11 aprile, 2020

11 aprile 1977 – Se ne va Jacques Prévert

L’11 aprile 1977 muore Jacques Prévert, poeta, sceneggiatore, scrittore, ma soprattutto punto di riferimento del mondo culturale francese per decenni. «Allora, il loro dio, il loro oracolo, il loro maître à penser, era Jacques Prévert, di cui veneravano le pellicole e le poesie, di cui provavano a copiare il linguaggio e le atmosfere spirituali. Anche noi gustavamo le poesie e le canzoni di Prévert. Il suo anarchismo sognante e un po' stralunato ci catturava completamente» Così Simone de Beauvoir nel suo romanzo “L’età forte” parla di quel miscuglio di artisti, vagabondi, perdigiorno, poeti e cantanti che si incontra, si innamora, si lascia e vive nei caffè di Saint-Germain des Prés. Non è un omaggio, ma una testimonianza della capacità di Prévert di liberarsi dalla rigidità delle divisioni dell’arte per essere insieme poeta, paroliere, sceneggiatore, dialoghista e, soprattutto, curioso esploratore di tutte le forme possibili di comunicazione poetica. Vive l’esperienza artistica con la stessa intensità di un amore appena nato e non si fa mai irreggimentare da una moda, da una linea editoriale o anche soltanto dalla necessità di dare continuità a un impianto artistico salutato dal successo. La sua avventura artistica è una lunga corsa su una strada non asfaltata, con i piedi che mordono il terreno, evitano i sassi, si bagnano nelle pozzanghere e s’impolverano nei tratti asciutti. E quando la strada gli appare troppo diritta tende a scartare, come fanno i cavalli di razza o i lupi inseguiti dai cacciatori. La sua creatività non ha padroni e diffida delle gabbie, soprattutto di quelle ideologiche e se ha l’impressione di essere intruppato fugge veloce come il vento. «Reclutato a forza nella fabbrica delle idee/ho resistito /mobilitato allo stesso modo nell'esercito delle idee/ho disertato». In questi pochi versi, rubati a Choses et autres, la sua ultima raccolta pubblicata nel 1972, c’è il senso di una vita assaporata fino all’ultimo sorso evitando l’omologazione e il conformismo, ma spargendo a piene mani perle preziose che luccicano vivide e inattaccabili dalla patina del tempo. Tra esse ci sono anche le canzoni, oltre mille, destinate a entrare nel repertorio di interpreti come Juliette Gréco, i Frère Jacques, Serge Reggiani, Mouloudji, Catherine Sauvage, Yves Montand ed Edith Piaf, per citare soltanto i primi che la memoria riporta a galla. Brani come Les feuilles mortes e Barbara hanno fatto poi il giro del mondo nelle esecuzioni di artisti come Frank Sinatra, Bing Crosby o Miles Davis. «Egli viene dalla vita e non dalla letteratura». La definizione di Jacques Prévert data dallo scrittore Georges Ribemont-Dessaignes cerca di chiarire perfettamente il senso della creatività artistica di un uomo che ha sempre detto di voler essere poeta senza diventare letterato. La vita è un avventura misteriosa e la sua inizia il 4 febbraio 1900 a Neuilly-sur-Seine, cittadina del dipartimento della Senna dove nasce da in un ambiente piccolo borghese e un po’ bigotto. Sua madre è originaria dell'Alvernia mentre suo padre è bretone e proprio in Bretagna il piccolo Jacques trascorre diversi anni della sua infanzia. Sono anni apparentemente spensierati anche se un po’ soffocanti viste le rigide regole imposte dalla famiglia molto attenta alle convenzioni. È comunque in questo periodo che Prévert respira a pieni polmoni l’aria della cultura e delle tradizioni popolari bretoni destinate a influenzare molto la sua opera negli anni della maturità. Curioso frequentatore di quegli spazi di confine che stanno tra letteratura e spettacolo, dopo aver terminato gli studi per guadagnarsi da vivere si adatta a vari lavori. Nel 1922 dopo il servizio militare si stabilisce a Parigi in una casa al 54 di Rue del Château a Montparnasse destinata a diventare un po’ il punto di ritrovo di un pezzo importante del movimento surrealista. Tra i più assidui ci sono Michel Leiris, Robert Desnos, Antoine-Marie-Joseph Artaud, Louis Argon, Georges Malkine, Raymond Queneau e quell’André Breton che si diletta a giocare a fare il leader del movimento. Nella seconda metà degli anni Venti gli amici cominciano a far circolare i suoi primi testi poetici, anche se per la prima pubblicazione occorre attendere il 1930 quando Prévert pubblica sulla rivista "Bifur" la sua composizione Souvenirs de famille on l'ange gardechiourme (Ricordi di famiglia ovvero l'angelo aguzzino), considerata un po’ il suo battesimo artistico. Gli anni Trenta sono pervasi da grande passione, con curiosità sempre nuove e sperimentazioni anche azzardate in quelli che sono destinati a diventare i campi privilegiati del suo interesse artistico: poesia, canzone, teatro e cinema. Tra il 1932 e il 1936 si dedica intensamente al teatro lavorando a tempo pieno con il Gruppo Ottobre, una compagnia appartenente alla Federazione Teatro Operaio, un’organizzazione che ha lo scopo di promuovere opere teatrali di impegno sociale. Proprio per il Gruppo Ottobre Prévert scrive Marche ou crève (Marcia o crepa), un brano che negli anni successivi diventerà quasi un inno dell’antifascismo militante. Nonostante gli impegni teatrali non trascura né la poesia, né il cinema né la canzone. Proprio in questi anni, infatti, vedono la luce soggetti e sceneggiature di film come “Lo strano dramma del dr. Molineaux” e “Il porto delle nebbie” diretti dal suo carissimo amico ed estimatore Marcel Carné. Sono l’inizio di un’attività di soggettista e sceneggiatore destinata a regalare al mondo lungometraggi come “Les disparus de Saint-Agil” di Christian-Jacques e Pierre Laroche, o “Alba tragica”, “Le porte della notte” e “Mentre Parigi dorme” di Marcel Carné. Sempre con Carné nella Francia occupata dai nazisti girano “L’amore e il diavolo” e, soprattutto “Amanti perduti”, ancora oggi considerato uno dei capolavori del cinema mondiale. Sempre in quegli anni vedono la luce anche le canzoni nate da poesie musicate da Joseph Kosma che caratterizzeranno l’epoca degli chansonniers. Nei primi mesi del 1946 Jacques Prévert pubblica “Paroles”, uscita in Italia con il titolo “Parole”, la sua prima raccolta compiuta di poesie ed è come se un turbine di vento si abbattesse sulla letteratura e sulla cultura francese. I giovani che dopo quattro anni di occupazione feroce e di clandestinità trovano in quelle composizioni una risposta alle loro aspirazioni, alla sete di libertà e al desiderio rilasciare un segno nella vita. Niente resta più come prima, neppure Jacques Prévert che capisce di essere diventato un punto di riferimento per un pezzo della cultura del suo paese e ci gioca un po’ anche se non mancano detrattori come Albert Camus che lo definiscono un “guignol del marciapiede che si prende per Goya”. Il pubblico, però, è tutto con lui. Accade così che quel quarantacinquenne autore cinematografico le cui poesie erano apprezzate e diffuse quasi esclusivamente tra i frequentatori di quella piccola porzione di Parigi compresa il Café de Flor, il Lipp, il Deux Magots e le librerie più intellettuali del Quartiere, diventa una sorta di “vate” di Saint-Germain-des-Prés, una stella ammirata e riverita. Jacques Prévert ha il pregio di non prendersi mai, in nessun momento così tanto sul serio da credere davvero a queste storie. Gioca con il suo personaggio, qualche volta se ne serve, ma non ne resta prigioniero. Fino all’ultimo continua a frequentare quei territori diversi che ha ormai imparato a conoscere e nei quali si sente a casa sua: il cinema, il teatro, la poesia e la canzone. Non si innamorerà mai della televisione e alla fine degli anni Sessanta, quando si è ormai trasferito nella sua dimora di Omonville-la-Petite, nel dipartimento della Manche capisce di avere allevato un nemico mortale: un cancro al polmone. Accetta la sfida e cerca di resistere nel suo eremo isolato in cui di tanto in tanto lascia entrare alcuni degli amici più cari come Serge Reggiani, Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau e pochi altri. Lunga e dolorosa la battaglia di Jacques Prévert contro l’osceno aggressore termina l'11 aprile 1977 con la sua morte.


