Il 9 gennaio 1925 a Somerville, nel New Jersey nasce Lee Van Cleef.. Il suo primo lavoro è quello di ragioniere nello studio di un commercialista anche se, come molti ragazzi di quel periodo, finisce per ritrovarsi in una divisa che, nel suo caso è quella della Marina. Chiamato a combattere nella seconda guerra mondiale, dopo il 1945 recupera il suo vecchio impiego ritagliandosi un po’ di spazio nel tempo libero per recitare in teatro con una compagnia amatoriale. Proprio in una di queste esibizioni viene notato da Joshua Logan che lo convince a lasciare l’impiego per dedicarsi al teatro a tempo pieno. Dalle assi del palcoscenico agli studi di Hollywood il passo è meno lungo di quel che sembra e Lee Van Cleef si ritrova a interpretare la parte di uno dei cattivi con i quali deve fare i conti Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinneman. È il 1952. Da quel momento il cinema diventa il suo unico mestiere e il western il genere nel quale viene scritturato con più frequenza. Quando sbarca in Italia chiamato da Sergio Leone che gli affida il ruolo del colonnello Douglas Mortimer in Per qualche dollaro in più non è una star, sfiora già i quarant’anni e sulle spalle ha una lunga carriera passata a dare volto e voce a personaggi destinati a finire male per mano del “buono” di turno. Il regista romano lo sceglie un po’ perché non costa moltissimo e un po’ perché si ricorda di aver visto la sua faccia in western entrati nella leggenda come Mezzogiorno di fuoco, Sfida all’OK Corral o L’uomo che uccise Liberty Valance. L’incontro con Sergio Leone e il successo di Per qualche dollaro in più danno inizio a una nuova fase della sua carriera. A differenza di Clint Eastwood non torna subito in patria, ma diventa una delle icone dell’intera epopea del western all’italiana. Con i suoi occhi felini a fessura, lo sguardo acuto, il naso adunco e la notevole prestanza fisica diventa uno dei più popolari duri e cinici cacciatori di uomini che si siano mai aggirati sui sentieri del western all’italiana. Del resto in un genere i cui codici non distinguono mai troppo bene il ruolo del buono da quello del cattivo un personaggio con le sue caratteristiche non poteva che avere fortuna. Accompagna poi le successive evoluzioni del western all’italiana e dopo l’esaurimento del genere alla fine degli anni Settanta torna a lavorare prevalentemente negli Stati Uniti. Tra le ultime interpretazioni di rilievo c’è 1997 - fuga da New York di John Carpenter. Il 16 dicembre 1989 muore per un infarto. Le sue ceneri riposano a Forest Lawn, vicino a Hollywood.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
09 gennaio, 2020
08 gennaio, 2020
8 gennaio 1970 – Georgius, un talento macchiato dal collaborazionismo
L’8 gennaio 1970 a Basoche-sur-Guyonne, in Francia, muore Georgius, un uomo dal talento multiforme che nella sua lunga carriera è stato cantante, attore, compositore, soggettista e anche romanziere di successo. Alla sua creatività sono ascrivibili una trentina di romanzi polizieschi, un numero imprecisato di opere teatrali, riviste e commedie cui, per essere precisi, andrebbero aggiunti più di duemila tra scenette, sketch e farse di breve durata. Dalla sua penna sono nate anche le parole di più di millecinquecento canzoni. Alla luce di una carriera così intensa e fertile l’appellativo di “Amuseur public n° 1” (letteralmente “trastullatore pubblico n° 1”) rende onore alla sua straordinaria dote, quasi naturale, di entrare in relazione con gli spettatori, capirne le aspettative e soddisfarle. Come ha scritto Robert Desnos «L’impostazione artistica di Georgius può essere apparentata ai graffiti. Egli traccia un segno veloce per abbozzare un contorno, un’apparenza quasi simbolica, ma non s’attarda a definirne i particolari». Abbozza, delinea e poi lascia che a riempire gli interstizi della sua creazione siano il frastuono della strada e i rumori a volte assordanti, a volte appena percepibili, della vita e della realtà delle persone. C’è chi ha avvicinato il suo stile a quello dei surrealisti, ma lui ha sempre evitato di farsi etichettare. Le sue canzoni hanno superato i confini del tempo e, come le sorgenti d’acqua buona, continuano a regalare freschezza anche in anni diversi da quelli in cui sono nate. Accade così che negli anni Sessanta della grande ribellione contro la tradizione e tutto ciò che ha il sapore del passato la sua Sur la route de Pen-Zac, scritta e portata al successo per la prima volta nel 1930, diventi un simbolo di rinnovamento. Nell’ondata dissacrante di quel periodo, infatti, la canzone viene recuperata da Les Charlots, uno dei gruppi più stralunati e surreali, nati come band di Antoine e divenuti un mito generazionale grazie anche a una fortunata serie di film. Georges Auguste Charles Guibourg, il futuro Georgius, nasce a Mantes-la-Ville il 3 giugno 1891 da Clémentine Augustine Bouteilly e da Georges Charles Joseph Guiborg, istitutore e giornalista. Poco tempo dopo la nascita del piccolo Georges la famiglia si trasferisce a Parigi seguendo il padre che ha iniziato a lavorare come redattore nel settimanale “La France aérienne”. Nelle intenzioni dei genitori il ragazzo dovrebbe diventare medico o, proprio come ripiego, avvocato. Studia anche il pianoforte e quando può lavora in una pellicceria. Nel 1907 inizia a esibirsi per i soci di un club privato cantando romanze e brani tratti dalle operette più in voga. L’anno dopo è uno dei cantanti scritturati per il Concerto del XX secolo che si svolge a Ménilmontant. Il suo modo di cantare e soprattutto il repertorio lo fanno assomigliare a quel tipo di interpreti che lui metterà alla berlina qualche anno dopo. «La mia vera natura era ancora ben nascosta e io cantavo con voce piagnucolante quelle canzoni che avrei così tanto preso in giro negli anni seguenti. Per la verità già allora mi sentivo ridicolo però ero davvero convinto che al pubblico piacesse soltanto quella roba». Nel 1909 l’impresario Dalos gli trova una serie di scritture in locali prestigiosi come l’Alhambra di Montreuil, l’Univers, la Fauvette e molti altri. Il repertorio è il solito, ma tra una romanza e un’aria da operetta Georgius si diverte a inserire qualche canzoncina comica come La polka des thunes e, soprattutto, Dans la fourrure (nella pellicceria), ritagliata sulla sua esperienza personale. Proprio questi siparietti umoristici convincono la direzione artistica del teatro Gaîté-Montparnasse a chiedergli di coprire provvisoriamente il ruolo di cantante comico nel varietà in cartellone. È il 1912. Il contratto da provvisorio diventa definitivo. Georgius resta sui manifesti del Gaîté-Montparnasse per tre anni regalando al pubblico cinque canzoni nuove alla settimana. Siccome non trova autori disposti ad assecondare quel ritmo decide di fare tutto da solo scrivendo parole nuove su arie già conosciute o affidandosi a una cerchia di amici musicisti disposti a dargli retta. La parodia diventa una delle sue specialità più apprezzate dal pubblico. Nel 1916 Georgius scrive “L’heure de la sieste”, la prima piéce teatrale della sua carriera, cui segue, due anni dopo, il primo spettacolo di rivista scritto, interpretato e diretto da lui: “La grande revue montmartroise”. Nel 1919 dà vita anche a Les Joyeux Compagnons, la propria compagnia teatrale. Il 28 gennaio 1921 sul palcoscenico de l’Européen presenta per la prima volta al pubblico il brano Sur un air de shimmy, destinato a diventare l’anno dopo il suo primo successo su disco. Alla metà degli anni Venti è al culmine della popolarità e il suo nome viene inserito nella ristretta rosa degli chansonniers di