philadelphia. Prima di passare alla musica leggera e al jazz si dedica attivamente per molti anni alla musica classica, esibendosi dal 1940 al 1947 anche con la Cleveland Symphony Orchestra. Trasferitosi a New York all'inizio degli anni Cinquanta lavora intensamente come musicista di studio per varie stazioni radio-televisive e partecipando a varie sedute di registrazione con jazzisti di primo piano. La prima vera occasione per farsi conoscere dal pubblico arriva all'inizio del 1958 quando raggiunge Los Angeles per entrare a far parte del gruppo di Chico Hamilton, che con Fred Katz ha già sperimentato con successo l’utilizzo nel jazz del violoncello. Con il quintetto di Hamilton Nat Gershman lavora intensamente per diversi anni, partecipando ai maggiori festival e registrando una nutrita serie di dischi, tra i quali spiccano quelli pubblicati dalla Warner Brothers con la partecipazione di Eric Dolphy il cui flauto si integra magistralmente con le armonie ricamate dal violoncello di Gershman, contribuendo a creare un suono originale e suggestivo.

28 novembre, 2019

28 novembre 1969 – Le tute blu invadono Roma

Il 28 novembre 1969 la mobilitazione dei metalmeccanici, impegnati in una difficile trattativa per il contratto tocca il culmine quando centomila lavoratori e lavoratrici arrivati con cinque treni speciali e centinaia di pullman sfilano per la prima volta nella vie di Roma in una grande manifestazione nazionale. È la risposta delle organizzazioni sindacali alla rottura delle trattative voluta dalla Confindustria. Al centro delle manifestazioni non c’è soltanto la richiesta di un aumento dei salari che sono tra i più bassi d’Europa ma la stessa qualità del lavoro. In quel periodo, come denuncia l'allora segretario della CISL, Pierre Carniti, sui luoghi di lavoro «...in Italia c'è un morto ogni ora, un invalido ogni venti minuti, un infortunio ogni 4 secondi». Sono soprattutto le giovani generazioni a chiedere il rispetto dei diritti e della dignità umana. Dopo il 1968, l’anno che ha segnato l’inizio anche in Italia della contestazione studentesca con l’occupazione delle scuole e delle università, nel 1969 irrompono sulla scena gli operai. Ricorda Pio Galli che «...La manifestazione esplodeva in un crescendo di rumori – campanacci, tamburi, fischietti, megafoni – che turbava l’ordine di una città abituata a ignorare i sacrifici, l’emarginazione, il logoramento fisico e psichico della vita in fabbrica. Ma era anche una festa, un momento di liberazione dal vincolo e dalla disciplina del lavoro alla catena, un’espressione di sé negli slogan gridati e scritti sui cartelli, nei pupazzi portati in corteo. In piazza del Popolo, all’imbrunire, si accesero migliaia di fiaccole. Un elicottero della polizia ci sorvolava, provocando fischi e reazioni. Dal palco dissero che la televisione stava filmando la manifestazione. Quel giorno non cadde un vetro. Centomila metalmeccanici avevano preso possesso della città e sfilato per ore, senza che accadesse un incidente. Dal dopoguerra ad oggi non c’erano mai state manifestazioni a Roma…un corteo operaio possente, composto e determinato fece impressione. I metalmeccanici cominciavano a contare…»



27 novembre, 2019

27 novembre 1981 – Non registrate!


