Il 14 maggio 2004 si svolge il primo dei due concerti romani con i quali gli Assalti Frontali presentano al loro pubblico l’album HSL. Il titolo va spiegato. HSL significa “Hic Sunt Leones”, lì ci sono i leoni, è meglio stare alla larga. Così i cartografi dell’Impero Romano contrassegnavano le aree africane fuori dal controllo del “loro” ordine. Che i leoni ci fossero davvero o meno non era poi così importante, l’essenziale era evidenziare che in quelle zone le legioni romane non garantivano nulla. L’acronimo HSL viene poi utilizzato dai “conquistadores” per segnare sulle mappe nautiche gli approdi da evitare nei loro traffici coloniali. Naturalmente a loro agio nei territori ribelli gli Assalti Frontali hanno scelto questa sigla per il nuovo album, il primo dopo cinque anni e dopo la rottura con la BMG. Cinque anni, un secolo, anzi un millennio, lo separano dal precedente Bandit sia per i testi che per il clima. Militant A, il deus ex machina del gruppo, che il 14 e 15 maggio è in concerto a Roma, conferma: «Il disco è diverso perché diversa è l’aria che si respira oggi. Bandit è del 1999 e risente del clima autunnale di quel periodo tormentato in cui il capitalismo trionfante sembrava non avere limiti. Noi stessi, io per primo, ragionavamo come un nucleo di resistenza culturale di lunga durata. C’era un po’ il senso del ripiegamento sia nella musica che nei testi. HSL invece raccoglie l’esplodere di un grande movimento internazionale, dei milioni di persone che nel cuore dei paesi occidentali hanno iniziato a far scricchiolare il nuovo ordine unipolare, la sua folle politica guerrafondaia e a gridare che un altro mondo è possibile». Quanto ha influito in questa svolta la rottura con una major come la BMG? «Chi lo sa? L’unica cosa certa è che dopo la rottura abbiamo preso il materiale registrato e l’abbiamo buttato iniziando a lavorare su un progetto nuovo». Alla fine avete ritrovato un filo antico, visto che questo album sembra il più vicino, per atmosfere e immediatezza, all’ormai storico Batti il tuo tempo. «È vero. Abbiamo abbandonato i codici da tribù, è esplicito, diretto e ci sembra stia conquistando anche i figli di quelli che ci seguivano ai tempi del nostro primo album». È una bestemmia chiamarlo pop? «No, se per pop si intende la capacità di entrare in rapporto con il pubblico abbattendo senza tanti filtri». Un bell’aiuto arriva anche dal groove dei Brutopop che pompa potente su ogni pezzo... «Ci sono loro, ma c’è anche l’energia che ci trasmette la salutare mobilitazione di questi anni». È naturale per chi ha sempre cercato di battere il suo tempo, ma questo che tempo è? «È il tempo dell’indignazione, della rivolta, della mobilitazione per fermare la guerra, mandare a casa i guerrafondai e cambiare il sistema. Ogni giorno che passa la guerra è più vicina e bisogna fermarla». Pessimista? «No, tutt’altro. La seconda potenza mondiale, quella che si mobilita nelle piazze di tutto il mondo può vincere, qui come in Spagna e ovunque. Un anno fa sono diventato padre di una bellissima bambina, ti pare che io possa essere pessimista?».
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
14 maggio, 2020
13 maggio, 2020
13 maggio 1938 - Tony Renis, l’imitatore di Dean Martin
Il 13 maggio 1938 nasce a Milano Elio Cesari, destinato a diventare popolarissimo come cantante e compositore con il nome d’arte di Tony Renis. Negli anni Cinquanta si fa conoscere imitando Dean Martin in coppia con Adriano Celentano nei panni di Jerry Lewis. Il debutto ufficiale come cantante solista avviene alla Sei Giorni di Milano con Tenerezza. Nel 1961 esordisce anche al Festival di Sanremo con Pozzanghere, in coppia con Emilio Pericoli. Quest’ultimo è suo partner anche nella rassegna sanremese del 1962 in Quando quando quando, un brano che diventa un successo internazionale e nel 1963 in Uno per tutte, che vince il festival. Torna a Sanremo anche nel 1964 con I sorrisi di sera, in coppia con Frankie Avalon, nel 1968 con Il posto mio, insieme a Domenico Modugno e nel 1970 con Canzone blu, in coppia con Sergio Leonardi. Autore di brani di successo per altri interpreti, come Grande grande grande per Mina, dalla fine degli Sessanta vive a lavora soprattutto negli Stati Uniti. Tra i suoi successi si ricordano anche Uno per tutte e Non mi dire mai goodbye.
12 maggio, 2020
12 maggio 1940 - Xavier Chambon, una tromba parigina
Il 12 maggio 1940 nasce a Parigi il trombettista Xavier Chambon. Musicista di stile mainstream molto dotato soprattutto nel registro acuto inizia la carriera nel 1959 con il gruppo del batterista Maurice Martin nel quale militano anche Wani Hinder al clarinetto, Riccardo Galeazzi al trombone e Jean Pierre Mulot al contrabbasso. In seguito diventa uno dei protagonisti dell'attività jazzistica della capitale francese suonando con Bill Coleman, Stuff Smith, Albert Nicholas e Mezz Mezzrow Nel 1965 entra a far parte del gruppo del clarinettista Maxim Saury con il quale rimane per parecchio tempo. All'inizio degli anni Settanta cominicia a suonare prevalentemente con vari gruppi pop. Non dimentica però il suo primo amore e torna più volte sulle strade del jazz, spesso insieme al trombonista Michel Camicas, un altro ex componente dell'orchestra di Maxim Saury.
