03 gennaio, 2020

3 gennaio 1954 – Arriva la TV!


Il 3 gennaio 1954 con una triplice trasmissione inaugurale che si svolge nelle tre sedi principali di Milano, Roma e Torino, iniziano le trasmissioni televisive della Rai (Radio Audizioni Italia). Per la verità non sono molti gli spettatori di un evento che è destinato a cambiare profondamente le abitudini, la cultura e la vita degli italiani. I comunicati ufficiali dicono, infatti, che solo il 43% degli abitanti potrebbe, se in possesso dell’apparecchio televisivo, assistere alla nascita del servizio. In realtà, come spesso accade, quella percentuale è del tutto teorica. Il segnale televisivo irradiato dai trasmettitori di Torino Eremo, Milano, Monte Penice, Portofino, Monte Serra, Monte Peglia e Roma Monte Mario esclude il Sud e gran parte delle zone montane del paese. A questo si deve aggiungere che gli abbonati reali sono un gruppo piccolissimo. Alla fine dell’anno saranno circa 88.000, non più di 72.000 dei quali destinati a utenze famigliari e il resto composto da alberghi, circoli, bar, luoghi di ritrovo collettivo. Viste le cifre è evidente che le trasmissioni inaugurali vengono viste da pochissime persone anche se l’evento non sfugge all’opinione pubblica grazie allo spazio che gli dedicano i mass media del tempo, in particolare la radio, forte di oltre 5.000.000 famiglie abbonate. L’avvio della programmazione più che sulla partecipazione diretta, vive attraverso testimonianze riportate e servizi che parlano di un mondo magico e avveniristico, come la favolosa descrizione della cabina di regia da parte di Giancarlo Fusco sulle colonne dell'Europeo «La cabina di regia della televisione si presenta un po' come la centrale di tiro di una nave da guerra. In mezzo ad essa campeggia un tavolo metallico, rettangolare, disseminato di pulsanti (esattamente 72) di piccole leve cromate e di spioncini luminosi». Tutto contribuisce a costruire il mito di questo nuovo mezzo di comunicazione e intrattenimento al punto che si può dire che nel primo giorno in pochi la vedono, ma in molti iniziano a immaginarla, a sognarla forse. I dati dimostreranno ben presto che ci trova di fronte a un evento epocale. La televisione quindi non è ancora un elettrodomestico abituale nelle case degli italiani, ma la passione per il piccolo schermo contagerà rapidamente gran parte delle famiglie. Le punte massime d’ascolto si registreranno al sabato e alla domenica quando interi nuclei famigliari si raduneranno nei locali pubblici o nelle case degli amici più fortunati intorno alla magica scatola che diffonde immagini in bianco e nero. Ipnotizzati dalla luce azzurrina del piccolo schermo gli italiani sono testimoni e protagonisti dell’affermarsi di nuovi personaggi e di nuovi miti. Per i fortunati che hanno la possibilità di assistere all’inizio delle trasmissioni il 3 Gennaio 1954 appare sugli schermi italiani il volto di Fulvia Colombo. È lei prima annunciatrice della storia della televisione del nostro paese. Sorridente e misurata legge un testo sintetico che riassume i programmi della giornata. Su quel foglietto, divenuto ormai un pezzo di storia, c’è scritto: «Le maggiori trasmissioni dell’odierno programma sono: ore 11.00 Telecronaca dell’inaugurazione degli studi di Milano e dei trasmettitori di Torino e Roma; ore 15.45 Pomeriggio sportivo; ore 17.30 “Le miserie del signor Travet”, film diretto da Mario Soldati; ore 19.00 Avventure dell’arte: Giovan Battista Tiepolo; ore 20.30 “L’osteria della Posta”, commedia di Carlo Goldoni; ore 22.00 Spettacolo di musica leggera; Signore e signori, buon divertimento!»



02 gennaio, 2020

2 gennaio 1958 - Fischi alla Callas


Il 2 gennaio 1958 la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma dovrebbe aprirsi con un evento straordinario. Il cartellone prevede, infatti, la messa in scena della “Norma” di Bellini nell’interpretazione del soprano Maria Callas da poco insignita del titolo di Commendatore della Repubblica. Da tempo i biglietti per la serata sono introvabili e fin dalle prime ore del pomeriggio appassionati e curiosi si accalcano davanti all’entrata degli artisti nella speranza di vedere la ‘divina’ Callas. Quando si apre il sipario la platea e i palchi sono gremiti e ai giornalisti non sfugge la presenza, in prima fila, del Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi. La serata sembra procedere tranquilla e senza problemi, quando, sull’ultima nota di Casta diva, la voce della Callas si appanna improvvisamente. Dalla platea e dai palchi si alza un mormorio di disapprovazione accompagnato da qualche fischio. Per il resto tutto scivola via senza scosse fino alla conclusione del primo atto, cui dovrebbero seguire quaranta minuti di intervallo. Nel foyer i giornalisti si aggirano tra gli spettatori a caccia di dichiarazioni sulla ‘stecca’ della Callas. In particolare si tenta, invano, di cogliere qualche commento sulle labbra del presidente Gronchi. Al termine dell’intervallo il pubblico rientra in sala, ma il sipario resta chiuso. Passano altri venticinque minuti ma non succede niente. La cantante, offesa e irritata per il trattamento riservatole dal pubblico, è chiusa nel suo camerino e non risponde a nessuno. Dopo molte sollecitazioni apre la porta e, con faccia dura, annuncia: «Signori, questa sera, Norma finisce qui».


01 gennaio, 2020

1° gennaio 1953 – Un’overdose uccide Hank Williams


Il 1° gennaio 1953 muore d’overdose a soli 29 anni Hank Williams, il più popolare interprete di country degli anni Quaranta, da tutti considerato l'erede delle potenzialità artistiche creative di Jimmie Rodgers autore di brani destinati a diventare classici come Jambalaya, Honky tonk blues, There'll be no teardrops tonight, You win again e Long gone lonesome blues. La morte stronca la sua carriera alla vigilia della rivoluzione del rock and roll. Nasce a Mount Olive, in Alabama, il 17 settembre 1923. Suo padre è un invalido di guerra, la madre un'organista di chiesa. Gli regalano la sua prima chitarra quando è ancora bambino e a undici anni suona già alle serate da ballo del sabato sera in un cantiere ferroviario. L'anno dopo suona agli angoli delle strade insieme a un cantante nero, vendeva noccioline e lucidava scarpe. Nel 1937, a quattordici anni dopo aver vinto un concorso viene assunto da una radio locale per esibirsi un paio di volte la settimana. Inizia così a girare i paesi dell'Alabama con un gruppo country su un furgone guidato dalla madre, che gli fa anche da manager. Nel 1944 arriva a Nashville. Ha ventun anni ma è già considerato un veterano del circuito country. Nel 1947 incide il primo disco e nel giro d’un paio d’anni domina le classifiche dei dischi più venduti. La stagione del suo successo è brevissima perché, tormentato da fortissimi dolori alla schiena, diventa sempre più dipendente dall'alcool e da sostanze stupefacenti. Nel 1952 ha già alle spalle un divorzio e un licenziamento. Rimasto solo come un cane muore nel primo giorno dell’anno. Dopo la morte le sue canzoni tornano ai vertici delle classifiche regalando ricchezza a chi l’aveva appena licenziato.


31 dicembre, 2019

31 dicembre 1968 – Soriano Ceccanti ferito alla Bussola

Nel 1968 in tutta Italia dilaga la protesta dei giovani che chiedono un profondo cambiamento della società e l’affermazione di valori nuovi. Il 31 dicembre 1968 il movimento studentesco decide di contestare l’inutile spreco dei veglioni di Capodanno e prende di mira La Bussola, il locale più alla moda di quegli anni. Fin dalle prime ore della sera convergono sul locale giovani provenienti da tutta la Toscana e dalle regioni vicine. Nei confronti degli avventori volano sputi e qualche schiaffo, ma la situazione, pur tesa, sembra essere sotto controllo. I contestatori, circa tremila, assediano il locale dove duemila persone hanno pagato un biglietto molto salato per festeggiare Capodanno con l’esibizione di Fred Bongusto e Shirley Bassey. La situazione sembra in una fase di stallo quando la polizia lancia una dura carica contro gli assedianti. La protesta degenera in scontri che durano tutta la notte. Il bilancio finale è di quattordici feriti, uno dei quali, lo studente Soriano Ceccanti, colpito da un colpo d’arma da fuoco alla schiena resterà paralizzato. La grande epopea della Bussola e del boom economico è finita.

