24 dicembre, 2019

24 dicembre 1931 - Ray Bryant, il pianista del Blue Note


Il 24 dicembre 1931 nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il piccolo Raphael Homer Bryant, destinato a diventare un famoso pianista con il nome di Ray Bryant. Cresciuto in una famiglia di musicisti con la madre e una sorella pianiste e il fratello maggiore contrabbassista, inizi a prendere confidenza con lo studio delle sette note fin dai primi anni di vita. Il suo primo strumento è il contrabbasso e soltanto dopo aver terminato le scuole secondarie passa al pianoforte. Nel 1950 ottiene la prima vera scrittura della sua carriera da Mickey Collins. Nei tre anni successivi suona con Tiny Grimes e Billy Kretchmer. Assunto come pianista fisso al Blue Note di Philadelphia accompagna musicisti famosi come Charlie Parker, Sonny Stitt, Miles Davis, Sonny Rollins e molti altri. Proprio il lavoro sul pianoforte del locale gli dà modo di farsi conoscere e apprezzare dalle stelle che si trova ad accompagnare. Alcuni di loro, infatti, lo chiamano a New York per partecipare all'incisione dei loro dischi. Dal 1956 diventa il pianista di Carmen McRae alternando l’impegno d’accompagnatore con varie esperienze nei gruppi di Dizzy Gillespie, Max Roach, Jo Jones, Charlie Shavers e Sonny Rollins. Nel 1959 si mette in proprio e da allora preferisce suonare quasi esclusivamente in trio o da solo. Muore il 2 giugno 2011.



23 dicembre, 2019

23 dicembre 1996 – Rina Ketty, un'italiana a Montmartre


Il 23 dicembre 1996 muore a Cannes Rina Ketty, al secolo Rina Picchetto, l’italiana arrivata per caso nella capitale francese e divenuta poi una stella luminosa della canzone. Sul luogo d'origine c'è un mistero. Per alcuni biografi Rina Ketty nasce il 1° marzo 1911 a Torino, per altri a Sarzana, al n° 6 di Via Emiliana. Dei suoi primi anni non si sa molto anche se la leggenda racconta di una fanciulla che alterna lezioni di “bel canto” con attività d’arte domestica destinate a fare di lei una perfetta ragazza da marito. Vero e falso si confondono fino a quando, all’inizio degli anni Trenta, parte per Parigi dove dovrebbe fermarsi giusto il tempo di fare visita alle zie lì emigrate. Il passaggio alla capitale francese ha l’effetto di una scossa elettrica. La ventenne Rina respira a pieni polmoni l’aria della capitale francese, si lascia catturare senza opporre alcuna resistenza dalle suggestioni della sua vita culturale e diventa una frequentatrice assidua di quella straordinaria mescola di musicisti, poeti, pittori, filosofi, scrittori e illusi vari che si autodefinisce Comune Libera di Montmartre. I suoi componenti non hanno una sede vera e propria, ma tanti luoghi di ritrovo quanti sono i locali che si affacciano sulle vie che innervano il quartiere di Montmartre. Uno di questi è il “Lapin à Gill”. Proprio qui, in una serata del 1932, l'italiana arrivata a Parigi per far visita alle zie trova il coraggio di far sentire la sua voce ai compagni d’avventura e al pubblico presente. Non canta canzoni intere, ma soltanto qualche ritornello di brani più in voga. Lei accenna e, quando non si ricorda le parole, gli amici l’aiutano a completare il brano. Nonostante l’approssimata esibizione il pubblico resta affascinato dalla personalità di quella ragazza e quell’accento italiano che ne caratterizza la dizione diventa un elemento aggiuntivo al suo fascino. Intrigante ed esotico è destinato a essere parte della sua cifra artistica. Quella sera a Montmartre Rina Picchetto diventa definitivamente Rina Ketty. Il buon successo riscosso dall’improvvisata esibizione al “Lapin à Gill” convince Rina Ketty delle sue potenzialità come cantante, ma soprattutto convince i proprietari dei vari locali di Montmartre la scritturano. La ragazza assembla un repertorio imperniato sulle canzoni più adatte alla sua voce e al suo stile nel quale spiccano brani di Paul Delmet, Gaston Couté, Théodore Botrel e Yvette Guilbert. Il più assiduo tra i musicisti che l’accompagnano è il fisarmonicista Jean Vaissade, un tipo che conosce bene gli umori del pubblico parigino e che consiglia a Rina di non modificare per niente il suo accento italiano. «È esotico e sentimentale al tempo stesso. Invece di nasconderlo dovresti metterlo maggiormente in evidenza con brani costruiti a questo scopo». Jean non è soltanto il suo consigliere artistico. Innamorato di lei fin dal primo incontro diventa ben presto il suo confidente, amico e infine amante. Grazie alla sua intuizione nasce il mito della “chanteuse italienne exotique et sentimentale”, la cantante italiana esotica e sentimentale, capace di far battere forte il cuore degli abitatori della notte parigina. Di locale in locale, di concerto in concerto la sua popolarità supera i confini di Montmartre per allargarsi all’intera capitale. Di lei si accorge anche la nascente industria discografica. Dopo un contratto firmato negli ultimi mesi del 1935 a partire dal 1936 inizia a frequentare con una certa assiduità le sale di registrazione. Tra le sue prime incisioni spicca un’originale e affascinante versione di Si tu reviens, un brano scritto nel 1935 da Saint-Giniez e Tiarko Richepin per Réda Caire e che verrà ripreso anche da Berthe Sylva. Per uno di quegli strani paradossi così caratteristici del mondo dello spettacolo quella canzone, che oggi è considerata una delle più significative del primo repertorio della cantante, passa quasi inosservata mentre ottengono un buon successo brani come La Madone aux fleurs o Près de Naples la jolie decisamente inferiori sia dal punto di vista musicale che da quello della qualità interpretativa. A partire dal 1937 Rina Ketty arricchisce il suo repertorio con alcune personali versioni francesi di successi italiani e internazionali, tra i quali spiccano Prière à la Madone, Sombreros et mantilles e, soprattutto quella Rien que mon coeur con la quale vince il Grand Prix du Disque del 1938. Nello stesso anno sposa il fisarmonicista Jean Vaissade, l’uomo che le è stato al fianco e al quale deve gran parte delle sue fortune. Nello stesso anno interpreta e pubblica in disco per la prestigiosa etichetta Pathé J'attendrai, il brano più famoso e, insieme, il più grande successo della sua carriera. Si tratta dell’adattamento di una canzone italiana scritta da Dino Olivieri, intitolata Tornerai che a sua volta trae ispirazione da un'aria della “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini. La canzone ottiene un enorme successo tanto da essere ancora oggi considerata una delle più significative degli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale. Il pubblico accorre numerosissimo ai suoi concerti e le sue esibizioni all’ABC, all'Européen e al Bobino entrano nella leggenda. È forse il miglior momento dell’intera carriera della cantante, che coltiva il suo accento italiano come un fiore prezioso da preservare dalla corruzione, e molti autori scrivono le canzoni in modo da far risaltare la sua dizione e il suo fraseggio elaborato. Nel giugno del 1939 Rina Ketty fa un'incursione nel repertorio classico con il brano Mon coeur soupire, un adattamento dell’aria "Voi che sapete" da “Le nozze di Figaro” di Mozart. Solo due anni dopo il matrimonio il suo rapporto con Jean Vaissade va in crisi e alla fine del 1940 i due si sono già separati definitivamente. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale l’Italia fascista occupa parte del territorio della Francia ormai prostrata dall’invasione nazista. Non sono tempi bellissimi per gli artisti di origine italiana e Rina Ketty vive un po’ in disparte limitando le sue esibizioni alla sola Svizzera. Nel 1945, dopo la Liberazione, rientra nel giro con un concerto all'Alhambra seguito da cinque mesi di tournée in Francia. I tempi però sono cambiati e nuovi personaggi femminili stanno conquistando il pubblico che un tempo era stato solo suo. Pur non toccando più i vertici di grazia raggiunti prima della guerra ottiene ancora un buon successo grazie a brani come Sérénade argentine, La samba tarentelle e La Roulotte des gitans. La Francia però le va stretta. Nel 1954 attraversa l’oceano per andare in Canada dove resta fino al 1965 quando, presa da nostalgia, torna sulle scene francesi. L’epoca dei trionfi è ormai lontana e lei, sia pur con qualche resistenza, pian piano si abitua al fatto che la musica non può più essere il suo principale interesse. Trova anche un nuovo amore in Jo Harman che diventa il suo secondo marito e si trasferisce a Cannes dove si occupa di restauri. Nel 1991 il ministro della cultura della Repubblica Francese Jack Lang le conferisce il titolo di Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere, la più importante onorificenza di Francia nel campo della cultura. Nel marzo 1996 appare per l’ultima volta sulla scena e nove mesi dopo il suo cuore cessa per sempre di battere all'ospedale delle Broussailles a Cannes.