09 aprile, 2020

9 aprile 1976 – Phil Ochs si uccide

Il 9 aprile 1976 il trentacinquenne folksinger Phil Ochs, in preda a una crisi depressiva, si impicca nell’appartamento di sua sorella. Esponente dell’ala più radicale e militante della canzone di protesta degli anni Sessanta è autore e interprete di brani graffianti come I Ain't Marching Anymore che a partire dal 1965 diventa l'inno più cantato nelle manifestazioni dei giovani statunitensi contro la guerra nel Vietnam che viene messo al bando dalla programmazione radiofonica e televisiva in tutta la nazione. Dello stesso anno sono anche Draft Dodger Drag e There But For Fortune. Quest’ultimo, insieme a Changes del 1966 è considerato il suo più grande successo discografico. Dopo I Ain't Marching Anymore il brano più politico della sua produzione è The Ringing For Revolution. Tra i suoi album sono da ricordare anche Pleasures Of The Harbour del 1967 e lo splendido Tape From California dell’anno dopo, che contiene anche When In Rome, un amaro e desolato brano sulla storia del suo paese.

08 aprile, 2020

8 aprile 1922 - Christian Bellest, dalla banda al jazz

L’8 aprile 1922 nasce a Parigi il trombettista e arrangiatore Christian Bellest. La sua carriera musicale inizia quando da ragazzo soffia nella cornetta di una banda musicale in uno dei sobborghi di Parigi. A quindici anni scopre il jazz e passa definitivamente alla tromba. Due anni dopo, nel 1939, ottiene il suo primo ingaggio da professionista e nel 1940 fa già parte dell'orchestra di Fred Adison da cui se ne va per suonare nella prestigiosa orchestra Jazz de Paris al fianco di Allix Combelle, Hubert Rostaing, Aimé Barelli. Nel corso degli anni suona con Django Reinhardt, Don Byas, Don Redman e tanti altri prestando la sua tromba a diverse grandi formazioni come quella di Jacques Hélian e del già citato Aimé Barelli con il quale vive un rapporto professionale contraddittorio costellato da abbandoni e repentini ritorni. Intenzionato a non lasciarsi catturare soltanto dall’attività come strumentista studia contrappunto e composizione con André Hodeir, di cui diventa uno dei più fedeli collaboratori all'interno del Jazz Groupe de Paris. Alla sua genialità si devono gli arrangiamenti di molti brani di interpreti popolarissimi come Edith Piaf, Charles Aznavour o Paul Anka e un nutrito gruppo di musiche da film. Muore il 6 dicembre 2001.

07 aprile, 2020

7 aprile 1976 – Jimmy Garrison, il bassista di Coltrane

Il 7 aprile 1976 muore a New York il contrabbassista Jimmy Garrison. Nato a Miami, in Florida, il 3 marzo 1934 viene registrato all’anagrafe con il nome di James Emory Garrison. Quando ha nove anni si trasferisce con la famiglia a Philadelphia, in Pennsylvania dove studia con profitto il clarinetto, strumento che lascia nel 1952 per passare al contrabbasso. Il suo primo ingaggio professionale arriva da un gruppo di rhythm and blues, anche se la sua vera passione resta il jazz. Nel tempo libero collabora con vari jazzisti come il pianista Bobby Timmons e il batterista Albert Heath e soprattutto con Louis Judge. Nel 1955 resta senza contratto e per guadagnarsi da vivere lavora come autista di camion pur non abbandonando mai la musica. Nel 1958 torna a dedicarsi al contrabbasso a tempo pieno. Si trasferisce a New York dove collabora sia in concerto che in sala di registrazione con vari esponenti del jazz di quella città come il batterista Philly Joe Jones, i sassofonisti Jackie McLean, J. R. Monterose, Lee Konitz e Warne Marsh e il clarinettista Tony Scott. In quel periodo lavora inoltre con Lennie Tristano, Benny Golson, Curtis Fuller Kenny Dorham e Bill Evans. Quando entra a far parte del gruppo di Ornette Coleman viene ascoltato e notato al Five Spot Café di New York da John Coltrane che lo vuole con sé. Nel mese di novembre 1961 Jimmy Garrison entra così a far parte del quartetto di John Coltrane, sostituendo Reggie Workman. Inizia un sodalizio artistico destinato a durare senza ininterruzioni fino alla morte del sassofonista, nel 1967 quando Garrison è rimasto l’unico superstite dell'originario, leggendario quartetto. Legato a Coltrane da un profondo rapporto d’amicizia suona anche al suo funerale insieme a Elvin Jones e a Joe Farrell. Proprio con Elvin Jones, dopo una breve parentesi di sei mesi con il pianista Hampton Hawes, inizia la fase post-coltraniana della sua carriera. A partire dal mese di marzo del 1969 riprende la sua autonomia suonando con Walter Bishop, McCoy Tyner, Alice Coltrane, Bill Dixon, Nathan Cavis, Ted Curson, Bill Barron, Rolf e Joachim Kühn oltre che con Archie Shepp e Dave Burrell. Quando sta per entrare nel pieno della maturità artistica muore per un cancro polmonare.