Il 27 novembre 1981 Elton John, Gary Numan, Cliff Richard, i 10CC e i Boomtown Rats sono i testimonial di una curiosa, quanto martellante campagna pubblicitaria lanciata dalla British Phonographic Industry, l’associazione che raggruppa quasi tutte le più importanti case discografiche britanniche, denominata “Home taping is killing music” (la riproduzione casalinga uccide la musica). L’obiettivo dichiarato della campagna è quello di contenere il fenomeno della riproduzione su cassette dei dischi, ritenuto uno dei principali motivi di un gravissimo calo delle vendite di materiale musicale che sta mettendo in crisi anche le grandi case discografiche. In realtà, come spesso accade, quella che viene individuata come causa non è che l’effetto di una grave crisi mondiale non solo economica dell’intero settore. All’inizio degli anni Ottanta le major discografiche, dopo aver contrastato ferocemente le iniziative indipendenti e autogestite che negli anni precedenti avevano guidato le innovazioni caricandosene i rischi, non sanno più che pesci pigliare. A questo va aggiunto che le sempre più ampie sacche di crisi economica rendono insostenibile il costante lievitare dei prezzi dei dischi. Non tutti pensano, però, che i nemici siano i registratori. In Italia, per esempio, nello stesso periodo le case discografiche, nel tentativo di rilanciare il mercato agiscono proprio sulla leva dei prezzi, ripubblicando antologie di vecchi successi in collane economiche e inventando soluzioni alternative come i Q-disc, un disco di grande formato a medio prezzo che contiene solo quattro brani: una sorta di via di mezzo tra il singolo e l’album. I risultati sono incoraggianti e dimostrano che più che la riproduzione casalinga sono i costi e la mancanza di idee a uccidere la musica. Anche in Gran Bretagna c’è chi si accorge di questo fatto e si dissocia dal fronte anti-registrazioni. È la piccola ma combattiva Island Records di Chris Blackwell che, incurante delle critiche, getta benzina sul fuoco lanciando le cassette “One plus One” che su un lato contengono un intero album di uno degli artisti della scuderia e sull’altro offrono la stessa durata di nastro vergine da registrare.


26 novembre, 2019

26 novembre 1936 – Leopoldo Fregoli, il trasformista


Il 26 novembre 1936 muore a Viareggio Leopoldo Fregoli, un personaggio leggendario del varietà italiano nato a Roma il 2 luglio 1867. Attore, cantante e soprattutto trasformista, dopo aver debuttato nel varietà come macchiettista e illusionista, nel 1893 forma la Compagnia di Varietà Internazionale e, successivamente, la Compagnia Fin di Secolo nelle quali canta, recita, interpreta personaggi maschili e femminili con un susseguirsi frenetico di trasformazioni, tanto che la parola "fregolismo" diventa un termine proverbiale. Il suo successo travalica i confini nazionali per arrivare a New York, Londra, Pietroburgo, Berlino, Vienna e, soprattutto, a Parigi dove nel 1910 manda in visibilio il pubblico esibendosi peraltro un francese perfetto. Nel 1922 travolto dai debiti dovuti a investimenti sbagliati vende tutto quello che gli rimane e nel 1924 parte per l'ultima tournée in Sudamerica. Nel 1925, ancora all'apice della popolarità da' l'addio alle scene e si ritira a Viareggio la città in cui morirà una decina d’anni dopo.



25 novembre, 2019

25 novembre 1921 - Matthew Gee jr, un trombone sofisticato


Il 25 novembre 1921 nasce a Houston, nel Texas Matthew Gee jr. considerato uno dei principali trombonisti di stile be bop del dopoguerra. Influenzato soprattutto agli inizi da Trummy Young, preferisce poi prendere la strada indicata da J. J. Johnson adottando uno stile molto sofisticato che gli consente di trasferire su uno strumento massiccio come il trombone le melodie complicate e sottili proprie del be bop. Gee questa sua caratteristica la conserva sia quando suona in piccoli gruppi sia quando si trova in formazioni più grosse. Da giovane affina la sua preparazione musicale all'Alabama State Teachers' College e quindi comincia a suonare professionalmente con musicisti come Joe Morris, Gene Ammons, Dizzy Gillespie e Count Basie. Nel 1952 collabora con il sassofonista Illinois Jacquet con cui compie una tournée in Europa nel 1954. Da allora continua a suonare sempre su buoni livelli. Nel dicembre del 1959 fa parte della formazione orchestrale di Duke Ellington che incide gli undici pezzi contenuti nell’album Blues in Orbit nel quale suona anche il flicorno in Swingers Get. Muore il 18 luglio 1979 a New York.



