07 maggio, 2020

7 maggio 1905 - Bumble Bee Slim, l’alfiere del blues urbano

Il 7 maggio 1905 nasce in Georgia Amos Easton destinato a lasciare un segno importante nelle storia del blues con il nome d’arte di Bumble Bee Slim. Tipico esponente del blues urbano che si sviluppa negli Stati Uniti verso la fine degli anni Venti, attraversa un momento di grande notorietà verso la metà degli anni Trenta quando registra moltissimi dischi per la Vocalion, la Bluebird e la Decca. I suoi brani hanno testi poetici ricchi di un sottile erotismo, spesso tormentato e sofferto nel rispetto della tradizione dell'urban blues. Allievo di Leroy Carr, che incontra per la prima volta nel 1928, quando dalla natia Georgia si trasferisce a Indianapolis, negli anni Trenta vagabonda tra il Tennessee e l'Ohio prima di stabilirsi a Chicago, dove si consacra tra i principali esponenti del blues urbano. In quel periodo lavora anche con Tampa Red e Big Bill Broonzy, prima di riprendere a vagabondare per gli States. Negli anni Cinquanta entra in una fase di declino che coincide con un appannamento generale dell’interesse degli americani verso il blues. Negli anni Sessanta, sull’onda di una rinnovata passione internazionale per il blues, torna in sala di registrazione.

06 maggio, 2020

6 maggio 1965 – Nasce il riff di “Satisfaction”

Il 6 maggio 1965, secondo quanto tramandato dalla leggenda, sarebbe nato il riff introduttivo del brano (I can't get no) Satisfaction. Lo scenario del lieto evento è una stanza d'albergo di Clearwater, in Florida, dove Keith Richards e Mick Jagger stanno lavorando su un pezzo country che non li soddisfa del tutto. Lo trovano troppo morbido, poco adatto alle corde dei Rolling Stones. Decidono quindi di andarsene a dormire e rinviare tutto. Sempre secondo la leggenda Keith Richards si sarebbe svegliato nel mezzo della notte con un’idea per riff introduttivo. Dopo aver applicato alla sua Gibson un distorsore, registra per la prima volta un riff destinato a passare alla storia e poi, soddisfatto, torna a dormire. Distinguere il vero dal falso in queste storie è difficilissimo anche perché i protagonisti si guardano bene dal dire una parola definitiva sulla questione. Non tutti sono propensi a credere che (I can't get no) Satisfaction, un brano che ha segnato per sempre la storia degli Stones e del rock mondiale, sia davvero nato così. I diffidenti fanno notare come quel riff assomigli proprio tanto a quello scandito dalla sezione fiati di Martha & The Vandellas in Dancing in the street, mentre il tormentone che dà il titolo al brano è molto simile a un passaggio di 30 days di Chuck Berry il cui testo dice: «I don't get no satisfaction from the judge». La verità sta probabilmente nel mezzo. Niente nasce per caso e non è uno scandalo se Jagger e Richards hanno attinto a piene mani alla tradizione musicale nera americana per comporre uno dei brani più longevi del Novecento. Lo stesso Mick Jagger ha poi raccontato che quel riff è stato utilizzato a lungo ed è presente in un gran numero di brani eseguiti successivamente dalla band. Agli appassionati il compito di scovare quali...

05 maggio, 2020

5 maggio 1967 - Se vuole la patente eviti di indossare la minigonna!

Una ragazza che guida può indossare la minigonna? No, secondo il severo esaminatore milanese che il 5 maggio 1967 rifiuta di ammettere la giovane Damiana Somenzi all’esame pratico di guida perché indossa una minigonna. La visione di un paio gambe, si sa, può turbare il sonno dei buoni padri di famiglia.... Che vergogna! Presidi, professori, parroci e genitori sono tutti d’accordo: quelle ragazze che masticano chewing gum e mostrano le gambe con disinvoltura sono la prova vivente della corruzione morale della società. Esplosa in Gran Bretagna nel 1964 la minigonna in Italia arriva un po’ più tardi e subito suscita sconquassi. Nel paese maschio per eccellenza la pelle delle gambe delle donne esposta agli sguardi di tutti assume il carattere di una provocazione e un’offesa ai costumi tradizionali, un evidente oltraggio alla morale e al buon senso. Chi porta la minigonna non può entrare a scuola, negli uffici pubblici, in Chiesa, né partecipare a manifestazioni religiose o civili. Il luogo principale dove si scatena l’offensiva moralistica è la famiglia, da sempre considerata il principale tutore delle regole di civile convivenza e della moralità diffusa. Le minigonne costano schiaffi, urla e castighi, ma le ragazze italiane degli anni Sessanta non sono più succubi dell’autorità famigliare, anzi la mettono apertamente in discussione. Contro il nuovo scandalo si mobilitano anche i giornali con campagne moralistiche e con analisi di presunti esperti che sostengono si tratti di una moda decisamente di cattivo gusto e destinata a non durare più di una stagione. I magazine giovanili replicano colpo su colpo e la società si spacca in due. Da un lato i severi censori e gli adulti ripropongono l’etica del sacrificio e della rassegnazione e dall’altra esplode la voglia di vivere e di cambiare regole che sembrano ormai insopportabili. Con la minigonna, ma non solo con quella, le ragazze italiane rivendicano la propria identità e fanno capire che l’adolescenza non può essere più considerata soltanto un fastidioso e inutile periodo di passaggio, quasi un limbo in attesa di diventare adulti. Quei pochi centimetri quadrati di stoffa diventano così un simbolo di liberazione.