06 aprile, 2020

6 aprile 1937 - Gene Bertoncini, l’architetto chitarrista

Il 6 aprile 1937 nasce a New York il chitarrista Gene Bertoncini. Talento precoce, inizia a suonare all'età di nove anni e a sedici ottiene già i primi ingaggi da varie orchestre. Nel primo dopoguerra diventa un personaggio popolarissimo suonando in un programma per ragazzi in coppia con suo fratello fisarmonicista. L’attività musicale lo appassiona ma non al punto da distrarlo dagli studi in architettura. Solo dopo la laurea, all'inizio degli anni Sessanta, riprende a suonare con continuità mettendo in mostra qualità non comuni. Dopo aver militato in varie grandi formazioni, tra cui quella di Buddy Rich, suona in vari spettacoli televisivi e nella Metropolitan Opera Orchestra. In campo jazzistico si trova a suo agio sia negli stili tradizionali (nel 1968 Benny Goodman l'o vuole al suo fianco in un importante concerto alla Philharmonic Hall di New York) che in quelli più aperti alle correnti del pop e del rock, come nel caso delle collaborazioni con Wayne Shorter, Hubert Laws e Ron Carter. Non disdegna, di tanto in tanto, di accompagnare soprattutto negli studi di registrazione cantanti vicini alla popular music americana come Tony Bennett, Nancy Wilson o Earl Coleman.

05 aprile, 2020

5 aprile 1971 - Earl "Jock" Carruthers se ne va

Il 5 aprile 1971 a Kansas City, nel Kansas, muore il saxoclarinettista Earl "Jock" Carruthers. Non ha ancora compiuto sessant’anni. È nato infatti il 27 maggio 1910 a West Point, nel Missouri, e all’anagrafe è registrato con il nome di Earl Malcolm Carruthers. Dopo aver frequentato le scuole di Kansas City, a diciott’anni suona già con il gruppo di Benny Moten. Nel 1929 se ne va a St. Louis dove lavora con Dewey Jackson e Fate Marable. Tre anni dopo si unisce alla band di Jimmie Lunceford con la quale resta a lungo anche dopo la morte di quest'ultimo. Nel dopoguerra è tra gli strumentisti fondamentali della la Joe Thomas & Ed Wilcox Band che più tardi diventa la Ed Wilcox Band. Quando il gruppo si scioglie Carruthers ritorna a Kansas City dove continua a lavorare come musicista per tutti gli anni Sessanta. Tra i suoi migliori assoli registrati con Jimmie Lunceford sono da citare quelli contenuti in I love you, Harlem Shout e Organ Grinder's Swing.


04 aprile, 2020

4 aprile 2001 – Vasco: toh, come vengo bene in fotografia!

Il 4 aprile 2001 viene inaugurata a Milano una mostra fotografica di Sergio Efrem Raimondi intitolata “Intorno a Vasco”. Inevitabile la presenza di Vasco Rossi in persona che, dopo essersi fatto attendere un po', arriva e, fresco come una rosa, invece di rispondere alle domande dei giornalisti si limita a dire «Ma guarda come vengo bene in fotografia!». L’iniziativa è destinata anche a sostenere il lancio di Stupido Hotel, il suo nuovo album che arriva nei negozi cinque giorni dopo, preceduto da un singolo un po' ruffiano come Siamo soli che lasciava intuire una sorta di ritorno a sonorità decisamente rock dopo il precedente e un po' troppo cantautorale Canzoni per me. Il disco è all'altezza delle attese. Registrato in giro per il mondo è un affresco a colori vivaci che esalta la capacità metamorfica del rocker di Zocca, con le luci e le ombre che ciascuno può aspettarsi. Non sempre la voce ce la fa, ma il Blasco è uno che sa cavarsi d'impiccio da solo. Ci sono citazioni colte come Ti prendo e ti porto via, un titolo, un'idea e un testo presi in prestito da un romanzo di Niccolò Ammanniti, ma c'è anche la voglia di tornare a fare del buon solido rock come accade nella rollingstoniana Stendimi. Non correndo più il rischio di diventare un profeta, il Blasco torna al suo popolo con una decina di nuove canzoni in cui si diverte a dare sfogo alla sua irrequietezza, alle sue contraddizioni, a quell'approccio semplice ai problemi complessi che per qualche tempo aveva rischiato di trasformarlo in un simbolo generazionale. Pur consapevole che il rischio non c'è più il cantautore (parola che aborrisce) preferisce mettere le mani avanti. Non è un caso, infatti, che sia stato scelto Siamo soli come trailer in singolo perché l'intero album è una sorta di orgogliosa rivendicazione della propria solitudine creativa ed esistenziale. Il taglio con il quale affronta gli argomenti nelle canzoni è quello che caratterizzava le sue prime uscite discografiche: parole che graffiano i concetti, li comprimono, li riducono quasi a espressioni gergali. Banalizzazione? Macché. Alla base c'è una capacità innata di sintesi che spesso è stata scambiata per superficialità. Alla soglia dei cinquant'anni (ne ha quarantanove) il signor Rossi non finge di essere un ragazzino e non perde tempo a tentare di arruffianarsi i suoi coetanei. Come ha sempre fatto si limita a scrivere le cose che gli vengono in mente. Questa volta fa di più. Si permette di regolare qualche conto in sospeso e di ironizzare su quella sorta di aura di sacralità che circonda l'opera dei cantautori "storici" italiani. Non è la prima volta che se la prende con qualche suo collega, ma questa volta si è superato con Canzone generale, un brano in cui osa l'inosabile, parodiando l'inno del popolo ulivista Canzone popolare di Ivano Fossati: «E dopo la canzone popolare/e dopo la canzone commerciale/e dopo la canzone di quel tale/alzati che si sta alzando la canzone generale…». Non è l'unica traccia in cui l'ironia disincantata lascia il segno. Nel rap Io ti accontento delega i due rapper Black Diamond e Monyka "Mo" Johnigan a vivere un rapporto di coppia un po' troppo conflittuale e lo fa lasciandoli liberi di scambiarsi insulti sanguinosi, compreso un «negro di merda» che farà sobbalzare sulla sedia chi non sa che i due hanno entrambi la pelle nera. Alla realizzazione del disco hanno collaborato uno stuolo di musicisti di lusso a partire dai chitarristi Paolo Gianolio, Dean Parks, Michael Landau e Stef Burns, alla solida batteria losangelina di Vinnie Colaiuta, a una vecchia conoscenza della musica italiana come il bassista Randy Jackson. C'è poi la mano dei "soliti" e fidati Guido Elmi, Tullio Ferro, Celso Valli e Gaetano Curreri degli Stadio. Su tutto il lavoro, però, vola un angelo dai contorni conosciuti: è Massimino Riva, scomparso per una stupida overdose ma presente nelle atmosfere e nelle sonorità.

