28 maggio, 2020

28 maggio 2004 - Modstock II, quarant’anni di modernismo

Il 28 maggio 2004 inizia il Modstock II, la manifestazione con la quale il Movimento Mod festeggia i quarant’anni dalla sua nascita a Streatham, un quartiere di Londra, la città dove tutto è cominciato. I Mods tornano così sul luogo del delitto dopo che il primo Modstock per i trent’anni di vita del movimento si era svolto a Saarbrucken, in Germania, rompendo clamorosamente con la culla britannica. La manifestazione, che dura tre giorni, prevede, oltre all’esibizione di una serie di band “storiche” del periodo di grande esplosione mod, l’alternarsi di un nutrito numero di gruppi provenienti da tutto il mondo. Tra mostre, rassegne cinematografiche, concerti e performance di Dj rigorosamente in tema la notte diventa solo un’espressione gergale per definire alcune ore della giornata. La prima serata vede, tra gli altri, l’esibizione dei Pretty Things, che si esibiscono accompagnati da filmati pop art che ruotano sul palco. Il programma dei concerti di sabato vede il popolo modernista scatenarsi con le musiche dei Creation mentre la chiusura domenicale è riservata a una furibonda performance degli Action. Tra gli appuntamenti di maggior impatto spettacolare c’è anche un corteo in scooter per le vie di Londra.

26 maggio, 2020

26 maggio 1970 – Claudio Villa a "Speciale per voi": Patetico? Ma io picchio…

Il 26 maggio 1970 tutta Italia ha modo di assistere, sugli schermi televisivi, a un incontro-scontro tra Claudio Villa e i giovani che lo contestano. L’ideatore di questa contesa destinata a entrare nella storia del costume è Renzo Arbore che chiama il cantante a partecipare come ospite alla trasmissione televisiva “Speciale per voi”. Villa appare in gran forma e determinato a sostenere le sue ragioni. Attaccato ferocemente da un gruppo che lo bersaglia di strali velenosi sostenendo che il suo genere è finito, replica: «Qui tutti protestano, qui tutti vogliono sentire cose nuove e socialmente impegnate, almeno dicono. Poi però quando canto Marina cascano tutti a terra commossi». Sornione, Arbore guida con mano ferma il dibattito, ma non riesce a contenere l’esuberanza dei giovani e a trattenere l’irruenza di Villa. La discussione si surriscalda quando un giovane dice «Sei patetico» al cantante che, non accettando di subire passivamente, replica a suo modo: «Patetico a me? Ma io picchio, io ve faccio paura...». I giovani si dividono. C’è chi apprezza quello che il cantante fa, pur non sentendolo così vicino alla sua sensibilità, e chi apertamente gli manifesta simpatia. Alla fine della trasmissione Claudio, visibilmente soddisfatto, così conclude: «Ci sono i giovani, i meno giovani e i sempre giovani. Io sono uno di quelli».

25 maggio, 2020

25 maggio 1965 – “Un amore”, un libro da Oscar

«Circa esito pubblicazione in collana Oscar suo ultimo romanzo altissimo grado diffusione ammontante a 200 mila copie». Così il 25 maggio 1965 Arnoldo Mondadori annuncia con malcelata soddisfazione e orgoglio con un telegramma a Dino Buzzati lo straordinario successo del suo romanzo “Un amore”, il quarto titolo dei neonati Oscar. La cifra, incredibile per l’epoca, non è che un primo resoconto parziale delle vendite che toccheranno le 400 mila copie. Sono tirature davvero impressionanti e mai toccate prima d’allora, soprattutto da una storia che fa storcere il naso all’Italia conservatrice, codina e preoccupata per la degenerazione dei costumi. Il romanzo di Buzzati parla, infatti, dell’amore appassionato di un tranquillo borghese per una giovane squillo. I risultati commerciali eccellenti danno il segno di un profondo cambiamento nelle abitudini degli italiani. Il libro, fino a quel momento considerato o un contenitore di nozioni scolastiche o un lusso destinato ad alimentare la cultura dei ceti più abbienti, diventa nei primi anni Sessanta una delle abitudini quotidiane per migliaia di italiani. Gli Oscar, pratici e comodi da portare in tasca o nella borsetta, diventano i compagni delle trasferte in treno dei pendolari, delle pause nei giardini e anche delle scampagnate domenicali. Quando si è finito di leggere li si presta agli amici in una sorta di circolo virtuoso che si alimenta costantemente.