11 maggio, 2020
11 maggio 1938 – Il talento e il genio di Carla Bley
L’11 maggio 1938 nasce a Oakland, in California, la cantante, compositrice, tastierista e arrangiatrice Carla Bley, uno dei grandi talenti musicali femminili del Novecento. Il suo nome alla nascita è quello di Carla Borg. È suo padre, organista e maestro del coro in una chiesa di Oakland, che la spinge prestissimo a cantare e a imparare il pianoforte. Finite le scuole l’adolescente Carla lascia la famiglia e, dopo aver raggranellato i soldi necessari suonando nei locali e arrangiando brani per un cantante folk californiano, se ne va a New York, dove trova lavoro come venditrice di sigarette in un jazz club. Qui conosce Paul Bley, che la sposata nel 1957 e le regala il nome con il quale diventerà famosa. Nel 1959 inizia a scrivere brani per Paul Bley, Jimmy Giuffré, George Russel e Art Farmer ma la musica non le dà ancora il necessario per vivere e la ragazza si arrangia lavorando nei teatri come guardarobiera o come maschera. La svolta arriva nel 1964 quando entra a far parte del gruppo del batterista Charles Moffett insieme a Pharoah Sanders e Alan Shorter. Dopo aver lasciato Paul Bley, con il trombettista Michael Mantler divenuto suo compagno fonda la Jazz Composer's Orchestra Association, una struttura destinata a favorire la realizzazione dei progetti orchestrali. Quasi contemporaneamente fonda anche una propria casa discografica, la JCOA e nel 1965 forma i Jazz Realities, un quintetto di cui, oltre a Mantler, fa parte anche Steve Lacy. Nello stesso periodo suona anche con musicisti europei, tra cui il sassofonista Peter Brötzmann. Nel 1967 scrive la parte del vibrafonista Gary Burton nella suite “A Genuine Tong Funeral”, poi registrata dal quartetto di Burton con un'orchestra diretta dalla stessa Bley. Seguono altre composizioni e collaborazioni con un numero impressionante di artisti dei generi più svariati, dalla Liberation Music Orchestra di Charlie Haden alla clavicembalista Antoinette Vischer, dalla Jack Bruce Band, a John Cage, al sassofonista Gary Windo. Il suo stile pianistico è stato definito come “una sorta di fusione tra gli stili dell'ex marito Paul e di Cecil Taylor”, il canto attinge ai colori della popular music e delle nuove cantautrici americane. Nelle composizioni e negli arrangiamenti invece i suoi riferimenti appaiono più colti, da Kurt Weill a Gil Evans con qualche lezione solistica ispirata a Duke Ellington.
10 maggio, 2020
10 maggio 1963 – La prima volta degli Stones alla Decca
Il 10 maggio 1963 sei ragazzacci cresciuti nei club jazz e rhythm and blues delle periferie londinesi entrano negli Olympic Studios della Decca a Londra per registrare qualche brano. Non possono evidentemente saperlo ma con loro sta per entrare nella storia il lato "sporco" del beat, quello più mescolato con la musica nera, capace di spaventare i benpensanti perché «…eccita la violenza degli sfaccendati…» e si contrappone, almeno nell'immaginario collettivo, al pop pulito, rispettoso ed educato dei Beatles. A differenza di questi ultimi nessuno dei sei al momento di varcare la soglia dello studio di registrazione immagina che la musica possa diventare una fonte di sostentamento. Il loro ingresso negli asettici studi della Decca (una casa discografica che fino a quel momento ha costruito le sue fortune sulla musica classica) è frutto di una serie di coincidenze: l'insistenza di Andrew Loog Oldham, un ragazzo come loro autonominatosi manager del gruppo, la curiosità degli ambienti discografici verso le note che emergono dalle cantine e, soprattutto, la paura della stessa Decca di ripetere l'errore già fatto qualche mese prima con i Beatles, scartati perché "senza futuro". Qualche diffidenza è, in fondo, giustificata. La formazione che si presenta con l'aria assonnata e un po' stropicciata negli studi di registrazione il 10 maggio, infatti, ha alle spalle non più di dieci mesi di vita e una breve gavetta in una dozzina di locali di jazz e rhythm and blues della capitale britannica. L'anima del gruppo è Mick Jagger, uno studente che canta e suona l'armonica dotato di un precoce talento commerciale al punto da vendere gelati davanti alla scuola che frequenta. Al suo fianco ci sono l'aspirante architetto Brian Jones, polistrumentista nonché finanziatore degli impianti della band e figlio di un conosciuto, rispettato e autorevole ingegnere aeronautico, lo studente d'arte, manovale e chitarrista Keith Richards, il rappresentante di commercio e bassista Bill Wyman e il grafico Charlie Watts, batterista con un passato in vari gruppi blues e tanto scetticismo nei confronti dei giovani compagni. Il sesto uomo si chiama Ian Stewart, suona il piano «…come un nero…» ed è quello che meno ama apparire dal vivo. I sei varcano la soglia degli Olympic Studios dubbiosi su tutto: sui pezzi da scegliere, sull'utilità di produrre un disco e anche sul nome della band, che varia da Rollin' Stones a Rolling Stones a seconda dell'ispirazione del tipografo che stampa i manifesti. Non li aiuta in quel giorno neppure l'aria che si respira negli studi della Decca, abituati agli ovattati suoni della tradizione classica e poco disposti a comprendere l'esuberanza non solo musicale di quei sei mocciosi dall'aria stralunata. Jagger e compagni registrano due brani. Il primo si intitola Come on ed è un pezzo di Chuck Berry pressoché sconosciuto al grande pubblico e l'altro I want to be loved di Willie Dixon. Di quel giorno resterà nella memoria della band l'atmosfera gelida e ostile dell'ambiente in cui registrano tanto che Bill Wyman anni dopo confesserà: «Siamo rimasti in studio per tre ore e non ci piaceva per niente». Più per rispettare il contratto che per reale convinzione il disco viene pubblicato e in pochi giorni esaurisce le scorte. Resterà nelle zone alte della classifica di vendita per quasi una stagione. Nell'immagine pubblica Ian Stewart viene "tagliato" e la formazione si assesta stabilmente su cinque componenti. Con i Rolling Stones il beat cessa di essere rassicurante come un'eccentrica curiosità di costume e recupera le sue radici più selvagge e crude. Ridiventa rock e accompagna gli umori e i sapori di una Gran Bretagna ricca di fermenti culturali, musicali e politici in cui suoni neri del blues si mescolano alla voglia di protagonismo delle giovani generazioni. La musica si salda con le istanze di cambiamento sociale. Per molto tempo i Rolling Stones interpreteranno meglio e più di altri la rabbia e il senso di frustrazione di una generazione che pochi anni più tardi tenterà di dare la scalata al cielo. Tra i primi a capirne la forza e le potenzialità c'è una donna, la giornalista Norman Joplin che resta affascinata da questi ragazzi che «cantano e suonano in modo da sembrare un gruppo americano di colore più che un pugno di scatenati, eccitanti ragazzi bianchi». In quella session negli studi della Decca si spargono i primi segni di un movimento destinato a lasciare un segno profondo nella musica del Novecento. Lì nasce il gruppo che Tom Wolfe definirà “spauracchio della borghesia” perché capace di creare un legame istintivo con gli strati più emarginati della società con i «bassifondi della vita, un cono d’ombra che per anni è stato il regno degli outsider dell’arte e della fotografia, abitato da poveri ragazzi» che nella musica della band troveranno per molto tempo la scintilla necessaria a incendiare la loro rabbia.