04 maggio, 2020

4 maggio 1904 – Rolls e Royce si incontrano

Il 4 maggio 1904 due gentleman si incontrano nella hall del Midland Hotel di Manchester. Sono due persone molto diverse. Il più elegante si chiama Charles Stewart Rolls, è un aristocratico appassionato di auto con il pallino degli affari che ha la rappresentanza della Panhard a Londra. È lì per incontrare un ingegnere di eccezionale talento, di nome Henry Royce, di cui ha sentito tanto parlare. In giro si dice che produca automobili dotate di una qualità e un’affidabilità di gran lunga superiori a quelle delle altre marche esistenti e, soprattutto, rifinite con perizia fino nei più piccoli particolari. Il buon Rolls ha soltanto l’intenzione di acquistare una di quelle fantastiche automobili per soddisfare la propria vanità, ma il destino ha progetti diversi. Quello non sarà solo un incontro per decidere l’acquisto di un auto. Quando, al termine del colloquio, i due uomini si stringono la mano, hanno ormai posto le basi per la nascita di una casa automobilistica che porterà il nome di entrambi e lascerà un segno importantissimo nella storia dell’automobilismo mondiale. La storia della Rolls-Royce porta impressi i segni dell’eccellenza: record di velocità mondiali su terra, in acqua e in aria e modelli destinati a diventare uno dei simboli del prestigio di famiglie reali, capi di stato, attori, personaggi dello sport, artisti e capitani d'industria. Fin dall’inizio il segreto del successo della società è basato sulla costante ricerca dell'eccellenza sia dal punto di vista meccanico che da quello estetico. La leggenda racconta anche che il motto di Henry Royce fosse: «Tendi alla perfezione in tutto quello che fai. Prendi il meglio che c'è e miglioralo ancora. Se non esiste, progettalo». Poco importa se la frase sia stata davvero pronunciata o se sia, invece, farina del sacco di un geniale ufficio stampa. Quel che conta è che la filosofia della Rolls-Royce porta impresse proprio queste caratteristiche. Nel 1906 la prima vera Rolls Royce, la “Silver Ghost”, presentata al Salone di Parigi viene benedetta dai giornalisti specializzati come “La migliore auto al mondo”. Il pubblico resta colpito dalla sagoma imponente, con il radiatore a timpano dorico, mentre gli esperti restano strabiliati dal motore a sei cilindri con sistema di lubrificazione forzata capace di velocità vicine ai 100 Km/h. L’impostazione dell’azienda è già quella che caratterizzerà tutta la sua storia: diffidenza verso le esasperazioni tecniche ed estetiche e assistenza continua ai clienti per fidelizzarli nei confronti del marchio. La morte di Rolls, scomparso a soli 32 anni, in un incidente aereo non ferma la marcia della società che, sotto la direzione di Royce, continua sulla sua strada superando anche il parziale insuccesso della Twenty, un modello più economico del 1922. Nel 1925 la Phantom sostituisce la Ghost e ne rinnova il successo. Scomparso anche Royce l’azienda affronta gli anni Cinquanta e Sessanta con modelli d’intonazione classica e, soprattutto, con la Silver Shadow, la prima Rolls con la scocca portante. All’inizio degli anni Settanta un disastro finanziario provocato da varie disavventure del ramo aziendale che costruisce motori d’aereo, sembra chiudere definitivamente la storia del marchio che, in extremis, viene salvato dal provvidenziale intervento del governo britannico. Le conseguenze, però, si fanno sentire anche negli anni successivi e si sommano alla generale crisi dell’industri automobilistica, nonostante il buon successo di modelli come la Silver Spirit e la Silver Spur. Alla fine degli anni Novanta l’azienda subisce vari assalti da parte di case automobilistiche concorrenti che tentano di conquistare il prestigioso marchio. La spunterà BMW che, sulla base di un accordo siglato nel 1998, lascerà alla connazionale Volkswagen la produzione targata Bentley e terrà per sé la continuità del marchio Rolls Royce.

03 maggio, 2020

3 maggio 2003 – Le Dixie Chicks nude e coperte d'insulti

Il 3 maggio 2003 sulla copertina del settimanale statunitense “Entertainment Weekly” compare una foto delle tre componenti delle Dixie Chicks nude e coperte solo da varie scritte, perlopiù di insulti. Dopo il boicottaggio massiccio che le ha prese di mira in seguito alla presa di posizione contro la guerra in Iraq hanno deciso di ribattere così alle accuse e alle polemiche che le hanno viste protagoniste negli ultimi tempi per le posizioni espresse sulla guerra in Iraq. Le ragazze, fresche vincitrici di un Grammy Awards per la “miglior performance country femminile di gruppo” sono state oggetto di una campagna di chiaro stampo maccartista dopo che Natalie Maines, la loro leader, ha dichiarato in un concerto svoltosi a Londra di vergognarsi del fatto che George Bush fosse originario del loro stato, il Texas. La frase, riportata dal quotidiano inglese "The Guardian" e poi ripresa dai media statunitensi viene bollata come “antipatriottica” e provoca il boicottaggio radiofonico dei loro brani, la revoca di un ricco contratto pubblicitario e manifestazioni preoccupanti come quella avvenuta in Louisiana, a Bossier City, dove i dischi e altro merchandising del gruppo sono stati ammonticchiati e schiacciati con trattori. All’aggressione mediatica rispondono appunto comparendo sulla copertina di “Entertainment Weekly” coperte soltanto degli insulti che sono stati loro rivolti. Il trio spiegato così il gesto: «È un'immagine che racconta di come certi "vestiti" ed "etichette" facciano presto a esserti cuciti addosso». Il boicottaggio e le minacce non cambieranno le opinioni delle ragazze che nell’ottobre del 2004 parteciperanno a una serie di concerti del "Vote for Change Tour" in supporto alla campagna elettorale di John Kerry contro il texano Bush.


02 maggio, 2020

2 maggio 1898 - Ester Clary, la stella che lasciò il palcoscenico per amore

Il 2 maggio 1898 nasce a Salerno Ester Palumbo, destinata a diventare una canzonettista popolarissima con il nome d’arte di Ester Clary. A sei anni comincia a studiare pianoforte con vari maestri e successivamente continua gli studi fino a diplomarsi al conservatorio San Pietro di Majella di Napoli. Ricca di talento musicale riceve anche lezioni di canto da Ernesto De Curtis. Proprio lui, colpito dalle sue qualità, la convince a debuttare a soli diciannove anni al teatro Umberto di Napoli affidandole il suo celebre brano Ah ll'amore che fa ffa'. Il successo del debutto le regala una lunga serie di scritture che la portano a esibirsi nei principali teatri italiani e stranieri. Dotata di una voce potente sorrette da una tecnica raffinata è la prima interprete di brani come Napule ca se ne va e Canzone d'addio, destinati a diventare dei classici della storia della canzone italiana. Tra i suoi successi ci sono anche I' te vurria vasà, Nun so’ geluso e L'addio. Nel 1929, all’apice del successo e della popolarità, vive un’intensa storia d’amore con un ufficiale che sposa e per il quale abbandona le scene.