03 aprile, 2020

3 aprile 1954 - Nicoletta Bauce, la cantautora

Il 3 aprile 1954 nasce a Valdagno, in provincia di Vicenza, Nicoletta Bauce, uno dei personaggi più interessanti della scena musicale degli anni Settanta. Dopo aver studiato canto, pianoforte e solfeggio al conservatorio la ragazza viene notata da Edoardo De Angelis che l’aiuta a muovere i primi passi nel mondo della canzone italiana. Scritturata dalla RCA, nel 1975 partecipa allo spettacolo "Domenica musica", che va in scena al teatro Trianon di Roma e viene ripreso anche dalle telecamere della RAI. La sua interpretazione di Tre bocche nel cuore, un brano di sua composizione attira l’interesse di pubblico e critica. Sull’onda dei consensi nasce anche l’album Musica dal pianeta donna: le cantautori, un lavoro collettivo cui partecipano anche Roberta D'Angelo, Silvia Draghi e Carmelita Gadaleta. Nell’album Nicoletta Bauce propone due canzoni: Tre bocche nel cuore e Quando tornerai, che vengono pubblicate anche in singolo. Successivamente inizi a lavorare al suo primo album, un disco ricco di spunti interessanti che contiene anche una personalissima versione di Sittin on top of the world dei Cream. Nel 1979, lasciata la RCA per la Philips, partecipa al Festival di Sanremo con Grande mago, un brano realizzato in collaborazione con Roberto Colombo e la PFM che viene bocciato dalle giurie sanremesi. Varie partecipazioni televisive precedono l’inizio della lavorazione del suo secondo album destinato a non vedere mai la luce. Poco disposta ad accettare compromessi di fronte all’ennesima intromissione nel suo lavoro se ne va sbattendo la porta. Lascia la musica e si stabilisce a Vicenza per fare l’insegnante.

02 aprile, 2020

2 aprile 1932 - L’auto di Bonnie & Clyde

Il 2 aprile 1932 Edsel Ford, presidente del gruppo Ford, presenta ufficialmente la Ford V8 Roadster, un’auto destinata a entrare nell’immaginario di generazioni di cinefili come la vettura di Clyde Barrow e Bonnie Parker, più conosciuti con il nome di Bonnie & Clyde, la coppia di amanti specializzati nelle rapine a mano armata immortalata alla fine degli anni Sessanta dal film “Gangster Story” di Arthur Penn, con Warren Beatty e Faye Runaway nella parte dei due protagonisti. Pochi sanno che la sua realizzazione ha rischiato di essere messe in forse dalla grande crisi dei primi anni Trenta e che solo la cocciutaggine del vecchio Henry Ford ha evitato che entrasse nel lungo elenco delle vetture progettate e mai realizzate. Fin da quando l’aveva visto disegnato sui fogli di progetto, il vecchio Henry Ford era stato catturato dall’idea che un motore con 8 cilindri a V spingesse una delle auto di sua produzione. Quello che lo catturava e sollecitava la sua fantasia non era tanto la potenza sprigionata, quanto la duttilità che un motore simile sembrava promettere. Per questa ragione dopo il successo della Model T, con ben quindici milioni d’esemplari venduti, e della Model A che aveva toccato la cifra di cinque milioni di vetture prodotte e commercializzate, in casa Ford si fa sempre più urgente la necessità di trovare un modello che sostituisca la Model A. Senza tanto dare nell’occhio riprende quota l’idea fissa del vecchio Henry di produrre un’automobile con il motore a 8 cilindri. I progettisti incaricati in gran segreto di lavorare su questa ipotesi si trovano a poter lavorare con molta libertà. I problemi più impegnativi da superare arrivano dai pistoni e dalle necessità di garantire un raffreddamento adeguato al calore sviluppato. Uno dopo l’altro i problemi vengono superati alla fine viene presa la decisione definitiva di mettere in produzione la Ford V8. Durante l’inverno del 1930-1931 vengono realizzati in gran segreto una ventina di modelli sperimentali con quella motorizzazione. L’intenzione è di sceglierne almeno un paio da destinare alla produzione in catena, ma le nubi della crisi economica con una caduta drastica dei consumi suggeriscono di soprassedere per un po’ al progetto. Senza troppa convinzione si sospende temporaneamente il programma della V8 e si lavora all’aggiornamento della consolidata e robusta Model A che nel 1931 evolve nella Model AB dotata di un motore a quattro cilindri. I risultati di vendita non sono eclatanti, anche se consentono alla Ford di non cessare la produzione. Proprio ragionando su questi fatti e spinta dall’insistenza di Henry Ford la casa automobilistica decide quindi di tornare per la seconda sul progetto della V8. Questa volta i progettisti non si fanno cogliere impreparati. Nei due anni trascorsi dal primo studio hanno verificato pregi e difetti di tutti i motori V8 presenti sul mercato statunitense. L’obiettivo che è stato loro dato è semplice: in linea con l’impostazione Ford occorre produrre un auto con il motore V8 a un prezzo che sia il più basso mai visto finora per vetture di quel segmento. Fin dall’inizio si accorgono che non è semplice conciliare la complessità di un simile propulsore con le esigenze tipiche di una automobile destinata a essere prodotta in grande serie. Alla fine ce la fanno e nel 1932 la vettura è pronta per il mercato. Figlia della fretta ha però una serie di difetti e molti componenti meccanici devono essere modificati già nel corso dei primi mesi di vendita. I difetti principali sono, però nel telaio, che così com’è non regge le sollecitazioni del potente propulsore, e nell’impianto frenante che appare inadeguato a contrastare la forza sviluppata dal motore. L’innesto del motore V8 su una struttura derivata dalla produzione Ford tradizionale rischia di essere un boomerang. Per questa ragione nel 1933 la Ford V8 viene interamente ridisegnata sia nella carrozzeria sia nel telaio. È il successo. Il motore a otto cilindri a V progettato in quegli anni continuerà a vivere anche quando i modelli su cui è stato montato per la prima volta saranno ormai ospitati dai musei. L’ultima vettura a uso privato sulla quale verrà montato sarà la Ford Pilot, prodotta dalla succursale britannica della casa statunitense dal 1947 al 1952

01 aprile, 2020

1° aprile 1895 - Alberta Hunter, l'irrequieta ragazza del blues

Il 1° aprile 1895 a Shelby County, nei pressi di Memphis in Tennessee nasce Alberta Hunter. Irrequieta e vivace a dodici anni scappa di casa a 12 anni per andare a Chicago dove trova rapidamente modi di esibirsi come cantante e attrice di varietà in club come lo Hugh Hoskins, il Panama e il Dreamland. Intorno al 1920 si trasferisce a New York dove, oltre a cantare nei locali notturni, cominci a registrare i primi dischi usando talvolta anche il nome della sorella Josephine Beatty come pseudonimo. In sala viene accompagnata da grandi musicisti come Louis Armstrong e Sidney Bechet, e da grandi band di studio come quelle di Fletcher Henderson, Fats Waller e il gruppo bianco degli Original Memphis Five. In questo periodo scrive anche il brano Brownhearted blues. Parallelamente all’attività in studio e nei concerti si dedica anche al teatro portando in scena negli anni Venti la rivista “How Come”. Nel 1934 si trasferisce a Londra per la produzione di “Show Boat” in cui è protagonista a fianco di Paul Robeson. L’anno dopo se ne va anche a Parigi. Rientrata definitivamente a New York nel 1937 inizia a dedicarsi all’attività radiofonica e dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale prende parte a vari tour destinati a intrattenere le forze armate stanziate sia nell'area del Pacifico che in Europa. Nel dopoguerra ritorna in Gran Bretagna come cantante dell'orchestra di Snub Mosley e compie parecchie tournée in Canada intervallate da lunghi ingaggi a Chicago. Dopo la partecipazione alla rivista “Mrs. Patterson” messa in scena a Broadway decide di lasciare la musica per fare l'infermiera al Goldwater Memorial Hospital. Non è un addio definitivo. Negli anni Sessanta riprende a registrare, prima in modo saltuario e poi sempre più intensamente. Nell'ottobre del 1977 ottiene un lungo ingaggio al club The Cookery del Greenwich Village di New York. Nel novembre 1980 le viene stato assegnato a Memphis il premio Handy destinato alla “più grande cantante di blues vivente”. Non smette più. Continua a cantare fino al 1984 quando muore prima di compiere novant’anni.