22 dicembre, 2019

22 dicembre 1910 – Reunald, il cugino di Eldridge


Il 22 dicembre 1910 nasce a Indianapolis, nell’Indiana, il trombettista Reunald Jones sr. Il ragazzo cresce in una famiglia nella quale la musica è un po' il pane quotidiano, visto che il padre, insegnante al conservatorio, cerca di trasmettere ai figli la passione per il rigo musicale. Si può dire che il destino di Reunald e di gran parte della parentela sia segnato fin dalla nascita. Due suoi fratelli, pur senza restare nella storia, suoneranno professionalmente e il talentuoso cugino Roy Eldridge entrerà nelle enciclopedie come uno dei più grandi trombettisti che il jazz abbia mai conosciuto. Proprio quest'ultimo finirà per oscurare in parte la carriera di Jones, costretto spesso a non brillare di luce propria ma a essere considerato il "cugino di Eldridge". Eppure la sua è una carriera di tutto rispetto. Studia musica, ovviamente, fin da bambino e fa il suo debutto a Minneapolis suonando con varie formazioni locali prima di essere ingaggiato nel 1930 dall'orchestra di Speed Webb, la stessa che schiera in organico anche suo cugino Roy Eldridge. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta suona con Charlie Johnson, Teddy Hill, Jimmie Lunceford, Fess Williams, Sam Wooding, Cluade Hopkins, Chick Webb, Willie Bryant, Don Redman e Duke Ellington, imponendosi come una tromba guida dall'attacco deciso e dalla sonorità brillante. Per gran parte degli anni Cinquanta resta uno dei punti cardine dell'orchestra di Count Basie. Passerà poi con Woody Herman e, successivamente, con la big band di George Shearing. Gli anni Sessanta lo vedranno al fianco di Nat King Cole e Phil Moore. Muore il 26 febbraio 1989.



21 dicembre, 2019

21 dicembre 1992 – Albert King, il miglior mancino prima di Hendrix


Il 21 dicembre 1992 muore a Memphis, nel Tennessee, il bluesman Albert King. Ha sessantanove anni e uno stile, unico, che non lascia eredi diretti. Del suo lavoro restano registrazioni che testimoniano di una voce singolare, personalissima e ispirata alle tecniche degli shouters, i cantastorie da strada del blues. I solchi dei suoi dischi raccontano anche di un chitarrista mancino dalle caratteristiche note “tenute”. Albert Nelson, questo è il suo vero nome, nasce il 25 marzo 1923 a Indianola, nel Mississippi. È un ragazzino quando impara a suonare la chitarra dai musicisti itineranti che percorrono le strade del suo paese. In quel periodo impara ad amare il blues tanto da farne la sua vita. Negli anni della “grande depressione” la sua famiglia finisce, come molte altre, nel grande fiume dei disoccupati che migrano all’interno degli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro. Adolescente si ritrova così catapultato a Forest City nell'Arkansas, con il cuore gonfio di rimpianto e di nostalgia per i suoi amici e per la città natale. Quando capisce di non poterne più prende la chitarra e se ne va. Come i grandi interpreti del blues rurale d’inizio secolo vagabonda a lungo per le strade degli States adattandosi a mille lavori precari e suonando in piccoli locali in cambio di qualche pasto. Entra anche a far parte degli Harmony Kings, un gruppo gospel che ha più facilità a trovare scritture, e impara a suonare la batteria per allargare le possibilità di lavoro. Nel 1951 cambia il suo nome in Albert King in omaggio a B.B. King, il suo artista preferito. Nel frattempo il giro delle sue conoscenze si allarga e un paio d’anni dopo suona la batteria per Eddie Taylor e Jimmy Reed. Sempre nel 1953 si guadagna anche il primo contratto discografico, con la Chess, e incide vari singoli che passano inosservati e che verranno poi raccolti, in epoca successiva, nell'album Door to door. Il primo successo discografico arriva quasi dieci anni dopo, nel 1962, con Don't throw your love on me so strong. Nel 1966 si ritrova nella grande famiglia della Stax, una delle case discografiche protagoniste del boom della musica nera, e inizia a scalare le classifiche di vendita. Dopo la sua morte la critica ne esalterà la tecnica chitarristica, attribuendogli il titolo, postumo, di “miglior mancino prima di Jimi Hendrix”.



20 dicembre, 2019

20 dicembre 1882 – Morte a Franz, viva Oberdan!

Il 20 dicembre 1882 muore impiccato Guglielmo Oberdan, un giovane irredentista triestino protagonista di un fallito attentato all’imperatore Francesco Giuseppe (Franz). Dopo la sua morte nasce un canto particolare. Si intitola Inno a Oberdan e le sue strofe inneggiano alla morte dell’imperatore austriaco. Pur potendo rientrare tra le canzoni e gli inni patriottici non gode però di particolari simpatie da parte del potere sabaudo. Fin dai primi anni della sua diffusione viene, infatti, guardato con sospetto per il sostanziale invito al regicidio in esso contenuto e per la violenta carica antimonarchica delle sue parole. Cancellato dai "Canzonieri patriottici" finisce per trovare posto in quelli repubblicani e anarchici. Molti sono i simboli che il potere costituito, così pronto a esaltare le gesta degli irredentisti quando servono alla propaganda, ritiene inaccettabili. Il primo è l'assoluta mancanza di riferimenti all'Italia unita, il secondo è l'idea della violenza regicida, patrimonio della tradizione anarco-repubblicana. In più la contrapposizione tra la monarchia austriaca («a morte») e la libertà viene vista come una sorta di condanna implicita del regime monarchico. Ripudiata dalle istituzioni, la canzone diventa patrimonio popolare e, nel periodo della resistenza trova nuove ragioni per essere intonata con spirito anti-tedesco (e antinazista). Ma chi era Oberdan? Guglielmo Oberdank (questo era il suo vero cognome), nasce a Trieste nel 1858. Dopo essersi diplomato nella città natale, nel 1877 se ne va a Vienna per frequentare gli studi di ingegneria. L'anno successivo viene chiamato alle armi e decide di fuggire. Raggiunge Roma dove continua gli studi universitari e, contemporaneamente, si impegna attivamente nelle campagne a sostegno dei movimenti irredentisti. Nel settembre 1882 viene annunciata la visita ufficiale dell'imperatore Francesco Giuseppe a Trieste per celebrare il quinto centenario della "dedizione" della città agli Asburgo. Oberdan decide di rientrare. Insieme all'istriano Donato Ragosa arriva a Trieste contando sulla protezione degli ambienti irredentisti e prepara un attentato all'imperatore. Il sottobosco irredentista, però, è largamente infiltrato da agenti sei servizi asburgici, collaborazionisti e delatori. Denunciato, viene catturato e trovato in possesso di due bombe. Il processo si conclude con la condanna a morte mediante impiccagione. Sua madre presenta una domanda di grazia sostenuta anche da numerosi intellettuali europei, tra i quali Victor Hugo e Giosuè Carducci, ma non cambia nulla. Il 20 dicembre 1882 dunque Oberdan viene impiccato. La campagna a favore della grazia ha allargato a dismisura la sua popolarità e in questo clima nasce anche la canzone Inno a Oberdan. Tra le versioni più drammatiche del brano c'è quella cantata da Milva nel 1965 al Piccolo Teatro di Milano per il ventesimo anniversario della Liberazione nello spettacolo "Canti della libertà" con la regia di Giorgio Streheler.