01 maggio, 2020

1° maggio 2004 – Un primo maggio multietnico a Milano

Il 1° maggio 2004 Radio Popolare sceglie proprio il giorno della festa dei lavoratori per la diciannovesima edizione di Extrafesta, l’appuntamento annuale di musica e cultura multietnica che dal 1986 dà spazio e voce alle realtà straniere. La serata, che inizia alle ore 21, ha al centro due concerti di grande suggestione. Il primo è quello degli Gnawa Diffusion, il gruppo franco-algerino capitanato da Amazingh Kateb che con le sue ritmiche reggae e raggamuffin lega tradizione e modernità cantando brani che parlano di tematiche sociali e politiche. Dopo di loro tocca all’affascinante Souad Massi, una delle protagoniste della nuova scena musicale algerina, da alcuni paragonata a Joan Baez o Tracy Chapman. La sua voce sensuale dà anima e suggestione a brani trascinanti che parlano di dolore e speranza in cui si mescolano chitarre elettriche e flamenco, liuti arabi, batteria, guembri e karkabous. Nel corso di Extrafesta vengono poi presentati i protagonisti di Extrafestival, quella che gli organizzatori chiamano “una risposta democratica e multietnica al Festivalbar”. Si tratta di un plotone di cittadini stranieri, ora residenti in Italia, che l’8 giugno alla Cascina Monluè interpreteranno in chiave meticcia alcuni standard della canzone made in Italy. Infine, come tutti gli anni, Extrafesta ospita i banchetti di numerose comunità straniere che vivono in Lombardia con pubblicazioni, materiale informativo, artigianato e bevande, mentre un angolo gastronomico offre, a prezzi politici, una cena a base di piatti provenienti dalla cucina di tutto il mondo, con particolare attenzione, in omaggio ai protagonisti musicali della serata, alla cucina magrebina.

30 aprile, 2020

30 aprile 1983 – Muddy Waters, una leggenda del Delta

Il 30 aprile 1983 muore Muddy Waters uno dei leggendari musicisti del delta del Mississippi. McKinley Morganfield, questo è il suo vero nome, nasce il 4 aprile 1915 a Rolling Fork, in Mississippi. Nel 1941 il ricercatore Alan Lomax lo convince a registrare due brani, Country blues e I be's troubled che lo fanno conoscere al di fuori del ristretto ambiente del delta. Trasferitosi poi a Chicago firma un contratto discografico con la Chess e formò la sua prima band con Little Walter all’armonica, Jimmy Rogers alla chitarra, Otis Spann al pianoforte e una serie interminabile di bassisti e batteristi. Per quasi tutti gli anni Cinquanta Muddy rappresenta l'avanguardia del blues e dalla sua creatività nascono brani entrati a far parte della storia della musica come Hoochie coochie man, Got my mojo working, Rollin' stone, You shook me, Mannish boy, Just make love to me, Louisiana blues e tanti altri. Nella sua interpretazione non li canta, qualche volta li urla, ma in genere li borbotta con una dizione smozzicata che rende le parole incomprensibili. Con lui il blues attinge alla civiltà dei bar degli operai. Melodia e armonia sono elementi trascurabili di fronte alla carica emozionale. Waters cambia anche l'immagine del bluesman che da menestrello solitario diventa showman e leader. I Rolling Stones, ispiratisi per il nome alla sua canzone Rollin' stone, lo considerano uno dei loro principali punti di riferimento, insieme a Bo Diddley e Howlin' Wolf. Tra i suoi moltissimi album i più importanti restano Folk singer, Hard again, At Newport, At Woodstock, Live, Sail on, London Sessions, Call me Muddy Waters, Unk in funk, McKinley Morganfield e Can't get no grindin'.

29 aprile, 2020

29 aprile 1865 – Max Fabiani, il goriziano che licenziò Hitler

Il 29 aprile 1865 nasce a Kobdil presso San Daniele del Carso, l'architetto goriziano Max Fabiani, un geniale progettista che dal 1894 al 1896 è allievo di Otto Wagner e suo collaboratore per il progetto della metropolitana di Vienna. Quando lascia lo studio di Wagner resta a Vienna dove nel 1900 progetta il magnifico palazzo della ditta "Portois & Fix" nella Ungargasse, nel 1901 la casa Artaria al Kohlmarkt e nel 1910 il planetario Urania. Negli anni Dieci assume come apprendista nel suo studio l'allora ventenne Adolf Hitler, un giovanotto che lui ricorda "non privo di qualche talento". L'aspirante architetto di Braunau, però, non è molto disciplinato e al lavoro preferisce le discussioni sul pangermanesimo che disturbano l'ufficio. Fabiani che antepone il lavoro alle chiacchiere decide di licenziarlo per scarso rendimento. In un'intervista rilasciata alla fine degli anni Cinquanta dichiarerà: «Non l'avessi mai fatto! Avremmo avuto un mediocre ma pur sempre passabile disegnatore tecnico in più e un programmatore di guerre mondiali e di campi di sterminio in meno!». Muore a Gorizia il 14 agosto 1962 alla veneranda età di novantasette anni.

28 aprile, 2020

28 aprile 1937 - La città del cinema nata dalle fiamme

Il 28 aprile 1937 Benito Mussolini in persona inaugura Cinecittà, il complesso di studi cinematografici più importante d’Europa. Particolarmente attento al rapporto tra propaganda e nuovi mezzi di comunicazione, il regime fascista da tempo pensa di impegnare notevoli risorse per realizzare l’idea di una “città del cinema”, da costruirsi alle porte di Roma. L’occasione per trasformare in realtà il progetto arriva il 26 settembre 1935 quando un misterioso incendio, le cui cause resteranno per sempre oscure, brucia gli studi della casa di produzione Cines. La stessa notte Luigi Freddi, capo della appena istituita Direzione Generale per la Cinematografia propone a Carlo Roncoroni, proprietario della Cines, di ‘prevedere e prevenire i tempi nuovi, creando, dalle rovine ancora fumenti dei vecchi stabilimenti’ nuove strutture di produzione più adatte ‘agli sviluppi futuri’ del cinema italiano. Attorno al progetto si mobilitano anche le energie di molti operatori privati che vedono la possibilità di promuovere un rapido sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione italiana, sulla falsariga di quanto già avvenuto negli Stati Uniti. La costruzione è imponente e si articola in dieci teatri di posa, un teatro per miniature, effetti speciali e animazione. A questi vanno poi aggiunti vari edifici per laboratori, montaggio e sonorizzazione, un centro per le registrazioni audio e tre piscine predisposte per le riprese superficiali e subacquee, la più grande delle quali è larga sessantadue metri e lunga centosessantacinque. In totale sono sedicimila metri quadrati di studi e trentaduemila di altri edifici su un’area complessiva di centoquarantamila metri quadri. Lo scoppio della guerra rallenta e poi blocca per un lungo periodo l’attività. Cinecittà sembra destinata a non risorgere più dopo l’8 settembre 1943, quando le truppe tedesche requisiscono gran parte delle attrezzature, mentre gli stabilimenti subiscono numerosi bombardamenti. Da ultimo diventa rifugio per centinaia di senzatetto romani. Il mondo della cinematografia, però, lancia accorati appelli per la sua rinascita fin dai primi giorni della ricostruzione e, inaspettatamente, la città del cinema riapre i battenti nel 1947 come ente autonomo sotto la presidenza di Tito Marconi. Ben presto Cinecittà torna a essere il centro della produzione cinematografica italiana, riguadagnando e allargando dentro e fuori dai confini nazionali la sua fama. Gli studi di via Tuscolana offrono buone attrezzature e personale altamente qualificato a costi assolutamente competitivi per il mercato internazionale. Alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta la congiuntura economica e una serie di provvedimenti particolarmente azzeccati favoriscono lo sviluppo di collaborazioni e coproduzioni internazionali di grande rilievo. In particolare Cinecittà diventa un punto di riferimento obbligato per le produzioni statunitensi. Nasce così il mito della ‘Hollywood sul Tevere’, che trova il suo momento di maggior successo nella realizzazione di grandi kolossal come “Quo Vadis” di Leroy nel 1949, “Ben-Hur” di Wyler nel 1959 e “Cleopatra” di Mankiewicz nel 1963.