30 dicembre, 2019

30 dicembre 1952 – Willie Lee Brown, uno dei migliori chitarristi del Delta


Il 30 dicembre 1952 a Tunica, nel Mississippi, un attacco cardiaco spegne la voce e la chitarra del bluesman Willie Lee Brown. Nato a Clarksdale, in Mississippi, il 6 agosto 1900 Willie Lee è considerato dalla critica uno dei migliori chitarristi blues del Delta del Mississippi. Discepolo di Charlie Patton, si è fatto particolarmente apprezzare per il suo stile personale caratterizzato da una voce dura e graffiante e da una eccellente tecnica alla chitarra. Le sue prime esibizioni risalgono alla fine degli anni Dieci quando con il citato Charlie Patton, Tommy Johnson, vari musicisti locali e Josie Bush che diventerà sua moglie diventa una delle attrazioni dell'area di Drew nel Mississippi. Nel 1926 si trasferisce a Robinsonville per esibirsi nelle feste private e nelle fiere. A partire dal 1929 si unisce a Son House e dalla metà degli anni Trenta è al fianco di Robert Johnson. Nel 1941 Alan Lomax lo chiama a registrare i suoi brani per la Library Of Congress di Washington. Durante gli anni Quaranta abbandona l'ambiente musicale e si stabilisce a Tunica. Tra le sue composizioni più famose ci sono Future blues e M & O Blues.



29 dicembre, 2019

29 dicembre 1947 – Cozy Powell, un batterista migratore


Il 29 dicembre 1947 vede la luce Cozy Powell, uno dei personaggi più singolari del rock degli anni Settanta e Ottanta. Batterista eclettico e dotato di notevole personalità attraversa la storia di alcune tra le più importanti band di quel periodo senza fermarsi mai, inseguendo sempre nuovi progetti. C’è chi l’ha definito «... un migratore per scelta e per indole alla ricerca di un luogo nuovo da cui ripartire». Per lui le regole del music business e anche il successo sembra non interessarlo se lo ostacola nella realizzazione dei suoi progetti. Il suo debutto avviene alla metà degli anni Sessanta con i Sorceres, una band destinata a godere di una discreta popolarità negli anni successivi con il nome di Youngblood. Proprio quando i suoi compagni stanno per cogliere i primi successi Powell migra e si unisce ai Big Betha, un gruppo senza storia che avrà vita breve. Nel 1971 è il batterista del Jeff Beck Group con cui realizza i due album come Rough and ready e The Jeff Beck Group destinati a restare nella storia del rock di quel periodo, ma l’anno dopo se ne va per formare i Bedlam, una band che lascia dopo un solo album per seguire un nuovo progetto. Dà vita ai Cozy Powell's Hammer e pubblica due singoli di successo prodotti da Micky Most, uno dei migliori produttori britannici. Nel 1975 forma una nuova band, gli Strange Brew. Finito? Tutt’altro. Gli Strange Brew non sopravvivono neppure una stagione perché Cozy accetta l'offerta dell'ex chitarrista dei Deep Purple Ritchie Blackmore di dar vita ai Rainbow. In questo gruppo sembra finalmente aver trovato la sua dimensione, ma, improvvisamente, nel 1980 se ne va per dar man forte al chitarrista Michael Shenker, che ha appena lasciato gli Scorpions. Collabora all'album Pictures at eleven di Robert Plant , ma non rinuncia alla realizzazione di alcuni progetti in proprio. La sua anima da giramondo lo porta poi negli Whitesnake di David Coverdale e in una singolare avventura con Keith Emerson e Greg Lake, con i quali forma lo strano trio Emerson Lake & Powell. Nel 1989 si unisce ai Black Sabbath, che lascia dopo breve tempo per vagabondare ancora tra le più diverse esperienze e collaborazioni. Muore all'età di cinquanta anni il 5 aprile 1998 per un incidente automobilistico.

28 dicembre, 2019

28 dicembre 1949 - La voce più bella della big band di Duke Ellington


Il 28 dicembre 1949 a Los Angeles, in California, muore a soli quarantacinque anni Ivie Anderson, la cantante considerata per molto tempo "la voce più bella della big band di Duke Ellington". In realtà nel 1931, quando entra nell’orchestra di Duke Ellington, ha già alle spalle un'infinità di esperienze musicali con band minori, ma anche in teatro, dove si è imposta come showgirl. È la vedette di un teatro musicale nero che, partendo da Harlem, sta rapidamente imponendosi in un genere che, fino a quel momento, è stato appannaggio pressoché esclusivo dei bianchi. Sono personaggi come Ivie Anderson a impersonare la capacità di rivalsa di Harlem e degli afroamericani sul music business che li vede ancora come elemento marginale e di contorno. Il suo momento magico arriva, però, quando, dopo una tournée in Australia e una permanenza come vedette al Grand Terrace Cafè di Chicago con l’orchestra di Earl Hines, viene scritturata da Duke Ellington, da tempo alla ricerca di una voce particolare, capace di integrarsi con gli impasti sonori dei suoi arrangiamenti orchestrali. È il mese di febbraio del 1931, anno di svolta per la creatività di Ellington che ha ormai completato la sua prima opera musicale dal respiro più ampio rispetto alle normali esecuzioni di due o tre minuti. La voce di Ivie si lega così alla magia della Creole rhapsody, considerata il primo brano capace di saldare la musica nera d’America con le strutture compositive di largo respiro della scuola europea. In questo clima musicale la personalità della cantante sembra essere l'ideale completamento delle sofisticate ricerche impressionistiche di Duke. C'è chi sostiene che la Anderson abbia contribuito in modo determinante a diffondere il concetto di swing. Probabilmente non è così, ma è certo che il brano It don’t mean a thing if it ain't got that swing, considerato una sorta di manifesto dell’era dello swing, deve molto a lei. Il suo vocalizzo collocato in mezzo agli assoli del sassofonista Johnny Hodges e del trombone di Tricky Sam Nanton, provoca ancora oggi un'emozione forte in chi l'ascolta. Ivie resta con Ellington per ben dodici anni. È lei la cantante che appare nel film "Un giorno alle corse" dei fratelli Marx. Chiusa la sua straordinaria avventura con la Big Band del Duca continua a esibirsi fino all'ultimo giorno di vita.



27 dicembre, 2019

27 dicembre 1975 – I Goblin al vertice della classifica


Il 27 dicembre 1975 al primo posto della classifica dei singoli più venduti in Italia c’è Profondo rosso, il tema conduttore dell’omonimo film diretto da Dario Argento destinato a diventare un brano di culto senza tempo. Lo interpretano i Goblin, un gruppo fino a quel momento sconosciuto ai più, nato poco tempo prima dall’unione di due ex componenti dei Ritratto di Dorian Gray, il batterista Walter Martino e il tastierista Claudio Simonetti con il chitarrista Massimo Morante e il bassista Fabio Pignatelli. La band ottiene un rapido successo oltre con il singolo anche con l'album Profondo rosso, cui collabora anche il jazzista Giorgio Gaslini. Caratterizzati da frequenti cambiamenti d'organico, i Goblin nel 1976 per l’album Roller aggiungono alla formazione il tastierista Maurizio Guarini e sostituiscono Martino, unitosi ai Libra, con il batterista Agostino Marangolo. Dopo varie colonne sonore di film come "Suspiria", "Zombi" e "Squadra antigangster", alternate ad album originali, il gruppo, nei primi anni ottanta perde anche Simonetti. Nel 1982 con Pignatelli, Guarini, Derek Wilson e Marco Rinalduzzi pubblicano l'interessante e atipico album Volo scritto quasi interamente dal cantautore Mauro Lusini. Notturno chiude nel 1983 la prima parte della storia del gruppo, la cui sigla tornerà periodicamente alla ribalta come accade nel 1989 con la colonna sonora del film "La chiesa" di Michele Soavi.