24 novembre, 2019

24 novembre 1991 – Finisce il calvario di Freddie Mercury


Il 24 novembre 1991 è giovedì. Quel giorno, consumato da una lunga agonia, muore di AIDS Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar nel 1946, in arte Freddie Mercury, uno dei simboli degli anni Ottanta, emblema rutilante dei Queen. Qualche tempo prima alla domanda «Come vorresti essere ricordato dai posteri, dal mondo dello spettacolo?», aveva risposto «Oh, non lo so. Non ci ho pensato... non so, morto e andato. No, non ci ho pensato e non ci penso... mio dio, ma quando sarò morto si ricorderanno di me? Non voglio pensarci, dipende da voi. Credo che quando sarò morto non m’importerà gran che, anzi a me non fregherà proprio più niente». La sua morte diventa un simbolo della battaglia contro la terribile malattia che, nell'immaginario collettivo, "uccide la diversità". Lo diventa suo malgrado, amplificando e, in parte, sublimando le incertezze e le contraddizioni della sua vicenda personale e artistica. «La nostra è una guerra contro un nemico implacabile. Non c'è tempo per le incertezze né per le giustificazioni: chi non c'è è un disertore» tuona Elizabeth Taylor, uno dei primi personaggi del mondo dello spettacolo a impegnarsi concretamente contro l'AIDS. E nella prima ondata di mobilitazione Freddie non c'è. Né lui, né il suo gruppo vivono la passione politica o l'impegno sociale. Pur essendo musicalmente nati negli anni Settanta interpretano con largo anticipo la cultura degli anni Ottanta, del disimpegno, della fuga dai valori condivisi e della ricerca estetizzante. All'epoca dell'esplosione del punk, nel 1977, i Queen sono l'incarnazione di tutto ciò che il movimento disprezza pubblicamente. Nel 1984 finiscono addirittura nella "lista nera" compilata dalle Nazioni Unite degli artisti che, fregandosene della lotta contro l'apartheid, accettano di suonare in Sudafrica. Per ben otto sere consecutive suonano a Sun City, la Las Vegas della nazione simbolo del razzismo, città che per altri loro colleghi è divenuta invece il simbolo di una battaglia planetaria contro la discriminazione razziale. Non c'è premeditazione, ma semplice disinteresse per tutto ciò che accade fuori dalla loro ristretta visuale. Professionali, senza opinioni e buoni venditori di se stessi diventano una sorta di band esemplare per il music business e anche l'omosessualità di Freddie lungi dall'essere proclamata come una bandiera di libertà viene vissuta come un fatto privato e personale come si conviene alle "persone per bene". Pur essendo campioni di vendite sono però poco amati dalla critica che considera la loro storia musicale sostanzialmente finita nel 1975 con la pubblicazione di A night at the Opera, l'album di Bohemian Rhapsody, una sorta di manifesto musicale che mescola in modo geniale hard rock, pomposità barocca e melodramma. Pochi mesi prima della morte di Mercury l'idea di un gruppo ormai arrivato alla frutta è divenuta più generale. Ciascuno dei componenti sembra più impegnato nei propri progetti individuali per far pensare a un nuovo colpo d'ala. Lo stesso Freddie coltiva con attenzione le potenzialità della sua straordinaria voce, uno strumento capace di valorizzare canzoncine di cui, senza la sua interpretazione, non rimarrebbe neppure il ricordo. In questa situazione si inserisce la morte di Freddy. Una fine straziante, che lo accomuna a moltissimi altri, e lo trasforma in un simbolo della lotta contro l'AIDS. È la catarsi. La sua mai rivendicata omosessualità si fa bandiera e il suo calvario finale diventano l'emblema di un impegno internazionale contro un morbo che ha fra i suoi più stretti e fedeli complici la discriminazione. In pochi mesi viene organizzato nello stadio di Wembley a Londra “A concert for life - Tribute to Freddie Mercury”, un grande concerto i cui proventi sono destinati a finanziare la ricerca contro l'AIDS. Centinaia di milioni di spettatori assistono all'evento, rimandato in settanta nazioni diverse, compreso anche quel Sudafrica, finalmente uscito (e non grazie ai Queen) dal lungo tunnel dell'apartheid. La vera anima dell'evento è da ricercare nel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo da anni impegnati su questo fronte e che hanno un'agguerrita testimonial proprio nell'attrice Elizabeth Taylor. Nessuno si nega all'invito. Sul palco allestito nello stadio di Wembley sfila l'élite della musica pop internazionale di quel periodo, dai Metallica agli Extreme, dall'ideatore di Live Aid Bob Geldof agli Spinal Tap, dai Def Leppard ai Guns N’ Roses, dall'italiano Zucchero agli irlandesi U2 in collegamento via satellite da Sacramento in California. Particolarmente emozionanti sono le esecuzioni delle canzoni di Freddie Mercury da parte di una lunga serie di amici, a partire da George Michael che canta Year of 39 da solo, These are days of our lives con Lisa Stanfield e Somebody to love insieme al London Community Gospel Choir. David Bowie esegue Under pressure in coppia con Annie Lennox mentre Elton John dedica all'amico scomparso le commoventi versioni di Bohemian rhapsody con l'aiuto di Axl Rose e, soprattutto, di The show must go on, il brano che i Queen giurano solennemente di non eseguire più dopo la morte del loro leader. La morte di Freddy esalta la solidarietà ma anche il music business che, ancor più di quando era in vita, ne sfrutta voce, immagine, registrazioni e inediti al di là di ogni immaginazione come accade con il miliardario remix di Living on my own, una disinvolta operazione commerciale priva di rispetto ma molto redditizia. Il music business oggi lo ricorda con un'alluvione di iniziative commerciali che non aggiungono nulla al suo valore artistico. C’è chi preferisce ricordarlo per quello che era: un'artista con luci e ombre, una voce unica, ma soprattutto un uomo, una persona, uno fatto di carne e ossa come noi che è morto di AIDS dopo un lungo calvario di sofferenze.