maggior successo. A differenza di quanto accade ad altri protagonisti di quel periodo la cui popolarità è immensa nella capitale ma scarsa nel resto del territorio francese, Georgius ottiene consensi in tutta la Francia. Non esiste città in cui i suoi concerti e, soprattutto, le sue riviste non siano letteralmente prese d’assalto dal pubblico entusiasta. In qualche caso, come all’Alcazar di Marsiglia dove le persone che non riescono a entrare provocano tumulti, si rende necessaria l’aggiunta di alcune repliche a quelle già previste dal programma. La gente canta in coro le sua canzoni, soprattutto Plus bath des javas, un brano che si prende gioco della Java, il ballo di moda di quegli anni. Nel 1926 la sua compagnia cambia nome e Les Joyeux Compagnons diventano Le Théâtre Chantant. Dietro il cambiamento c’è anche una novità nell’impostazione perchè Georgius sostituisce all’impianto del teatro di rivista tradizionale uno spettacolo basato su una serie di canzoni sceneggiate. Nel 1929 il suo spettacolo “Allô, ici Paris...” scandalizza il pubblico borghese del Moulin Rouge che si sente bersagliato dalla sua vena satirica e reagisce con freddezza. Lui non se ne cura. Due settimane più tardi viene portato in trionfo dagli spettatori che affollano all’inverosimile il cabaret Aux Buffes du Nord. Nel 1930 anche gli intellettuali cominciano ad accorgersi di Georgius e i critici musicali scrivono meraviglie della sua “vena surreale” regalandogli l’appellativo di “Amuseur public n° 1”. Nello stesso anno incide Sur la route de Pen-Zac un brano destinato a vendere ben 160.000 copie, una cifra assolutamente fuori dall’ordinario per l’epoca e che non ha alcun precedente nella ancor giovane storia dell’industria discografica francese. Meglio ancora va nel 1936 il disco di Au Lycée Papillon, che batte il suo record precedente diventa il brano di maggior successo commerciale di un periodo, gli anni Trenta, nel quale vedono la luce alcune delle canzoni più famose del suo repertorio come On ne peut pas plaire à tout le monde o Ça c’est d’la bagnole. Partecipa a vari programmi radiofonici e non rifiuta di sperimentarsi nel cinema. Nel 1941 veste i panni di Sganarello in una versione de “Il medico per forza” di Molière messa in scena dalla Comédie Française. Negli anni dell’occupazione nazista non abbandona il palcoscenico. Questa scelta gli vale l’accusa infamante di “collaborazionismo”. Nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione viene processato e condannato a stare lontano dalle scene per un anno. In quel periodo inizia a scrivere i primi romanzi polizieschi di una lunga serie destinata a durare per circa vent’anni. Nel 1946 torna a esibirsi sul palcoscenico del Bobino, ma si accorge che i tempi stanno cambiando. Nuove mode, nuovi stili e nuovi protagonisti si stanno affacciando sulla scena e lui non se la sente di ricominciare da capo. Proprio dal palcoscenico del Bobino nel 1951 annuncia quello che lui stesso definisce il suo «ritiro dalla competizione». Non rinuncerà però a scrivere e registrerà ancora un disco prima della morte.
07 gennaio, 2020
7 gennaio 1797 – Il Tricolore della Repubblica Rivoluzionaria Cispadana
Il 7 gennaio 1797 il tricolore bianco, rosso e verde, diventa la bandiera della Repubblica Cispadana nata sull’onda delle aspettative d’uguaglianza e di libertà disseminate in Europa dalla Rivoluzione Francese. Il Congresso della Repubblica Cispadana, riunito in seduta plenaria a Reggio Emilia, sceglie la bandiera “tricolore, verde, rossa e bianca” come “insegna di sovranità” su proposta di Giuseppe Compagnoni di Lugo, deputato per il collegio di Ferrara. La comunicazione ufficiale, datata 28 gennaio 1797 e firmata dai segretari Masi, Barizzini, Sacchetti e Remondini così recita: «Cittadini, nella seduta in Reggio del giorno 7 gennaio corrente il Congresso decretò: 1° Che lo stemma della Repubblica Cispadana sia innalzato in tutti quei luoghi nei quali è solito che si tenga lo stemma della sovranità. 2° Che sia universale lo Stendardo e la Bandiera Cispadana di tre colori, verde, bianco e rosso, col turcasso. 3° Che li predetti tre colori si usino nella coccarda Cispadana da portarsi da tutti. 4° Che alla testa di tutti gli Atti pubblici si ponga l’intestatura “Repubblica Cispadana una ed indivisibile”...» Il turcasso, cui fa riferimento l’editto come simbolo della Repubblica, è un faretra contenente quattro frecce, a simboleggiare i quattro governi federati di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, ma con lo spazio per le altre che si sarebbero dovute aggiungere («...un turcasso con quattro freccie e con li forami per le altre, ciò che dinota il desiderio di un’unione più estesa...») secondo quanto approvato dal Congresso di Reggio Emilia il 6 gennaio 1797 su proposta del deputato Aldrovandi. A onor del vero il tricolore era già stato adottato qualche mese prima nel simbolo dei combattenti italiani della Legione Lombarda e quella Italica, con l’autorizzazione di Napoleone, ma con la decisione della Repubblica Cispadana esso diventa per la prima volta bandiera ed emblema di uno stato. In esso si fondono le aspettative di democrazia, d’indipendenza e di unità dei patrioti italiani, tanto che qualche mese viene adottato anche dai governi democratici di Bergamo e Brescia, e successivamente dalla Repubblica Cisalpina. Diverso è il destino delle altre repubbliche democratiche che nascono fra il 1797 ed il 1799 a Venezia, Genova, Roma e Napoli, cui la Francia impedisce di fondersi con la Cisalpina e di aderire al concetto di unità, che escludono così il verde dalle loro bandiere. Del resto Napoleone non vede di buon occhio una possibile spinta democratica, indipendentista e unitaria dell’Italia, tanto che il 28 dicembre 1796 così scrive al Direttorio: «In questo momento in Lombardia ci sono tre correnti. La prima che si lascia guidare dalla Francia, la seconda che vuole la libertà ed ha impazienza di realizzare il suo desiderio, la terza amica degli austriaci e nemica della Francia. Io incoraggio la prima, freno la seconda e reprimo la terza. Anche nelle repubbliche cispadane sono tre le tendenze: una simpatizzante dei vecchi governi, una favorevole ad una costituzione indipendente ma un po’ aristocratica e una terza apertamente affascinata dalla costituzione francese e dall’idea della democrazia. In questo caso reprimo la prima, sostengo la seconda e modero la terza». Il rapporto tra i rivoluzionari italiani e quelli francesi, pur nell’ambito di una sostanziale correttezza e lealtà, è caratterizzato da reciproca diffidenza sulle questioni dell’indipendenza e dell’unità d’Italia, che lascia tiepidi, quando non ostili i transalpini. Le punte polemiche coinvolgono anche la scelta dei colori della bandiera, perché i rivoluzionari italiani sostengono che il verde sia più fedele ai principi della rivoluzione che non il blu. Secondo i sostenitori di questa tesi, il verde, nel simbolismo massonico ereditato dai giacobini, rappresenta la natura e, con essa, l’acquisto dei diritti di natura: uguaglianza e libertà. Non definito e non ben chiaro è, all’inizio, quale debba essere la disposizione dei tre colori sulla bandiera, tanto che c’è chi innalza un tricolore orizzontale con il verde in alto e chi uno verticale con il verde all’asta. La definitiva scelta della disposizione verticale su bandiera rettangolare avviene il 12 maggio 1798 anche se con la fine di Napoleone e delle speranze suscitate dalla rivoluzione francese l'ideale rivoluzionario simboleggiato dal tricolore sembra destinato a tramontare insieme all’idea stessa di nazione italiana.