26 dicembre, 2019

26 dicembre 1996 – Mireille, la pédagogue de la chanson

Il 26 dicembre 1996 una polmonite si porta via Mireille, cantante e compositrice di successo, artefice della svolta swing della canzone francese. Pianista mancata perchè, secondo gli esperti dell’epoca, le sue mani erano troppo piccole per poter servire un’abile e veloce concertista, in Francia ancora oggi è ricordata come “La pédagogue de la chanson”, la pedagoga della canzone, scopritrice e maestra di artisti destinati a lasciare un segno tutt’altro che marginale nella storia della canzone francese. Da Françoise Hardy a Hugues Aufray, da Michel Berger ad Alain Souchon sono moltissimi i giovani talenti che hanno potuto imboccare la strada del successo grazie al “Petit Conservatoire de la Chanson”, i corsi radiofonici da lei inventati nel 1954. Le ragioni della sua vocazione sono riassumibili in poche parole: se la genialità e il talento sono doni, tutto il resto si può imparare a patto che qualcuno te l’insegni. Il succo della sua missione pedagogica è tutto qui. «Non tutti possono disporre di quel fluido magico che cattura il pubblico. Il sorriso magnetico di Maurice Chevalier, la capacità di trasmettere le emozioni di Edith Piaf, la freschezza ingenua di Bourvil sono qualità personali e innate. Non ho l’ambizione di poterle insegnare. Credo però che sia necessario un luogo dove i giovani poeti, i parolieri, i musicisti e gli interpreti di quella che sarà la canzone francese del futuro possano incontrarsi, scambiarsi le esperienze e fare tesoro della lezione di chi prima di loro ha avuto la fortuna di frequentare il mondo dello spettacolo. Il talento non te lo regala nessuno, ma tutto il resto si può imparare. Io sogno che nessuno debba essere costretto ad attraversare da solo e senza riferimenti il pantano delle incertezze in cui molto spesso finisce per affondare il talento». Mireille nasce a Parigi il 30 settembre 1906. Il suo cognome è Hartuch e dalla madre, cantante lirica, assorbe la passione per la musica. Si dedica con impegno allo studio del pianoforte intenzionata a diventare concertista, ma prima ancora di entrare nell’età dell’adolescenza è costretta ad abbandonare il sogno stroncata dal giudizio di maestri troppo tradizionalisti e severi che rilevano come le sue mani siano troppo piccole per potersi muovere con eleganza sulla tastiera. Oggi il suo destino sarebbe stato probabilmente diverso. Qualcuno avrebbe ideato, progettato e costruito una tastiera adatta alle sue mani e Mireille terrebbe concerti in tutto il mondo. In quell’epoca, però, nessuno immagina che debbano essere gli strumenti a mettersi al servizio del talento e non viceversa. Il giudizio è senza appello: nella musica cosiddetta “colta” non c’è posto per lei. Mireille fa buon viso a cattivo gioco. In fondo la musica non è soltanto quella delle sale da concerto. Per questo continua con impegno a pigiare sui tasti bianchi e neri senza curarsi troppo della destinazione finale di tanta dedizione e, grazie alle conoscenze della madre, frequenta l’ambiente del cinema e del teatro. A sedici anni ottiene la prima scrittura dal Théâtre de l’Odéon dove recita piccole parti. Non abbandona, però, la musica. Canta accompagnandosi al pianoforte e compone canzoni. A vent’anni, quasi per buttarsi alle spalle i giudizi dei suoi vecchi maestri, quelli che avevano ritenuto le sue mani troppo piccole per una tastiera, partecipa a uno spettacolo di rivista con un numero particolare in cui suona il pianoforte con... i piedi. Nel 1928 Mireille incontra Jean Nohain, un giovane avvocato che si diletta a scrivere testi per le canzoni e che le regala i versi per alcune melodie da lei composte. Inizia così una collaborazione destinata a lasciare un segno importante nella storia della musica francese. L’inizio non è però esaltante. I primi due brani nati dalla collaborazione tra Mireille e Nohain, Le petit chemin e Couchés dans le foin, non suscitano particolari reazioni. In pochi sembrano interessati al loro lavoro e quei pochi non sono disposti a fare granché per promuoverlo. Mireille decide allora di cambiare aria. Se ne va a prima a Londra e poi negli Stati Uniti dove resta per molto tempo. A New York conosce George Gershwin e Irving Berlin che l’apprezzano e l’aiutano a trovare qualche scrittura. Suona a Broadway e a Hollywood dove partecipa anche ad alcune produzioni cinematografiche tra cui un cortometraggio con Buster Keaton. La giovane francese è affascinata dalle possibilità che le offrono gli States e per qualche tempo accarezza anche l’idea di non tornare più nel suo paese natale. Il destino, però, ha previsto diversamente. Mentre Mireille si trova negli Stati Uniti, Pills et Tabet, un duo all’epoca popolarissimo, inseriscono nel loro repertorio il brano Le petit chemin che ottiene uno straordinario successo. È la svolta. Quando Mireille, rintracciata da Jean Nohain, torna in Francia il suo nome è già famoso e nel 1931 i locali se la contendono come una star. Proprio insieme a Nohain inizia a sfornare una serie lunghissima di successi. Sono di quel periodo brani come Une demoiselle sur une balançoire, che verrà ripreso da Yves Montand nel 1951, Papa n’a pas voulu, 27 rue des Acacias, Le jardinier qui boite e tanti altri compreso Quand un vicomte, destinato a diventare uno dei cavalli di battaglia di Maurice Chevalier nel 1935. Oggi la critica è unanime nel considerare il viaggio di Mireille negli Stati Uniti determinante per la cifra stilistica che caratterizza il suo grande successo. Il principale pregio della ragazza è infatti la sua capacità di innervare la canzone francese con le suggestioni dello swing senza snaturarne né reciderne le radici. Scrive Jacques Pessis, l’autore di uno spettacolo musicale a lei dedicato, che il suo stile «...cancella di colpo tutti i cantanti e le cantanti dagli occhi tristi che avevano conquistato la scena nel decennio precedente...». Le novità stilistiche da lei introdotte aprono la struttura tradizionale della canzone francese all’apporto del jazz e condizionano tutti i protagonisti successivi, a partire da Charles Trenet per finire, molto più tardi, a Georges Brassens. I suoi brani accompagnano la scalata al successo di decine di interpreti, soprattutto di Jean Sablon, il cui repertorio è caratterizzato prevalentemente dai suoi brani. Nel 1937 Mireille sposa Emmanuel Bert, uno scrittore, filosofo e intellettuale i cui interessi e la cui vita sono lontanissimi dal mondo dello spettacolo. Si tratta di un’unione destinata a fare scalpore anche per le modalità della convivenza tra due persone così diverse che prevedono, per esempio, la separazione della casa in due ambiti distinti e separati da una linea di confine particolare perchè imperniata su una serie di fiocchi rossi. Nessuno dei due, salvo in casi rarissimi, parteciperà alle vicende e agli appuntamenti artistici dell’altro. Nonostante la singolarità delle regole o, forse, proprio grazie a questa caratteristica il matrimonio reggerà allo scorrere del tempo fino al 1976, quando lo scrittore e filosofo muore. È Sacha Guitry che nel 1954 spinge Mireille a concretizzare il Petit Conservatoire de la Chanson, una corso radiofonico per giovani talenti che nel 1960 diventa anche televisivo e complessivamente accompagna la vita dei francesi per trent’anni. La sua popolare figura di insegnante televisiva finisce però per sovrapporsi e annebbiare un po’ quella dell’interprete. Negli anni Settanta in pochi si ricordano che Mireille è stata anche una straordinaria cantante. Per i distratti, gli immemori e per chi non era ancora nato all’epoca dei suoi grandi trionfi, Michel Berger la convince a tornare sulle scene. Nel 1976 la cantante incide un nuovo disco e presenta sul palcoscenico del Bobino uno spettacolo che viene replicato per ben tre settimane di fila. Non sarà l’ultima apparizione perchè nel 1995, grazie all’insistenza dei suoi vecchi allievi divenuti personaggi famosi, tornerà ancora a esibirsi su un palcoscenico, prima su quello del Piccolo Teatro della Poitinière e poi su quello del Théâtre national de Chaillot. Sono gli ultimi regali di un’artista unica nel suo genere prima che una polmonite se la porti via.