17 dicembre, 2019

18 dicembre 2001 - L'addio di Gilbert Bécaud

Il 18 dicembre 2001 Gilbert Bécaud muore di cancro a Parigi nella casa galleggiante sulla Senna che da molto tempo è diventata il suo rifugio. A noi lascia un patrimonio incalcolabile di musica, sentimenti ed emozioni, compresa un'inusuale e innovativa opera lirica, "L'Opéra d'Aran", presentata per la prima volta il 25 ottobre '62 al Teatro degli Champs-Elysées a Parigi. Si calcola siano quasi cinquecento le canzoni scritte da Gilbert Bécaud. Un patrimonio ingente che lascia ancora più impressionati se si pensa che lo chansonnier le ha scritte prendendo quasi sempre in prestito le parole dai suoi amici poeti. Sono loro la voce della sua musica, sono loro che ne articolano i pensieri, i concetti, i voli fantastici. Sono i poeti che regalano le parole giuste agli chansonnier. Il primo che fa parlare la sua musica di Bécaud si chiama Maurice Vidalin. È il 1947. Un anno dopo alla coppia si aggiunge Pierre Delanoë, un giovane autore scovato chissà dove dalla cantante Marie Bizet. All'inizio degli anni Cinquanta i poeti che lo affiancano diventano tre con l'arrivo di Louis Amade. Come uomo, prima ancora che come artista, per tutta la carriera ha guardato il mondo con occhi ben aperti e con la coscienza che la poesia, fin dall’antichità, non serve soltanto per cantare l’amore e le emozioni, ma anche per dare voce ai conflitti e alle tensioni della società. Istintivo e passionale non rinuncia mai a essere se stesso neppure nei momenti di maggior successo quando, per ragioni di mercato, i suoi discografici vorrebbero sfumare un po’ i lati più spigolosi del suo carattere. La musica e il pianoforte sono i compagni più fedeli che l’accompagnano fin dai primi anni della sua vita, iniziata il 24 ottobre 1927 in quel di Tolone. Bambino prodigio, François Silly, questo è il suo vero nome, inizia a studiare al Conservatorio di Nizza nel 1935 a soli nove anni affascinato dalla possibilità di carpire i segreti dei tasti bianchi e neri, ma è costretto a interrompere gli studi nel 1942 quando le vicende della guerra e dell’occupazione nazista spingono la sua famiglia a mollare tutto per rifugiarsi in Savoia. In quegli anni si matura in fretta, soprattutto se si vive in una famiglia in cui il primo figlio maschio, Jean Silly, è un combattente della Resistenza. Il piccolo François non è diverso dagli altri. Per sopravvivere cresce aggrappato al pianoforte e quando la guerra finisce e i nazisti se ne vanno lui corre a Parigi dove i locali notturni catalizzano la voglia di vivere delle nuove generazioni. Lì nella capitale François Silly diventa François Bécaud prendendo in prestito il cognome dell’uomo che ha accompagnato la madre dopo la fuga di un padre mai conosciuto veramente. Inizialmente non pensa di avere un talento particolare come cantante. Si immagina musicista di successo, compone canzoni, musiche da film e pigia sulla tastiera brani destinati ad accompagnare il chiacchiericcio del pubblico dei locali notturni. La voce, che per un po’ è quasi un complemento delle sue esibizioni, progressivamente diventa l’elemento distintivo della sua personalità. Il lungo tragitto verso la popolarità passa per il cantante Jacques Pills, l’uomo che gli offre un posto nelle sua orchestra e lo porta con sé in giro per il mondo. Nel corso di una tournée di particolare successo negli Usa il futuro Bécaud incontra Edith Piaf. La cantante più amata di Francia è affascinata dalla personalità del giovane e gli chiede di scrivere qualcosa per lei. Lui le regala Je t'ai dans la peau destinato a diventare rapidamente un successo, uno dei primi regalati ad altri. Nel 1952 Bécaud lascia per sempre il suo nome anagrafico. Muore François Silly e nasce Gilbert Bécaud, lo chansonnier dai modi gentili e dall’eleganza leggermente trasandata. Nello stesso anno nasce anche la bella amicizia che lo lega a un altro debuttante come lui, Charles Aznavour. I due, destinati a essere vissuti come rivali nell’immaginario popolare, in realtà collaboreranno e scriveranno canzoni insieme. Nel 1953 viene pubblicato il primo disco firmato Gilbert Bécaud. Le due canzoni sono Mes mains con il testo di Delanoë e Les Croix firmato Amade. Viene registrato il 2 febbraio, lo stesso giorno in cui nasce sua figlia Gaya. È l'inizio di un'avventura destinata a durare a lungo. Vestito sempre di blu con la cravatta a pois, che si dice non cambi mai per scaramanzia, e che viene dapprima accuratamente annodata, poi slacciata e maltrattata a seconda degli umori dei diversi momenti dell’esibizione, diventa uno dei primi idoli giovanili della storia della musica mondiale. La buona accoglienza che la critica riserva ai suoi dischi, i buoni risultati commerciali, i passaggi radiofonici e qualche concerto nei locali notturni non bastano ancora a far di Gilbert Bécaud un grande della musica francese. In quel periodo è più popolare negli Stati Uniti di quanto non lo sia in patria dove gli manca il vero, grande, travolgente successo dal vivo. L’occasione della vita arriva nel 1955 quando riapre l'Olympia e Bruno Coquatrix, il proprietario del celebre teatro parigino lo scrittura. È la svolta. Il 17 febbraio 1955 la sua esibizione all'Olympia viene "festeggiata" da quattromila fans urlanti che, trascinati dalla carica dell’esibizione, distruggono parte della sala. È un evento senza precedenti. La stampa si scatena, affibbiando all'artista soprannomi come "Monsieur Dynamite", "Le Champignon Atomique" e il più celebre, "Monsieur 100.000 Volts", che l’accompagnerà per tutta la vita. In quel periodo Bécaud è artefice in Francia di una rivoluzione musicale simile a quella che Domenico Modugno replicherà in Italia qualche anno: contrapporre al bel canto, all'interpretazione a fil di voce, l’espressività vocale libera da regole, il trasporto emotivo e la gestualità trascinante. È una lezione che lascia segni profondi e che innova fortemente l’intera scena musicale. All'inizio degli anni Sessanta arriva anche la consacrazione internazionale con Et maintenant, il brano più famoso della sua carriera scritto su un testo di Pierre Delanoë, che conoscerà oltre centocinquanta versioni diverse in quasi tutte le lingue del mondo. Infaticabile vagabondo supporta la propria popolarità con una serie incredibile di tournée in ogni angolo del mondo, Africa compresa, arrivando a totalizzare l'incredibile cifra di duecentocinquanta concerti in un anno. Nel 1974 viene insignito della Legion