06 gennaio, 2020
6 gennaio 1993 – Muore Rudolf Nureyev
Il 6 gennaio 1993, in un ospedale di Parigi, in Francia, si spegne Rudolf Nureyev da tempo ammalato di AIDS. Il ballerino che ha rivoluzionato il ruolo maschile nella danza nasce il 17 marzo 1938 su un treno nella zona del lago di Baikal, mentre la madre è in viaggio per raggiungere il marito, bloccato per ragioni di lavoro a Vladivostock. Il piccolo Rudolf Hametovic Nureyev, questo è il suo nome completo, inizia a studiare danza a undici anni con la signora Udeltsova, un’anziana insegnante già ballerina prestigiosa. Nel 1955 entra nella prestigiosa scuola di ballo del Teatro Kirov di Leningrado e tre anni dopo è è inserito nell’organico del balletto. Nel 1961, durante una tournée in Europa, fugge dall’albergo chiedendo e ottenendo asilo politico. Comincia così la sua carriera in Occidente con la compagnia del Marchese di Cuevas,con il Balletto Reale Danese di Erik Bruhn e poi con il Royal Ballet di Londra nel quale si esibisce insieme a con Margot Fonteyn dando vita a una coppia entrata nella leggenda. Nella sua carriera danza con quasi tutti i grandi coreografi, da Ashton a Roland Petit, da Bejart a Taylor.
05 gennaio, 2020
5 gennaio 1967 - Hey Joe
Il 5 gennaio 1967 entra nella classifica britannica dei dischi più venduti il singolo Hey Joe dei Jimi Hendrix Esperience. Il brano non è una novità assoluta, visto che ha già ottenuto un notevole successo negli Stati Uniti nell'interpretazione dei Leaves, ma la versione del trio capitanato da Hendrix introduce elementi d'innovazione capaci di lasciare un segno profondo nella storia del rock. Il brano rivela al mondo il talento di Jimi, uno che suona la chitarra come nessuno aveva mai osato fare prima d'allora. La sua abilità nel ricavare rumori ed effetti sonori è destinata a non essere mai pienamente svelata. Gli sono degni compagni il bassista Noel Redding, scartato dagli Animals perché troppo grezzo, e l'energico batterista Mitch Mitchell, il cui stile è fortemente influenzato da quello di Elvin Jones, reduce da una lunga serie di esperienze con i Pretty Thing, i Riot Squad e i Blue Flames. L'improbabile trio suscita consensi, ma anche critiche feroci. Non manca chi ne sottovaluta le potenzialità, come il direttore artistico della Decca che, dopo aver ascoltato la loro versione di Hey Joe li liquida con una frase divenuta famosa, «Credo che non ci sia niente d'interessante» e decide di non pubblicarla su disco. Per fortuna non tutti la pensano così. Come nella favola di Aladino arriva il genio della lampada. Si chiama Kit Lambert ed è il manager degli Who. Grazie al suo interessamento Hey Joe viene pubblicata dalla Polydor nel dicembre 1966. Il resto è storia nota. Quel chitarrista «poco interessante» diventerà una delle stelle più luminose del firmamento musicale.
03 gennaio, 2020
4 gennaio 1976 - La polizia uccide Mel Evans
Il 4 gennaio 1976 la polizia uccide Mel Evans, un'ex guardia del corpo dei Beatles divenuta popolare per il libro “Living the Beatles legend”, un racconto autobiografico del periodo passato con i quattro di Liverpool. La notizia della sua morte arriva nelle redazioni dei giornali accompagnata da un breve comunicato. Mancano indicazioni precise sulla dinamica dell'uccisione e, soprattutto, sulle ragioni che hanno portato gli agenti della polizia di Los Angeles a irrompere nel suo appartamento e a sparargli. Sollecitate dalla stampa le autorità diffondono, con notevole ritardo, un comunicato più dettagliato che ricostruisce gli eventi. Gli agenti sarebbero intervenuti dopo aver ricevuto una chiamata di Fran Hughes, la compagna di Evans. La donna, spaventata per averlo trovato con in mano un fucile, sconvolto e in preda a una violenta crisi depressiva, avrebbe chiesto aiuto alla polizia. Invitato a consegnare l’arma, Evans l'avrebbe invece puntata verso gli agenti che si sarebbero difesi uccidendolo. La ricostruzione non convince tutti. Un cronista prova che il fucile di Mel non ha mai sparato e solleva più di una perplessità sulla crisi depressiva. L'uomo, dice chi lo conosceva, aveva quarant'anni e, grazie al libro sui Beatles, si stava godendo un'insperata popolarità oltre che una improvvisa floridità finanziaria. In più nessuno crede alla storia di un litigio violento con la sua compagna. Sui "buchi neri" della ricostruzione dei fatti viene aperta un'inchiesta, ma tutto finirà lì. I dubbi resteranno tali e il mistero dell'uccisione di Mel Evans non sarà mai completamente chiarita.
3 gennaio 1954 – Arriva la TV!
Il 3 gennaio 1954 con una triplice trasmissione inaugurale che si svolge nelle tre sedi principali di Milano, Roma e Torino, iniziano le trasmissioni televisive della Rai (Radio Audizioni Italia). Per la verità non sono molti gli spettatori di un evento che è destinato a cambiare profondamente le abitudini, la cultura e la vita degli italiani. I comunicati ufficiali dicono, infatti, che solo il 43% degli abitanti potrebbe, se in possesso dell’apparecchio televisivo, assistere alla nascita del servizio. In realtà, come spesso accade, quella percentuale è del tutto teorica. Il segnale televisivo irradiato dai trasmettitori di Torino Eremo, Milano, Monte Penice, Portofino, Monte Serra, Monte Peglia e Roma Monte Mario esclude il Sud e gran parte delle zone montane del paese. A questo si deve aggiungere che gli abbonati reali sono un gruppo piccolissimo. Alla fine dell’anno saranno circa 88.000, non più di 72.000 dei quali destinati a utenze famigliari e il resto composto da alberghi, circoli, bar, luoghi di ritrovo collettivo. Viste le cifre è evidente che le trasmissioni inaugurali vengono viste da pochissime persone anche se l’evento non sfugge all’opinione pubblica grazie allo spazio che gli dedicano i mass media del tempo, in particolare la radio, forte di oltre 5.000.000 famiglie abbonate. L’avvio della programmazione più che sulla partecipazione diretta, vive attraverso testimonianze riportate e servizi che parlano di un mondo magico e avveniristico, come la favolosa descrizione della cabina di regia da parte di Giancarlo Fusco sulle colonne dell'Europeo «La cabina di regia della televisione si presenta un po' come la centrale di tiro di una nave da guerra. In mezzo ad essa campeggia un tavolo metallico, rettangolare, disseminato di pulsanti (esattamente 72) di piccole leve cromate e di spioncini luminosi». Tutto contribuisce a costruire il mito di questo nuovo mezzo di comunicazione e intrattenimento al punto che si può dire che nel primo giorno in pochi la vedono, ma in molti iniziano a immaginarla, a sognarla forse. I dati dimostreranno ben presto che ci trova di fronte a un evento epocale. La televisione quindi non è ancora un elettrodomestico abituale nelle case degli italiani, ma la passione per il piccolo schermo contagerà rapidamente gran parte delle famiglie. Le punte massime d’ascolto si registreranno al sabato e alla domenica quando interi nuclei famigliari si raduneranno nei locali pubblici o nelle case degli amici più fortunati intorno alla magica scatola che diffonde immagini in bianco e nero. Ipnotizzati dalla luce azzurrina del piccolo schermo gli italiani sono testimoni e protagonisti dell’affermarsi di nuovi personaggi e di nuovi miti. Per i fortunati che hanno la possibilità di assistere all’inizio delle trasmissioni il 3 Gennaio 1954 appare sugli schermi italiani il volto di Fulvia Colombo. È lei prima annunciatrice della storia della televisione del nostro paese. Sorridente e misurata legge un testo sintetico che riassume i programmi della giornata. Su quel foglietto, divenuto ormai un pezzo di storia, c’è scritto: «Le maggiori trasmissioni dell’odierno programma sono: ore 11.00 Telecronaca dell’inaugurazione degli studi di Milano e dei trasmettitori di Torino e Roma; ore 15.45 Pomeriggio sportivo; ore 17.30 “Le miserie del signor Travet”, film diretto da Mario Soldati; ore 19.00 Avventure dell’arte: Giovan Battista Tiepolo; ore 20.30 “L’osteria della Posta”, commedia di Carlo Goldoni; ore 22.00 Spettacolo di musica leggera; Signore e signori, buon divertimento!»