25 dicembre, 2019

25 dicembre 1878 – Il figlio dell’orologiaio Chevrolet

Il 25 dicembre 1878, a La Chaux-de-Fonds, un paesino svizzero sperduto nelle montagne del Giura nasce Louis, uno dei sette figli dell’orologiaio Chevrolet. Ben presto la famiglia lascia le vallate svizzere per cercare nuove opportunità trasferendosi a Beaune nella vicina Francia. Il giovane rampollo inizia a fare il meccanico nella società di trasporti Roblin, riparando carri e biciclette. Secondo la leggenda il diciannovenne Louis scopre qui la sua vera vocazione. Tutto accade nella primavera del 1897 quando il ragazzo viene chiamato all’Hotel de la Poste per dare un’occhiata all’autovettura in panne del miliardario americano Vanderbilt. Quest’incontro con le auto e l’America avrebbe segnato il suo destino. In attesa che si compia, però, il giovane Chevrolet corre in bicicletta e vince molte gare a cavallo di una Gladiator, un biciclo costruito dalla casa automobilistica Darracq di Parigi. Le vittorie gli fruttano un nuovo posto di lavoro presso la casa parigina dove impara tutto quello che si può sui motori a scoppio. Imparata l’arte prende armi e bagagli e se ne va dall’altra parte dell’oceano, prima a Montreal e poi a Brooklyn dove lavora come meccanico nel laboratorio dell’emigrato svizzero William Walter. Inizia anche a gareggiare con successo su bolidi dell’epoca preparati con cura e spirito innovativo. La sua prima auto è una Fiat con la quale vince nel 1905 la Tre Miglia frantumando anche il record della corsa. Per quindici anni continuerà a gareggiare accumulando vittorie, record e drammatici incidenti che gli lasciano vari segni sul fisico. L’8 novembre 1911 fonda la Chevrolet Motor Car Company of Michigan insieme a William “Billy” Durant, il deus ex machina della General Motor. La prima vettura marchiata Chevrolet che esce dagli stabilimenti di Detroit è la Classic Six e vede la luce nel 1912. Durant pensa a prodotti a basso costo che possano favorire la motorizzazione di massa, ma Chevrolet ha in mente segmenti esclusivi e auto da corsa. È evidente che il sodalizio non può durare. Il geniale svizzero vende società e nome al socio e se ne va. Il marchio avrà un successo straordinario ma neanche un centesimo di dollaro finirà nelle tasche del fondatore, che ha lasciato al socio tutti i diritti sul nome e l’intera quota nella società.

24 dicembre, 2019

24 dicembre 1931 - Ray Bryant, il pianista del Blue Note


Il 24 dicembre 1931 nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il piccolo Raphael Homer Bryant, destinato a diventare un famoso pianista con il nome di Ray Bryant. Cresciuto in una famiglia di musicisti con la madre e una sorella pianiste e il fratello maggiore contrabbassista, inizi a prendere confidenza con lo studio delle sette note fin dai primi anni di vita. Il suo primo strumento è il contrabbasso e soltanto dopo aver terminato le scuole secondarie passa al pianoforte. Nel 1950 ottiene la prima vera scrittura della sua carriera da Mickey Collins. Nei tre anni successivi suona con Tiny Grimes e Billy Kretchmer. Assunto come pianista fisso al Blue Note di Philadelphia accompagna musicisti famosi come Charlie Parker, Sonny Stitt, Miles Davis, Sonny Rollins e molti altri. Proprio il lavoro sul pianoforte del locale gli dà modo di farsi conoscere e apprezzare dalle stelle che si trova ad accompagnare. Alcuni di loro, infatti, lo chiamano a New York per partecipare all'incisione dei loro dischi. Dal 1956 diventa il pianista di Carmen McRae alternando l’impegno d’accompagnatore con varie esperienze nei gruppi di Dizzy Gillespie, Max Roach, Jo Jones, Charlie Shavers e Sonny Rollins. Nel 1959 si mette in proprio e da allora preferisce suonare quasi esclusivamente in trio o da solo. Muore il 2 giugno 2011.