23 novembre, 2019

23 novembre 1985 – Joe Turner, grande non soltanto per la mole


Il 23 novembre 1985 un infarto chiude per sempre la carriera di Big Joe Turner una delle grandi voci del blues, considerato un “padre nobile” del rock and roll e del rhythm and blues. Ha settantaquattro anni e da almeno quaranta si muove a fatica a causa di un’acuta e dolorosa forma d’artrite, oltre che per la mole che gli è valsa il nomignolo di “Big Joe”. Canta quasi sempre da seduto appoggiandosi al suo bastone. Con la sua voce piena e dai toni baritonali è stato un esponente di primo piano del “blues di Kansas City”, quel genere in cui la vena triste e malinconica del blues rurale è stata soppiantata da un’atmosfera maliziosa e divertita che ha posto le basi per l’avvento del rhythm and blues. Negli anni Cinquanta, poi, è maestro e anticipatore del rock and roll. A lui si devono le prime versioni di brani entrati di prepotenza nella storia della musica di quel periodo come Corrine, Corrine, Flip flop and fly e Shake rattle and roll. Nato a Kansas City, nel Missouri, il 18 maggio 1911 come molti ragazzi neri arriva alla musica quasi per caso. Comincia, infatti, a cantare il blues con vari gruppi della sua città nei momenti liberi che gli lascia il lavoro. Verso la fine degli anni Venti coltiva qualche ambizione in più e inizia a collaborare con il pianista boogie Pete Johnson. La sua carriera prende decisamente il volo soltanto a partire dal 1938, quando si occupa di lui un grande talent scout come John Hammond che lo porta a New York e gli procura varie scritture. Ha molti amici tra i jazzisti con i quali coltiva saltuari rapporti di collaborazione che a volte sfociano in splendidi album come The bosses: Joe Turner – Count Basie, con l'orchestra di Count Basie, o The trumpet kings meet Joe Turner, con Dizzy Gillespie, Roy Eldridge, Harry Sweet Edison e Clark Terry. Alla fine degli anni Settanta, con l’avanzare dell’età e la sempre più ridotta capacità di movimento, riduce i suoi impegni, senza però rinunciare a coltivare nuovi progetti. Nell’estate del 1985 si torna a parlare di un suo possibile ritorno in sala di registrazione per una sorta di antologica carrellata sulla sua carriera insieme a molte star del rock. La morte improvvisa cancella il progetto.