02 gennaio, 2020
2 gennaio 1958 - Fischi alla Callas
Il 2 gennaio 1958 la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma dovrebbe aprirsi con un evento straordinario. Il cartellone prevede, infatti, la messa in scena della “Norma” di Bellini nell’interpretazione del soprano Maria Callas da poco insignita del titolo di Commendatore della Repubblica. Da tempo i biglietti per la serata sono introvabili e fin dalle prime ore del pomeriggio appassionati e curiosi si accalcano davanti all’entrata degli artisti nella speranza di vedere la ‘divina’ Callas. Quando si apre il sipario la platea e i palchi sono gremiti e ai giornalisti non sfugge la presenza, in prima fila, del Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi. La serata sembra procedere tranquilla e senza problemi, quando, sull’ultima nota di Casta diva, la voce della Callas si appanna improvvisamente. Dalla platea e dai palchi si alza un mormorio di disapprovazione accompagnato da qualche fischio. Per il resto tutto scivola via senza scosse fino alla conclusione del primo atto, cui dovrebbero seguire quaranta minuti di intervallo. Nel foyer i giornalisti si aggirano tra gli spettatori a caccia di dichiarazioni sulla ‘stecca’ della Callas. In particolare si tenta, invano, di cogliere qualche commento sulle labbra del presidente Gronchi. Al termine dell’intervallo il pubblico rientra in sala, ma il sipario resta chiuso. Passano altri venticinque minuti ma non succede niente. La cantante, offesa e irritata per il trattamento riservatole dal pubblico, è chiusa nel suo camerino e non risponde a nessuno. Dopo molte sollecitazioni apre la porta e, con faccia dura, annuncia: «Signori, questa sera, Norma finisce qui».
01 gennaio, 2020
1° gennaio 1953 – Un’overdose uccide Hank Williams
Il 1° gennaio 1953 muore d’overdose a soli 29 anni Hank Williams, il più popolare interprete di country degli anni Quaranta, da tutti considerato l'erede delle potenzialità artistiche creative di Jimmie Rodgers autore di brani destinati a diventare classici come Jambalaya, Honky tonk blues, There'll be no teardrops tonight, You win again e Long gone lonesome blues. La morte stronca la sua carriera alla vigilia della rivoluzione del rock and roll. Nasce a Mount Olive, in Alabama, il 17 settembre 1923. Suo padre è un invalido di guerra, la madre un'organista di chiesa. Gli regalano la sua prima chitarra quando è ancora bambino e a undici anni suona già alle serate da ballo del sabato sera in un cantiere ferroviario. L'anno dopo suona agli angoli delle strade insieme a un cantante nero, vendeva noccioline e lucidava scarpe. Nel 1937, a quattordici anni dopo aver vinto un concorso viene assunto da una radio locale per esibirsi un paio di volte la settimana. Inizia così a girare i paesi dell'Alabama con un gruppo country su un furgone guidato dalla madre, che gli fa anche da manager. Nel 1944 arriva a Nashville. Ha ventun anni ma è già considerato un veterano del circuito country. Nel 1947 incide il primo disco e nel giro d’un paio d’anni domina le classifiche dei dischi più venduti. La stagione del suo successo è brevissima perché, tormentato da fortissimi dolori alla schiena, diventa sempre più dipendente dall'alcool e da sostanze stupefacenti. Nel 1952 ha già alle spalle un divorzio e un licenziamento. Rimasto solo come un cane muore nel primo giorno dell’anno. Dopo la morte le sue canzoni tornano ai vertici delle classifiche regalando ricchezza a chi l’aveva appena licenziato.
31 dicembre, 2019
31 dicembre 1968 – Soriano Ceccanti ferito alla Bussola
30 dicembre, 2019
30 dicembre 1952 – Willie Lee Brown, uno dei migliori chitarristi del Delta
Il 30 dicembre 1952 a Tunica, nel Mississippi, un attacco cardiaco spegne la voce e la chitarra del bluesman Willie Lee Brown. Nato a Clarksdale, in Mississippi, il 6 agosto 1900 Willie Lee è considerato dalla critica uno dei migliori chitarristi blues del Delta del Mississippi. Discepolo di Charlie Patton, si è fatto particolarmente apprezzare per il suo stile personale caratterizzato da una voce dura e graffiante e da una eccellente tecnica alla chitarra. Le sue prime esibizioni risalgono alla fine degli anni Dieci quando con il citato Charlie Patton, Tommy Johnson, vari musicisti locali e Josie Bush che diventerà sua moglie diventa una delle attrazioni dell'area di Drew nel Mississippi. Nel 1926 si trasferisce a Robinsonville per esibirsi nelle feste private e nelle fiere. A partire dal 1929 si unisce a Son House e dalla metà degli anni Trenta è al fianco di Robert Johnson. Nel 1941 Alan Lomax lo chiama a registrare i suoi brani per la Library Of Congress di Washington. Durante gli anni Quaranta abbandona l'ambiente musicale e si stabilisce a Tunica. Tra le sue composizioni più famose ci sono Future blues e M & O Blues.