24 maggio, 2020

24 maggio 1941 – Il mistero della vita e della morte di Berthe Sylva.

Il 24 maggio 1941 muore improvvisamente a Marsiglia la cantante Berthe Sylva, una delle protagoniste di primo piano della canzone francese degli anni Trenta. Ancora oggi, a decenni di distanza dalla sua scomparsa, la sua vita e, soprattutto, la sua morte sono fonte costante di supposizioni, ipotesi, illazioni in una mescola in cui diventa arduo distinguere tra fantasia morbosa e verità. Di questa situazione la cantante è, insieme, vittima e complice. È vittima perchè molto spesso le vicende vere o inventate della sua vita finiscono per oscurarne le notevoli qualità artistiche ma è anche complice perchè gran parte delle ricostruzioni scandalistiche nasce da sue misteriose allusioni a episodi drammatici, avventurosi ed esotici svoltisi negli anni che precedono il suo successo visto che Berthe Sylva è divenuta popolare soltanto dopo aver compiuto i quarant’anni. Le leggende sul suo personaggio nascono anche dal fatto che la sua stella ha brillato così intensamente da consumarsi in uno spazio temporale brevissimo. Una decina d’anni, infatti, separano il primo approdo al successo dalla scomparsa della cantante. In mezzo c’è la straordinaria avventura di un’artista che ha saputo conquistare il cuore di milioni di francesi grazie alle sue qualità vocali, e alla capacità quasi istintiva di adattarsi e utilizzare al meglio le innovazioni tecnologiche dell’epoca, dall’introduzione del microfono alle tecniche di registrazione. Il mistero di Berthe Sylva comincia dalla ricostruzione storica della sua nascita che secondo alcuni sarebbe avvenuta a Saint Brieuc nel 1886 e secondo altri a Lambézellec, un comune che oggi fa parte del territorio di Brest, il 7 febbraio 1885. Sua madre si chiama Anne Poher e suo padre Joseph Faquet. Quest’ultimo è un marinaio e, secondo la leggenda, sarebbe stato lontano da casa il giorno in cui sua figlia vedeva la luce. La piccola, registrata all’anagrafe con il nome di Berthe Francine Ernestine Faquet, cresce nelle strade del suo borgo natale. Le condizioni della famiglia non sono tali da consentire grandi illusioni sul futuro e la bambina è costretta ben presto ad abbandonare i giochi e le compagnie della sua età per dedicarsi al lavoro. Si racconta che mentre le sue coetanee sono ancora impegnate ad accudire le bambole, lei passi gran parte del suo tempo a fare commissioni per le signore che affidano i loro lavori di casa alla madre. Pian piano la bimbetta impara anche a spolverare, rassettare, lavare, insomma riesce a cavarsela in tutti i “mestieri di casa” che fanno della madre una delle più apprezzate “bonnes” (domestiche) del borgo dove vive. La piccola Berthe impara talmente bene che viene assunta a tempo pieno come “bonne” quando non ha ancora compiuto i quattordici anni. Siccome la famiglia che richiede i suoi servigi abita nella cittadina di Saumur, la ragazza lascia paese natale e genitori per andarsene a vivere da sola presso i suoi nuovi padroni. Di questo periodo, pettegolezzi a parte, non si sa con certezza quasi niente. L’unico elemento di verità è che Berthe negli anni seguenti resta incinta e dà alla luce un bambino di cui si disfa con grande rapidità. Il piccolo, registrato all’anagrafe con il nome di Henri, viene praticamente abbandonato e affidato alla famiglia d’origine di Berthe in quel di Lambézellec. Sempre secondo la leggenda la madre non avrebbe mai più avuto contatti con lui, salvo tre incontri quasi casuali e senza seguito ed Henri, divenuto adulto, abbia saputo della morte della madre assolutamente per caso e molto tempo dopo. Henri non è l’unica creatura messa al mondo da Berthe Sylva. Dopo di lui nasce anche Emilienne, una figlia ugualmente inaspettata e prontamente abbandonata a un gruppo di parenti disponibili a occuparsene. Quanto ci sia di vero e quanto di leggenda nella storia degli abbandoni nessuno può dirlo con certezza anche perchè, come raccontano i biografi e i cronisti dell’epoca quando si chiedevano a Berthe Sylva spiegazioni o informazioni su quel