27 aprile, 2020

27 aprile 1953 – Harry Belafonte registra "Matilda"

Il 27 aprile 1953 Harry Belafonte si chiude negli studi della casa discografica RCA-Victor per registrare Matilda, uno dei brani più significativi della sua produzione. Fin dalle prime note questa solare e orecchiabile canzone a ritmo di calypso sembra scorrere via liscia e priva di segreti lasciando immaginare una registrazione senza particolari problemi. È soltanto apparenza. Harry Belafonte, che ha già alle spalle una lunga gavetta nei locali del Greenwich Village non si lascia fuorviare dalla tranquillità un po’ superficiale degli strumentisti di turno in quel giorno. Non è un novellino. Nonostante la giovane età da tempo scruta i segreti delle musiche e dei ritmi della tradizione popolare e dal 1951 i concerti che tiene con i fedeli chitarristi Millard Thomas e Craig Work al "Village Vanguard" di New York sono diventati un appuntamento di culto per gli intellettuali e i giovani della città. Per questa ragione sa molto bene che Matilda è una brutta bestia da domare e che la trappola si nasconde proprio nella sua ripetitività. Se non si riesce a dare la giusta carica all’esecuzione la conseguenza inevitabile per chi ascolta non è quella di essere catturato dalla suggestione un po’ ipnotica del ritmo costante, ma è la noia. Harry spiega agli strumentisti che i ritmi delle tradizioni popolari, soprattutto di quella caraibica alla quale attinge, nascono per essere cantati, suonati, vissuti, ballati e non per essere ascoltati dai solchi di un oggetto impersonale come un disco. Se non li si interpreta nel modo giusto perdono in grinta e in significato. Accade così che quella che sembrava destinata a essere una seduta di registrazione tranquilla e senza scosse diventi una lunga giornata di lavoro, preda della quasi maniacale vocazione perfezionista di Belafonte. Il risultato è un brano in cui le variazioni sono infinite, a partire dai passaggi in cui viene ripetuto tre volte il nome “Matilda”. Ogni ripetizione non è mai uguale alla precedente. Tre sono le variazioni fondamentali. Nella prima Belafonte canta tranquillamente in battere, nella seconda scivola sulla prima vocale come se la parola avesse due “a” (Ma-atilda) e sulla successiva fa una pausa, quasi cantasse mentalmente una sillaba prima di pronunciare la parola Matilda. A queste varianti aggiunge o sostituisce altre personalissime correzioni sul tema. Il risultato è sorprendente e il brano segna l’inizio del successo di quel ragazzone figlio di giamaicani nato ad Harlem negli anni della Grande Depressione. La vita fino a quel momento non gli ha regalato nulla. Cresciuto ai margini dell’opulenta società statunitense a otto anni ha seguito i genitori nel ritorno disperato in Giamaica, la terra dei suoi antenati, per sfuggire alla morsa della crisi e della miseria. Ci resta per cinque anni prima di tornare nuovamente negli States. La musica, i colori, ma anche le condizioni di arretratezza della sua gente, gli resteranno dentro per sempre. I ritmi della terra dei suoi avi e, più in generale, dei Caraibi grazie a lui fanno il giro del mondo e brani come Matilda, Jamaica farewell o Banana boat song (Day-o) lo portano al vertice delle classifiche dei dischi più venduti ed entrano nel repertorio delle grandi orchestre. Gli storici della musica pop sostengono che proprio il boom di Harry Belafonte e della sua musica, insieme a quello del folk americano propiziato dal Kingston Trio, abbia posto le basi per la diffusione di massa del folk revival che negli anni Sessanta ha fatto da culla ad artisti come Bob Dylan e Joan Baez. L’uomo non si dimenticherà le sue origini e utilizzerà il suo successo per sostenere la causa dei diritti civili, della giustizia sociale e della lotta al razzismo. Proprio negli anni Cinquanta, all'apice della popolarità dopo aver venduto più di un milione di copie dell'album Calypso, annuncia la sua intenzione di non esibirsi più negli stati e nelle città del "profondo Sud" degli Stati Uniti colpevoli di mantenere in vigore disposizioni, regolamenti, norme punitive o segregazioniste nei confronti della comunità afroamericana. Organizza marce, sit-in, firma documenti, si impegna in prima persona e a chi tenta di convincerlo a moderare un po' i toni racconta la sua vita di giovane di colore nato nel ghetto nero di Harlem da genitori giamaicani. «Le parole, amico mio, lasciano il tempo che trovano. Quando hai vissuto a contatto diretto con le frustrazioni e la miseria della gente che ha il tuo stesso colore di pelle, non puoi pensare che la tua carriera venga prima di tutto». Anche durante i concerti va giù duro. «Tutti i richiami alla democrazia rischiano di restare chiacchiere vuote perché un paese in cui esistono palesi casi di segregazione razziale non è un paese libero e neppure democratico». Il suo impegno artistico è in linea con quello sociale e civile. Vola alto, al di sopra delle nuvole della produzione di tendenza e delle regole consolidate, facendo conoscere al mondo intero i ritmi, i suoni e i colori nati dalla contaminazione tra il folklore caraibico e la tradizione nera dei canti di lavoro degli schiavi.