29 dicembre, 2019
29 dicembre 1947 – Cozy Powell, un batterista migratore
Il 29 dicembre 1947 vede la luce Cozy Powell, uno dei personaggi più singolari del rock degli anni Settanta e Ottanta. Batterista eclettico e dotato di notevole personalità attraversa la storia di alcune tra le più importanti band di quel periodo senza fermarsi mai, inseguendo sempre nuovi progetti. C’è chi l’ha definito «... un migratore per scelta e per indole alla ricerca di un luogo nuovo da cui ripartire». Per lui le regole del music business e anche il successo sembra non interessarlo se lo ostacola nella realizzazione dei suoi progetti. Il suo debutto avviene alla metà degli anni Sessanta con i Sorceres, una band destinata a godere di una discreta popolarità negli anni successivi con il nome di Youngblood. Proprio quando i suoi compagni stanno per cogliere i primi successi Powell migra e si unisce ai Big Betha, un gruppo senza storia che avrà vita breve. Nel 1971 è il batterista del Jeff Beck Group con cui realizza i due album come Rough and ready e The Jeff Beck Group destinati a restare nella storia del rock di quel periodo, ma l’anno dopo se ne va per formare i Bedlam, una band che lascia dopo un solo album per seguire un nuovo progetto. Dà vita ai Cozy Powell's Hammer e pubblica due singoli di successo prodotti da Micky Most, uno dei migliori produttori britannici. Nel 1975 forma una nuova band, gli Strange Brew. Finito? Tutt’altro. Gli Strange Brew non sopravvivono neppure una stagione perché Cozy accetta l'offerta dell'ex chitarrista dei Deep Purple Ritchie Blackmore di dar vita ai Rainbow. In questo gruppo sembra finalmente aver trovato la sua dimensione, ma, improvvisamente, nel 1980 se ne va per dar man forte al chitarrista Michael Shenker, che ha appena lasciato gli Scorpions. Collabora all'album Pictures at eleven di Robert Plant , ma non rinuncia alla realizzazione di alcuni progetti in proprio. La sua anima da giramondo lo porta poi negli Whitesnake di David Coverdale e in una singolare avventura con Keith Emerson e Greg Lake, con i quali forma lo strano trio Emerson Lake & Powell. Nel 1989 si unisce ai Black Sabbath, che lascia dopo breve tempo per vagabondare ancora tra le più diverse esperienze e collaborazioni. Muore all'età di cinquanta anni il 5 aprile 1998 per un incidente automobilistico.
28 dicembre, 2019
28 dicembre 1949 - La voce più bella della big band di Duke Ellington
Il 28 dicembre 1949 a Los Angeles, in California, muore a soli quarantacinque anni Ivie Anderson, la cantante considerata per molto tempo "la voce più bella della big band di Duke Ellington". In realtà nel 1931, quando entra nell’orchestra di Duke Ellington, ha già alle spalle un'infinità di esperienze musicali con band minori, ma anche in teatro, dove si è imposta come showgirl. È la vedette di un teatro musicale nero che, partendo da Harlem, sta rapidamente imponendosi in un genere che, fino a quel momento, è stato appannaggio pressoché esclusivo dei bianchi. Sono personaggi come Ivie Anderson a impersonare la capacità di rivalsa di Harlem e degli afroamericani sul music business che li vede ancora come elemento marginale e di contorno. Il suo momento magico arriva, però, quando, dopo una tournée in Australia e una permanenza come vedette al Grand Terrace Cafè di Chicago con l’orchestra di Earl Hines, viene scritturata da Duke Ellington, da tempo alla ricerca di una voce particolare, capace di integrarsi con gli impasti sonori dei suoi arrangiamenti orchestrali. È il mese di febbraio del 1931, anno di svolta per la creatività di Ellington che ha ormai completato la sua prima opera musicale dal respiro più ampio rispetto alle normali esecuzioni di due o tre minuti. La voce di Ivie si lega così alla magia della Creole rhapsody, considerata il primo brano capace di saldare la musica nera d’America con le strutture compositive di largo respiro della scuola europea. In questo clima musicale la personalità della cantante sembra essere l'ideale completamento delle sofisticate ricerche impressionistiche di Duke. C'è chi sostiene che la Anderson abbia contribuito in modo determinante a diffondere il concetto di swing. Probabilmente non è così, ma è certo che il brano It don’t mean a thing if it ain't got that swing, considerato una sorta di manifesto dell’era dello swing, deve molto a lei. Il suo vocalizzo collocato in mezzo agli assoli del sassofonista Johnny Hodges e del trombone di Tricky Sam Nanton, provoca ancora oggi un'emozione forte in chi l'ascolta. Ivie resta con Ellington per ben dodici anni. È lei la cantante che appare nel film "Un giorno alle corse" dei fratelli Marx. Chiusa la sua straordinaria avventura con la Big Band del Duca continua a esibirsi fino all'ultimo giorno di vita.
27 dicembre, 2019
27 dicembre 1975 – I Goblin al vertice della classifica
Il 27 dicembre 1975 al primo posto della classifica dei singoli più venduti in Italia c’è Profondo rosso, il tema conduttore dell’omonimo film diretto da Dario Argento destinato a diventare un brano di culto senza tempo. Lo interpretano i Goblin, un gruppo fino a quel momento sconosciuto ai più, nato poco tempo prima dall’unione di due ex componenti dei Ritratto di Dorian Gray, il batterista Walter Martino e il tastierista Claudio Simonetti con il chitarrista Massimo Morante e il bassista Fabio Pignatelli. La band ottiene un rapido successo oltre con il singolo anche con l'album Profondo rosso, cui collabora anche il jazzista Giorgio Gaslini. Caratterizzati da frequenti cambiamenti d'organico, i Goblin nel 1976 per l’album Roller aggiungono alla formazione il tastierista Maurizio Guarini e sostituiscono Martino, unitosi ai Libra, con il batterista Agostino Marangolo. Dopo varie colonne sonore di film come "Suspiria", "Zombi" e "Squadra antigangster", alternate ad album originali, il gruppo, nei primi anni ottanta perde anche Simonetti. Nel 1982 con Pignatelli, Guarini, Derek Wilson e Marco Rinalduzzi pubblicano l'interessante e atipico album Volo scritto quasi interamente dal cantautore Mauro Lusini. Notturno chiude nel 1983 la prima parte della storia del gruppo, la cui sigla tornerà periodicamente alla ribalta come accade nel 1989 con la colonna sonora del film "La chiesa" di Michele Soavi.