d'Onore, consegnatagli direttamente (contravvenendo la tradizione) sul palco dell'Olympia, cioè a casa sua, da un Louis Amade più emozionato di lui. Le sue canzoni sono entrate nel repertorio di un'infinità d'interpreti, compresi Bob Dylan e James Brown. Negli anni Settanta aggiunge ai poeti che lo circondano il nome del giovanissimo Pierre Grosz dal quale prende a prestito il testo della canzone Mais où sont-ils les jours heureux?. Gilbert Bécaud è un dominatore nato, un artista dotato di un carisma eccezionale, definito dalla critica e della stampa come «...un leone del palcoscenico... il più viscerale, sanguigno, passionale e caldo degli chansonnier che hanno segnato la scena francese del Secondo Dopoguerra...». In scena non si risparmia e soprattutto non si nasconde dietro ad alcuna maschera. Il suo stile così lontano dall’eleganza stucchevole dei cantanti di bella presenza non ammette mezze misure. Chi non lo ama lo vive con insofferenza. Sono molti ad amarlo, in Francia, nel mondo e anche in Italia dove a partire dalla fine degli anni Cinquanta comincia a essere una presenza costante e conosciuta. Con lo sviluppo della televisione diventa uno degli ospiti di riguardo dei varietà che, soprattutto il sabato sera, inchiodano il pubblico davanti al piccolo schermo in bianco e nero. L’alter ego della sua passionale esuberanza è un altro chansonnier. Si chiama Charles Aznavour. I due personaggi si presentano in modo completamente differente: irruente, espansivo e trascinante Bécaud, elegante, introverso e romantico Aznavour. Di fronte a due personalità così radicalmente opposte la stampa italiana si inventa una rivalità che non esiste. I due infatti sono legati da un’amicizia e una stima così profonde che all’inizio della carriera hanno addirittura unito la loro creatività. In Italia però la rivalità è funzionale alla costruzione dei personaggi per cui entrambi finiscono per adeguarsi alle esigenze degli uffici stampa. D’altronde siamo il paese dei dualismi come dimostrano le ricorrenti costruzioni di rivalità vere o inventate tra Coppi e Bartali, Lollobrigida e Loren o, per restare nella musica, Gianni Morandi e Claudio Villa. Il rapporto tra Gilbert Bécaud e il cinema è lungo e proficuo. Il grande schermo lo affascina e soprattutto ne stimola la vena creativa. Compone numerosissime colonne sonore e molti suoi brani di successo hanno fatto da sottofondo alle vicende di qualche storia cinematografica. È il caso, per esempio, di canzoni come Je t’ai dans la peau, Si si si la vie est belle, C’est merveilleux l’amour, Si je pouvais revivre un jour ma vie o La marche de Babette nate per il cinema e diventate parte della storia stessa della canzone francese. In qualche caso non disdegna di prestare il suo contributo anche come attore. La sua prima presenza sul grande schermo risale al 1947 quando il regista Paul Mesnier gli affida una particina nel ruolo di un pianista nel suo film “Kermesse rouge”. Il suo nome non figura neppure nei titoli di coda, ma Gilbert non se la prende. La stessa sorte tocca anche alla sua brevissima presenza scenica in “Boum sur Paris” diretto da Maurice de Canonge nel 1954 per il quale compone la canzone Je t’ai dans la peau, destinata a diventare un successo nell’interpretazione di Edith Piaf. Il primo ad affidargli un ruolo di rilievo è Marcel Carné che in “Le pays d’où je viens” del 1956, il film uscito in Italia con il titolo “Il fantastico Gilbert” lo chiama a interpretare sia il personaggio del timido e innamorato pianista Julien Barrière che quello del suo alter ego disinvolto e un po’ gaglioffo Eric Perceval. Il successo ottenuto dal film di Carné lo impone all’attenzione dei registi e soprattutto dei produttori intenzionati a sfruttare al meglio la sua popolarità come cantante. L’anno dopo veste i panni del tenero Jacques Merval in “Casino de Paris” di André Hunebelle, un film che viene ancora oggi considerato uno dei primi interessanti esempi di musical europeo capace di conquistare l’attenzione del pubblico statunitense. Nel 1959 interpreta il ruolo di Bernard Villiers nel film “Croquemitoufle” di Claude Barma e nel 1961 è un pilota in “Les petits matins”, un lungometraggio diretto da Jacqueline Audry e uscito nelle sale italiane con il titolo di “Una ragazza a rimorchio”. Nel 1963 interpreta se stesso in “Canzoni nel mondo”, un musicarello firmato da Vittorio Sala. Nel 1972 è Henry Lefevre in “Un uomo libero” di Robert Muller e due anni dopo torna a interpretare se stesso in “Tutta una vita” di Claude Lelouch. Gli anni Ottanta e Novanta lo vedono impegnato sul piano musicale a sperimentare nuovi confini e nuove mescole tra la canzone d’autore e la musica mediterranea. Pian piano, però, il suo impegno principale diventa quello di spegnere il fuoco di un cancro che gli morde le carni. Il 18 dicembre 2001 Gilbert Bécaud muore. Due mesi prima ha compiuto settantaquattro anni. Il suo corpo viene sepolto al Pére Lachaise di Parigi. La morte di Bécaud arriva in un periodo in cui il mondo è sull’orlo di una nuova devastante guerra dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York. Il 2001 resta così nella memoria come un anno difficile e complicato per tante ragioni. Per il mondo della musica è un anno bastardo, incattivito e inesorabile. Nel 2001, infatti, con Gilbert Bécaud se ne vanno l’ex Beatle George Harrison, Joey Ramone dei Ramones, Perry Como, Joe Henderson, Aaliyah, John Fahey, John Lee Hooker, "Papa" John Phillips e Bianca Halstead delle Betty Blowtorch, uno dei gruppi più significativi del rock cattivo al femminile.


17 dicembre 1925 - Walter Lee Bolden una batteria free-lance

Il 17 dicembre 1925 nasce ad Hartford, nel Connecticut, il batterista Walter Lee Bolden. Proprio nella sua città natale inizia a studiare percussione e composizione presso la Julius Hart's School of Music. Dopo varie esperienze con gruppi scolastici e inizia a picchiare su piatti e tamburi da professionista nel 1950 quando Stan Getz lo chiama a far parte del suo gruppo. Negli anni successivi suona con le band di Horace Silver, Howard McGhee, Mat Mathews e Teddy Charles. La vita e la disciplina di gruppo non lo attraggono tantissimo. Nel 1954 quando si stabilisce a New York sceglie di lavorare prevalentemente come free-lance, unendosi di tanto in tanto a piccole formazioni. Batterista molto efficace in accompagnamento, Bolden si richiama allo stile di Kenny Clarke e Max Roach. Ha inciso dischi con Gerry Mulligan, Stan Getz e Howard McGhee.