09 maggio, 2020
9 maggio 1965 – L’Association for the Advancement of Creative Musicians
Il 9 maggio 1965 nasce l’A.A.C.M, Association for the Advancement of Creative Musicians, Associazione per la valorizzazione dei musicisti creativi, una struttura destinata a segnare fortemente l’evoluzione del jazz negli anni Sessanta e Settanta. L’associazione ha sede a Chicago e viene fondata dal pianista e compositore Muhal Richard Abrams, il primo presidente e il più importante e stimolante animatore, dal bassista Malachi Favors, da Jody Christian, Phil Cohran e Steve McCali. Con una struttura simile a quella delle nostre cooperative essa raggruppa alcuni tra i più importanti improvvisatori dell'area di Chicago e ha lo scopo esplicito di «…educare i giovani musicisti e creare una musica di un livello artistico elevato da presentare al grande pubblico in occasione di programmi destinati a valorizzare l'importanza della Musica Creativa; creare una atmosfera stimolante per favorire, nell'ambito di un lavoro comune, l'espressione collettiva di musicisti di talento; organizzare programmi d'ascolto per i musicisti più giovani; procurare lavoro ai musicisti che se lo meritano; partecipare finanziariamente a progetti d’aiuto; rivalutare l'immagine pubblica del musicista creativo; favorire lo stabilirsi di rapporti equi e rispettosi tra gli artisti creativi e i responsabili del commercio musicale (agenti, managers, promotori, fabbricanti di strumenti); rivalutare la tradizione culturale dei musicisti che, in passato, è stata ampiamente svalutata...”. Nella sua attività l'A.A.C.M. favorirà l'incontro e lo scambio di informazioni e collaborazioni tra i musicisti più avanzati e aperti dell'area di Chicago. In quell’ambito si formeranno gruppi come l’Afro-Arts Ensemble, l’Experimental Band, l’Artistic Heritage Ensemble e soprattutto il celeberrimo Art Ensemble of Chicago, il gruppo che forse meglio rappresenterà le ambizioni estetico-musicali dell’associazione.
08 maggio, 2020
8 maggio 1982 – Addio Gilles!
Arrivato nel 1978 alla Ferrari per fare da "secondo" a Carlos Reutemann, Gilles Villeneuve si fa rapidamente la fama di uno "sfasciamacchine". È un pilota all’antica, capace di dare tutto in corsa e di infiammare l’entusiasmo dei tifosi. Enzo Ferrari stravede per lui e lo paragona ai grandi dell’epoca eroica dell’automobilismo. Viso da ragazzino e una gran voglia d’arrivare, Gilles Villeneuve accetta pazientemente di essere il numero due in squadra, prima dietro a Reutemann, poi al sudafricano Jody Sheckter. In molti pensano che sia inadatto allo "stile Ferrari", ma gode della protezione del ‘patron’ Ferrari e quindi può farsi le ossa senza problemi. Pian Piano conquista la fiducia di tutti e, all’inizio degli anni Ottanta, è ormai considerato uno dei piloti più promettenti del panorama mondiale. Il suo tragico destino si compie, però, sabato 8 maggio 1982. Sono in corso le prove del Gran Premio del Belgio. Quel giorno è inquieto. Quindici giorni prima il suo compagno di squadra Didier Pironi gli ha "rubato" la vittoria del Gran Premio di Imola proprio sul traguardo e lui non gliel’ha perdonata. Ce l’ha con Pironi, ce l’ha con la Ferrari, ce l’ha con tutto il mondo. Quando l’ultima sessione delle prove ufficiali si sta ormai concludendo il suo compagno ha il miglior tempo per un’inezia: 1’16’’500 contro il suo 1’16’’620. Decide di tentare di batterlo. Si fa montare quattro nuovi pneumatici e ritorna in pista. Compie un giro in 1’17’’ poi si butta in un’altra tornata. Sono le 13,52, mancano pochi minuti alla fine delle prove. Arriva velocissimo in una curva che si prende in piena velocità, a duecentocinquanta chilometri l’ora. Davanti alla sua vettura c’è la March di Jochen Mass, più lenta. Cerca di passarla all’interno, convinto che il pilota tedesco l’abbia visto e gli agevoli la manovra. Non è così. La ruota anteriore sinistra della Ferrari sale sulla ruota posteriore destra della March e perde l’assetto. Dopo un volo di quasi duecento metri si schianta sull’asfalto. Ai soccorritori appare chiaro che non c’è più niente da fare. Poco tempo prima aveva detto: «Oggi in curva si va come sui rettilinei e tutto questo è semplicemente assurdo perché in questo modo non ci sono possibilità di sorpasso e l’abilità del pilota conta fino a un certo punto. La velocità ci vuole nei rettilinei, ma poi bisogna dare al pilota la possibilità di azionare freni e cambio per affrontare nella maniera migliore le curve. Altrimenti non c’è più spettacolo e anche il pilota si prende dei rischi in più che non avrebbe alcun senso correre».
07 maggio, 2020
7 maggio 1905 - Bumble Bee Slim, l’alfiere del blues urbano
Il 7 maggio 1905 nasce in Georgia Amos Easton destinato a lasciare un segno importante nelle storia del blues con il nome d’arte di Bumble Bee Slim. Tipico esponente del blues urbano che si sviluppa negli Stati Uniti verso la fine degli anni Venti, attraversa un momento di grande notorietà verso la metà degli anni Trenta quando registra moltissimi dischi per la Vocalion, la Bluebird e la Decca. I suoi brani hanno testi poetici ricchi di un sottile erotismo, spesso tormentato e sofferto nel rispetto della tradizione dell'urban blues. Allievo di Leroy Carr, che incontra per la prima volta nel 1928, quando dalla natia Georgia si trasferisce a Indianapolis, negli anni Trenta vagabonda tra il Tennessee e l'Ohio prima di stabilirsi a Chicago, dove si consacra tra i principali esponenti del blues urbano. In quel periodo lavora anche con Tampa Red e Big Bill Broonzy, prima di riprendere a vagabondare per gli States. Negli anni Cinquanta entra in una fase di declino che coincide con un appannamento generale dell’interesse degli americani verso il blues. Negli anni Sessanta, sull’onda di una rinnovata passione internazionale per il blues, torna in sala di registrazione.