31 marzo, 2020

31 marzo 1921 - Lowell Fulson, un duttile bluesman

Il 31 marzo 1921 nasce a Tulsa, in Oklahoma Lowell Fulson, uno dei più duttili cantanti e chitarristi della storia del blues. Negli oltre cinquant’anni di registrazioni realizzate con diversi gruppi e varie etichette discografiche, Lowell Fulson è in grado di modificare costantemente il proprio stile adattandolo via via a quelle che erano le tendenze delle nuove generazioni. Inizialmente viene influenzato dai vecchi interpreti del blues rurale, come Blind Lemon Jefferson e soprattutto Texas Alexander con il quale lavora alla fine degli anni Trenta. Da quest'ultimo impara numerose canzoni del repertorio classico del blues rurale texano, compresa quella Penitentiary Blues che più tardi registra in due versioni sotto il titolo di River Blues. Durante gli anni Quaranta, dopo aver suonato a lungo la chitarra acustica passa alla chitarra elettrica e si avvicina con entusiasmo alle nuove esperienze musicali che stanno emergendo sulla West Coast. Nel decennio successivo arriva al grande successo discografico con brani come Every Day I Have The Blues, Blue Shadows, Lonely Christmas e I’m A Night Owl. In quegli anni si esibisce al fianco di Charles Brown, Johnny Moore e soprattutto T. Bone Walker, forse l’artista che più di ogni altro ne influenza l’impostazione di quel periodo. Collabora poi con Ray Charles e Stanley Turrentine. Muore il 6 marzo 1999.

30 marzo, 2020

30 marzo 1981 - In migliaia a Milano per Tajoli

Sono migliaia le persone che la sera del 30 marzo 1981 affollano l’ingresso del Teatro Nazionale di Milano in piazza Piemonte per festeggiare il ritorno in concerto di Luciano Tajoli nel capoluogo lombardo. Arrivano da ogni parte d'Italia e non possono entrare tutti ma hanno comunque voluto esserci per festeggiare uno dei grandi protagonisti della musica leggera italiana del Novecento. Il palco, coperto di fiori, ha sullo sfondo le avveniristiche scenografie di “Flowers”, il musical di Lindsay Kemp in cartellone in quel periodo. Luciano è emozionato come un debuttante. Il pubblico lo chiama a gran voce e quando arriva sul palco viene accolto da un’ovazione lunghissima. Non ha lasciato niente al caso. Nel corso della serata lo accompagnano il gruppo del maestro Carlo Cordaro, la jazz band di Sante Palumbo e il Trio vocale di Paola Orlandi. Due ore filate di canzoni non bastano al suo pubblico che prende d’assedio l’uscita dei camerini per abbracciarlo. A fatica i giornalisti riescono ad arrivare fino a lui. Stanco, sudato e felice Tajoli parla chiaro: “Come vedete sono amato dal pubblico, in Italia e all’estero, ma mamma televisione non si accorge neppure che esisto... Non sono gradito perché poliomielitico, ormai ci sono abituato...”.