16 dicembre, 2019

16 dicembre 1907 - Bernard Flood, un irrequieto trombettista


Il 16 dicembre 1907 a Montgomery in Alabama nasce il trombettista Bernard Flood. Dopo aver studiato musica al Tuskegee Institute di Atlanta inizia a suonare professionalmente nel 1930 con la band di Bobby Neal. Nel corso di tutti gli anni Trenta la sua attività è particolarmente intensa. Nel 1931, infatti, entra a far parte dell’ensemble di Fess Williams che lascia nel 1933 per unirsi alla band di Teddy Hill. Dopo un’esperienza con Chick Webb e Luis Russell nel 1936 suona nel gruppo di Charlie Johnson e l’anno dopo si unisce alla band di Edgar Hayes. Nei primi mesi del 1939 Louis Armstrong gli chiede di entrare nell’organico della propria orchestra in sostituzione di Otis Johnson. Bernard accetta e ha così l’occasione di partecipare a diverse sedute di incisione per la Decca. Nel 1941 suona con Jimmy Reynold e dopo un ritorno di fiamma per l'orchestra di Armstrong durato dal 1942 al 1943, si unisce alla band di Louis Russell e successivamente entra a far parte della grande orchestra di Duke Ellington. La sua permanenza con il Duke non è lunghissima ma gli consente di partecipare alla storia serie delle registrazioni che si svolgono dal gennaio al marzo del 1946, compresa quella realizzata con l’unione delle orchestre di Duke Ellington e Woody Herman che produce, tra l’altro, la famosissima versione di The C Jam Blues incisa sui V-Disc. Irrequieto e instancabile sperimentatore chiusa l’esperienza con Ellington forma una propria orchestra che mantiene in attività per diversi anni con moltissimi cambiamenti d’organico. A partire dalla metà degli anni Cinquanta le evoluzioni del jazz non lo convincono per cui decide di smettere. Prima di ritirarsi dalle scene musicali però suona per qualche tempo insieme al tenorsassofonista Happy Cauldwell.


15 dicembre, 2019

15 dicembre 1964 – Cara Dusty Springfield, se vuoi i soldi non criticare l’apartheid!


«La signorina Mary O'Brien, in arte Dusty Springfield, di professione cantante, nata il 16 aprile 1939, ad Hampstead, in Gran Bretagna è invitata a lasciare immediatamente il suolo della Repubblica del Sudafrica e a non farvi più ritorno perché persona indesiderata». Espulsa! Così si conclude il 15 dicembre 1964 la tournée sudafricana di Dusty Springfield. In realtà se avesse dato retta all’appello del sindacato dei musicisti britannici contro l’apartheid avrebbe dovuto annullare il tour di sua iniziativa ancor prima di partire, ma non ha saputo dir di no alle pressioni della sua casa discografica. Come altri non se l’è sentita di sfidare discografici, editori e impresari seguendo l’esempio dei Rolling Stones. Il problema dell’apartheid, però, non la lascia indifferente. Dopo aver riflettuto a lungo si ripromette di prendere posizione contro la segregazione razziale direttamente in Sudafrica, forse sopravvalutando un po’ il peso della sua popolarità in quel paese. Scopre a sue spese che, pur essendo una cantante famosa, non è intoccabile e non può permettersi di fare quello che vuole. Approfittando di una giornata di riposo nella tournée partecipa a un concerto non autorizzato contro l’apartheid che si svolge a Cape Town. Quando rientra nel suo albergo trova ad attenderla due uomini. Gentilmente, ma con una determinazione che non ammette repliche, la invitano a seguirli. Dusty tenta di prendere tempo. «Devo cambiarmi, non potremmo vederci più tardi?» I due sono irremovibili. La accompagnano in un comodo e spazioso ufficio governativo dove, senza tanti preamboli, riceve la notifica dell’atto immediato di espulsione dal paese. Il funzionario che le apre la porta la guarda con aria torva: «Voi artisti chi vi credete di essere? Lei, signorina, mi spiega cosa voleva dimostrare con l’esibizione di oggi? Se non le piaceva il nostro paese poteva starsene nel suo. I nostri soldi, però, vedo che non le fanno schifo!» La comunicazione tra i due fortunatamente finisce lì. Abbandonata anche dai funzionari della sua casa discografica, che hanno tempestivamente provveduto a porgere le loro scuse «per l’increscioso episodio» alle autorità sudafricane, Dusty Springfield torna da sola in Gran Bretagna con il primo aereo.

14 dicembre, 2019

14 dicembre 1963 – Dinah Washington, la regina del r & b


La sera del 14 dicembre 1963, nella sua casa di Detroit, la cantante Dinah Washington è tesa, stanca e terrorizzata dall'insonnia che la perseguita. Sta per iniziare una nuova tournée e, proprio per questo, si è sottoposta a una cura dimagrante che l'ha stroncata psicologicamente e fisicamente. Da un po' di tempo, però, ha trovato un modo efficace per combattere l'ansia: una buona dose di alcolici e un potente sonnifero. Un suo amico medico l'ha messa in guardia contro questa mistura, ma lei si è accorta che la fa dormire meglio. Anche questa volta segue il suo metodo, ma è l'ultima. La mistura micidiale l'uccide. Muore così, a trentanove anni, quella che è stata chiamata la Regina del rhythm & blues. Nata a Tuscaloosa, in Alabama, dove è registrata all'anagrafe con il nome di Ruth Jones, si trasferisce ancora bambina a Chicago con la famiglia. Le sue prime esperienze musicali hanno per sfondo gli interni della chiesa battista del South Side della sua città dove suona il pianoforte e canta nel coro gospel. Ben presto la sua attività si allarga al di fuori del quartiere e a soli sedici anni viene scritturata dalla grande cantante gospel Sallie Martin che la inserisce nel primo gruppo interamente femminile della storia del gospel. Nel 1943 Joe Glaser la ascoltata al Garrick's Bar di Chicago e la presenta a Lionel Hampton che la vuole nella sua orchestra. Da quel momento abbandona il suo vero nome e diventa Dinah Washington. Tre anni dopo lascia Hampton e inizia a muoversi da sola. Scritturata dalla Apollo pubblica i primi dischi di rhythm and blues. Il grande successo arriva, però, nel 1948, quando passa alla Mercury e pubblica una versione di West side baby che fa gridare al miracolo la critica. Negli anni Cinquanta diventa la Regina del rhythm & blues con un numero incalcolabile di presenze al vertice della classifica discografica di quel genere musicale. All'inizio degli anni Sessanta rinnova il repertorio e forma un duo di successo con Brook Benton. Alle soddisfazioni artistiche fa da contraltare una vita privata costellata da delusioni e problemi. Con sette matrimoni alla spalle e un difficile rapporto con i discografici, alla fine del 1962 è quasi tentata di lasciar perdere tutto. Ci ripensa nell'estate del 1963. Si prepara con cura al ritorno sulle scene, riprende a provare in sala e in palcoscenico, ma la tensione dell'attesa la soffoca. Tutto finisce la sera del 14 dicembre con l'aiuto dell'alcol e del sonnifero.



13 dicembre, 2019

13 dicembre 1920 - Jackie Davis, il pianista delle star


Il 13 dicembre 1920 nasce a Jacksonville, in Florida il tastierista Jackie Davis, uno dei più apprezzati organisti e pianisti jazz degli anni Cinuqnata e dei primi Sessanta. Talento precoce comincia a muovere le sue dita sui tasti bianchi e neri del pianoforte quando ha soltanto sette anni. Siccome i suoi genitori sono convinti che il talento non basti gli consentono di approfondire la preparazione alla Temple University. Dopo varie esperienze in vari gruppi jazz e dopo aver partecipato direttamente alla seconda guerra mondiale, nel 1946 viene congedato dal servizio militare e cominciò a formare gruppi in proprio. Buon leader è però un eccellente solista e un dotatissimo accompagnatore di cantanti. Proprio in questa veste viene chiamato a collaborare con celebrità come Ella Fitzgerald, Nat King Cole, Dinah Washington. Tra il 1957 e il 1958 suona col gruppo del sassofonista e cantante Louis Jordan. Il suo stile personale è facilmente riconoscibile, anche se risente all'organo dell'influenza di Wild Bill Davis e George Wright e, al pianoforte, di quella di Art Tatum.