06 maggio, 2020
6 maggio 1965 – Nasce il riff di “Satisfaction”
Il 6 maggio 1965, secondo quanto tramandato dalla leggenda, sarebbe nato il riff introduttivo del brano (I can't get no) Satisfaction. Lo scenario del lieto evento è una stanza d'albergo di Clearwater, in Florida, dove Keith Richards e Mick Jagger stanno lavorando su un pezzo country che non li soddisfa del tutto. Lo trovano troppo morbido, poco adatto alle corde dei Rolling Stones. Decidono quindi di andarsene a dormire e rinviare tutto. Sempre secondo la leggenda Keith Richards si sarebbe svegliato nel mezzo della notte con un’idea per riff introduttivo. Dopo aver applicato alla sua Gibson un distorsore, registra per la prima volta un riff destinato a passare alla storia e poi, soddisfatto, torna a dormire. Distinguere il vero dal falso in queste storie è difficilissimo anche perché i protagonisti si guardano bene dal dire una parola definitiva sulla questione. Non tutti sono propensi a credere che (I can't get no) Satisfaction, un brano che ha segnato per sempre la storia degli Stones e del rock mondiale, sia davvero nato così. I diffidenti fanno notare come quel riff assomigli proprio tanto a quello scandito dalla sezione fiati di Martha & The Vandellas in Dancing in the street, mentre il tormentone che dà il titolo al brano è molto simile a un passaggio di 30 days di Chuck Berry il cui testo dice: «I don't get no satisfaction from the judge». La verità sta probabilmente nel mezzo. Niente nasce per caso e non è uno scandalo se Jagger e Richards hanno attinto a piene mani alla tradizione musicale nera americana per comporre uno dei brani più longevi del Novecento. Lo stesso Mick Jagger ha poi raccontato che quel riff è stato utilizzato a lungo ed è presente in un gran numero di brani eseguiti successivamente dalla band. Agli appassionati il compito di scovare quali...
05 maggio, 2020
5 maggio 1967 - Se vuole la patente eviti di indossare la minigonna!
Una ragazza che guida può indossare la minigonna? No, secondo il severo esaminatore milanese che il 5 maggio 1967 rifiuta di ammettere la giovane Damiana Somenzi all’esame pratico di guida perché indossa una minigonna. La visione di un paio gambe, si sa, può turbare il sonno dei buoni padri di famiglia.... Che vergogna! Presidi, professori, parroci e genitori sono tutti d’accordo: quelle ragazze che masticano chewing gum e mostrano le gambe con disinvoltura sono la prova vivente della corruzione morale della società. Esplosa in Gran Bretagna nel 1964 la minigonna in Italia arriva un po’ più tardi e subito suscita sconquassi. Nel paese maschio per eccellenza la pelle delle gambe delle donne esposta agli sguardi di tutti assume il carattere di una provocazione e un’offesa ai costumi tradizionali, un evidente oltraggio alla morale e al buon senso. Chi porta la minigonna non può entrare a scuola, negli uffici pubblici, in Chiesa, né partecipare a manifestazioni religiose o civili. Il luogo principale dove si scatena l’offensiva moralistica è la famiglia, da sempre considerata il principale tutore delle regole di civile convivenza e della moralità diffusa. Le minigonne costano schiaffi, urla e castighi, ma le ragazze italiane degli anni Sessanta non sono più succubi dell’autorità famigliare, anzi la mettono apertamente in discussione. Contro il nuovo scandalo si mobilitano anche i giornali con campagne moralistiche e con analisi di presunti esperti che sostengono si tratti di una moda decisamente di cattivo gusto e destinata a non durare più di una stagione. I magazine giovanili replicano colpo su colpo e la società si spacca in due. Da un lato i severi censori e gli adulti ripropongono l’etica del sacrificio e della rassegnazione e dall’altra esplode la voglia di vivere e di cambiare regole che sembrano ormai insopportabili. Con la minigonna, ma non solo con quella, le ragazze italiane rivendicano la propria identità e fanno capire che l’adolescenza non può essere più considerata soltanto un fastidioso e inutile periodo di passaggio, quasi un limbo in attesa di diventare adulti. Quei pochi centimetri quadrati di stoffa diventano così un simbolo di liberazione.
04 maggio, 2020
4 maggio 1904 – Rolls e Royce si incontrano
Il 4 maggio 1904 due gentleman si incontrano nella hall del Midland Hotel di Manchester. Sono due persone molto diverse. Il più elegante si chiama Charles Stewart Rolls, è un aristocratico appassionato di auto con il pallino degli affari che ha la rappresentanza della Panhard a Londra. È lì per incontrare un ingegnere di eccezionale talento, di nome Henry Royce, di cui ha sentito tanto parlare. In giro si dice che produca automobili dotate di una qualità e un’affidabilità di gran lunga superiori a quelle delle altre marche esistenti e, soprattutto, rifinite con perizia fino nei più piccoli particolari. Il buon Rolls ha soltanto l’intenzione di acquistare una di quelle fantastiche automobili per soddisfare la propria vanità, ma il destino ha progetti diversi. Quello non sarà solo un incontro per decidere l’acquisto di un auto. Quando, al termine del colloquio, i due uomini si stringono la mano, hanno ormai posto le basi per la nascita di una casa automobilistica che porterà il nome di entrambi e lascerà un segno importantissimo nella storia dell’automobilismo mondiale. La storia della Rolls-Royce porta impressi i segni dell’eccellenza: record di velocità mondiali su terra, in acqua e in aria e modelli destinati a diventare uno dei simboli del prestigio di famiglie reali, capi di stato, attori, personaggi dello sport, artisti e capitani d'industria. Fin dall’inizio il segreto del successo della società è basato sulla costante ricerca dell'eccellenza sia dal punto di vista meccanico che da quello estetico. La leggenda racconta anche che il motto di Henry Royce fosse: «Tendi alla perfezione in tutto quello che fai. Prendi il meglio che c'è e miglioralo ancora. Se non esiste, progettalo». Poco importa se la frase sia stata davvero pronunciata o se sia, invece, farina del sacco di un geniale ufficio stampa. Quel che conta è che la filosofia della Rolls-Royce porta impresse proprio queste caratteristiche. Nel 1906 la prima vera Rolls Royce, la “Silver Ghost”, presentata al Salone di Parigi viene benedetta dai giornalisti specializzati come “La migliore auto al mondo”. Il pubblico resta colpito dalla sagoma imponente, con il radiatore a timpano dorico, mentre gli esperti restano strabiliati dal motore a sei cilindri con sistema di lubrificazione forzata capace di velocità vicine ai 100 Km/h. L’impostazione dell’azienda è già quella che caratterizzerà tutta la sua storia: diffidenza verso le esasperazioni tecniche ed estetiche e assistenza continua ai clienti per fidelizzarli nei confronti del marchio. La morte di Rolls, scomparso a soli 32 anni, in un incidente aereo non ferma la marcia della società che, sotto la direzione di Royce, continua sulla sua strada superando anche il parziale insuccesso della Twenty, un modello più economico del 1922. Nel 1925 la Phantom sostituisce la Ghost e ne rinnova il successo. Scomparso anche Royce l’azienda affronta gli anni Cinquanta e Sessanta con modelli d’intonazione classica e, soprattutto, con la Silver Shadow, la prima Rolls con la scocca portante. All’inizio degli anni Settanta un disastro finanziario provocato da varie disavventure del ramo aziendale che costruisce motori d’aereo, sembra chiudere definitivamente la storia del marchio che, in extremis, viene salvato dal provvidenziale intervento del governo britannico. Le conseguenze, però, si fanno sentire anche negli anni successivi e si sommano alla generale crisi dell’industri automobilistica, nonostante il buon successo di modelli come la Silver Spirit e la Silver Spur. Alla fine degli anni Novanta l’azienda subisce vari assalti da parte di case automobilistiche concorrenti che tentano di conquistare il prestigioso marchio. La spunterà BMW che, sulla base di un accordo siglato nel 1998, lascerà alla connazionale Volkswagen la produzione targata Bentley e terrà per sé la continuità del marchio Rolls Royce.