29 marzo 1979 – Ray Ventura, la risposta francese alle big band americane

Il 29 marzo 1979 in un piccolo albergo di Palma di Majorca muore Ray Ventura, uno dei protagonisti di primo piano dell’epoca d’oro del music hall francese, l’artefice della saldatura in chiave swing del grande jazz orchestrale degli anni Trenta con le seduzioni e lo spirito degli chansonniers. Il suo modello sono le formazioni d’oltreoceano ma lo spirito è quello più ironico e meno incline a prendersi troppo sul serio del Vecchio Continente. Talentuoso musicista, buon compositore e impeccabile direttore d’orchestra Ray Ventura nella sua lunga carriera cerca sempre di unire la limpidezza del suono e la cura negli arrangiamenti al gusto per il divertimento e per il colpo di scena che sorprenda il pubblico. Il suo stile unico che mescola jazz, canzoni, brevi sketches e momenti di surreale improvvisazione scenica viene preso a riferimento da molti altri protagonisti della musica orchestrale francese ed europea negli anni successivi al suo grande successo. Nessuno però riuscirà a ripeterne i risultati e non soltanto perché il clima culturale in cui nasce, cresce e si sviluppa è unico e irripetibile. L’elemento che fa la differenza rispetto ai suoi successori è proprio il suo genio musicale che gli permette di essere un fantasioso elaboratore di ritmi, armonie e melodie ma anche e soprattutto abile scopritore di talenti. Forse nessuno come lui in Francia ha saputo scoprire, utilizzare e portare al successo tanti strumentisti destinati a lasciare un segno importante nella storia della musica. La capacità di trovarli e di metterli insieme esaltandone le qualità è, in fondo, il vero segreto del successo e forse dell’immortalità dell’esperienza musicale di Ray Ventura et Ses Collégiens. Raymond Ventura detto Ray nasce a Parigi il 16 aprile 1908. A differenza di molti protagonisti della scena musicale francese di quegli anni lui non ha alle spalle né la sofferenza di una famiglia di misere condizioni né l’esperienza della strada. I suoi genitori sono benestanti e possono permettersi di regalare al figlio un’infanzia e un’adolescenza tranquilla. Il giovane Ray scopre il jazz quando ancora porta i calzoni corti ascoltando le prime incisioni un po’ gracchianti che arrivano in Francia dagli Stati Uniti. Nel 1924 ha sedici anni, frequenta il liceo “Jeanson De Sailly” e se la cava egregiamente al pianoforte. Proprio tra le mura di quella scuola nasce l’idea di dare vita a un gruppo musicale insieme a un pugno di compagni di scuola. La piccola orchestra che in onore del luogo dove è nata e della condizione sociale dei suoi componenti prende il nome di Collégiens (Collegiali) inizia ad animare le notti del quartiere. Più passa il tempo e più quella che sembrava un’esperienza nata per gioco prende una consistenza artistica interessante grazie al talento artistico di strumentisti come Ray Binder, Robert De Gaille, Robert Vaz, Paul Misraki, Henri Guesde e i fratelli Aslanian. In questi primi anni d’attività Ray dimostra di essere istintivamente un leader riuscendo a dare a un gruppo così giovane una personalità tale da attrarre le attenzioni della nascente scena jazz francese. Nel 1928 l’orchestra registra i primi brani per la casa discografica Columbia. La popolarità di Ray e dei suoi compagni è tale che tra il 1927 e il 1930 sono molti i musicisti professionisti che si divertono a unire i loro strumenti ai Collégiens sia negli spettacoli dal vivo che nelle sedute di registrazione. Tra questi nomi ci sono personaggi storici del jazz come i francesi Philippe Brun, Gaston Lapeyronie, Alex Renard, Léon Vauchant e gli statunitensi Dany Polo, Babe Russin, Spencer Clark, Eddie Ritten e Jack O’ Brien. Alla fine del 1930 Ray Ventura decide di dedicarsi esclusivamente alla musica. Con l’arrivo di nuovi musicisti come René Weiss, Russell Goudey, Georges Effrosse, Louis Gasté e Raymond Legrand dà ai suoi Collégiens una nuova dimensione sul modello delle grandi orchestre statunitensi di Paul Whiteman e Jack Hilton. Il suo non è però un semplice lavoro a ricalco di esperienze altrui. Il grande successo di Ray Ventura et Ses Collégiens è legato a scelte innovative che riguardano l’impianto scenografico, l’impostazione musicale e la scelta del repertorio. L’orchestra non si limita a proporre i brani più famosi del jazz orchestrale statunitense, come fanno più o meno tutti i gruppi di quel periodo, ma allarga il proprio repertorio con brani della tradizione sinfonica, canzoni popolari o successi del momento, riarrangiando tutto in chiave jazzistica. Il valore dei solisti, la qualità degli arrangiamenti, la scelta dei brani e lo humor che caratterizza le esibizioni fanno il resto. La popolarità del gruppo si allarga anche al di fuori dei confini francesi, soprattutto in Gran Bretagna dove ottiene un successo simile a quello ottenuto in paria. Nella seconda metà degli anni Trenta le loro canzoni, soprattutto Tout va très bien madame la marquise, accompagnano le speranze e i timori della Francia durante l’esperienza del Fronte Popolare. Per Ray Ventura et Ses Collégiens si aprono anche le porte del cinema mentre le case discografiche se li contendono a peso d’oro. Dopo l’esperienza con la Columbia l’orchestra passa con la Decca dal 1931 al 1935 e con la Pathé dal 1935 al 1940. Proprio nel periodo di maggior successo dell’orchestra la Francia viene invasa dalle truppe della Germania nazista. Di fronte alle prime scelte antisemite del governo collaborazionista francese Ray Ventura, che ha un organico molti musicisti d’origine ebrea, decide di lasciare la Francia e di trasferirsi in Svizzera. Qui lo raggiungono alcuni dei suoi Collégiens, ma non tutti. Lui, come sempre, non si fa spaventare dalle difficoltà. Abbozza e ricomincia da capo. Nel 1941, quando se ne vanno in Sudamerica per una lunga tournée Ray Ventura et Ses Collégiens hanno una formazione in parte nuova nella quale si fa notare uno sconosciuto chitarrista che risponde al nome di Henri Salvador. L’orchestra diventa popolarissima in Brasile e Argentina dove registra anche una serie di album importanti che mostrano interessanti aperture verso le strutture ritmiche del samba. Nel 1944 con l’inizio della Liberazione della Francia finisce anche l’esilio di Ray Ventura che dopo aver sciolto l’orchestra torna in patria. Il ritorno in Francia di Ray Ventura non coincide con l’immediata ripresa delle attività della sua orchestra. Indeciso sul da farsi per qualche tempo pensa davvero di lasciar perdere tutto. Quando oramai tutti pensano che sia un’esperienza chiusa Ray Ventura et Ses Collégiens tornano in attività con una serie di concerti alla Salle Pleyeil di Parigi affollati all’inverosimile. Non è più la formazione storica. Accanto al leader ci sono musicisti eccellenti pur se meno conosciuti dei predecessori. Tra loro c’è anche il chitarrista Sacha Distel, nipote di Ventura, un ragazzo che a partire dagli anni Sessanta sarà uno dei protagonisti di un ulteriore rinnovamento della canzone francese. Il nome del gruppo è lo stesso ma la musica è diversa, meno jazzata e più aperta alle esperienze delle orchestre da ballo del dopoguerra. I gusti del pubblico stanno, però, rapidamente cambiando e per sfuggire al destino di ripetersi all’infinito sull’onda della nostalgia all’inizio degli anni Cinquanta Ray Ventura chiude l’esperienza e scioglie l’orchestra dopo una lunga tournée d’addio. Da quel momento si occupa prevalentemente della sua casa di edizioni musicali e delle attività connesse. Fonda anche una casa di produzione cinematografica e una casa discografica, la Versailles, con la cui etichetta vede la luce in Francia il primo disco di Ray Charles. Ray Ventura opera nella produzione con lo stesso gusto e talento musicale che gli hanno regalato la gloria negli anni precedenti. Non a caso è proprio lui il primo ad aprire le porte delle sue edizioni musicali a uno sconosciuto e un po’ scontroso chansonnier che risponde al nome di Georges Brassens. Ray Ventura muore in un piccolo albergo di Palma di Majorca il 29 marzo 1979.

28 marzo, 2020

28 marzo 1886 – L'inno dei lavoratori

Il 28 marzo 1886 a Milano, nel corso della "Festa proletaria del Partito Operaio Italiano" viene eseguito per la prima volta un brano intitolato Inno dei Lavoratori, composto dal maestro Amintore Galli su un testo di un giovane ancora poco conosciuto che risponde al nome di Filippo Turati, il futuro apostolo di quella corrente che verrà chiamata "umanesimo socialista". È una marcia trascinante destinata a sopravvivere ai suoi stessi autori e a diventare, insieme a Bandiera Rossa e a L'internazionale, uno dei tre più significativi inni del movimento operaio italiano. Il testo possiede uno straordinario impatto evocativo. Guarda al nuovo secolo che si affaccia all'orizzonte come a quello del riscatto: non si tratta di un auspicio, ma di una incrollabile certezza. Fin dall'attacco «Su fratelli…» dà l'impressione che il tempo dei dubbi e dei tentennamenti sia ormai alle spalle del movimento operaio. Nelle sue otto lunghe strofe la condizione sociale e la prospettiva del riscatto sono strettamente intrecciate grazie a un ritornello decisamente efficace: «Il riscatto del lavoro/de' suoi figli opra sarà/o vivremo del lavoro/o pugnando si morrà». Par di intuire che la lotta, nelle intenzioni di Turati, non abbia lo scopo di esaurirsi subito, ma punti a caratterizzare l'alba del Novecento, il secolo in cui finalmente il proletariato saprà affrancarsi. All'orecchiabilità del brano contribuisce anche la parte musicale di Amintore Galli, la cui passione per le atmosfere bandistiche traspare fin dalla prima nota. Il compositore, nato a Talamello, un borgo tra Pesaro e Urbino, al momento della prima esecuzione del brano ha quarantadue anni. Vent'anni prima ha combattuto con Garibaldi a Bezzecca e, dopo un periodo passato a Finale Emilia dove ha diretto la banda cittadina e la scuola comunale di musica, è arrivato a Milano per ricoprire il prestigioso incarico di direttore artistico dello Stabilimento Musicale Sonzogno. Parallelamente svolge anche l'attività di critico musicale del quotidiano "Il Secolo", ma nell'ambiente musicale è conosciuto soprattutto come compositore di opere liriche. Proprio alla lirica affida il sogno della sua immortalità artistica, ma, nonostante la discreta popolarità del suo "David" (rappresentato per la prima volta a Milano nel 1904), saranno proprio le trascinanti note dell’Inno dei Lavoratori a far rivivere il suo nome ben oltre il "secolo del riscatto". Il brano, pur avendo una struttura musicale duttile, non subirà rimaneggiamenti significativi nel corso degli anni, né sarà oggetto di modernizzazioni o recuperi particolari da parte dei generi musicali del Novecento. Dei tre inni più significativi del movimento operaio italiano è quello meno cantato sulle piazze e, probabilmente, quello che esercita il minor fascino sulle giovani generazioni.