26 aprile, 2020

26 aprile 2002 – Gianna Nannini nell'aria

Il 26 aprile 2002 arriva nei negozi italiani Aria, il nuovo album di una Gianna Nannini incazzata. La cantautrice toscana non si fa prestare parole difficili per spiegare il suo stato d’animo «Sono tempi di guerra, questi. La guerra non è mai finita fino a quando non si consoliderà un’opposizione vera, quella dell’amore. Tutti noi dobbiamo coltivare con amore l’opposizione all’idea stessa della guerra». Non fatevi incantare, però, dalla dolcezza. È una Nannini grintosa, decisa e combattiva quella che emerge dalle tracce di Aria. Sono lontani anni luce le interiorità e i suoni morbidi del precedente Cuore. La linea è diversa, come si può intuire ascoltando Uomini a metà, il singolo-trailer pubblicato a fine marzo, in cui si parla «bombe contro il cielo per incoronare religiosi inferni romantici». C’è il grido di rabbia contro un umanità dimezzata dall’odio, prigioniera di una sorta di egoismo cosmico, in cui l’assenza dell’amore finisce per essere la vera minaccia al destino del mondo. Le altre canzoni sono sulla stessa corsa. Nella volta celeste della Nannini splendono nuovi astri dalla luce intensa e vivida. Hanno la consistenza solida delle idee che si fanno melodia. I suoni, agli antipodi rispetto all’ultima produzione, sono nuovi, decisamente diversi da qualunque altra performance della cantautrice senese. Il suo rock pucciniano si è fatto adulto. Ha acquistato gli echi e i colori dell’elettronica, e lo ha fatto senza mai apparire artificiale. Sembra musica per gli occhi… «Già, è proprio musica per gli occhi. Grazie al lavoro di Armand Volker e Christian Lohr, due alchimisti dell’elettronica applicata alla musica, sono riuscita ad aggiungere ai brani un’infinità di colori…». Anche la sua voce, quando serve, viene filtrata dal vocoder, ma non è solo la musica a disegnare la nuova ispirazione. Nella stesura dei testi c’è la mano di Isabella Santacroce, la scrittrice pulp di “Destroy”, “Luminal”, “Fluo” e “Lovers”. Non si capisce chi delle due abbia influenzato l’altra, forse nessuna perché le parole sembrano frutto di un lavoro collettivo, composte direttamente sulla musica, senza un prima e un dopo. Sono piccole perle di un lungo grido di rivolta, ora rabbioso («non voglio perdermi, neanche crederti, nemmeno arrendermi tra le braccia di notti sterili»), ora malinconico («non è facile restare senza più fate da rapire»), ma mai rassegnato all’illusione («non morirò, per te rinascerò, fra le tue mani, invulnerabile, e vincerò per te l’eternità»). È un susseguirsi d’emozioni che trova il suo culmine in Un dio che cade, un brano nel quale di fronte a un dio vittima della violenza dell’umanità prende corpo una preghiera nuova a una divinità meno fragile perché femmina («madre nostra, regina dell’amore, guerriera della luce»). Nell’album non c’è la tentazione di chiamarsi fuori da ciò che accade, ma la voglia di guardare. È lei a confessare che l’idea di Aria è quella di «distaccarsi dalla terra per poter vederla un po’ dall’alto, scoprire che il mondo è diviso in due parti e stare da quella che si oppone». Oppone a cosa? «Alla guerra, alle ingiustizie, alla voglia di dominio e che cancella la solidarietà e l’amore». Non sono soltanto parole, le sue. Gianna Nannini non è una che confonde la realtà con le speranze e in lei l’attenzione per il movimento dei movimenti non nasce oggi. «Sei anni fa a Toronto, quando ancora il movimento No Global era agli inizi, io c’ero». Pochi mesi prima dell’uscita dell’album ha partecipato, in incognito, anche alla Marcia della Pace Perugia-Assisi. E oggi? «Sto sempre dalla stessa parte. Con determinazione, ma ben attenta a non cadere nella trappola» Quale trappola? «Quella della violenza, che rifiuto perché appartiene a una concezione del mondo che non è la mia. Quando accetti il terreno della violenza hai perso, perché hai portato dentro di te l’elemento su cui si basa il potere di chi stai contrastando, ti sei fatto catturare dalla sua logica. Sei stato sconfitto». Eppure in Aria, il brano che dà il titolo all’album sembra quasi che tu voglia fuggire dalla realtà per rifugiarti nelle favole. «No, non è una fuga, ma il recupero del valore della fantasia. Oggi il mondo ha bisogno come l’aria, appunto, di fantasia. Mi sono ispirata alla mia nipotina,. Guarda lei ho capito che crescendo perdi la fantasia che hai nei primi anni di vita. Non ti accorgi che i grandi non riescono più a parlare con i bambini? Io credo che tutti dobbiamo recuperare la nostra fantasia perduta perché è un valore…». Stanca di guerra Gianna Nannini riscopre l’amore come una forza di pace, viva e vitale. Ne fa una componente della sua battaglia contro l’omologazione che appiattisce e in Volo canta l’elogio delle diversità («ho scelto d’esibire le mie diversità come Pippi Calzelunghe»). Come Pippi Calzelunghe? «Già, proprio come lei, una bambina che non ama farsi rinchiudere in canoni decisi da altri».

25 aprile, 2020

25 aprile 1944 – O Badoglio, Pietro Badoglio...

Il brano La badogliede, costruito sulla musica di un canto popolare toscano e su un ritornello che appartiene alla tradizione piemontese, è un esempio prezioso di satira. La leggenda vuole che sia stato composto il 25 aprile 1944, un anno esatto prima del giorno della liberazione, ma probabilmente è nato allo stesso modo in cui nascono tutte le canzoni popolare, cioè, come si direbbe oggi, "in progress". Porta due firme illustri, quelle di Livio Bianco e Nuto Revelli, ma anche questa, a detta degli stessi autori, è una semplificazione. Materialmente i due sono stati i trascrittori. Hanno, cioè, aggiustato una sorta di elaborazione collettiva di un gruppo di partigiani che operavano alle Grange di Narbona che utilizzava la melodia di un canto popolare toscano. La critica politica nei confronti di Pietro Badoglio, protagonista della disonorevole fuga a Brindisi dopo aver firmato l'armistizio con gli alleati e la dichiarazione di guerra alla Germania, si fa caustica attraverso la narrazione delle sue vicende. Ne emerge un personaggio pavido, opportunista e del tutto indifferente al destino della popolazione. È singolare come il brano sia attraversato dallo stesso concetto che Nuto Revelli elaborerà in modo compiuto nei suoi libri, in particolare ne "La guerra dei poveri": la Resistenza come guerra di popolo contro il nazifascismo ma anche come «guerra alla guerra» nata dalla necessità di non lasciare il proprio destino nelle mani di classi dirigenti ciniche e pronte a giocare qualunque carta sulla pelle delle popolazioni. L'uso della satira finisce per rendere ancora più aggressiva una canzone che ha la sua chiave nelle ultime tre strofe e non si limita alla critica sarcastica, ma indica una precisa volontà di cambiamento («Noi crepiamo sui monti d’Italia/mentre voi ve ne state tranquilli,/ma non crederci tanto imbecilli/da lasciarci di nuovo fregar») che coinvolge l'intera classe dirigente e l'essenza stessa della monarchia («No, per quante moine facciate/state certi, più non vi vogliamo,/dillo pure a quel gran ciarlatano/che sul trono vorrebbe restar» fino al finale liberatorio (Se Benito ci ha rotto le tasche/tu, Badoglio, ci hai rotto i coglioni/pei fascisti e pei vecchi cialtroni/in Italia più posto non c’è»). Il ritornello in piemontese, poi, finisce per essere una sorta di scioglilingua, quasi un nonsense in cui l'incalzare delle domande (l'hai mai detto? L'hai mai fatto? Si si, no no) alimenta l'impressione di incertezza, di tentennamento e di sostanziale pavidità del personaggio. Nel 1972 gli Stormy Six riprenderanno la melodia delle strofe e il giochino della descrizione satirica delle tappe della "carriera militare" per comporre la loro Birindelleide, dedicata all'ammiraglio Gino Birindelli, candidatosi alle elezioni politiche nelle liste neofasciste