03 maggio, 2020
3 maggio 2003 – Le Dixie Chicks nude e coperte d'insulti
Il 3 maggio 2003 sulla copertina del settimanale statunitense “Entertainment Weekly” compare una foto delle tre componenti delle Dixie Chicks nude e coperte solo da varie scritte, perlopiù di insulti. Dopo il boicottaggio massiccio che le ha prese di mira in seguito alla presa di posizione contro la guerra in Iraq hanno deciso di ribattere così alle accuse e alle polemiche che le hanno viste protagoniste negli ultimi tempi per le posizioni espresse sulla guerra in Iraq. Le ragazze, fresche vincitrici di un Grammy Awards per la “miglior performance country femminile di gruppo” sono state oggetto di una campagna di chiaro stampo maccartista dopo che Natalie Maines, la loro leader, ha dichiarato in un concerto svoltosi a Londra di vergognarsi del fatto che George Bush fosse originario del loro stato, il Texas. La frase, riportata dal quotidiano inglese "The Guardian" e poi ripresa dai media statunitensi viene bollata come “antipatriottica” e provoca il boicottaggio radiofonico dei loro brani, la revoca di un ricco contratto pubblicitario e manifestazioni preoccupanti come quella avvenuta in Louisiana, a Bossier City, dove i dischi e altro merchandising del gruppo sono stati ammonticchiati e schiacciati con trattori. All’aggressione mediatica rispondono appunto comparendo sulla copertina di “Entertainment Weekly” coperte soltanto degli insulti che sono stati loro rivolti. Il trio spiegato così il gesto: «È un'immagine che racconta di come certi "vestiti" ed "etichette" facciano presto a esserti cuciti addosso». Il boicottaggio e le minacce non cambieranno le opinioni delle ragazze che nell’ottobre del 2004 parteciperanno a una serie di concerti del "Vote for Change Tour" in supporto alla campagna elettorale di John Kerry contro il texano Bush.
02 maggio, 2020
2 maggio 1898 - Ester Clary, la stella che lasciò il palcoscenico per amore
Il 2 maggio 1898 nasce a Salerno Ester Palumbo, destinata a diventare una canzonettista popolarissima con il nome d’arte di Ester Clary. A sei anni comincia a studiare pianoforte con vari maestri e successivamente continua gli studi fino a diplomarsi al conservatorio San Pietro di Majella di Napoli. Ricca di talento musicale riceve anche lezioni di canto da Ernesto De Curtis. Proprio lui, colpito dalle sue qualità, la convince a debuttare a soli diciannove anni al teatro Umberto di Napoli affidandole il suo celebre brano Ah ll'amore che fa ffa'. Il successo del debutto le regala una lunga serie di scritture che la portano a esibirsi nei principali teatri italiani e stranieri. Dotata di una voce potente sorrette da una tecnica raffinata è la prima interprete di brani come Napule ca se ne va e Canzone d'addio, destinati a diventare dei classici della storia della canzone italiana. Tra i suoi successi ci sono anche I' te vurria vasà, Nun so’ geluso e L'addio. Nel 1929, all’apice del successo e della popolarità, vive un’intensa storia d’amore con un ufficiale che sposa e per il quale abbandona le scene.
01 maggio, 2020
1° maggio 2004 – Un primo maggio multietnico a Milano
Il 1° maggio 2004 Radio Popolare sceglie proprio il giorno della festa dei lavoratori per la diciannovesima edizione di Extrafesta, l’appuntamento annuale di musica e cultura multietnica che dal 1986 dà spazio e voce alle realtà straniere. La serata, che inizia alle ore 21, ha al centro due concerti di grande suggestione. Il primo è quello degli Gnawa Diffusion, il gruppo franco-algerino capitanato da Amazingh Kateb che con le sue ritmiche reggae e raggamuffin lega tradizione e modernità cantando brani che parlano di tematiche sociali e politiche. Dopo di loro tocca all’affascinante Souad Massi, una delle protagoniste della nuova scena musicale algerina, da alcuni paragonata a Joan Baez o Tracy Chapman. La sua voce sensuale dà anima e suggestione a brani trascinanti che parlano di dolore e speranza in cui si mescolano chitarre elettriche e flamenco, liuti arabi, batteria, guembri e karkabous. Nel corso di Extrafesta vengono poi presentati i protagonisti di Extrafestival, quella che gli organizzatori chiamano “una risposta democratica e multietnica al Festivalbar”. Si tratta di un plotone di cittadini stranieri, ora residenti in Italia, che l’8 giugno alla Cascina Monluè interpreteranno in chiave meticcia alcuni standard della canzone made in Italy. Infine, come tutti gli anni, Extrafesta ospita i banchetti di numerose comunità straniere che vivono in Lombardia con pubblicazioni, materiale informativo, artigianato e bevande, mentre un angolo gastronomico offre, a prezzi politici, una cena a base di piatti provenienti dalla cucina di tutto il mondo, con particolare attenzione, in omaggio ai protagonisti musicali della serata, alla cucina magrebina.