27 marzo, 2020

27 marzo 1934 - Jenny Luna, tra jazz e pop

Il 27 marzo 1934 nasce a Roma Maria Clotilde Troili destinata a lasciare un segno nella storia del jazz e della musica pop italiana con il nome di Jenny Luna. Maestra nella borgata romana di Ponte Mammolo, nel 1953 canta per hobby nei locali della zona. La sua interpretazione di On the sunny side of the street colpisce i componenti della Roman New Orleans Jazz Band che le propongono di diventare la cantante del gruppo. Successivamente entra a far parte del Quartetto Armonia, che accompagna l'orchestra del maestro Angelini. Nel 1955 debutta come solista con lo pseudonimo di Tilde Natil. Due anni dopo cambia repertorio e, assunto il nome d’arte definitivo di Jenny Luna, diventa una delle prime ‘urlatrici’ interpretando il brano Carnevalito. Nel 1959 ottiene un buon successo con il cha-cha-cha Alzo la vela e viene indicata come la “rivale di Mina” dopo la sua personalissima interpretazione di Tintarella di luna. Nel 1960 vince il Festival di Velletri con Firulirulin, in coppia con Joe Sentieri e l'anno dopo partecipa al Festival di Sanremo interpretando Le mille bolle blu in coppia con Mina. Torna a Sanremo nel 1962 interpretando due canzoni: Conta le stelle con Germana Caroli e Cose inutili con Fausto Cigliano, un brano scritto da Ugo Tognazzi e musicato da Gianni Meccia. Nel 1966 ottiene l’ultimo grande successo discografico con Chiodo scaccia chiodo e negli anni Settanta si ritira dalle scene. Tra le molte canzoni portate al successo nella sua carriera, oltre a quelle citate, sono da ricordare Tu iste a Surriento, Riksciò, Ai confini del cielo, Bionda, L’ultima volta, A chi darai i tuoi baci, Stupid Cupid, Baby lover, Conga Maje, Ave Maria no morro e Piante di cocco.

26 marzo, 2020

26 marzo 1923 - Franco dei G 5, l’uomo dei ritmi calienti

Il 26 marzo 1924 nasce a Firenze il cantante e batterista Franco Rosselli destinato a lasciare un segno nella storia del pop italiano come leader del gruppo Franco e i G 5, una delle formazioni più popolari degli anni Cinquanta prima dell’avvento del beat. La storia del gruppo inizia nel 1949 quando Rosselli forma il suo primo quartetto destinato a diventare l’anno dopo, con l’aggiunta di un elemento, Franco e i G 5. La composizione del gruppo è estremamente variabile, tanto che il nome può essere considerato, a tutti gli effetti, una sorta di nome d’arte dallo stesso Rosselli, unico elemento fisso della formazione. A partire dal 1952 Franco e i G5 sono protagonisti di un notevole successo con brani ispirati ai nuovi ritmi sudamericani, soprattutto al cha-cha-cha. Molti loro dischi diventano campioni di vendite. Il grande successo dura fino alla fine degli anni Cinquanta. Nel 1959, per tentare di far fronte al declino della sua popolarità, tenta di rilanciarsi con un nuovo ballo tropicale. È il merengue, un ritmo destinato a far furore qualche decennio dopo che però in quel periodo non riesce a ridare al gruppo lo smalto perduto. Un vento nuovo sta soffiando sulla penisola travolgendo nuovi e vecchi miti, compresi Franco e i G5, che nel 1961 partecipano al Festival di Napoli con l’incarico di riepilogare i motivi di gara.


25 marzo, 2020

25 marzo 1958 - Tom "Red” Brown, tra contrabbasso e trombone

Il 25 marzo 1958 muore il contrabbassista e trombonista Tom Brown, detto Red. Nato a New Orleans, in Louisiana, il 3 giugno 1888 è fratello del contrabbassista Steve Brown. Studia musica da bambino e indossa ancora i pantaloni corti quando entra a far parte di una delle Reliance Brass Band di Jack “Papa” Laine. Nel 1914 forma un proprio gruppo che si esibisce l'anno dopo al Lamb's Café di Chicago e tra il 1915 e il 1916 è molto attivo nei circuiti di vaudeville. Il gruppo ha due nomi, The Kings of Ragtime e The Ragtime Rubes, intercambiabili a scelta dei proprietari del locale che li ha scritturati. Dopo un breve periodo trascorso a New York per una serie di esibizioni al Century Theatre, fa ritorno a Chicago, dove ottiene un ingaggio al Camel Gardens e partecipa a vari spettacoli di varietà. Tra il 1922 e il 1923 si dedica all'attività di studio a New York e a Chicago. Proprio in quest’ultima città ottiene una scrittura da parte dell’orchestra di Ray Miller Tornato a New Orleans, suona con Johnny Bayersdorffer e con Norman Brownlee. Negli anni Trenta alterna spesso il contrabbasso al trombone e fa parte a lungo della Val Barbara's Orchestra. Verso la fine del decennio inizia a dedicarsi al commercio pur non abbandonando mai del tutto la musica.