23 dicembre, 2019

23 dicembre 1996 – Rina Ketty, un'italiana a Montmartre


Il 23 dicembre 1996 muore a Cannes Rina Ketty, al secolo Rina Picchetto, l’italiana arrivata per caso nella capitale francese e divenuta poi una stella luminosa della canzone. Sul luogo d'origine c'è un mistero. Per alcuni biografi Rina Ketty nasce il 1° marzo 1911 a Torino, per altri a Sarzana, al n° 6 di Via Emiliana. Dei suoi primi anni non si sa molto anche se la leggenda racconta di una fanciulla che alterna lezioni di “bel canto” con attività d’arte domestica destinate a fare di lei una perfetta ragazza da marito. Vero e falso si confondono fino a quando, all’inizio degli anni Trenta, parte per Parigi dove dovrebbe fermarsi giusto il tempo di fare visita alle zie lì emigrate. Il passaggio alla capitale francese ha l’effetto di una scossa elettrica. La ventenne Rina respira a pieni polmoni l’aria della capitale francese, si lascia catturare senza opporre alcuna resistenza dalle suggestioni della sua vita culturale e diventa una frequentatrice assidua di quella straordinaria mescola di musicisti, poeti, pittori, filosofi, scrittori e illusi vari che si autodefinisce Comune Libera di Montmartre. I suoi componenti non hanno una sede vera e propria, ma tanti luoghi di ritrovo quanti sono i locali che si affacciano sulle vie che innervano il quartiere di Montmartre. Uno di questi è il “Lapin à Gill”. Proprio qui, in una serata del 1932, l'italiana arrivata a Parigi per far visita alle zie trova il coraggio di far sentire la sua voce ai compagni d’avventura e al pubblico presente. Non canta canzoni intere, ma soltanto qualche ritornello di brani più in voga. Lei accenna e, quando non si ricorda le parole, gli amici l’aiutano a completare il brano. Nonostante l’approssimata esibizione il pubblico resta affascinato dalla personalità di quella ragazza e quell’accento italiano che ne caratterizza la dizione diventa un elemento aggiuntivo al suo fascino. Intrigante ed esotico è destinato a essere parte della sua cifra artistica. Quella sera a Montmartre Rina Picchetto diventa definitivamente Rina Ketty. Il buon successo riscosso dall’improvvisata esibizione al “Lapin à Gill” convince Rina Ketty delle sue potenzialità come cantante, ma soprattutto convince i proprietari dei vari locali di Montmartre la scritturano. La ragazza assembla un repertorio imperniato sulle canzoni più adatte alla sua voce e al suo stile nel quale spiccano brani di Paul Delmet, Gaston Couté, Théodore Botrel e Yvette Guilbert. Il più assiduo tra i musicisti che l’accompagnano è il fisarmonicista Jean Vaissade, un tipo che conosce bene gli umori del pubblico parigino e che consiglia a Rina di non modificare per niente il suo accento italiano. «È esotico e sentimentale al tempo stesso. Invece di nasconderlo dovresti metterlo maggiormente in evidenza con brani costruiti a questo scopo». Jean non è soltanto il suo consigliere artistico. Innamorato di lei fin dal primo incontro diventa ben presto il suo confidente, amico e infine amante. Grazie alla sua intuizione nasce il mito della “chanteuse italienne exotique et sentimentale”, la cantante italiana esotica e sentimentale, capace di far battere forte il cuore degli abitatori della notte parigina. Di locale in locale, di concerto in concerto la sua popolarità supera i confini di Montmartre per allargarsi all’intera capitale. Di lei si accorge anche la nascente industria discografica. Dopo un contratto firmato negli ultimi mesi del 1935 a partire dal 1936 inizia a frequentare con una certa assiduità le sale di registrazione. Tra le sue prime incisioni spicca un’originale e affascinante versione di Si tu reviens, un brano scritto nel 1935 da Saint-Giniez e Tiarko Richepin per Réda Caire e che verrà ripreso anche da Berthe Sylva. Per uno di quegli strani paradossi così caratteristici del mondo dello spettacolo quella canzone, che oggi è considerata una delle più significative del primo repertorio della cantante, passa quasi inosservata mentre ottengono un buon successo brani come La Madone aux fleurs o Près de Naples la jolie decisamente inferiori sia dal punto di vista musicale che da quello della qualità interpretativa. A partire dal 1937 Rina Ketty arricchisce il suo repertorio con alcune personali versioni francesi di successi italiani e internazionali, tra i quali spiccano Prière à la Madone, Sombreros et mantilles e, soprattutto quella Rien que mon coeur con la quale vince il Grand Prix du Disque del 1938. Nello stesso anno sposa il fisarmonicista Jean Vaissade, l’uomo che le è stato al fianco e al quale deve gran parte delle sue fortune. Nello stesso anno interpreta e pubblica in disco per la prestigiosa etichetta Pathé J'attendrai, il brano più famoso e, insieme, il più grande successo della sua carriera. Si tratta dell’adattamento di una canzone italiana scritta da Dino Olivieri, intitolata Tornerai che a sua volta trae ispirazione da un'aria della “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini. La canzone ottiene un enorme successo tanto da essere ancora oggi considerata una delle più significative degli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale. Il pubblico accorre numerosissimo ai suoi concerti e le sue esibizioni all’ABC, all'Européen e al Bobino entrano nella leggenda. È forse il miglior momento dell’intera carriera della cantante, che coltiva il suo accento italiano come un fiore prezioso da preservare dalla corruzione, e molti autori scrivono le canzoni in modo da far risaltare la sua dizione e il suo fraseggio elaborato. Nel giugno del 1939 Rina Ketty fa un'incursione nel repertorio classico con il brano Mon coeur soupire, un adattamento dell’aria "Voi che sapete" da “Le nozze di Figaro” di Mozart. Solo due anni dopo il matrimonio il suo rapporto con Jean Vaissade va in crisi e alla fine del 1940 i due si sono già separati definitivamente. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale l’Italia fascista occupa parte del territorio della Francia ormai prostrata dall’invasione nazista. Non sono tempi bellissimi per gli artisti di origine italiana e Rina Ketty vive un po’ in disparte limitando le sue esibizioni alla sola Svizzera. Nel 1945, dopo la Liberazione, rientra nel giro con un concerto all'Alhambra seguito da cinque mesi di tournée in Francia. I tempi però sono cambiati e nuovi personaggi femminili stanno conquistando il pubblico che un tempo era stato solo suo. Pur non toccando più i vertici di grazia raggiunti prima della guerra ottiene ancora un buon successo grazie a brani come Sérénade argentine, La samba tarentelle e La Roulotte des gitans. La Francia però le va stretta. Nel 1954 attraversa l’oceano per andare in Canada dove resta fino al 1965 quando, presa da nostalgia, torna sulle scene francesi. L’epoca dei trionfi è ormai lontana e lei, sia pur con qualche resistenza, pian piano si abitua al fatto che la musica non può più essere il suo principale interesse. Trova anche un nuovo amore in Jo Harman che diventa il suo secondo marito e si trasferisce a Cannes dove si occupa di restauri. Nel 1991 il ministro della cultura della Repubblica Francese Jack Lang le conferisce il titolo di Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere, la più importante onorificenza di Francia nel campo della cultura. Nel marzo 1996 appare per l’ultima volta sulla scena e nove mesi dopo il suo cuore cessa per sempre di battere all'ospedale delle Broussailles a Cannes.


22 dicembre, 2019

22 dicembre 1910 – Reunald, il cugino di Eldridge


Il 22 dicembre 1910 nasce a Indianapolis, nell’Indiana, il trombettista Reunald Jones sr. Il ragazzo cresce in una famiglia nella quale la musica è un po' il pane quotidiano, visto che il padre, insegnante al conservatorio, cerca di trasmettere ai figli la passione per il rigo musicale. Si può dire che il destino di Reunald e di gran parte della parentela sia segnato fin dalla nascita. Due suoi fratelli, pur senza restare nella storia, suoneranno professionalmente e il talentuoso cugino Roy Eldridge entrerà nelle enciclopedie come uno dei più grandi trombettisti che il jazz abbia mai conosciuto. Proprio quest'ultimo finirà per oscurare in parte la carriera di Jones, costretto spesso a non brillare di luce propria ma a essere considerato il "cugino di Eldridge". Eppure la sua è una carriera di tutto rispetto. Studia musica, ovviamente, fin da bambino e fa il suo debutto a Minneapolis suonando con varie formazioni locali prima di essere ingaggiato nel 1930 dall'orchestra di Speed Webb, la stessa che schiera in organico anche suo cugino Roy Eldridge. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta suona con Charlie Johnson, Teddy Hill, Jimmie Lunceford, Fess Williams, Sam Wooding, Cluade Hopkins, Chick Webb, Willie Bryant, Don Redman e Duke Ellington, imponendosi come una tromba guida dall'attacco deciso e dalla sonorità brillante. Per gran parte degli anni Cinquanta resta uno dei punti cardine dell'orchestra di Count Basie. Passerà poi con Woody Herman e, successivamente, con la big band di George Shearing. Gli anni Sessanta lo vedranno al fianco di Nat King Cole e Phil Moore. Muore il 26 febbraio 1989.



21 dicembre, 2019

21 dicembre 1992 – Albert King, il miglior mancino prima di Hendrix


Il 21 dicembre 1992 muore a Memphis, nel Tennessee, il bluesman Albert King. Ha sessantanove anni e uno stile, unico, che non lascia eredi diretti. Del suo lavoro restano registrazioni che testimoniano di una voce singolare, personalissima e ispirata alle tecniche degli shouters, i cantastorie da strada del blues. I solchi dei suoi dischi raccontano anche di un chitarrista mancino dalle caratteristiche note “tenute”. Albert Nelson, questo è il suo vero nome, nasce il 25 marzo 1923 a Indianola, nel Mississippi. È un ragazzino quando impara a suonare la chitarra dai musicisti itineranti che percorrono le strade del suo paese. In quel periodo impara ad amare il blues tanto da farne la sua vita. Negli anni della “grande depressione” la sua famiglia finisce, come molte altre, nel grande fiume dei disoccupati che migrano all’interno degli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro. Adolescente si ritrova così catapultato a Forest City nell'Arkansas, con il cuore gonfio di rimpianto e di nostalgia per i suoi amici e per la città natale. Quando capisce di non poterne più prende la chitarra e se ne va. Come i grandi interpreti del blues rurale d’inizio secolo vagabonda a lungo per le strade degli States adattandosi a mille lavori precari e suonando in piccoli locali in cambio di qualche pasto. Entra anche a far parte degli Harmony Kings, un gruppo gospel che ha più facilità a trovare scritture, e impara a suonare la batteria per allargare le possibilità di lavoro. Nel 1951 cambia il suo nome in Albert King in omaggio a B.B. King, il suo artista preferito. Nel frattempo il giro delle sue conoscenze si allarga e un paio d’anni dopo suona la batteria per Eddie Taylor e Jimmy Reed. Sempre nel 1953 si guadagna anche il primo contratto discografico, con la Chess, e incide vari singoli che passano inosservati e che verranno poi raccolti, in epoca successiva, nell'album Door to door. Il primo successo discografico arriva quasi dieci anni dopo, nel 1962, con Don't throw your love on me so strong. Nel 1966 si ritrova nella grande famiglia della Stax, una delle case discografiche protagoniste del boom della musica nera, e inizia a scalare le classifiche di vendita. Dopo la sua morte la critica ne esalterà la tecnica chitarristica, attribuendogli il titolo, postumo, di “miglior mancino prima di Jimi Hendrix”.