30 aprile, 2020
30 aprile 1983 – Muddy Waters, una leggenda del Delta
Il 30 aprile 1983 muore Muddy Waters uno dei leggendari musicisti del delta del Mississippi. McKinley Morganfield, questo è il suo vero nome, nasce il 4 aprile 1915 a Rolling Fork, in Mississippi. Nel 1941 il ricercatore Alan Lomax lo convince a registrare due brani, Country blues e I be's troubled che lo fanno conoscere al di fuori del ristretto ambiente del delta. Trasferitosi poi a Chicago firma un contratto discografico con la Chess e formò la sua prima band con Little Walter all’armonica, Jimmy Rogers alla chitarra, Otis Spann al pianoforte e una serie interminabile di bassisti e batteristi. Per quasi tutti gli anni Cinquanta Muddy rappresenta l'avanguardia del blues e dalla sua creatività nascono brani entrati a far parte della storia della musica come Hoochie coochie man, Got my mojo working, Rollin' stone, You shook me, Mannish boy, Just make love to me, Louisiana blues e tanti altri. Nella sua interpretazione non li canta, qualche volta li urla, ma in genere li borbotta con una dizione smozzicata che rende le parole incomprensibili. Con lui il blues attinge alla civiltà dei bar degli operai. Melodia e armonia sono elementi trascurabili di fronte alla carica emozionale. Waters cambia anche l'immagine del bluesman che da menestrello solitario diventa showman e leader. I Rolling Stones, ispiratisi per il nome alla sua canzone Rollin' stone, lo considerano uno dei loro principali punti di riferimento, insieme a Bo Diddley e Howlin' Wolf. Tra i suoi moltissimi album i più importanti restano Folk singer, Hard again, At Newport, At Woodstock, Live, Sail on, London Sessions, Call me Muddy Waters, Unk in funk, McKinley Morganfield e Can't get no grindin'.
29 aprile, 2020
29 aprile 1865 – Max Fabiani, il goriziano che licenziò Hitler
Il 29 aprile 1865 nasce a Kobdil presso San Daniele del Carso, l'architetto goriziano Max Fabiani, un geniale progettista che dal 1894 al 1896 è allievo di Otto Wagner e suo collaboratore per il progetto della metropolitana di Vienna. Quando lascia lo studio di Wagner resta a Vienna dove nel 1900 progetta il magnifico palazzo della ditta "Portois & Fix" nella Ungargasse, nel 1901 la casa Artaria al Kohlmarkt e nel 1910 il planetario Urania. Negli anni Dieci assume come apprendista nel suo studio l'allora ventenne Adolf Hitler, un giovanotto che lui ricorda "non privo di qualche talento". L'aspirante architetto di Braunau, però, non è molto disciplinato e al lavoro preferisce le discussioni sul pangermanesimo che disturbano l'ufficio. Fabiani che antepone il lavoro alle chiacchiere decide di licenziarlo per scarso rendimento. In un'intervista rilasciata alla fine degli anni Cinquanta dichiarerà: «Non l'avessi mai fatto! Avremmo avuto un mediocre ma pur sempre passabile disegnatore tecnico in più e un programmatore di guerre mondiali e di campi di sterminio in meno!». Muore a Gorizia il 14 agosto 1962 alla veneranda età di novantasette anni.
28 aprile, 2020
28 aprile 1937 - La città del cinema nata dalle fiamme
Il 28 aprile 1937 Benito Mussolini in persona inaugura Cinecittà, il complesso di studi cinematografici più importante d’Europa. Particolarmente attento al rapporto tra propaganda e nuovi mezzi di comunicazione, il regime fascista da tempo pensa di impegnare notevoli risorse per realizzare l’idea di una “città del cinema”, da costruirsi alle porte di Roma. L’occasione per trasformare in realtà il progetto arriva il 26 settembre 1935 quando un misterioso incendio, le cui cause resteranno per sempre oscure, brucia gli studi della casa di produzione Cines. La stessa notte Luigi Freddi, capo della appena istituita Direzione Generale per la Cinematografia propone a Carlo Roncoroni, proprietario della Cines, di ‘prevedere e prevenire i tempi nuovi, creando, dalle rovine ancora fumenti dei vecchi stabilimenti’ nuove strutture di produzione più adatte ‘agli sviluppi futuri’ del cinema italiano. Attorno al progetto si mobilitano anche le energie di molti operatori privati che vedono la possibilità di promuovere un rapido sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione italiana, sulla falsariga di quanto già avvenuto negli Stati Uniti. La costruzione è imponente e si articola in dieci teatri di posa, un teatro per miniature, effetti speciali e animazione. A questi vanno poi aggiunti vari edifici per laboratori, montaggio e sonorizzazione, un centro per le registrazioni audio e tre piscine predisposte per le riprese superficiali e subacquee, la più grande delle quali è larga sessantadue metri e lunga centosessantacinque. In totale sono sedicimila metri quadrati di studi e trentaduemila di altri edifici su un’area complessiva di centoquarantamila metri quadri. Lo scoppio della guerra rallenta e poi blocca per un lungo periodo l’attività. Cinecittà sembra destinata a non risorgere più dopo l’8 settembre 1943, quando le truppe tedesche requisiscono gran parte delle attrezzature, mentre gli stabilimenti subiscono numerosi bombardamenti. Da ultimo diventa rifugio per centinaia di senzatetto romani. Il mondo della cinematografia, però, lancia accorati appelli per la sua rinascita fin dai primi giorni della ricostruzione e, inaspettatamente, la città del cinema riapre i battenti nel 1947 come ente autonomo sotto la presidenza di Tito Marconi. Ben presto Cinecittà torna a essere il centro della produzione cinematografica italiana, riguadagnando e allargando dentro e fuori dai confini nazionali la sua fama. Gli studi di via Tuscolana offrono buone attrezzature e personale altamente qualificato a costi assolutamente competitivi per il mercato internazionale. Alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta la congiuntura economica e una serie di provvedimenti particolarmente azzeccati favoriscono lo sviluppo di collaborazioni e coproduzioni internazionali di grande rilievo. In particolare Cinecittà diventa un punto di riferimento obbligato per le produzioni statunitensi. Nasce così il mito della ‘Hollywood sul Tevere’, che trova il suo momento di maggior successo nella realizzazione di grandi kolossal come “Quo Vadis” di Leroy nel 1949, “Ben-Hur” di Wyler nel 1959 e “Cleopatra” di Mankiewicz nel 1963.