24 marzo, 2020

24 marzo 1962 - Jean Goldkette, un musicista classico amante del jazz

Il 24 marzo 1962 muore a Santa Barbara, in California, il pianista e direttore d'orchestra Jean Goldkette. Nato a Valenciennes, in Francia, il 18 marzo 1899 a dodici anni si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti dove sfrutta il suo talento di pianista classico per trovare scritture in vari gruppi di Chicago. Nel 1921, a diciannove anni, se ne va a Detroit per suonare con l'orchestra di Andrew Raymond. Qualche tempo dopo compra anche il Greystone Ballroom una sala da ballo di quella città dedicandosi con successo alla attività di impresario e agente per conto di musicisti e di intere orchestre. Nel 1924 su incarico della casa discografica Victor forma una propria orchestra da ballo aperta agli influssi jazz scritturando musicisti come Joe Venuti, Don Murray e Red Nichols. Nel 1926, sempre per la Victor, forma varie band destinate a lavorare in sala di registrazione insieme al trombonista e arrangiatore Russ Morgan, destinato a diventare più tardi il direttore musicale della sua organizzazione. Quei gruppi di registrazione sono entrati nella leggenda del jazz per la qualità dei musicisti schierati: da Bix Beiderbecke a Frankie Trumbauer, da Eddie Lang, a Joe Venuti, a Tommy e Jimmy Dorsey, a Danny Polo, a Sterling Bose, a Billy Rank, a Fud Livingston, a Volly deFaut, a Steve Brown, oltre all'arrangiatore Bill Challis. In quel periodo Jean Goldkette controlla nella zona di Detroit una ventina di orchestre, alcune delle quali si esibiscono anche in altre città degli Stati Uniti. Goldkette paga ai suoi musicisti stipendi elevatissimi pur di assicurarsene i servigi e questa politica finisce per determinarne il crollo finanziario agli inizi degli anni Trenta. Tornato al punto di partenza non si arrende e rispolvera le sue doti di pianista classico mettendo in scena nel 1939 un concerto di musica americana alla Carnegie Hall di New York con un'orchestra di novanta elementi. Nel 1944 è a capo di una propria piccola formazione a Detroit, e negli anni seguenti cerca fortuna anche in campo extrajazzistico. La morte lo coglie quando si è da poco stabilito in California. Tra la non ricca discografia di questo musicista classico amante del jazz figurano incisioni interessanti come i due brani Clementine e Pretty Girl, nobilitati dalla presenza di Bix Beiderbecke.

23 marzo, 2020

23 marzo 1917 - Johnny Guarnieri, l’italoamericano che suona come un nero

Il 23 marzo 1917 nasce a New York, il pianista Johnny Guarnieri, considerato dal critico francese Panassié uno dei pochi jazzmen bianchi capaci di assimilare il linguaggio dei neri. Figlio di una famiglia di commercianti italiani emigrati negli USA e stabilitisi a Brooklyn, dove Johnny è nato, impara a suonare il pianoforte dal padre, musicista dilettante e alla fine degli anni Trenta debutta come professionista nell'orchestra di George Hall, prima di passare nelle grandi orchestre swing di Benny Goodman e di Artie Shaw fra il 1939 e il 1941. Proprio nelle due orchestre il giovane Guarnieri perfeziona il proprio stile assimilando le lezioni di Fats Waller, Count Basie e Teddy Wilson. Dal primo infatti attinge la verve interpretativa, da Basie la nervosa scansione ritmica e da Wilson infine la capacità di attingere alle atmosfere della musica colta occidentale. Shaw lo vuole accanto a sé anche nel curioso esperimento degli Artie Shaw's Gramercy Five, un piccolo gruppo nel quale Guarnieri suona il clavicembalo. Nel 1942 è con Jimmy Dorsey e l’anno dopo con Raymond Scott e Cozy Cote. Nel primo dopoguerra preferisce evitare impegni fissi e si dedica a moltissimi progetti anche contemporaneamente. Suona così al fianco di Cootie Williams, Billy Butterfield, Louis Armstrong, Don Byas, Barney Bigard, Roy Eldridge, Coleman Hawkins, Rex Stewart e Ben Webster. Per un breve periodo fa coppia con Lester Young. Negli anni Sessanta rallenta l’attività andando a stabilirsi definitivamente a New York dopo tanti vagabondaggi attraverso gli Stati Uniti. Muore il 7 gennaio 1985.


22 marzo, 2020

22 marzo 1929 – La prima automobile della BMW

Il 22 marzo 1929 viene prodotta la prima vettura della BMW. Nata nel 1916 dalla fusione di due fabbriche di Monaco con l’obiettivo di costruire motori per aerei la casa tedesca attraversa le drammatiche vicende della Germania nelle due guerre mondiali e la sua vicenda è considerata quasi un simbolo della capacità umana di saper reagire alle difficoltà e alle tragedie ripartendo ogni volta con cocciuta ostinazione. Alle auto la BMW arriva un po’ per caso e un po’ per forza. Dopo che il trattato di pace siglato alla fine della prima guerra mondiale vieta alla Germania di occuparsi di produzioni aeronautiche, le moto e le auto diventano quasi una scelta obbligata. Il 22 marzo 1929 viene prodotta la prima vettura targata BMW. È una berlinetta derivata dalla Austin Seven con carrozzeria interamente in acciaio. Inizialmente costruita in un capannone a Berlino verrà poi realizzata in serie a Eisenach. Quattro anni dopo arriva un nuovo modello, la 3/20 CV non più basato sulla licenza Austin e costruito a Monaco. Nel 1933 viene presentata un’automobile completamente nuova, la 303 che per la prima volta ha il tipico “radiatore a forma di rene” stilizzato destinato a caratterizzare per sempre i modelli BMW. L’anno dopo con la 315 la casa fa il suo debutto nel settore delle vetture sportive, consolidato a partire dal 1936, dalla 328, una due litri entrata nella leggenda. L’ultimo modello BMW prima della guerra è la 335, la prima limousine di classe superiore. Gli eventi bellici lasciano un segno pesante sugli stabilimenti e sembrano segnare il destino stesso del marchio. Posti sotto il controllo delle truppe alleate, le officine di Monaco vengono autorizzate a produrre di nuovo autovetture solo all’inizio degli anni Cinquanta. Nel 1951, al primo Salone di Francoforte, viene presentata la 501, una limousine derivata dalla 326 del periodo prebellico, ribattezzata “angelo barocco” e divenuta rapidamente un simbolo della ricostruzione e del miracolo economico. A partire dal 1954 si inizia a lavorare a una nuova vettura sportiva, la 507, progettata dal disegnatore industriale newyorchese Albrecht Graf Goertz e presentata per la prima volta al Salone dell’Automobile nel 1955. Contemporaneamente si cerca di supportare la nascente motorizzazione di massa con un’utilitaria affidabile e competitiva. La BMW acquista la licenza dell’Isetta, un modello dell'azienda milanese Iso che, opportunamente rielaborato viene commercializzato a partire dalla primavera del 1955. La vetturetta, soprannominata “Knutschkugel” (ovvero “nido per le effusioni amorose”), vende più di 160.000 esemplari conquistando un’interessante fetta di mercato. Nel 1961 nasce la 1500, una linea di limousine a quattro porte che segna una nuova svolta nella politica industriale della BMW e anticipa la nascita della serie 02 una linea di berline a due porte compatte e sportive messe in produzione a partire dal 1966 da cui verrà anche derivata la prima vettura turbo della casa tedesca. Ormai i tempi duri e le difficoltà sono alle spalle. La BMV affronta gli anni Settanta puntando sulle innovazioni tecnologiche e di design. Sono gli anni della Serie 3, lanciata nel 1975 per sostituire la 02, che venderà oltre 1.300.000 vetture prima di essere aggiornata nel 1983. Da quel momento la casa tedesca centrerà un successo dopo l’altro divenendo uno dei marchi più prestigiosi della produzione automobilistica internazionale.