24 aprile, 2020

24 aprile 1971 - Lennie Hayton, il direttore musicale della Metro Goldwin Mayer

Il 24 aprile 1971 muore a Palm Springs, in California, il pianista, arrangiatore, compositore e capo orchestra Lennie Hayton, all’anagrafe Leonard George Hayton. Nato a New York il 13 febbraio 1908 inizia a studiare pianoforte in tenera età. A diciotto anni entra a far parte dei Little Ramblers di Ed Kirkeby nel periodo in cui sassofonista basso Spencer Clark ha sostituito Adrian Rollini alla direzione del gruppo. Nel 1927 è a New York con Cass Hagan. L’anno dopo si unisce all'orchestra di Paul Whiteman con la quale resta fino al 1930 in veste di pianista-arrangiatore suonando al fianco di strumentisti prestigiosi come Bix Beiderbecke, Joe Venuti, Frankie Trumbauer ed Eddie Lang. Successivamente tira i remi in barca e, da indipendente, registra e orchestre per molte importanti orchestre. A partire dal 1935 forma e dirige propri gruppi per varie stazioni radiofoniche e dal 1937 è a capo di una big band. È anche direttore musicale dei popolari programmi radiofonici di Bing Crosby e per oltre dieci anni ha l’incarico di direttore musicale della Metro Goldwin Mayer, per la quale orchestra e dirige le orchestrazioni di vari musical. Sposato alla cantante Lena Horne è un pianista sensibile e un capace band leader.

23 aprile, 2020

23 aprile 1945 – Inizia la Liberazione di Milano

Preceduta da grandi scioperi delle principali fabbriche e dei lavoratori dei trasporti il 23 aprile 1945 inizia la Liberazione di Milano che non è destinata a concludersi in poche ore. Proprio il 23 aprile, infatti, i lavoratori in sciopero della Borletti, delle Rubinetterie e della CGE si scontrano con le milizie fasciste della “Muti” e della “Resega”. Nel pomeriggio del 24 aprile a Niguarda i partigiani della Prima Brigata Garibaldi impegnano in un furioso conflitto a fuoco un gruppo di mezzi corazzati tedeschi che stanno fuggendo a nord, mentre gli operai dell’Alfa Romeo, dell’Innocenti e della Pirelli si attrezzano, armi in pugno, a difendere le fabbriche. Presidi partigiani armati circondano anche le stazioni ferroviarie di Lambrate, Rogoredo, Porta Vittoria e Porta Romana. I tedeschi riescono a penetrare all’Innocenti di Lambrate. Ne nasce una sparatoria cruenta e violentissima. Nello stesso giorno gli operai in armi della Pirelli catturano l’intero presidio tedesco della Bicocca. Le operazioni militari continuano fino al 27 aprile, quando le poche milizie nazi-fasciste rimaste nella città cessano ogni attività bellica aggressiva e si asserragliano nelle caserme decise a resistere fino all’arrivo delle truppe alleate cui vorrebbero consegnarsi. Sulla città, ormai libera, convergono i partigiani delle zone limitrofe. Il 27 aprile arrivano le colonne partigiane dell’Oltrepò e il 28 è la volta di quelle della Valsesia, il cui arrivo precede di qualche ora l’ingresso in Milano delle truppe alleate.

22 aprile, 2020

22 aprile 1921 – Candido, il percussionista che ha affascinato Dizzy

Il 22 aprile 1921 a Regal, L’Avana, in Cuba, nasce Candido Camero, destinato a diventare uno dei più apprezzati percussionisti jazz con il nome d’arte di Candido. La musica lo affascina fin da quando è bambino e i suoi primi strumenti sono il contrabbasso e la chitarra. Conquistato dalle possibilità della ritmica lascia gli strumenti a corda per dedicarsi a bongos e congas. Nel mese d’ottobre 1952 lascia per la prima volta Cuba e se ne va negli Stati Uniti dove lavora per sei settimane a Miami, al Clover Club, in uno spettacolo intitolato “Night in Havana”. L’esibizione gli procura altre scritture. Va a New York. Qui lo nota Dizzy Gillespie, che lo aiuta a entrare al Downbeat Club, dove si esibisce per un anno intero con il gruppo di Billy Taylor. Nel 1954 lavora e incide con Stan Kenton, mentre dal 1956 al 1957 è attivo come free-lance, incidendo e lavorando con Kenny Burrell, Tito Puente, Gene Ammons, Machito, Bennie Green e Art Blakey. Nel 1958 torna a lavorare con Gillespie. Nel 1960 partecipa al Jazz At The Philharmonic con Dizzy Gillespie e Stan Getz. Nel 1962 è a fianco di Tony Bennet, con cui partecipa a un concerto alla Carnegie Hall. In quel periodo prosegue una intensa attività discografica, incidendo a fianco di Stan Getz, Wes Montgomery, Lalo Schifrin, Joe Williams e Sonny Rollins. Durante tutti gli anni Sessanta e Settanta prosegue la propria attività concertistica, lavorando a fianco di artisti come Rollins ed Elvin Jones e nell'orchestra di Lionel Hampton. Negli anni seguenti conferma la sua ecletticità contribuendo allo sviluppo delle musiche da ballo latinoamericane prima negli Stati Uniti e poi nel mondo.