27 aprile, 2020
27 aprile 1953 – Harry Belafonte registra "Matilda"
Il 27 aprile 1953 Harry Belafonte si chiude negli studi della casa discografica RCA-Victor per registrare Matilda, uno dei brani più significativi della sua produzione. Fin dalle prime note questa solare e orecchiabile canzone a ritmo di calypso sembra scorrere via liscia e priva di segreti lasciando immaginare una registrazione senza particolari problemi. È soltanto apparenza. Harry Belafonte, che ha già alle spalle una lunga gavetta nei locali del Greenwich Village non si lascia fuorviare dalla tranquillità un po’ superficiale degli strumentisti di turno in quel giorno. Non è un novellino. Nonostante la giovane età da tempo scruta i segreti delle musiche e dei ritmi della tradizione popolare e dal 1951 i concerti che tiene con i fedeli chitarristi Millard Thomas e Craig Work al "Village Vanguard" di New York sono diventati un appuntamento di culto per gli intellettuali e i giovani della città. Per questa ragione sa molto bene che Matilda è una brutta bestia da domare e che la trappola si nasconde proprio nella sua ripetitività. Se non si riesce a dare la giusta carica all’esecuzione la conseguenza inevitabile per chi ascolta non è quella di essere catturato dalla suggestione un po’ ipnotica del ritmo costante, ma è la noia. Harry spiega agli strumentisti che i ritmi delle tradizioni popolari, soprattutto di quella caraibica alla quale attinge, nascono per essere cantati, suonati, vissuti, ballati e non per essere ascoltati dai solchi di un oggetto impersonale come un disco. Se non li si interpreta nel modo giusto perdono in grinta e in significato. Accade così che quella che sembrava destinata a essere una seduta di registrazione tranquilla e senza scosse diventi una lunga giornata di lavoro, preda della quasi maniacale vocazione perfezionista di Belafonte. Il risultato è un brano in cui le variazioni sono infinite, a partire dai passaggi in cui viene ripetuto tre volte il nome “Matilda”. Ogni ripetizione non è mai uguale alla precedente. Tre sono le variazioni fondamentali. Nella prima Belafonte canta tranquillamente in battere, nella seconda scivola sulla prima vocale come se la parola avesse due “a” (Ma-atilda) e sulla successiva fa una pausa, quasi cantasse mentalmente una sillaba prima di pronunciare la parola Matilda. A queste varianti aggiunge o sostituisce altre personalissime correzioni sul tema. Il risultato è sorprendente e il brano segna l’inizio del successo di quel ragazzone figlio di giamaicani nato ad Harlem negli anni della Grande Depressione. La vita fino a quel momento non gli ha regalato nulla. Cresciuto ai margini dell’opulenta società statunitense a otto anni ha seguito i genitori nel ritorno disperato in Giamaica, la terra dei suoi antenati, per sfuggire alla morsa della crisi e della miseria. Ci resta per cinque anni prima di tornare nuovamente negli States. La musica, i colori, ma anche le condizioni di arretratezza della sua gente, gli resteranno dentro per sempre. I ritmi della terra dei suoi avi e, più in generale, dei Caraibi grazie a lui fanno il giro del mondo e brani come Matilda, Jamaica farewell o Banana boat song (Day-o) lo portano al vertice delle classifiche dei dischi più venduti ed entrano nel repertorio delle grandi orchestre. Gli storici della musica pop sostengono che proprio il boom di Harry Belafonte e della sua musica, insieme a quello del folk americano propiziato dal Kingston Trio, abbia posto le basi per la diffusione di massa del folk revival che negli anni Sessanta ha fatto da culla ad artisti come Bob Dylan e Joan Baez. L’uomo non si dimenticherà le sue origini e utilizzerà il suo successo per sostenere la causa dei diritti civili, della giustizia sociale e della lotta al razzismo. Proprio negli anni Cinquanta, all'apice della popolarità dopo aver venduto più di un milione di copie dell'album Calypso, annuncia la sua intenzione di non esibirsi più negli stati e nelle città del "profondo Sud" degli Stati Uniti colpevoli di mantenere in vigore disposizioni, regolamenti, norme punitive o segregazioniste nei confronti della comunità afroamericana. Organizza marce, sit-in, firma documenti, si impegna in prima persona e a chi tenta di convincerlo a moderare un po' i toni racconta la sua vita di giovane di colore nato nel ghetto nero di Harlem da genitori giamaicani. «Le parole, amico mio, lasciano il tempo che trovano. Quando hai vissuto a contatto diretto con le frustrazioni e la miseria della gente che ha il tuo stesso colore di pelle, non puoi pensare che la tua carriera venga prima di tutto». Anche durante i concerti va giù duro. «Tutti i richiami alla democrazia rischiano di restare chiacchiere vuote perché un paese in cui esistono palesi casi di segregazione razziale non è un paese libero e neppure democratico». Il suo impegno artistico è in linea con quello sociale e civile. Vola alto, al di sopra delle nuvole della produzione di tendenza e delle regole consolidate, facendo conoscere al mondo intero i ritmi, i suoni e i colori nati dalla contaminazione tra il folklore caraibico e la tradizione nera dei canti di lavoro degli schiavi.