20 dicembre, 2019

20 dicembre 1882 – Morte a Franz, viva Oberdan!

Il 20 dicembre 1882 muore impiccato Guglielmo Oberdan, un giovane irredentista triestino protagonista di un fallito attentato all’imperatore Francesco Giuseppe (Franz). Dopo la sua morte nasce un canto particolare. Si intitola Inno a Oberdan e le sue strofe inneggiano alla morte dell’imperatore austriaco. Pur potendo rientrare tra le canzoni e gli inni patriottici non gode però di particolari simpatie da parte del potere sabaudo. Fin dai primi anni della sua diffusione viene, infatti, guardato con sospetto per il sostanziale invito al regicidio in esso contenuto e per la violenta carica antimonarchica delle sue parole. Cancellato dai "Canzonieri patriottici" finisce per trovare posto in quelli repubblicani e anarchici. Molti sono i simboli che il potere costituito, così pronto a esaltare le gesta degli irredentisti quando servono alla propaganda, ritiene inaccettabili. Il primo è l'assoluta mancanza di riferimenti all'Italia unita, il secondo è l'idea della violenza regicida, patrimonio della tradizione anarco-repubblicana. In più la contrapposizione tra la monarchia austriaca («a morte») e la libertà viene vista come una sorta di condanna implicita del regime monarchico. Ripudiata dalle istituzioni, la canzone diventa patrimonio popolare e, nel periodo della resistenza trova nuove ragioni per essere intonata con spirito anti-tedesco (e antinazista). Ma chi era Oberdan? Guglielmo Oberdank (questo era il suo vero cognome), nasce a Trieste nel 1858. Dopo essersi diplomato nella città natale, nel 1877 se ne va a Vienna per frequentare gli studi di ingegneria. L'anno successivo viene chiamato alle armi e decide di fuggire. Raggiunge Roma dove continua gli studi universitari e, contemporaneamente, si impegna attivamente nelle campagne a sostegno dei movimenti irredentisti. Nel settembre 1882 viene annunciata la visita ufficiale dell'imperatore Francesco Giuseppe a Trieste per celebrare il quinto centenario della "dedizione" della città agli Asburgo. Oberdan decide di rientrare. Insieme all'istriano Donato Ragosa arriva a Trieste contando sulla protezione degli ambienti irredentisti e prepara un attentato all'imperatore. Il sottobosco irredentista, però, è largamente infiltrato da agenti sei servizi asburgici, collaborazionisti e delatori. Denunciato, viene catturato e trovato in possesso di due bombe. Il processo si conclude con la condanna a morte mediante impiccagione. Sua madre presenta una domanda di grazia sostenuta anche da numerosi intellettuali europei, tra i quali Victor Hugo e Giosuè Carducci, ma non cambia nulla. Il 20 dicembre 1882 dunque Oberdan viene impiccato. La campagna a favore della grazia ha allargato a dismisura la sua popolarità e in questo clima nasce anche la canzone Inno a Oberdan. Tra le versioni più drammatiche del brano c'è quella cantata da Milva nel 1965 al Piccolo Teatro di Milano per il ventesimo anniversario della Liberazione nello spettacolo "Canti della libertà" con la regia di Giorgio Streheler.