26 dicembre, 2019
26 dicembre 1996 – Mireille, la pédagogue de la chanson
Il 26 dicembre 1996 una polmonite si porta via Mireille, cantante e compositrice di successo, artefice della svolta swing della canzone francese. Pianista mancata perchè, secondo gli esperti dell’epoca, le sue mani erano troppo piccole per poter servire un’abile e veloce concertista, in Francia ancora oggi è ricordata come “La pédagogue de la chanson”, la pedagoga della canzone, scopritrice e maestra di artisti destinati a lasciare un segno tutt’altro che marginale nella storia della canzone francese. Da Françoise Hardy a Hugues Aufray, da Michel Berger ad Alain Souchon sono moltissimi i giovani talenti che hanno potuto imboccare la strada del successo grazie al “Petit Conservatoire de la Chanson”, i corsi radiofonici da lei inventati nel 1954. Le ragioni della sua vocazione sono riassumibili in poche parole: se la genialità e il talento sono doni, tutto il resto si può imparare a patto che qualcuno te l’insegni. Il succo della sua missione pedagogica è tutto qui. «Non tutti possono disporre di quel fluido magico che cattura il pubblico. Il sorriso magnetico di Maurice Chevalier, la capacità di trasmettere le emozioni di Edith Piaf, la freschezza ingenua di Bourvil sono qualità personali e innate. Non ho l’ambizione di poterle insegnare. Credo però che sia necessario un luogo dove i giovani poeti, i parolieri, i musicisti e gli interpreti di quella che sarà la canzone francese del futuro possano incontrarsi, scambiarsi le esperienze e fare tesoro della lezione di chi prima di loro ha avuto la fortuna di frequentare il mondo dello spettacolo. Il talento non te lo regala nessuno, ma tutto il resto si può imparare. Io sogno che nessuno debba essere costretto ad attraversare da solo e senza riferimenti il pantano delle incertezze in cui molto spesso finisce per affondare il talento». Mireille nasce a Parigi il 30 settembre 1906. Il suo cognome è Hartuch e dalla madre, cantante lirica, assorbe la passione per la musica. Si dedica con impegno allo studio del pianoforte intenzionata a diventare concertista, ma prima ancora di entrare nell’età dell’adolescenza è costretta ad abbandonare il sogno stroncata dal giudizio di maestri troppo tradizionalisti e severi che rilevano come le sue mani siano troppo piccole per potersi muovere con eleganza sulla tastiera. Oggi il suo destino sarebbe stato probabilmente diverso. Qualcuno avrebbe ideato, progettato e costruito una tastiera adatta alle sue mani e Mireille terrebbe concerti in tutto il mondo. In quell’epoca, però, nessuno immagina che debbano essere gli strumenti a mettersi al servizio del talento e non viceversa. Il giudizio è senza appello: nella musica cosiddetta “colta” non c’è posto per lei. Mireille fa buon viso a cattivo gioco. In fondo la musica non è soltanto quella delle sale da concerto. Per questo continua con impegno a pigiare sui tasti bianchi e neri senza curarsi troppo della destinazione finale di tanta dedizione e, grazie alle conoscenze della madre, frequenta l’ambiente del cinema e del teatro. A sedici anni ottiene la prima scrittura dal Théâtre de l’Odéon dove recita piccole parti. Non abbandona, però, la musica. Canta accompagnandosi al pianoforte e compone canzoni. A vent’anni, quasi per buttarsi alle spalle i giudizi dei suoi vecchi maestri, quelli che avevano ritenuto le sue mani troppo piccole per una tastiera, partecipa a uno spettacolo di rivista con un numero particolare in cui suona il pianoforte con... i piedi. Nel 1928 Mireille incontra Jean Nohain, un giovane avvocato che si diletta a scrivere testi per le canzoni e che le regala i versi per alcune melodie da lei composte. Inizia così una collaborazione destinata a lasciare un segno importante nella storia della musica francese. L’inizio non è però esaltante. I primi due brani nati dalla collaborazione tra Mireille e Nohain, Le petit chemin e Couchés dans le foin, non suscitano particolari reazioni. In pochi sembrano interessati al loro lavoro e quei pochi non sono disposti a fare granché per promuoverlo. Mireille decide allora di cambiare aria. Se ne va a prima a Londra e poi negli Stati Uniti dove resta per molto tempo. A New York conosce George Gershwin e Irving Berlin che l’apprezzano e l’aiutano a trovare qualche scrittura. Suona a Broadway e a Hollywood dove partecipa anche ad alcune produzioni cinematografiche tra cui un cortometraggio con Buster Keaton. La giovane francese è affascinata dalle possibilità che le offrono gli States e per qualche tempo accarezza anche l’idea di non tornare più nel suo paese natale. Il destino, però, ha previsto diversamente. Mentre Mireille si trova negli Stati Uniti, Pills et Tabet, un duo all’epoca popolarissimo, inseriscono nel loro repertorio il brano Le petit chemin che ottiene uno straordinario successo. È la svolta. Quando Mireille, rintracciata da Jean Nohain, torna in Francia il suo nome è già famoso e nel 1931 i locali se la contendono come una star. Proprio insieme a Nohain inizia a sfornare una serie lunghissima di successi. Sono di quel periodo brani come Une demoiselle sur une balançoire, che verrà ripreso da Yves Montand nel 1951, Papa n’a pas voulu, 27 rue des Acacias, Le jardinier qui boite e tanti altri compreso Quand un vicomte, destinato a diventare uno dei cavalli di battaglia di Maurice Chevalier nel 1935. Oggi la critica è unanime nel considerare il viaggio di Mireille negli Stati Uniti determinante per la cifra stilistica che caratterizza il suo grande successo. Il principale pregio della ragazza è infatti la sua capacità di innervare la canzone francese con le suggestioni dello swing senza snaturarne né reciderne le radici. Scrive Jacques Pessis, l’autore di uno spettacolo musicale a lei dedicato, che il suo stile «...cancella di colpo tutti i cantanti e le cantanti dagli occhi tristi che avevano conquistato la scena nel decennio precedente...». Le novità stilistiche da lei introdotte aprono la struttura tradizionale della canzone francese all’apporto del jazz e condizionano tutti i protagonisti successivi, a partire da Charles Trenet per finire, molto più tardi, a Georges Brassens. I suoi brani accompagnano la scalata al successo di decine di interpreti, soprattutto di Jean Sablon, il cui repertorio è caratterizzato prevalentemente dai suoi brani. Nel 1937 Mireille sposa Emmanuel Bert, uno scrittore, filosofo e intellettuale i cui interessi e la cui vita sono lontanissimi dal mondo dello spettacolo. Si tratta di un’unione destinata a fare scalpore anche per le modalità della convivenza tra due persone così diverse che prevedono, per esempio, la separazione della casa in due ambiti distinti e separati da una linea di confine particolare perchè imperniata su una serie di fiocchi rossi. Nessuno dei due, salvo in casi rarissimi, parteciperà alle vicende e agli appuntamenti artistici dell’altro. Nonostante la singolarità delle regole o, forse, proprio grazie a questa caratteristica il matrimonio reggerà allo scorrere del tempo fino al 1976, quando lo scrittore e filosofo muore. È Sacha Guitry che nel 1954 spinge Mireille a concretizzare il Petit Conservatoire de la Chanson, una corso radiofonico per giovani talenti che nel 1960 diventa anche televisivo e complessivamente accompagna la vita dei francesi per trent’anni. La sua popolare figura di insegnante televisiva finisce però per sovrapporsi e annebbiare un po’ quella dell’interprete. Negli anni Settanta in pochi si ricordano che Mireille è stata anche una straordinaria cantante. Per i distratti, gli immemori e per chi non era ancora nato all’epoca dei suoi grandi trionfi, Michel Berger la convince a tornare sulle scene. Nel 1976 la cantante incide un nuovo disco e presenta sul palcoscenico del Bobino uno spettacolo che viene replicato per ben tre settimane di fila. Non sarà l’ultima apparizione perchè nel 1995, grazie all’insistenza dei suoi vecchi allievi divenuti personaggi famosi, tornerà ancora a esibirsi su un palcoscenico, prima su quello del Piccolo Teatro della Poitinière e poi su quello del Théâtre national de Chaillot. Sono gli ultimi regali di un’artista unica nel suo genere prima che una polmonite se la porti via.