26 aprile, 2020
26 aprile 2002 – Gianna Nannini nell'aria
Il 26 aprile 2002 arriva nei negozi italiani Aria, il nuovo album di una Gianna Nannini incazzata. La cantautrice toscana non si fa prestare parole difficili per spiegare il suo stato d’animo «Sono tempi di guerra, questi. La guerra non è mai finita fino a quando non si consoliderà un’opposizione vera, quella dell’amore. Tutti noi dobbiamo coltivare con amore l’opposizione all’idea stessa della guerra». Non fatevi incantare, però, dalla dolcezza. È una Nannini grintosa, decisa e combattiva quella che emerge dalle tracce di Aria. Sono lontani anni luce le interiorità e i suoni morbidi del precedente Cuore. La linea è diversa, come si può intuire ascoltando Uomini a metà, il singolo-trailer pubblicato a fine marzo, in cui si parla «bombe contro il cielo per incoronare religiosi inferni romantici». C’è il grido di rabbia contro un umanità dimezzata dall’odio, prigioniera di una sorta di egoismo cosmico, in cui l’assenza dell’amore finisce per essere la vera minaccia al destino del mondo. Le altre canzoni sono sulla stessa corsa. Nella volta celeste della Nannini splendono nuovi astri dalla luce intensa e vivida. Hanno la consistenza solida delle idee che si fanno melodia. I suoni, agli antipodi rispetto all’ultima produzione, sono nuovi, decisamente diversi da qualunque altra performance della cantautrice senese. Il suo rock pucciniano si è fatto adulto. Ha acquistato gli echi e i colori dell’elettronica, e lo ha fatto senza mai apparire artificiale. Sembra musica per gli occhi… «Già, è proprio musica per gli occhi. Grazie al lavoro di Armand Volker e Christian Lohr, due alchimisti dell’elettronica applicata alla musica, sono riuscita ad aggiungere ai brani un’infinità di colori…». Anche la sua voce, quando serve, viene filtrata dal vocoder, ma non è solo la musica a disegnare la nuova ispirazione. Nella stesura dei testi c’è la mano di Isabella Santacroce, la scrittrice pulp di “Destroy”, “Luminal”, “Fluo” e “Lovers”. Non si capisce chi delle due abbia influenzato l’altra, forse nessuna perché le parole sembrano frutto di un lavoro collettivo, composte direttamente sulla musica, senza un prima e un dopo. Sono piccole perle di un lungo grido di rivolta, ora rabbioso («non voglio perdermi, neanche crederti, nemmeno arrendermi tra le braccia di notti sterili»), ora malinconico («non è facile restare senza più fate da rapire»), ma mai rassegnato all’illusione («non morirò, per te rinascerò, fra le tue mani, invulnerabile, e vincerò per te l’eternità»). È un susseguirsi d’emozioni che trova il suo culmine in Un dio che cade, un brano nel quale di fronte a un dio vittima della violenza dell’umanità prende corpo una preghiera nuova a una divinità meno fragile perché femmina («madre nostra, regina dell’amore, guerriera della luce»). Nell’album non c’è la tentazione di chiamarsi fuori da ciò che accade, ma la voglia di guardare. È lei a confessare che l’idea di Aria è quella di «distaccarsi dalla terra per poter vederla un po’ dall’alto, scoprire che il mondo è diviso in due parti e stare da quella che si oppone». Oppone a cosa? «Alla guerra, alle ingiustizie, alla voglia di dominio e che cancella la solidarietà e l’amore». Non sono soltanto parole, le sue. Gianna Nannini non è una che confonde la realtà con le speranze e in lei l’attenzione per il movimento dei movimenti non nasce oggi. «Sei anni fa a Toronto, quando ancora il movimento No Global era agli inizi, io c’ero». Pochi mesi prima dell’uscita dell’album ha partecipato, in incognito, anche alla Marcia della Pace Perugia-Assisi. E oggi? «Sto sempre dalla stessa parte. Con determinazione, ma ben attenta a non cadere nella trappola» Quale trappola? «Quella della violenza, che rifiuto perché appartiene a una concezione del mondo che non è la mia. Quando accetti il terreno della violenza hai perso, perché hai portato dentro di te l’elemento su cui si basa il potere di chi stai contrastando, ti sei fatto catturare dalla sua logica. Sei stato sconfitto». Eppure in Aria, il brano che dà il titolo all’album sembra quasi che tu voglia fuggire dalla realtà per rifugiarti nelle favole. «No, non è una fuga, ma il recupero del valore della fantasia. Oggi il mondo ha bisogno come l’aria, appunto, di fantasia. Mi sono ispirata alla mia nipotina,. Guarda lei ho capito che crescendo perdi la fantasia che hai nei primi anni di vita. Non ti accorgi che i grandi non riescono più a parlare con i bambini? Io credo che tutti dobbiamo recuperare la nostra fantasia perduta perché è un valore…». Stanca di guerra Gianna Nannini riscopre l’amore come una forza di pace, viva e vitale. Ne fa una componente della sua battaglia contro l’omologazione che appiattisce e in Volo canta l’elogio delle diversità («ho scelto d’esibire le mie diversità come Pippi Calzelunghe»). Come Pippi Calzelunghe? «Già, proprio come lei, una bambina che non ama farsi rinchiudere in canoni decisi da altri».
25 aprile, 2020
25 aprile 1944 – O Badoglio, Pietro Badoglio...
Il brano La badogliede, costruito sulla musica di un canto popolare toscano e su un ritornello che appartiene alla tradizione piemontese, è un esempio prezioso di satira. La leggenda vuole che sia stato composto il 25 aprile 1944, un anno esatto prima del giorno della liberazione, ma probabilmente è nato allo stesso modo in cui nascono tutte le canzoni popolare, cioè, come si direbbe oggi, "in progress". Porta due firme illustri, quelle di Livio Bianco e Nuto Revelli, ma anche questa, a detta degli stessi autori, è una semplificazione. Materialmente i due sono stati i trascrittori. Hanno, cioè, aggiustato una sorta di elaborazione collettiva di un gruppo di partigiani che operavano alle Grange di Narbona che utilizzava la melodia di un canto popolare toscano. La critica politica nei confronti di Pietro Badoglio, protagonista della disonorevole fuga a Brindisi dopo aver firmato l'armistizio con gli alleati e la dichiarazione di guerra alla Germania, si fa caustica attraverso la narrazione delle sue vicende. Ne emerge un personaggio pavido, opportunista e del tutto indifferente al destino della popolazione. È singolare come il brano sia attraversato dallo stesso concetto che Nuto Revelli elaborerà in modo compiuto nei suoi libri, in particolare ne "La guerra dei poveri": la Resistenza come guerra di popolo contro il nazifascismo ma anche come «guerra alla guerra» nata dalla necessità di non lasciare il proprio destino nelle mani di classi dirigenti ciniche e pronte a giocare qualunque carta sulla pelle delle popolazioni. L'uso della satira finisce per rendere ancora più aggressiva una canzone che ha la sua chiave nelle ultime tre strofe e non si limita alla critica sarcastica, ma indica una precisa volontà di cambiamento («Noi crepiamo sui monti d’Italia/mentre voi ve ne state tranquilli,/ma non crederci tanto imbecilli/da lasciarci di nuovo fregar») che coinvolge l'intera classe dirigente e l'essenza stessa della monarchia («No, per quante moine facciate/state certi, più non vi vogliamo,/dillo pure a quel gran ciarlatano/che sul trono vorrebbe restar» fino al finale liberatorio (Se Benito ci ha rotto le tasche/tu, Badoglio, ci hai rotto i coglioni/pei fascisti e pei vecchi cialtroni/in Italia più posto non c’è»). Il ritornello in piemontese, poi, finisce per essere una sorta di scioglilingua, quasi un nonsense in cui l'incalzare delle domande (l'hai mai detto? L'hai mai fatto? Si si, no no) alimenta l'impressione di incertezza, di tentennamento e di sostanziale pavidità del personaggio. Nel 1972 gli Stormy Six riprenderanno la melodia delle strofe e il giochino della descrizione satirica delle tappe della "carriera militare" per comporre la loro Birindelleide, dedicata all'ammiraglio Gino Birindelli, candidatosi alle elezioni politiche nelle liste neofasciste
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