17 dicembre, 2019

18 dicembre 2001 - L'addio di Gilbert Bécaud

Il 18 dicembre 2001 Gilbert Bécaud muore di cancro a Parigi nella casa galleggiante sulla Senna che da molto tempo è diventata il suo rifugio. A noi lascia un patrimonio incalcolabile di musica, sentimenti ed emozioni, compresa un'inusuale e innovativa opera lirica, "L'Opéra d'Aran", presentata per la prima volta il 25 ottobre '62 al Teatro degli Champs-Elysées a Parigi. Si calcola siano quasi cinquecento le canzoni scritte da Gilbert Bécaud. Un patrimonio ingente che lascia ancora più impressionati se si pensa che lo chansonnier le ha scritte prendendo quasi sempre in prestito le parole dai suoi amici poeti. Sono loro la voce della sua musica, sono loro che ne articolano i pensieri, i concetti, i voli fantastici. Sono i poeti che regalano le parole giuste agli chansonnier. Il primo che fa parlare la sua musica di Bécaud si chiama Maurice Vidalin. È il 1947. Un anno dopo alla coppia si aggiunge Pierre Delanoë, un giovane autore scovato chissà dove dalla cantante Marie Bizet. All'inizio degli anni Cinquanta i poeti che lo affiancano diventano tre con l'arrivo di Louis Amade. Come uomo, prima ancora che come artista, per tutta la carriera ha guardato il mondo con occhi ben aperti e con la coscienza che la poesia, fin dall’antichità, non serve soltanto per cantare l’amore e le emozioni, ma anche per dare voce ai conflitti e alle tensioni della società. Istintivo e passionale non rinuncia mai a essere se stesso neppure nei momenti di maggior successo quando, per ragioni di mercato, i suoi discografici vorrebbero sfumare un po’ i lati più spigolosi del suo carattere. La musica e il pianoforte sono i compagni più fedeli che l’accompagnano fin dai primi anni della sua vita, iniziata il 24 ottobre 1927 in quel di Tolone. Bambino prodigio, François Silly, questo è il suo vero nome, inizia a studiare al Conservatorio di Nizza nel 1935 a soli nove anni affascinato dalla possibilità di carpire i segreti dei tasti bianchi e neri, ma è costretto a interrompere gli studi nel 1942 quando le vicende della guerra e dell’occupazione nazista spingono la sua famiglia a mollare tutto per rifugiarsi in Savoia. In quegli anni si matura in fretta, soprattutto se si vive in una famiglia in cui il primo figlio maschio, Jean Silly, è un combattente della Resistenza. Il piccolo François non è diverso dagli altri. Per sopravvivere cresce aggrappato al pianoforte e quando la guerra finisce e i nazisti se ne vanno lui corre a Parigi dove i locali notturni catalizzano la voglia di vivere delle nuove generazioni. Lì nella capitale François Silly diventa François Bécaud prendendo in prestito il cognome dell’uomo che ha accompagnato la madre dopo la fuga di un padre mai conosciuto veramente. Inizialmente non pensa di avere un talento particolare come cantante. Si immagina musicista di successo, compone canzoni, musiche da film e pigia sulla tastiera brani destinati ad accompagnare il chiacchiericcio del pubblico dei locali notturni. La voce, che per un po’ è quasi un complemento delle sue esibizioni, progressivamente diventa l’elemento distintivo della sua personalità. Il lungo tragitto verso la popolarità passa per il cantante Jacques Pills, l’uomo che gli offre un posto nelle sua orchestra e lo porta con sé in giro per il mondo. Nel corso di una tournée di particolare successo negli Usa il futuro Bécaud incontra Edith Piaf. La cantante più amata di Francia è affascinata dalla personalità del giovane e gli chiede di scrivere qualcosa per lei. Lui le regala Je t'ai dans la peau destinato a diventare rapidamente un successo, uno dei primi regalati ad altri. Nel 1952 Bécaud lascia per sempre il suo nome anagrafico. Muore François Silly e nasce Gilbert Bécaud, lo chansonnier dai modi gentili e dall’eleganza leggermente trasandata. Nello stesso anno nasce anche la bella amicizia che lo lega a un altro debuttante come lui, Charles Aznavour. I due, destinati a essere vissuti come rivali nell’immaginario popolare, in realtà collaboreranno e scriveranno canzoni insieme. Nel 1953 viene pubblicato il primo disco firmato Gilbert Bécaud. Le due canzoni sono Mes mains con il testo di Delanoë e Les Croix firmato Amade. Viene registrato il 2 febbraio, lo stesso giorno in cui nasce sua figlia Gaya. È l'inizio di un'avventura destinata a durare a lungo. Vestito sempre di blu con la cravatta a pois, che si dice non cambi mai per scaramanzia, e che viene dapprima accuratamente annodata, poi slacciata e maltrattata a seconda degli umori dei diversi momenti dell’esibizione, diventa uno dei primi idoli giovanili della storia della musica mondiale. La buona accoglienza che la critica riserva ai suoi dischi, i buoni risultati commerciali, i passaggi radiofonici e qualche concerto nei locali notturni non bastano ancora a far di Gilbert Bécaud un grande della musica francese. In quel periodo è più popolare negli Stati Uniti di quanto non lo sia in patria dove gli manca il vero, grande, travolgente successo dal vivo. L’occasione della vita arriva nel 1955 quando riapre l'Olympia e Bruno Coquatrix, il proprietario del celebre teatro parigino lo scrittura. È la svolta. Il 17 febbraio 1955 la sua esibizione all'Olympia viene "festeggiata" da quattromila fans urlanti che, trascinati dalla carica dell’esibizione, distruggono parte della sala. È un evento senza precedenti. La stampa si scatena, affibbiando all'artista soprannomi come "Monsieur Dynamite", "Le Champignon Atomique" e il più celebre, "Monsieur 100.000 Volts", che l’accompagnerà per tutta la vita. In quel periodo Bécaud è artefice in Francia di una rivoluzione musicale simile a quella che Domenico Modugno replicherà in Italia qualche anno: contrapporre al bel canto, all'interpretazione a fil di voce, l’espressività vocale libera da regole, il trasporto emotivo e la gestualità trascinante. È una lezione che lascia segni profondi e che innova fortemente l’intera scena musicale. All'inizio degli anni Sessanta arriva anche la consacrazione internazionale con Et maintenant, il brano più famoso della sua carriera scritto su un testo di Pierre Delanoë, che conoscerà oltre centocinquanta versioni diverse in quasi tutte le lingue del mondo. Infaticabile vagabondo supporta la propria popolarità con una serie incredibile di tournée in ogni angolo del mondo, Africa compresa, arrivando a totalizzare l'incredibile cifra di duecentocinquanta concerti in un anno. Nel 1974 viene insignito della Legion d'Onore, consegnatagli direttamente (contravvenendo la tradizione) sul palco dell'Olympia, cioè a casa sua, da un Louis Amade più emozionato di lui. Le sue canzoni sono entrate nel repertorio di un'infinità d'interpreti, compresi Bob Dylan e James Brown. Negli anni Settanta aggiunge ai poeti che lo circondano il nome del giovanissimo Pierre Grosz dal quale prende a prestito il testo della canzone Mais où sont-ils les jours heureux?. Gilbert Bécaud è un dominatore nato, un artista dotato di un carisma eccezionale, definito dalla critica e della stampa come «...un leone del palcoscenico... il più viscerale, sanguigno, passionale e caldo degli chansonnier che hanno segnato la scena francese del Secondo Dopoguerra...». In scena non si risparmia e soprattutto non si nasconde dietro ad alcuna maschera. Il suo stile così lontano dall’eleganza stucchevole dei cantanti di bella presenza non ammette mezze misure. Chi non lo ama lo vive con insofferenza. Sono molti ad amarlo, in Francia, nel mondo e anche in Italia dove a partire dalla fine degli anni Cinquanta comincia a essere una presenza costante e conosciuta. Con lo sviluppo della televisione diventa uno degli ospiti di riguardo dei varietà che, soprattutto il sabato sera, inchiodano il pubblico davanti al piccolo schermo in bianco e nero. L’alter ego della sua passionale esuberanza è un altro chansonnier. Si chiama Charles Aznavour. I due personaggi si presentano in modo completamente differente: irruente, espansivo e trascinante Bécaud, elegante, introverso e romantico Aznavour. Di fronte a due personalità così radicalmente opposte la stampa italiana si inventa una rivalità che non esiste. I due infatti sono legati da un’amicizia e una stima così profonde che all’inizio della carriera hanno addirittura unito la loro creatività. In Italia però la rivalità è funzionale alla costruzione dei personaggi per cui entrambi finiscono per adeguarsi alle esigenze degli uffici stampa. D’altronde siamo il paese dei dualismi come dimostrano le ricorrenti costruzioni di rivalità vere o inventate tra Coppi e Bartali, Lollobrigida e Loren o, per restare nella musica, Gianni Morandi e Claudio Villa. Il rapporto tra Gilbert Bécaud e il cinema è lungo e proficuo. Il grande schermo lo affascina e soprattutto ne stimola la vena creativa. Compone numerosissime colonne sonore e molti suoi brani di successo hanno fatto da sottofondo alle vicende di qualche storia cinematografica. È il caso, per esempio, di canzoni come Je t’ai dans la peau, Si si si la vie est belle, C’est merveilleux l’amour, Si je pouvais revivre un jour ma vie o La marche de Babette nate per il cinema e diventate parte della storia stessa della canzone francese. In qualche caso non disdegna di prestare il suo contributo anche come attore. La sua prima presenza sul grande schermo risale al 1947 quando il regista Paul Mesnier gli affida una particina nel ruolo di un pianista nel suo film “Kermesse rouge”. Il suo nome non figura neppure nei titoli di coda, ma Gilbert non se la prende. La stessa sorte tocca anche alla sua brevissima presenza scenica in “Boum sur Paris” diretto da Maurice de Canonge nel 1954 per il quale compone la canzone Je t’ai dans la peau, destinata a diventare un successo nell’interpretazione di Edith Piaf. Il primo ad affidargli un ruolo di rilievo è Marcel Carné che in “Le pays d’où je viens” del 1956, il film uscito in Italia con il titolo “Il fantastico Gilbert” lo chiama a interpretare sia il personaggio del timido e innamorato pianista Julien Barrière che quello del suo alter ego disinvolto e un po’ gaglioffo Eric Perceval. Il successo ottenuto dal film di Carné lo impone all’attenzione dei registi e soprattutto dei produttori intenzionati a sfruttare al meglio la sua popolarità come cantante. L’anno dopo veste i panni del tenero Jacques Merval in “Casino de Paris” di André Hunebelle, un film che viene ancora oggi considerato uno dei primi interessanti esempi di musical europeo capace di conquistare l’attenzione del pubblico statunitense. Nel 1959 interpreta il ruolo di Bernard Villiers nel film “Croquemitoufle” di Claude Barma e nel 1961 è un pilota in “Les petits matins”, un lungometraggio diretto da Jacqueline Audry e uscito nelle sale italiane con il titolo di “Una ragazza a rimorchio”. Nel 1963 interpreta se stesso in “Canzoni nel mondo”, un musicarello firmato da Vittorio Sala. Nel 1972 è Henry Lefevre in “Un uomo libero” di Robert Muller e due anni dopo torna a interpretare se stesso in “Tutta una vita” di Claude Lelouch. Gli anni Ottanta e Novanta lo vedono impegnato sul piano musicale a sperimentare nuovi confini e nuove mescole tra la canzone d’autore e la musica mediterranea. Pian piano, però, il suo impegno principale diventa quello di spegnere il fuoco di un cancro che gli morde le carni. Il 18 dicembre 2001 Gilbert Bécaud muore. Due mesi prima ha compiuto settantaquattro anni. Il suo corpo viene sepolto al Pére Lachaise di Parigi. La morte di Bécaud arriva in un periodo in cui il mondo è sull’orlo di una nuova devastante guerra dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York. Il 2001 resta così nella memoria come un anno difficile e complicato per tante ragioni. Per il mondo della musica è un anno bastardo, incattivito e inesorabile. Nel 2001, infatti, con Gilbert Bécaud se ne vanno l’ex Beatle George Harrison, Joey Ramone dei Ramones, Perry Como, Joe Henderson, Aaliyah, John Fahey, John Lee Hooker, "Papa" John Phillips e Bianca Halstead delle Betty Blowtorch, uno dei gruppi più significativi del rock cattivo al femminile.