25 dicembre, 2019
25 dicembre 1878 – Il figlio dell’orologiaio Chevrolet
Il 25 dicembre 1878, a La Chaux-de-Fonds, un paesino svizzero sperduto nelle montagne del Giura nasce Louis, uno dei sette figli dell’orologiaio Chevrolet. Ben presto la famiglia lascia le vallate svizzere per cercare nuove opportunità trasferendosi a Beaune nella vicina Francia. Il giovane rampollo inizia a fare il meccanico nella società di trasporti Roblin, riparando carri e biciclette. Secondo la leggenda il diciannovenne Louis scopre qui la sua vera vocazione. Tutto accade nella primavera del 1897 quando il ragazzo viene chiamato all’Hotel de la Poste per dare un’occhiata all’autovettura in panne del miliardario americano Vanderbilt. Quest’incontro con le auto e l’America avrebbe segnato il suo destino. In attesa che si compia, però, il giovane Chevrolet corre in bicicletta e vince molte gare a cavallo di una Gladiator, un biciclo costruito dalla casa automobilistica Darracq di Parigi. Le vittorie gli fruttano un nuovo posto di lavoro presso la casa parigina dove impara tutto quello che si può sui motori a scoppio. Imparata l’arte prende armi e bagagli e se ne va dall’altra parte dell’oceano, prima a Montreal e poi a Brooklyn dove lavora come meccanico nel laboratorio dell’emigrato svizzero William Walter. Inizia anche a gareggiare con successo su bolidi dell’epoca preparati con cura e spirito innovativo. La sua prima auto è una Fiat con la quale vince nel 1905 la Tre Miglia frantumando anche il record della corsa. Per quindici anni continuerà a gareggiare accumulando vittorie, record e drammatici incidenti che gli lasciano vari segni sul fisico. L’8 novembre 1911 fonda la Chevrolet Motor Car Company of Michigan insieme a William “Billy” Durant, il deus ex machina della General Motor. La prima vettura marchiata Chevrolet che esce dagli stabilimenti di Detroit è la Classic Six e vede la luce nel 1912. Durant pensa a prodotti a basso costo che possano favorire la motorizzazione di massa, ma Chevrolet ha in mente segmenti esclusivi e auto da corsa. È evidente che il sodalizio non può durare. Il geniale svizzero vende società e nome al socio e se ne va. Il marchio avrà un successo straordinario ma neanche un centesimo di dollaro finirà nelle tasche del fondatore, che ha lasciato al socio tutti i diritti sul nome e l’intera quota nella società.
24 dicembre, 2019
24 dicembre 1931 - Ray Bryant, il pianista del Blue Note
Il 24 dicembre 1931 nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il piccolo Raphael Homer Bryant, destinato a diventare un famoso pianista con il nome di Ray Bryant. Cresciuto in una famiglia di musicisti con la madre e una sorella pianiste e il fratello maggiore contrabbassista, inizi a prendere confidenza con lo studio delle sette note fin dai primi anni di vita. Il suo primo strumento è il contrabbasso e soltanto dopo aver terminato le scuole secondarie passa al pianoforte. Nel 1950 ottiene la prima vera scrittura della sua carriera da Mickey Collins. Nei tre anni successivi suona con Tiny Grimes e Billy Kretchmer. Assunto come pianista fisso al Blue Note di Philadelphia accompagna musicisti famosi come Charlie Parker, Sonny Stitt, Miles Davis, Sonny Rollins e molti altri. Proprio il lavoro sul pianoforte del locale gli dà modo di farsi conoscere e apprezzare dalle stelle che si trova ad accompagnare. Alcuni di loro, infatti, lo chiamano a New York per partecipare all'incisione dei loro dischi. Dal 1956 diventa il pianista di Carmen McRae alternando l’impegno d’accompagnatore con varie esperienze nei gruppi di Dizzy Gillespie, Max Roach, Jo Jones, Charlie Shavers e Sonny Rollins. Nel 1959 si mette in proprio e da allora preferisce suonare quasi esclusivamente in trio o da solo. Muore il 2 giugno 2011.
23 dicembre, 2019
23 dicembre 1996 – Rina Ketty, un'italiana a Montmartre
Il 23 dicembre 1996 muore a Cannes Rina Ketty, al secolo Rina Picchetto, l’italiana arrivata per caso nella capitale francese e divenuta poi una stella luminosa della canzone. Sul luogo
d'origine c'è un mistero. Per alcuni biografi Rina Ketty nasce il 1° marzo 1911
a Torino, per altri a Sarzana, al n° 6 di Via Emiliana. Dei suoi primi anni non si sa molto anche se la leggenda racconta di una fanciulla che alterna lezioni di “bel canto” con attività d’arte domestica destinate a fare di lei una perfetta ragazza da marito. Vero e falso si confondono fino a quando, all’inizio degli anni Trenta, parte per Parigi dove dovrebbe fermarsi giusto il tempo di fare visita alle zie lì emigrate. Il passaggio alla capitale francese ha l’effetto di una scossa elettrica. La ventenne Rina respira a pieni polmoni l’aria della capitale francese, si lascia catturare senza opporre alcuna resistenza dalle suggestioni della sua vita culturale e diventa una frequentatrice assidua di quella straordinaria mescola di musicisti, poeti, pittori, filosofi, scrittori e illusi vari che si autodefinisce Comune Libera di Montmartre. I suoi componenti non hanno una sede vera e propria, ma tanti luoghi di ritrovo quanti sono i locali che si affacciano sulle vie che innervano il quartiere di Montmartre. Uno di questi è il “Lapin à Gill”. Proprio qui, in una serata del 1932, l'italiana arrivata a Parigi per far visita alle zie trova il coraggio di far sentire la sua voce ai compagni d’avventura e al pubblico presente. Non canta canzoni intere, ma soltanto qualche ritornello di brani più in voga. Lei accenna e, quando non si ricorda le parole, gli amici l’aiutano a completare il brano. Nonostante l’approssimata esibizione il pubblico resta affascinato dalla personalità di quella ragazza e quell’accento italiano che ne caratterizza la dizione diventa un elemento aggiuntivo al suo fascino. Intrigante ed esotico è destinato a essere parte della sua cifra artistica. Quella sera a Montmartre Rina Picchetto diventa definitivamente Rina Ketty. Il buon successo riscosso dall’improvvisata esibizione al “Lapin à Gill” convince Rina Ketty delle sue potenzialità come cantante, ma soprattutto convince i proprietari dei vari locali di Montmartre la scritturano. La ragazza assembla un repertorio imperniato sulle canzoni più adatte alla sua voce e al suo stile nel quale spiccano brani di Paul Delmet, Gaston Couté, Théodore Botrel e Yvette Guilbert. Il più assiduo tra i musicisti che l’accompagnano è il fisarmonicista Jean Vaissade, un tipo che conosce bene gli umori del pubblico parigino e che consiglia a Rina di non modificare per niente il suo accento italiano. «È esotico e sentimentale al tempo stesso. Invece di nasconderlo dovresti metterlo maggiormente in evidenza con brani costruiti a questo scopo». Jean non è soltanto il suo consigliere artistico. Innamorato di lei fin dal primo incontro diventa ben presto il suo confidente, amico e infine amante. Grazie alla sua intuizione nasce il mito della “chanteuse italienne exotique et sentimentale”, la cantante italiana esotica e sentimentale, capace di far battere forte il cuore degli abitatori della notte parigina. Di locale in locale, di concerto in concerto la sua popolarità supera i confini di Montmartre per allargarsi all’intera capitale. Di lei si accorge anche la nascente industria discografica. Dopo un contratto firmato negli ultimi mesi del 1935 a partire dal 1936 inizia a frequentare con una certa assiduità le sale di registrazione. Tra le sue prime incisioni spicca un’originale e affascinante versione di Si tu reviens, un brano scritto nel 1935 da Saint-Giniez e Tiarko Richepin per Réda Caire e che verrà ripreso anche da Berthe Sylva. Per uno di quegli strani paradossi così caratteristici del mondo dello spettacolo quella canzone, che oggi è considerata una delle più significative