periodo della sua vita la risposta era sempre la stessa: «Lascia perdere, prendi un bicchiere e bevi con me!» Nonostante la difficoltà di discernere tra le storie e le leggende che si raccontano su Berthe Sylva, un dato sembra certo. Il suo debutto nel mondo della spettacolo avviene intorno al 1910, quando si è da poco liberata di Henri. Anche le testimonianze di questo periodo però sono contraddittorie e scontano un eccesso di illazioni e chiacchiere spesso messe in giro dalla stessa cantante negli anni seguenti. Si racconta di una serie di tournée che l’avrebbero portata a esibirsi sui palcoscenici di mezzo mondo, dall’America del Sud alla Russia, dalla Romania all’Egitto. A riprova che non sono tutte esagerazioni o ricostruzioni fantasiose c’è una foto realizzata negli anni della Prima Guerra Mondiale nella quale è raffigurata al fianco della celebre chanteuse Eugénie Buffet e dello chansonnier cieco René de Buxeuil. Proprio in quegli anni si fa conoscere e apprezzare per le sue doti interpretative dal taglio fortemente drammatico con canzoni come Mon gosse, Je n’ai qu’un maman o Ne quittez jamais votre enfant (Non abbandonate il vostro bambino), una sorta di scherzo del destino per lei, che s’è liberata così rapidamente dei suoi figli. Il tempo passa e la sua carriera appare simile a quella di tante cantanti da cabaret e da bistrot, apprezzate e applaudite dagli abitatori della notte ma pressoché sconosciute al grande pubblico. La svolta, inaspettata, arriva nel 1928 quando Berthe ha già superato la boa dei quarant’anni e si sta esibendo, con il solito buon successo, al “Caveau de la Republique” di Parigi. L’artefice delle sue fortune è il fisarmonicista e compositore Léon Raiter. L’ascolta cantare nel locale, ne resta impressionato e le chiede di esibirsi ai microfoni di Radio Tour Eiffel in uno spazio musicale da lui condotto e prodotto da un altro fisarmonicista che risponde al nome di Maurice Privas. La cantante, un po’ sorpresa, accetta e nel suo debutto radiofonico interpreta Les roses blanches, una canzone scritta dallo stesso Léon Raiter su un testo di Charles Louis Pothier. Il risultato è inaspettato e quasi incredibile. L’emittente riceve migliaia di lettere inviate da ascoltatori entusiasti che chiedono di poter riascoltare la voce di Berthe. La forza di penetrazione della radio ha trasformato la cantante del “Caveau de la Republique” in una star a più di quarant’anni. Dopo Les roses blanches Berthe Sylva lancia altre due canzoni nate dalla vena malinconica di Léon Raiter, On n’a pas tous les jours vingt ans e Grisante folie, entrambe destinate al successo. Nel 1929 registra per la Odéon il primo disco di una serie lunghissima. Si calcola che in tutta la sua carriera la cantante abbia registrato circa quattrocentocinquanta brani. Per tutti gli anni Trenta la sua popolarità tocca vertici altissimi e non mancano episodi di vera e propria follia da parte dei suoi ammiratori. Nel 1935 i fans marsigliesi in preda al furore parossistico dopo una sua esibizione distruggono le poltroncine dell’Alcazar e tentano di sfondare la porta del suo camerino per poterla toccare. Il successo non ne cambia però lo stile di vita, disordinato e sempre più spesso condizionato dall’amicizia con l’alcol . I soldi finiscono con stessa rapidità con la quale sono stati guadagnati. A volte molto più velocemente. Quando i nazisti occupano Parigi lei si rifugia a Marsiglia dove nel 1940 il suo nome fa bella mostra di se sul cartellone dell’Alcazar per oltre quindici giorni di repliche. Proprio in quella stessa città l’anno dopo muore. Succede all’improvviso il 24 maggio 1941. Non son passati che pochi mesi dalla sua ultima esibizione e qualche anno dai grandi trionfi eppure Berthe Sylva muore povera e praticamente sola. Con la fine dei soldi sono scomparsi quasi tutti gli amici. Ad accompagnarla nel suo ultimo viaggio verso il cimitero Saint Pierre di Marsiglia ci sono soltanto cinque persone due delle quali sono lo chansonnier Darcelys, suo fedele amico da sempre, e l’impresario Hervais, l’ultimo amore della sua vita.