12 dicembre, 2019

12 dicembre 1959 - Sheila E. la batterista di Prince


Il 12 dicembre 1959 a San Francisco, in California, nasce Sheila Escovedo. La ragazza respira la musica fin dal primo vagito, visto che è nipote del famoso percussionista Coke Escovedo, già con i Santana. Suo fratello poi è Peto Escovedo dei Con Funk Shun e anche il padre ha avuto il suo momento di gloria musicale negli anni Settanta dando vita alla band degli Azteca. Con una famiglia così il suo destino è segnato anche se invece di dedicarsi ai tipici strumenti “femminili” sorprende tutti scegliendo di pestare forte su tamburi, casse, piatti e percussioni. Dopo aver collaborato con numerosi musicisti come Lionel Ritchie, Billy Cobham, Marvin Gaye, Herbie Hancock e Jeffrey Osborne la batterista, percussionista e performer Sheila E., questo è il nome d’arte che si sceglie, diventa la pupilla di Prince che la inserisce nel suo clan. Nel 1984 pubblica il suo primo album Sheila E. in the glamorous life che entra nella classifica dei dischi più venduti, così come i singoli estratti Glamorous life e Belle of St. Mark. Il buon successo del debutto viene confermato l’anno dopo dall'album Sheila E. in romance 1600 e dal singolo Love bizarre. La lunga esperienza con Prince è destinata a concludersi negli anni Novanta quando deciderà di muoversi da sola.


11 dicembre, 2019

11 dicembre 1940 – Muore Eduardo ‘O Cacaglio


L’11 dicembre 1940 muore nella sua Napoli Eduardo Castaldo, cantante e intrattenitore soprannominato “Eduardo ‘o cacaglio” per la sua balbuzie che è molto accentuata quando parla ma che scompare magicamente quando canta. Nato a Napoli il 12 dicembre 1859 con la sua voce da tenore leggero si esibisce, a partire dal 1890 nelle trattorie della costiera napoletana, passando successivamente al ristorante Caso di Santa Lucia dove resta l’attrazione estiva fissa del locale fino al 1934. Nella stagione invernale, invece, se ne va “all’estero” in Sicilia per cantare in un elegante ritrovo di Taormina. Quando nel 1935, a settantasei anni, decide di ritirarsi, si esibisce per l’ultima volta in un affollato concerto d’addio a Napoli, la città dove muore cinque anni dopo.


10 dicembre, 2019

10 dicembre 1982 – “Only you” a cappella


Il 10 dicembre 1982 al vertice della classifica britannica dei singoli più venduti c’è una nuova versione di Only you, il brano che un anno prima aveva ottenuto un buon successo nell’interpretazione degli Yazoo, l’insolito duo formato da Alison Moyet con l'ex Depeche Mode Vince Clarke. La versione che occupa il primo posto delle classifiche britanniche nel 1983 è eseguita “a cappella”, cioè senza l’accompagnamento strumentale. Artefice di questa curiosa operazione sono i Flying Pickets, un insolito gruppo vocale britannico formato, all'inizio degli anni Ottanta, da Rick Lloyd, David Brett, Brian Hibbard, Red Stripe, Ken Gregson e Garth Williams. Il loro primo singolo di successo è proprio Only you. L’exploit non dura molto. Dopo il singolo When you're young and in love vedranno la loro popolarità ridursi alla stessa velocità con cui era cresciuta.



09 dicembre, 2019

9 dicembre 2002 – “Terra Maris” degli Indaco


Lunedì 9 dicembre 2002 a La Palma Club di Roma viene presentato rigorosamente dal vivo Terra Maris, il nuovo album degli Indaco, la band formata nel 1996 dall'incontro di Rodolfo Maltese, chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso, con il polistrumentista Mario Pio Mancini e il percussionista Arnaldo Vacca. Una delle caratteristiche di questo gruppo è sempre stata quella di mettere in difficoltà gli amanti delle definizioni "strette" di stile, di coloro, cioè, cui piace incasellare in una sorta di schema qualunque esperienza musicale. Gli Indaco, da questo punto di vista, sono difficilmente definibili, visto che si muovono in un'area vasta di contaminazioni tra stili di confine, mescolando la world music, la new age, l'ambient, l’etno-rock e l’etno-jazz. Per Terra Maris, che è il quarto album della loro storia, approfittano della presenza di ospiti prestigiosi come Eugenio Bennato, Mauro Pagani, Daniele Sepe, Paolo Fresu, Andrea Parodi e altri, per spostare in avanti la loro ricerca. Il risultato sono undici brani di notevole intensità con un filo conduttore interno e parecchie variazioni stilistiche. La novità più rilevante è data dalla maggior presenza, rispetto al passato, di brani cantati, frutto dell'allargamento della formazione storica composta da Rodolfo Maltese, Mario Pio Mancini, Arnaldo Vacca, Pierluigi Calderoni, Luca Barberini e Carlo Mezzanotte alla voce particolare di Gabriella Aiello. Il risultato è un'opera decisamente più matura delle tre precedenti che non rinuncia a confrontarsi con le esperienze più interessanti del panorama musicale mediterraneo. Quattro brani lasciano il segno. Il primo è Amargura giocato sulle voci della Aiello e di Andrea Parodi, l'ex vocalist dei Tazenda oggi scomparso. Il secondo è la ballata Terza Qualità composta e interpretata da Eugenio Bennato, nelle cui atmosfere si coglie l'eco dell'esperienza dei Musicanova e il terzo è il sofisticato Aran debitore di parte della propria suggestione alla tromba di Paolo Fresu. Ultimo, ma solo in ordine d'esposizione, è un Norvegian wood lontanissima per ispirazione e per clima dall'originale dei Beatles. Come in un gioco di specchi gli Indaco nascondono Lennon e McCartney dietro alle evoluzioni di un etno-jazz originale e, talvolta, eccentrico. Chi cercasse i Beatles li può ritrovare soltanto verso il finale quando, come uscendo da un cilindro magico, l'esecuzione ritorna sui binari originali.