22 novembre, 2019

22 novembre 1891 – Tenete d’occhio quel Pietro Gori

Il 22 novembre 1891 una nota riservata inviata dal Ministero degli Interni a tutti i Prefetti del Regno d'Italia prevede che l’avvocato Pietro Gori venga sottoposto a «speciale sorveglianza» per il suo carattere «audace» e per il suo «ingegno svegliato». Tre anni dopo, nel 1894, dopo l’attentato compiuto da Sante Caserio contro il presidente della repubblica francese Marie François Sadi Carnot, l'Italia è attraversata da un'ondata di persecuzioni e attacchi contro gli anarchici. Uno dei principali bersagli della stampa conservatrice è proprio lui, accusato di essere uno degli ispiratori dell'attentato. Ben presto si capisce che l'ondata reazionaria non può che finire con il suo arresto e la condanna per «istigazione a delinquere». Cedendo alle insistenze dei compagni che gli sono più vicini, Gori accetta di espatriare clandestinamente e si rifugia nella vicina Confederazione Elvetica che da tempo ospita una nutrita colonia anarchica composta da esuli provenienti da vari paesi del mondo. La mitica Svizzera Repubblicana sta però iniziando a ripensare sul suo ruolo di ospitale paradiso per gli esuli. Nel mese di gennaio del 1895 assume la decisione di espellere gran parte dei militanti anarchici che si trovano all'interno dei suoi confini. Anche Pietro Gori è tra gli arrestati che, dopo una quindicina di giorni di permanenza in carcere, vengono fatti salire a forza su un treno speciale che li porta oltre confine. Alla stazione, in occasione della loro partenza, viene cantata per la prima volta Addio Lugano bella, conosciuta anche come Addio a Lugano, una delle più popolari canzoni anarchiche italiane. La musica è presa a prestito da un valzer in voga in quel periodo (secondo alcuni pare si intitolasse Addio Sanremo bella) e le parole sono da attribuire allo stesso Pietro Gori che l'avrebbe scritta durante la permanenza in carcere. Non sono mancate ricostruzioni diverse, tendenti a ricondurre il testo del brano a una sorta di elaborazione collettiva, ma anche in questo caso, sul fatto che la trascrizione finale sia opera dell'anarchico toscano non sussiste praticamente alcun dubbio. La melodia malinconica e le parole in cui si fondono insieme rabbia, nostalgia e speranza di ritorno sono gli elementi che hanno regalato ad Addio Lugano bella una larga popolarità anche tra i canti degli emigranti, nelle quali è diventata un po' il simbolo dell'esilio forzato. Il merito è della musica, ma anche della grande ispirazione poetica di Pietro Gori, non a caso ribattezzato, in un'opera teatrale di Sergio Liberovici, Emilio Jona e Massimo Castri: “Anarchico pericoloso e gentile”. La popolarità di questa canzone non conosce stanchezza e anche il pop e il rock se ne impossessano ma senza particolari stravolgimenti, se si eccettua la curiosa citazione in Lugano addio un brano inciso nel 1977 dallo scomparso Ivan Graziani.

21 novembre, 2019

21 novembre 1956 – Piero Fidelfatti, un mago del remix


Il 21 novembre 1956 nasce a Padova il disk jockey Piero Fidelfatti. Nel 1981, dopo aver lavorato in varie discoteche del Veneto, inizia a produrre mix di dance riscuotendo un notevole successo soprattutto in Germania, Spagna e Grecia. Nel 1983, Somebody, un suo disco pubblicato con il nome di Video e remissato da David Morales, ottiene un lusinghiero riscontro sul mercato statunitense e arriva al quinto posto della classifica olandese. Nel 1984 vince, con il nome di Time, "Un disco per l'estate", con Don't stop e quattro anni dopo pubblica Baila Chico, uno dei primi brani italiani di house. Nel 1989 inizia a firmare con il proprio nome i suoi dischi e con Just wanna touch entra nella classifica britannica dei singoli più venduti.