23 maggio, 2020

23 maggio 1974 – Chiude “Il Rischiatutto”

Il 23 maggio 1974 finisce “Il Rischiatutto”. «Fiato alle trombe, Turchetti!» la frase che Mike Bongiorno rivolge al regista Piero Turchetti per dare inizio al programma è il tormentone principale di questo programma entrato nel costume degli italiani di quel periodo. Il gioco è costruito sulla falsariga dei precedenti, con qualche modifica nella struttura, ma con l’immancabile “cabina” nella quale rinchiudere il concorrente. A condurlo c'è un Mike Bongiorno con i capelli più lunghi del passato affiancato da una valletta in linea con l’evoluzione dei costumi giovanili dell’epoca. Si chiama Sabina Ciuffini, è molto giovane e indossa con assoluta naturalezza hot pants, micro e maxi gonne. Come tutte le assistenti precedenti ovviamente non può parlare, ma non rinuncia a diventare protagonista. Le cronache mondane si occupano di lei che per completare il personaggio anticonformista e fuori dagli schemi della moralista televisione dell'epoca accetta di posare per un servizio su Playboy che manda su tutte le furie il “signore dei telequiz”. "Il Rischiatutto" va in onda per la prima volta il 5 febbraio 1970 e chiude definitivamente i battenti il 23 maggio 1974. Con la sua chiusura finisce l'epoca d’oro dei grandi quiz che incollano le folle ai televisori.

21 maggio, 2020

21 maggio 2004 – Il primo disco da solista di Raiz

Il 21 maggio 2004 esce Wop, il primo album da solista dell’ex cantante degli Almamegretta. In quel momento si chiama Raiz, ma nel corso del tempo è stato anche Rais, Raiss o come lo si è voluto chiamare. Sulla sua carta d’identità c’è scritto Gennaro Della Volpe, ma in fondo quei documenti servono solo per le statistiche. Per molti anni voce carismatica degli Almamegretta, non è un tipo a cui piace stare fermo. Teatro, collaborazioni, la sua voce ha percorso in questi anni tante strade, spesso piccoli sentieri prima di approdare al suo primo disco da solista. Si intitola Wop e contiene dieci brani, dieci piccoli e delicati fiori del deserto curati insieme a Paolo Polcari, un altro protagonista della storia degli Almamegretta. Raiz, come John Frusciante, è uscito dal gruppo? Se lo si chiede a lui la risposta è meticcia: «Non sono e, probabilmente, non sarò più la voce degli Almamegretta, ma il rapporto con il gruppo non è chiuso. Hanno fatto un disco senza di me, inseguono nuovi progetti, ma sono e restano un gruppo aperto. Credo che collaboreremo ancora». Intanto, però, c’è Wop, un album delizioso ricamato dal filo duttile della tua voce, che si muove tra le sponde del mediterraneo e riesce a unificare, spesso nello stesso brano, atmosfere diverse, stili apparentemente lontanissimi… «È un disco che volevo fare da tempo e che dimostra come, in musica, la convivenza culturale tra impostazioni diverse è un valore e finisce per dar vita a un nuovo linguaggio». Quello che non accade nella realtà… «Forse sarebbe meglio dire “quello che si impedisce accada nella realtà”. In questo Mediterraneo, in cui i rapporti vengono distrutti e lacerati dalla “guerra di petrolio e acqua”, sarebbe sufficiente cominciare a scrutare le somiglianze per trovare una strada nuova. Ecco, io questo faccio. Lavoro sulle somiglianze, sulle linee che si incrociano, in musica come nelle tradizioni culturali. Ci sono leggerezze armoniche pakistane che si integrano perfettamente con alcune strutture della canzone napoletana, ci sono somiglianze, sguardi, tradizioni che non possono essere colti perché, magari, qualcuno ha eretto nella nostra testa un muro…» Come in Dietro il tuo chador quando dici “…noi siamo due sponde dello stesso mare, divisi da un muro che è fatto di parole…”, ma una canzone può cambiare il mondo? «Una canzone non può cambiare il mondo, ma può aiutare a capire, far crescere il dubbio, costruire un dialogo… Se tu ascolti il pop israeliano e quello palestinese e non capisci la lingua non ti accorgi della differenza, eppure c’è un muro che impedisce a molti di cogliere la somiglianza…». Nel tuo disco ci sono tante parole di speranza. C’è ancora spazio per la speranza in un tempo in cui la guerra copre le parole? «C’è spazio, basta che lo si voglia trovare. Il mondo è in movimento e anche nella piccola e tormentata area geografica che circonda il Mar Mediterraneo sono in tanti quelli che hanno cominciato a camminare verso i propri simili che stanno al di là del muro».