21 aprile, 2020

21 aprile 1956 – Nasce “Il Giorno”, un quotidiano moderno

Il 21 aprile 1956 arriva per la prima volta nelle edicole “Il Giorno”, un quotidiano milanese nato per iniziativa dell’ENI di Enrico Mattei che ottiene un rapido e inaspettato successo per la sua originalità. Il nuovo giornale, pur essendo dipendente dagli interessi dell’industria di Stato, riesce a farsi interprete del grande desiderio di modernità che percorre l’Italia. Aperto alla circolazione dei fatti e delle idee e diretto da Gaetano Baldacci ha un aspetto grafico ispirato a quello del “Daily Express”, uno dei più diffusi quotidiani britannici. A differenza delle testate tradizionali, che vedono nel capofamiglia il loro principale destinatario, “Il Giorno” per la prima volta nella storia della stampa quotidiana cerca di rivolgersi all’intera famiglia, compresi i più piccini, ai quali è dedicato un inserto settimanale a fumetti.

20 aprile, 2020

20 aprile 2002 – Francis Lemarque, poeta, musicista e partigiano combattente

Il 20 aprile 2002 muore Francis Lemarque. Poeta, musicista, amico di Jacques Prévert, Lemarque è uno dei più politicizzati animatori musicali delle notti dell’intellettualità parigina oltre che uno dei simboli musicali della Parigi degli chansonniers. Ha scritto storie di vita, brani di protesta e feroci satire contro la società che lo circonda eppure la sua popolarità nel mondo si regge ancora oggi quasi esclusivamente su À Paris, un suo brano divenuto uno standard internazionale nell’interpretazione di decine di artisti. Lui non se n’è mai lamentato anche se quella canzone più di una volta ha rischiato di non rendere giustizia a un percorso artistico come il suo, stretto tra un romanticismo poetico di stampo antico e la concretezza di un impegno politico che si evolve nella quotidianità. Nel ricchissimo repertorio ha canzoni d’amore, quadri poetici di angoli di Parigi, invettive contro la guerra e composizioni di grande impegno sociale. La sua penna, così dolce quando racconta i sentimenti, sa farsi avvelenata quando scrive brani che si oppongono all’assurdità della guerra e delle sue regole come Quand un soldat o Le general. Considerato un po’ l’erede del leggendario cantastorie Aristide Bruant con le sue canzoni ha saputo dare voce e raccontare la Parigi che vive fuori dal cono di luce delle grandi vetrine, delle insegne dei locali e delle strade troppo illuminate della “ville lumière”. Francis Lemarque nasce il 25 novembre 1917 a Parigi. All’anagrafe è registrato come Nathan Korb, figlio di una delle migliaia di coppie di giovani ebrei arrivati in Francia dopo essere fuggiti dall’incubo dei ricorrenti “pogrom”, i massacri antisemiti che periodicamente infiammano i paesi dell’Europa dell’Est. Rose, sua madre è nata in Lituania mentre il padre Joseph arriva dalla Polonia. Oltre a Nathan la coppia ha altri due figli: Maurice e Rachel. L’infanzia trascorre senza troppi scossoni nel quartiere della Bastille (la Bastiglia), dove il padre ha un apprezzato laboratorio di sartoria e dove la famiglia vive in un appartamento situato al primo piano di un palazzo in Rue de Lappe, proprio sopra il Bal de Trois Colonnes, uno dei più frequentati locali da ballo della zona. Il piccolo Nathan è affascinato dalla musica del “bal musette” che ogni sera gli entra nelle orecchie e lo culla fino a quando il sonno se lo porta via. La vera scuola dei piccoli Korb è la strada nella quale trascorrono gran parte del tempo lasciato libero dall’altra scuola, quella dove si impara a scrivere e a far di conto. Nathan non impara molto di più perchè nel 1928 a soli undici anni è costretto a lasciare libri, matite, banchi e compagni per andare a lavorare in un’officina Finisce presto l’infanzia per i ragazzi e le ragazze della Bastille e la vita vera bussa alla loro porta quando i figli dei quartieri più ricchi non hanno ancora imparato a farsi da soli il nodo alle stringhe delle scarpe. Nel 1933 la tubercolosi si porta via suo padre. Lasciati soli i due giovani maschi della famiglia Korb decidono di provare a cambiare la loro vita. Cresciuti nell’ambiente del bal musette e affascinati dal mondo della musica e dello spettacolo entrano a far parte di Mars, un ensemble di sperimentazione musical teatrale collegato ai Gruppi Ottobre e alla Federation des Théâtres Ouvriers de France (Federazione dei Teatri Operai di Francia). Proprio nell’ambito di quell’esperienza i fratelli Korb danno vita a un duo musicale che, su suggerimento del poeta Louis Aragon, chiamano Les Frères Marc. Nel 1936 sull’onda del nuovo ed eccitante clima creatosi in Francia quando le sinistre arrivano al potere con la breve esperienza del Fronte Popolare, il duo composto da Nathan e da suo fratello si esibisce nei luoghi delle lotte operaie, nelle fabbriche e nelle piazze. In quel periodo la cerchia dei loro estimatori si allarga progressivamente fino a comprendere anche Jacques Prévert divenuto grande amico soprattutto di Nathan. È proprio il poeta a far conoscere ai due fratelli il musicista Joseph Kosma che per alcuni mesi diventa il loro pianista negli spettacoli dal vivo. Lo scoppio della seconda guerra mondiale cambia tutto, soprattutto per una famiglia ebrea che abita nella Parigi occupata dai nazisti. Nel 1940 Nathan riesce a sfuggire alla rete degli occupanti e dei loro collaboratori e si rifugia a Marsiglia, in quel periodo zona libera. Qui incontra Jacques Canetti, uno dei più geniali impresari dell’epoca che gli dà una mano e qualche consiglio. Sembra sia stato proprio lui a suggerirgli il nome d’arte di Francis Lemarque e a trovargli qualche scrittura nelle colonie francesi del Nord Africa dove si esibisce accompagnato dalla chitarra di Django Reinhardt. I tempi non consentono però distrazioni o, peggio, diserzioni. Quando gli arriva la notizia che sua madre è stata deportata con altri milioni di ebrei, capisce che non si può più stare a guardare nell’attesa che tutto passi. Lascia musica ed entra nella Resistenza con il falso nome di Mathieu Horbet. Catturato viene rinchiuso in prigione. Non ci resta per molto. Liberato con un po’ di fortuna e tanta inventiva torna in azione guidando un gruppo di combattenti con il nome di Lieutenant Marc. Dopo la Liberazione di Parigi Francis Lemarque torna nella capitale giusto in tempo per vivere la febbrile ed eccitante esperienza della Comune artistica di St. Germain-des-Prés dove musica, poesia, letteratura, pittura, cinema e teatro cercano e trovano ogni giorno nuove suggestioni. Per sbarcare il lunario raggranella qualche scrittura e si esibisce come cantante in cabaret come la Rose Rouge o l’Echelle de Jacob e come attore in teatri d’avanguardia come il Théâtre de l’Humour o il Théâtre de Poche. Nel 1946 assiste quasi per caso a un concerto di Yves Montand, un talentuoso interprete d’origine italiana che gode della protezione e del sostegno di Edith Piaf. Colpito dalla straordinaria verve comunicativa di quel cantante prova a scrivere alcuni brani disegnandoli sulle sue caratteristiche vocali e interpretative. Nelle sue intenzioni dovrebbero restare poco più di un semplice esercizio quasi scolastico visto che non conosce di persona Montand e, soprattutto, non si sente assolutamente all’altezza del compito. Tutto finirebbe lì se quel diavolaccio di Jacques Prévert non ci mettesse lo zampino. Proprio il poeta, infatti, fa incontrare il compositore con Montand spingendolo, nonostante la timidezza, a fargli ascoltare i suoi brani. Nasce così una collaborazione che, nella seconda metà degli anni Quaranta, sarà benedetta dal successo straordinario di brani come Ma douce vallée, Bal petit bal e, soprattutto, À Paris. Nel 1949 Francis Lemarque, ormai considerato uno dei grandi autori di successo della canzone francese, pubblica anche i primi dischi come interprete. Timido e refrattario alle regole ferree delle sale di registrazione si fa convincere dopo lunghe insistenza dal suo vecchio amico e protettore Jacques Canetti verso il quale ha un debito di riconoscenza. Canetti è convinto che le canzoni di Lemarque, se interpretate dall’autore, possano conquistare un pubblico diverso e più raffinato di quello che segue Yves Montand. Ha ragione lui. Francis Lemarque entusiasma la critica e nel 1951 vince per prima volta il prestigioso Prix Charles-Cross. Il successo non ne cambia l’impostazione artistica sempre tesa a sposare la poesia dei sentimenti con l’impegno politico e sociale. È un impegno il suo che non si limita alla scrittura o all’adesione ideale. Spesso e volentieri partecipa alle iniziative pubbliche del Partito Comunista al quale resta a lungo legato pur senza mai iscriversi. Instancabile e appassionato lavoratore non si lascia incantare dalle lusinghe del successo e non sente il peso del tempo che passa. Nel dicembre del 1996 i principali interpreti della canzone francese di quel periodo lo invitano a salire sul palcoscenico dell’Auditorium des Halles di Parigi per una serata dedicata alle sue composizioni. Il tempo però non gli è amico. Uno dopo l’altro gli uomini e le donne che l’hanno accompagnato nella sua lunga carriera se ne vanno e il 20 aprile 2002 anche lui chiude per sempre gli occhi a Varenne-Saint-Hilare, in quella casa ai bordi della Marna che dagli anni Cinquanta era diventata il suo rifugio.