17 dicembre 1925 - Walter Lee Bolden una batteria free-lance

Il 17 dicembre 1925 nasce ad Hartford, nel Connecticut, il batterista Walter Lee Bolden. Proprio nella sua città natale inizia a studiare percussione e composizione presso la Julius Hart's School of Music. Dopo varie esperienze con gruppi scolastici e inizia a picchiare su piatti e tamburi da professionista nel 1950 quando Stan Getz lo chiama a far parte del suo gruppo. Negli anni successivi suona con le band di Horace Silver, Howard McGhee, Mat Mathews e Teddy Charles. La vita e la disciplina di gruppo non lo attraggono tantissimo. Nel 1954 quando si stabilisce a New York sceglie di lavorare prevalentemente come free-lance, unendosi di tanto in tanto a piccole formazioni. Batterista molto efficace in accompagnamento, Bolden si richiama allo stile di Kenny Clarke e Max Roach. Ha inciso dischi con Gerry Mulligan, Stan Getz e Howard McGhee.

16 dicembre, 2019

16 dicembre 1907 - Bernard Flood, un irrequieto trombettista


Il 16 dicembre 1907 a Montgomery in Alabama nasce il trombettista Bernard Flood. Dopo aver studiato musica al Tuskegee Institute di Atlanta inizia a suonare professionalmente nel 1930 con la band di Bobby Neal. Nel corso di tutti gli anni Trenta la sua attività è particolarmente intensa. Nel 1931, infatti, entra a far parte dell’ensemble di Fess Williams che lascia nel 1933 per unirsi alla band di Teddy Hill. Dopo un’esperienza con Chick Webb e Luis Russell nel 1936 suona nel gruppo di Charlie Johnson e l’anno dopo si unisce alla band di Edgar Hayes. Nei primi mesi del 1939 Louis Armstrong gli chiede di entrare nell’organico della propria orchestra in sostituzione di Otis Johnson. Bernard accetta e ha così l’occasione di partecipare a diverse sedute di incisione per la Decca. Nel 1941 suona con Jimmy Reynold e dopo un ritorno di fiamma per l'orchestra di Armstrong durato dal 1942 al 1943, si unisce alla band di Louis Russell e successivamente entra a far parte della grande orchestra di Duke Ellington. La sua permanenza con il Duke non è lunghissima ma gli consente di partecipare alla storia serie delle registrazioni che si svolgono dal gennaio al marzo del 1946, compresa quella realizzata con l’unione delle orchestre di Duke Ellington e Woody Herman che produce, tra l’altro, la famosissima versione di The C Jam Blues incisa sui V-Disc. Irrequieto e instancabile sperimentatore chiusa l’esperienza con Ellington forma una propria orchestra che mantiene in attività per diversi anni con moltissimi cambiamenti d’organico. A partire dalla metà degli anni Cinquanta le evoluzioni del jazz non lo convincono per cui decide di smettere. Prima di ritirarsi dalle scene musicali però suona per qualche tempo insieme al tenorsassofonista Happy Cauldwell.


15 dicembre, 2019

15 dicembre 1964 – Cara Dusty Springfield, se vuoi i soldi non criticare l’apartheid!


«La signorina Mary O'Brien, in arte Dusty Springfield, di professione cantante, nata il 16 aprile 1939, ad Hampstead, in Gran Bretagna è invitata a lasciare immediatamente il suolo della Repubblica del Sudafrica e a non farvi più ritorno perché persona indesiderata». Espulsa! Così si conclude il 15 dicembre 1964 la tournée sudafricana di Dusty Springfield. In realtà se avesse dato retta all’appello del sindacato dei musicisti britannici contro l’apartheid avrebbe dovuto annullare il tour di sua iniziativa ancor prima di partire, ma non ha saputo dir di no alle pressioni della sua casa discografica. Come altri non se l’è sentita di sfidare discografici, editori e impresari seguendo l’esempio dei Rolling Stones. Il problema dell’apartheid, però, non la lascia indifferente. Dopo aver riflettuto a lungo si ripromette di prendere posizione contro la segregazione razziale direttamente in Sudafrica, forse sopravvalutando un po’ il peso della sua popolarità in quel paese. Scopre a sue spese che, pur essendo una cantante famosa, non è intoccabile e non può permettersi di fare quello che vuole. Approfittando di una giornata di riposo nella tournée partecipa a un concerto non autorizzato contro l’apartheid che si svolge a Cape Town. Quando rientra nel suo albergo trova ad attenderla due uomini. Gentilmente, ma con una determinazione che non ammette repliche, la invitano a seguirli. Dusty tenta di prendere tempo. «Devo cambiarmi, non potremmo vederci più tardi?» I due sono irremovibili. La accompagnano in un comodo e spazioso ufficio governativo dove, senza tanti preamboli, riceve la notifica dell’atto immediato di espulsione dal paese. Il funzionario che le apre la porta la guarda con aria torva: «Voi artisti chi vi credete di essere? Lei, signorina, mi spiega cosa voleva dimostrare con l’esibizione di oggi? Se non le piaceva il nostro paese poteva starsene nel suo. I nostri soldi, però, vedo che non le fanno schifo!» La comunicazione tra i due fortunatamente finisce lì. Abbandonata anche dai funzionari della sua casa discografica, che hanno tempestivamente provveduto a porgere le loro scuse «per l’increscioso episodio» alle autorità sudafricane, Dusty Springfield torna da sola in Gran Bretagna con il primo aereo.

14 dicembre, 2019

14 dicembre 1963 – Dinah Washington, la regina del r & b


La sera del 14 dicembre 1963, nella sua casa di Detroit, la cantante Dinah Washington è tesa, stanca e terrorizzata dall'insonnia che la perseguita. Sta per iniziare una nuova tournée e, proprio per questo, si è sottoposta a una cura dimagrante che l'ha stroncata psicologicamente e fisicamente. Da un po' di tempo, però, ha trovato un modo efficace per combattere l'ansia: una buona dose di alcolici e un potente sonnifero. Un suo amico medico l'ha messa in guardia contro questa mistura, ma lei si è accorta che la fa dormire meglio. Anche questa volta segue il suo metodo, ma è l'ultima. La mistura micidiale l'uccide. Muore così, a trentanove anni, quella che è stata chiamata la Regina del rhythm & blues. Nata a Tuscaloosa, in Alabama, dove è registrata all'anagrafe con il nome di Ruth Jones, si trasferisce ancora bambina a Chicago con la famiglia. Le sue prime esperienze musicali hanno per sfondo gli interni della chiesa battista del South Side della sua città dove suona il pianoforte e canta nel coro gospel. Ben presto la sua attività si allarga al di fuori del quartiere e a soli sedici anni viene scritturata dalla grande cantante gospel Sallie Martin che la inserisce nel primo gruppo interamente femminile della storia del gospel. Nel 1943 Joe Glaser la ascoltata al Garrick's Bar di Chicago e la presenta a Lionel Hampton che la vuole nella sua orchestra. Da quel momento abbandona il suo vero nome e diventa Dinah Washington. Tre anni dopo lascia Hampton e inizia a muoversi da sola. Scritturata dalla Apollo pubblica i primi dischi di rhythm and blues. Il grande successo arriva, però, nel 1948, quando passa alla Mercury e pubblica una versione di West side baby che fa gridare al miracolo la critica. Negli anni Cinquanta diventa la Regina del rhythm & blues con un numero incalcolabile di presenze al vertice della classifica discografica di quel genere musicale. All'inizio degli anni Sessanta rinnova il repertorio e forma un duo di successo con Brook Benton. Alle soddisfazioni artistiche fa da contraltare una vita privata costellata da delusioni e problemi. Con sette matrimoni alla spalle e un difficile rapporto con i discografici, alla fine del 1962 è quasi tentata di lasciar perdere tutto. Ci ripensa nell'estate del 1963. Si prepara con cura al ritorno sulle scene, riprende a provare in sala e in palcoscenico, ma la tensione dell'attesa la soffoca. Tutto finisce la sera del 14 dicembre con l'aiuto dell'alcol e del sonnifero.