del primo repertorio della cantante, passa quasi inosservata mentre ottengono un buon successo brani come La Madone aux fleurs o Près de Naples la jolie decisamente inferiori sia dal punto di vista musicale che da quello della qualità interpretativa. A partire dal 1937 Rina Ketty arricchisce il suo repertorio con alcune personali versioni francesi di successi italiani e internazionali, tra i quali spiccano Prière à la Madone, Sombreros et mantilles e, soprattutto quella Rien que mon coeur con la quale vince il Grand Prix du Disque del 1938. Nello stesso anno sposa il fisarmonicista Jean Vaissade, l’uomo che le è stato al fianco e al quale deve gran parte delle sue fortune. Nello stesso anno interpreta e pubblica in disco per la prestigiosa etichetta Pathé J'attendrai, il brano più famoso e, insieme, il più grande successo della sua carriera. Si tratta dell’adattamento di una canzone italiana scritta da Dino Olivieri, intitolata Tornerai che a sua volta trae ispirazione da un'aria della “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini. La canzone ottiene un enorme successo tanto da essere ancora oggi considerata una delle più significative degli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale. Il pubblico accorre numerosissimo ai suoi concerti e le sue esibizioni all’ABC, all'Européen e al Bobino entrano nella leggenda. È forse il miglior momento dell’intera carriera della cantante, che coltiva il suo accento italiano come un fiore prezioso da preservare dalla corruzione, e molti autori scrivono le canzoni in modo da far risaltare la sua dizione e il suo fraseggio elaborato. Nel giugno del 1939 Rina Ketty fa un'incursione nel repertorio classico con il brano Mon coeur soupire, un adattamento dell’aria "Voi che sapete" da “Le nozze di Figaro” di Mozart. Solo due anni dopo il matrimonio il suo rapporto con Jean Vaissade va in crisi e alla fine del 1940 i due si sono già separati definitivamente. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale l’Italia fascista occupa parte del territorio della Francia ormai prostrata dall’invasione nazista. Non sono tempi bellissimi per gli artisti di origine italiana e Rina Ketty vive un po’ in disparte limitando le sue esibizioni alla sola Svizzera. Nel 1945, dopo la Liberazione, rientra nel giro con un concerto all'Alhambra seguito da cinque mesi di tournée in Francia. I tempi però sono cambiati e nuovi personaggi femminili stanno conquistando il pubblico che un tempo era stato solo suo. Pur non toccando più i vertici di grazia raggiunti prima della guerra ottiene ancora un buon successo grazie a brani come Sérénade argentine, La samba tarentelle e La Roulotte des gitans. La Francia però le va stretta. Nel 1954 attraversa l’oceano per andare in Canada dove resta fino al 1965 quando, presa da nostalgia, torna sulle scene francesi. L’epoca dei trionfi è ormai lontana e lei, sia pur con qualche resistenza, pian piano si abitua al fatto che la musica non può più essere il suo principale interesse. Trova anche un nuovo amore in Jo Harman che diventa il suo secondo marito e si trasferisce a Cannes dove si occupa di restauri. Nel 1991 il ministro della cultura della Repubblica Francese Jack Lang le conferisce il titolo di Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere, la più importante onorificenza di Francia nel campo della cultura. Nel marzo 1996 appare per l’ultima volta sulla scena e nove mesi dopo il suo cuore cessa per sempre di battere all'ospedale delle Broussailles a Cannes.
22 dicembre, 2019
22 dicembre 1910 – Reunald, il cugino di Eldridge
Il 22 dicembre 1910 nasce a Indianapolis, nell’Indiana, il trombettista Reunald Jones sr. Il ragazzo cresce in una famiglia nella quale la musica è un po' il pane quotidiano, visto che il padre, insegnante al conservatorio, cerca di trasmettere ai figli la passione per il rigo musicale. Si può dire che il destino di Reunald e di gran parte della parentela sia segnato fin dalla nascita. Due suoi fratelli, pur senza restare nella storia, suoneranno professionalmente e il talentuoso cugino Roy Eldridge entrerà nelle enciclopedie come uno dei più grandi trombettisti che il jazz abbia mai conosciuto. Proprio quest'ultimo finirà per oscurare in parte la carriera di Jones, costretto spesso a non brillare di luce propria ma a essere considerato il "cugino di Eldridge". Eppure la sua è una carriera di tutto rispetto. Studia musica, ovviamente, fin da bambino e fa il suo debutto a Minneapolis suonando con varie formazioni locali prima di essere ingaggiato nel 1930 dall'orchestra di Speed Webb, la stessa che schiera in organico anche suo cugino Roy Eldridge. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta suona con Charlie Johnson, Teddy Hill, Jimmie Lunceford, Fess Williams, Sam Wooding, Cluade Hopkins, Chick Webb, Willie Bryant, Don Redman e Duke Ellington, imponendosi come una tromba guida dall'attacco deciso e dalla sonorità brillante. Per gran parte degli anni Cinquanta resta uno dei punti cardine dell'orchestra di Count Basie. Passerà poi con Woody Herman e, successivamente, con la big band di George Shearing. Gli anni Sessanta lo vedranno al fianco di Nat King Cole e Phil Moore. Muore il 26 febbraio 1989.
21 dicembre, 2019
21 dicembre 1992 – Albert King, il miglior mancino prima di Hendrix
Il 21 dicembre 1992 muore a Memphis, nel Tennessee, il bluesman Albert King. Ha sessantanove anni e uno stile, unico, che non lascia eredi diretti. Del suo lavoro restano registrazioni che testimoniano di una voce singolare, personalissima e ispirata alle tecniche degli shouters, i cantastorie da strada del blues. I solchi dei suoi dischi raccontano anche di un chitarrista mancino dalle caratteristiche note “tenute”. Albert Nelson, questo è il suo vero nome, nasce il 25 marzo 1923 a Indianola, nel Mississippi. È un ragazzino quando impara a suonare la chitarra dai musicisti itineranti che percorrono le strade del suo paese. In quel periodo impara ad amare il blues tanto da farne la sua vita. Negli anni della “grande depressione” la sua famiglia finisce, come molte altre, nel grande fiume dei disoccupati che migrano all’interno degli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro. Adolescente si ritrova così catapultato a Forest City nell'Arkansas, con il cuore gonfio di rimpianto e di nostalgia per i suoi amici e per la città natale. Quando capisce di non poterne più prende la chitarra e se ne va. Come i grandi interpreti del blues rurale d’inizio secolo vagabonda a lungo per le strade degli States adattandosi a mille lavori precari e suonando in piccoli locali in cambio di qualche pasto. Entra anche a far parte degli Harmony Kings, un gruppo gospel che ha più facilità a trovare scritture, e impara a suonare la batteria per allargare le possibilità di lavoro. Nel 1951 cambia il suo nome in Albert King in omaggio a B.B. King, il suo artista preferito. Nel frattempo il giro delle sue conoscenze si allarga e un paio d’anni dopo suona la batteria per Eddie Taylor e Jimmy Reed. Sempre nel 1953 si guadagna anche il primo contratto discografico, con la Chess, e incide vari singoli che passano inosservati e che verranno poi raccolti, in epoca successiva, nell'album Door to door. Il primo successo discografico arriva quasi dieci anni dopo, nel 1962, con Don't throw your love on me so strong. Nel 1966 si ritrova nella grande famiglia della Stax, una delle case discografiche protagoniste del boom della musica nera, e inizia a scalare le classifiche di vendita. Dopo la sua morte la critica ne esalterà la tecnica chitarristica, attribuendogli il titolo, postumo, di “miglior mancino prima di Jimi Hendrix”.
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