19 aprile, 2020

19 aprile 1889 - Nina De Charny, scomparsa per amore?

Il 19 aprile 1889 nasce a Napoli Giovanna Cardini, una cantante e fantasista destinata a lasciare un segno nella storia dello spettacolo italiano con il nome d’arte di Nina De Charny. Nel 1906, a diciassette anni debutta nella sua città natale cantando al Teatro Mercadante alcune canzoni scritte per lei da Rodolfo Falvo. Tre anni dopo parte per la sua prima tournée in tutto il territorio italiano suscitando grandi entusiasmi con un repertorio che mescola romanze, brani classici e canzoni napoletane tra cui Core ‘e mamma di Capolongo e Murolo che in breve diventa il suo “cavallo di battaglia”. Nel 1910 è l'unica cantante italiana a esibirsi a Londra in uno spettacolo con artisti inglesi, americani e francesi. Poco tempo dopo parte per gli Stati Uniti dove ottiene un grande successo con canzoni come Marechiare e 'A marina 'e Tripoli. La sua carriera termina bruscamente in una sera di luglio del 1913. Dopo aver cantato al teatro Luciano di Salerno, infatti, la cantante scompare senza lasciare traccia. Qualche anno dopo si parlerà di una fuga d'amore in Brasile, ma di lei nessuno saprà più nulla

18 aprile, 2020

18 aprile 1948 - "Vi ricordate quel diciotto aprile?" La delusione diventa canzone

«Il 18 aprile 1948 è stato principalmente cattolico e sanfedista, con radici che affondavano nelle vecchie posizioni del reazionarismo italiano risalente alle rivolte dei contadini contro le idee rivoluzionane della Francia giacobina». Così Enzo Santarelli definisce la data di una storica sconfitta del movimento operaio italiano, quella delle prime elezioni politiche dopo la fine dell'unità antifascista. Quel 18 aprile, che consegnerà il potere per oltre quarant'anni nelle mani della Democrazia cristiana, è il punto finale di un'aspra battaglia iniziata due anni prima quando Pio XII, in occasione del referendum fra monarchia e repubblica, aveva sottolineato che la vera scelta cui erano chiamati gli italiani era tra il materialismo ateo e la cristianità. Nei primi quindici giorni del 1947 accadono, poi, altri due fatti politici significativi: il viaggio di De Gasperi negli Usa finalizzato a ottenere credito economico e politico e la scissione socialdemocratica operata da Saragat che accusa il partito socialista di essere troppo subalterno ai comunisti. A maggio si chiude anche l'ultima esperienza di governo di unità nazionale, con l'esclusione del PCI, mentre Padre Lombardi "il microfono di Dio" sulla rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica" proclama la necessità di una mobilitazione generale dei cattolici contro il comunismo. È l'inizio della lotta frontale del clero contro le sinistre, in qualche modo anticipata dall'andirivieni per le strade d'Italia delle "Madonne pellegrine", una specie di tour simbolico e teatrale che faceva appello alla parte più superstiziosa della religiosità popolare. Non è solo la Chiesa a muoversi. L'apparato statale fa la sua parte. Dalle prefetture e dagli organi dello Stato vengono rimossi gli ex partigiani e le persone più legate alla resistenza antifascista. L'avvio della campagna elettorale alza ancora, se possibile, i toni della crociata. In tutto il paese si diffondono migliaia di Comitati civici che appoggiano la campagna elettorale della DC, mentre gli USA minacciano la sospensione degli aiuti economici all'Italia in caso di vittoria delle sinistre. Il 18 aprile la DC conquista il 48,5% dei voti. Il mese successivo De Gasperi vara il primo governo centrista. Nei giorni della "grande delusione", cioè quelli che seguono la sconfitta e il varo del nuovo governo, a Tornaco, un comune agricolo della provincia di Novara, Luigi Bellotti compone Vi ricordate quel diciotto aprile? un canto basato su una linea melodica tradizionalmente utilizzata dai cantastorie. Adottato dalle mondine in lotta diventa popolarissimo in tutta Italia. Interessante e curiosa per la mescola tra antiche e nuove sonorità è la versione di questo brano realizzata nel 1994 dai Disciplinatha.