08 dicembre, 2019

8 dicembre 1925 – Jimmy Smith, the incredible, il primo organista elettronico del jazz


L'8 dicembre 1925 nasce a Norristown, in Pennsylvania, Jimmy Smith, all’anagrafe James Oscar Smith, il tastierista che per primo ha utilizzato l'organo elettronico nel jazz. Soprannominato “The Incredibile” per la sua tecnica straordinaria, figlio di due pianisti professionisti a nove anni vince un concorso per giovani talenti e partecipa a vari programmi radiofonici nei panni del "bambino prodigio". Nel 1942 entra a far parte del gruppo del padre. Non abbandona, però, gli studi. Frequenta i corsi contrabbasso alla Hamilton School of Music e quelli di pianoforte della Orenstein School. Nel 1952 è il pianista e l'organista dei Sotones di Don Garner. Tre anni dopo sceglie di passare definitivamente all'organo formando un trio con il quale si esibisce regolarmente al Bohemia Café di New York. Proprio grazie alle esibizioni in questo locale si conquista la stima e il rispetto di quasi tutta la critica dell'epoca. Dotato di una tecnica straordinaria, in breve tempo fa compiere all'utilizzo dell'organo elettronico nel jazz un salto evolutivo paragonabile a quello realizzato da Charlie Christian per la chitarra elettrica. Jimmy, infatti, è il primo musicista ad accorgersi delle notevoli potenzialità dello strumento e ne fa un uso decisamente diverso da quello riservato fino a quel momento al pianoforte o all'organo da chiesa. Senza le sue tecniche, le sue ricerche sulla sonorità e, soprattutto, la sua capacità d'innovazione, probabilmente il mondo del jazz avrebbe mantenuto ancora per lungo tempo un atteggiamento di estrema diffidenza nei confronti di questo strumento. A partire dal 1962 allarga i suoi confini musicali in quell'area indefinita che sta tra il jazz e il rhythm and blues. Diventa così molto popolare anche tra il pubblico interessato a una musica più commerciale. Sull'onda del successo nel 1973 compone una suite "The portuguese soul" che viene poi pubblicata in un album in cui lo stesso Smith è affiancato dalla big band di Thad Jones e Mel Lewis. Negli anni Sessanta e Settanta figura quasi sempre ai primi posti nei referendum tra i lettori indetti dalle riviste specializzate. Progressivamente si fa sempre più catturare dalle tentazioni e, soprattutto, dalle possibilità economiche che gli offre il music business. Per questa ragione si dedica con crescente assiduità alla musica commerciale. Nonostante tutto l'ambiente jazzistico non lo considererà mai un "traditore" e accoglierà sempre con entusiasmo i suoi periodici ritorni.



07 dicembre, 2019

7 dicembre 1968 – Un’indimenticabile prima della Scala


La sera del 7 dicembre 1968 a Milano è prevista la tradizionale “prima” che apre la stagione lirica del Teatro della Scala. Da anni la borghesia milanese ha trasformato questa occasione in un evento di grande mondanità in cui fare sfoggio di ricchezza ed eleganza. Il clima che si respira in città, però, è diverso dal solito. Nelle scuole si vive un periodo di grande fermento con una lunga serie di assemblee e di occupazioni. Sono gli universitari i più attivi in un movimento che, malgrado le contraddizioni, sta abbandonando l’aspetto un po’ folcloristico di contrapposizione generazionale per assumere sempre più i caratteri di un aperto rifiuto del sistema. Gli studenti, senza grande clamore, si sono dati appuntamento proprio nella Piazza della Scala con un passaparola che non è sfuggito alle autorità preposte a garantire l’ordine costituito. Per “prevenire incidenti” nel pomeriggio la polizia ha iniziato a presidiare la piazza con discrezione, anche se nessuno pensa che ci sia davvero una situazione di pericolo. Gli organi di stampa e le autorità considerano improbabile l’eventualità di una massiccia contestazione e prevedono piuttosto la presenza un po’ goliardica di qualche colorito gruppetto marginale. Il pomeriggio scorre via tranquillo e, mentre scendono le prime ombre della sera, gli scarni gruppetti di ragazzi e ragazze arrivati alla spicciolata sembrano confermare le tranquillizzanti previsioni della vigilia. Man mano che le ore passano però il loro numero cresce tanto che la Questura manda altri agenti di polizia a rafforzare il contingente della piazza. Nel frattempo arrivano i primi spettatori. Una salva di urla, fischi e sberleffi è il saluto con il quale vengono accolti dai giovani. I ragazzi e le ragazze, trattenuti a stento dal robusto cordone di poliziotti, bersagliano gli abiti eleganti e le pellicce della “Milano bene” con un nutrito lancio di uova e di ortaggi. Nonostante qualche inevitabile momento di tensione la polizia si limita a controllare, mentre il leader del movimento studentesco Mario Capanna al megafono invita gli agenti a ribellarsi agli ordini ricevuti e a schierarsi dalla parte dei giovani. La serata è destinata a restare a lungo nella memoria del capoluogo lombardo.


06 dicembre, 2019

6 dicembre 1983 – La signora in blu se ne va


Il 6 dicembre 1983 muore a ottantadue anni a Parigi Lucienne Boyer, soprannominata la “Dame en bleu”, la signora in blu, una delle cantanti francesi più applaudite degli anni Trenta. Personaggio carismatico della scena francese, nonostante i trionfi nei luoghi mitici dello spettacolo e del music hall parigino appena può torna a esibirsi nei piccoli spazi dove è iniziata la sua storia. Al palcoscenico dell’Olympia lei preferisce l’intimità raccolta dei cabaret, degli angusti locali fumosi e affollati dove non c’è separazione tra artista e pubblico e dove l’unica trovata scenica consiste in un solo riflettore fisso su lei. Si fa accompagnare da una piccola orchestra formata da pianoforte, violino, violoncello e contrabbasso che agli occhi dei puristi ha il torto di avere un buco d'un paio d'ottave fra il violino e il violoncello per l’assenza della viola. Anche l’accompagnamento musicale ridotto al minimo contribuisce a dar risalto alla sua voce, a una tecnica vocale capace di dispensare emozioni preziose come piccoli gioielli cesellati da un abile artigiano. In un’epoca in cui le grandi cantanti del music hall cambiano vestito e scenografia quasi a ogni canzone Lucienne Boyer si veste di semplicità. Considerata la prima grande “cantante intimista” della scena musicale francese influenzerà con il suo stile vocale sia Juliette Gréco che Barbara. Emilienne-Henriette Boyer nasce il 18 agosto 1901 a Parigi, nella zona di Montparnasse. Suo padre fa lo stagnino mentre la madre è una modista e anche la piccola, se il diavolo non ci mettesse la coda, nelle previsioni dei genitori dovrebbe ritagliarsi un futuro nello stesso campo della madre. A cambiare radicalmente e rapidamente le prospettive interviene lo scoppio di una guerra mondiale, la prima, che si porta via per sempre il padre e costringe la giovane Emilienne-Henriette a lavorare in un fabbrica per la costruzione di obici destinati al fronte. Sono anni difficili che la ragazza affronta con quella sfrontatezza tipica dei giovani che sta al limite tra coraggio e incoscienza. Bella, anzi bellissima secondo i suoi primi ammiratori, attira l’attenzione di artisti e perdigiorno vari che le promettono il paradiso. Lei non si lascia confondere e accetta di diventare la modella di pittori come Foujita e Modigliani, anche se la sua vera vocazione resta la canzone. Non ha ancora compiuto sedici anni quando comincia a esibirsi sui palcoscenici dei locali notturni parigini, in particolare quelli dell’Eldorado e di Chez Fyscher dove canta accompagnata dal pianoforte di un grande compositore di successi come Georges Van Parys. Proprio in questo vagabondare canterino nella notte della Ville Lumiére fa l’incontro che le cambia la vita. Al termine di un’applaudita esibizione al Concert Mayol, uno dei più famosi cabaret parigini dell’epoca, viene infatti avvicinata da un personaggio entusiasta. Si chiama Lee Schubert, è un impresario che arriva dagli Stati Uniti ed è rimasto stregato dalla voce e dalla presenza scenica di quella giovanissima cantante. Ha intenzione di portarla con sé la di là dell’oceano. La ragazza l’ascolta e poi firma un contratto che prevede sette mesi di concerti nei locali di Broadway. La durata della permanenza a Broadway alla fine sarà prolungata a nove mesi e il suo ritorno in Francia varrà vissuto un po’ come una sorta di tradimento dal pubblico statunitense. Emilienne-Henriette Boyer è ormai diventata per tutti Lucienne Boyer. L’esperienza statunitense le regala la popolarità più grande che la bella ragazzina canterina di Montparnasse potesse sperare. Nonostante il successo Lucienne resta perplessa. Non son tanto le fatiche degli spostamenti né la frenesia della vita a farla sentire a disagio quanto la dimensione dei palchi e l’eccessiva ricchezza scenografica che fa da sfondo ai suoi concerti nei teatri. La ragazza pensa che i grandi spazi non siano il luogo adatto per mettere in risalto le sue canzoni e le sue raffinate tecniche vocali. Appena può torna al suo antico amore, i piccoli locali della notte parigina che l’hanno vista nascere, irrobustirsi e sbocciare al successo conquistando anche Broadway. Alla fine degli anni Venti investe gran parte dei primi cospicui guadagni che gli derivano dalla sua attività in un locale tutto suo. Si chiama Les Borgias e nelle sue intenzioni dovrebbe diventare una sorta di piccola tana, un luogo in cui rifugiarsi ogni volta che ha bisogno di ritrovare se stessa. La critica, che pure ha guardato con rispetto al suo exploit statunitense, la predilige nella versione più essenziale, quasi confidenziale e qualche anno dopo la considererà la prima, grande interprete di quel genere che verrà chiamato “chanson intime”. Sempre alla fine degli anni Venti entra per la prima volta in una sala di registrazione e ne esce piacevolmente sorpresa. Le piace molto il clima raccolto che si crea all’interno di quei piccoli spazi soprattutto in un’epoca in cui la tecnologia non prevede ancora manipolazione e tutti registrano in presa diretta. Sono gli anni di Tu me demande si je t’aime e, soprattutto, di Parlez-moi d’amour, il brano scritto con mano felice da Jean Lenoir che diventa un grande successo nel 1930 e le fa vincere la prima edizione del Gran Prix du Disque. Per tutti gli anni Trenta Lucienne Boyer è una delle indiscusse e più amate regine della notte parigina. Canzoni come Un amour comme le nôtre, Sans toi, Si petite, Les prénoms effacés, Je t’aime, Mon coeur est un violon e tante altre fanno volare alte sulla musica emozioni e sentimenti. Pur non lasciando volentieri Parigi, nel 1934 mantiene la promessa fatta al pubblico statunitense e torna a New York dove una pioggia di prenotazioni sommerge i suoi concerti al Rainbow Room e al Little Theater della quarantaquattresima strada. Da lì se ne va poi a Washington. I ripetuti successi delle sue esibizioni in Nordamerica convincono un gigante come la Paramount a proporle un contratto fisso, una scrittura in esclusiva che prevede la sua permanenza negli Stati Uniti con incisioni di dischi, tournèe e anche una pianificata carriera cinematografica parallela a quella di cantante. Le leggende dicono che la cifra offertale sia una di quelle alle quali è davvero difficile dire di no, ma lei lo fa. Dopo essersi presa un po’ di tempo per pensarci fa sapere ai “signori americani” che non può lasciare la Francia o, meglio, Parigi. Non le è facile spiegare come si sentirebbe persa senza le notti nei locali della capitale, i concerti in quelle sale così piccole che nessun americano probabilmente può riuscire a immaginarsele. Se riesca a convincerli della giustezza della scelta o meno non è dato di saperlo, quel che è certo è che dice no. Nel 1939 sposa il compositore Jacques Pills, popolarissimo anche come componente del duo Pills et Tabet, formato insieme a Georges Tabet. Dall’unione tra Lucienne e Jacques nel 1941 nasce Jacqueline, una bambina destinata a ottenere un buon successo come cantante e a vincere il Gran Prix du Disque nel 1960. Quando la storia d’amore con Jacques si conclude lei saluta e riprende la sua strada. Circondata dal rispetto e dall’ammirazione di tutto l’ambiente musicale francese Lucienne Boyer nei decenni successivi non si lascia condizionare dalle mode e riesce ad attraversare senza cedimenti le innovazioni degli anni Cinquanta e l’esplodere del rock and roll in tutte le sue varianti negli anni Sessanta. Con il passare degli anni riduce progressivamente la sua attività e negli anni Settanta le sue esibizioni pubbliche si fanno rarissime. Tra gli eventi più rilevanti dell’ultimo periodo della sua carriera c’è lo straordinario concerto del 1976 all’Olympia insieme a sua figlia Jacqueline. Nello stesso periodo il suo brano Un amour comme le nôtre vive una nuova stagione di successi tornando al vertice delle classifiche di vendita a più di quarant’anni dalla sua prima uscita.




05 dicembre, 2019

5 dicembre 1958 - Danny Alvin, un italoamericano alla batteria


Il 5 dicembre 1958 il batterista Danny Alvin muore a New York City, la città dov’è nato il 29 novembre 1902. Figlio d’italiani e registrato all’anagrafe con il nome di Daniele Viniello inizia a fare della musica il suo mestiere nel 1918 quando entra a far parte della band che accompagna la cantante Sophie Tucker, l'ultima delle Red-Hot Mamas. Ci resta tre anni. Nel 1922 si esibisce a Chicago con vari gruppi d’ispirazione jazz, tra i quali spiccano quelli di Frankie Quartell e di Charlie Straight. Dopo un periodo trascorso con grandi orchestre da ballo dal 1930 al 1933 forma e dirige una propria band. Chiusa l’esperienza come leader si unisce al pianista Art Hodes con cui lavora senza interruzioni per tre anni. Nel 1936 si trasferisce a New York dove suona prima con il gruppo di Wingy Manone e poi con quello di Georg Brunis al Nick's. Proprio al Nick’s, dopo essere stato ingaggiato come musicista fisso, accompagna Brad Gowans, Mezz Mezzrow ed Eddie Condon. Nel 1947 è a Chicago col cornettista Doc Evans e con il pianista George Zack. Negli anni Cinquanta torna a sperimentarsi in qualità di leader formando una propria orchestra cui dà il nome di The Kings of Dixieland. Ritiratosi dalle scene dal 1955 fino alla morte gestisce un frequentatissimo jazz club.


04 dicembre, 2019

4 dicembre 2003 - A Bologna il pianoforte-contro di Gaetano Liguori


Alle 18,30 di giovedì 4 dicembre 2003, alla Libreria Melbookstore, Bologna incontra il pianoforte di Gaetano Liguori, uno dei personaggi più popolari ed emblematici del jazz italiano. L’incontro prende a pretesto la presentazione di "Gaetano Liguori, un pianoforte contro", un libro-intervista scritto da Claudio Sessa. Nel pomeriggio bolognese, guidato dallo scrittore Stefano Tassinari, si ripercorrono gli ideali di una generazione alternando le parole alla musica. Cresciuto nella Milano della contestazione e dei movimenti studenteschi, Liguori ha incarnato con entusiasmo la figura dell'artista militante, vivendo e traducendo in musica quarant'anni di storia d'Italia. Dalla creazione di un "circuito alternativo" che porterà nuove forme di cultura in ogni piazza della Penisola alla solidarietà internazionalista, dal rapporto con altre forme d'arte (teatro, cinema, poesia) all'approfondimento delle civiltà non occidentali, il lungo itinerario espressivo e umano di Liguori è la miglior prova che non c’è chi invece di atteggiarsi velleitariamente a profeta, ha tentato di cambiare davvero il mondo, giorno dopo giorno, con dedizione e senso della realtà, adattandosi alle mutate condizioni dei tempi senza perdere di vista i valori più veri.