20 maggio, 2020

20 maggio 1934 – Tonino Valerii, un regista nato sulle strade del West

Il 20 maggio 1934 nasce a Montorio al Vomano in provincia di Teramo Tonino Valerii. Nel 1955, superato l’esame d’ammissione, entra al Centro Sperimentale di Cinematografia dove si diplomerà in regia. Per raggranellare qualche soldino e per farsi un po’ le ossa lavora come sceneggiatore e come assistente di regia con diversi registi da Camillo Mastrocinque ad Alessandro Blasetti. La svolta alla sua carriera arriva nel 1966 quando, dopo aver fatto l’aiuto regista di Sergio Leone nei primi due film della “trilogia del dollaro” realizza Per il gusto di uccidere, il suo primo western e anche il suo primo film in assoluto. Il western all’italiana è un linguaggio senza segreti per Tonino Valerii, che con Sergio Leone collabora senza citazione in Per un pugno di dollari e dirige la seconda unità di regia in Per qualche dollaro in più. Più che un allievo è un fedele collaboratore di Leone, con il quale condivide il gusto per le citazioni e il piacere della ricerca scenografica, tecnica e culturale. Quando lavora a Per il gusto di uccidere, il primo western in proprio, di cui firma soggetto, sceneggiatura e regia, si diverte a riprendere e a rielaborare un po’ la figura dell’antieroe cinico e gelido dei primi due film leoniani. Due anni dopo con I giorni dell’ira, il secondo western della sua carriera, recupera la trama dell’omonimo romanzo di Ron Barker innestando sul clima crudo e ricco di tensione tipico della scuola di Leone un inaspettato e all’epoca inedito finale pacifista. Nel 1969 gira forse il suo progetto più ambizioso con Il prezzo del potere trasportando in chiave western l’assassinio di Kennedy a Dallas. La sua ricerca non si ferma lì. Nel 1972 torna sulle polverose strade della frontiera con Una ragione per vivere e una per morire, un film nel quale gioca a mescolare nel western all’italiana le suggestioni di due capisaldi del cinema hollywoodiano come Quella sporca dozzina e Il mucchio selvaggio. Proprio da quest’esperienza forse nasce nel 1973 Il mio nome è nessuno il film ispirato e prodotto da Sergio Leone che segna l’incontro tra il western classico e quello all’italiana e affida al vecchio pistolero interpretato da Henry Fonda il compito simbolico di liquidare con il Mucchio Selvaggio anche l’epopea del west. La sua cinepresa non scruta soltanto le polverose strade della frontiera. Nel corso della sua carriera, infatti,. Tonino Valerii si cimenta con successo anche con altri generi realizzando, tra l’altro La ragazza di nome Giulio, il film del 1970 tratto dall’omonimo scandaloso romanzo di Milena Milani, il thriller Mio caro assassino del 1972 e gli avventurosi Vai gorilla del 1975 e Sahara cross del 1977. A partire dagli anni Ottanta lavora più per la televisione pur non disdegnando di tornare al grande schermo con lavori come Senza scrupoli del 1985 e Una vacanza all’inferno del 1997. Ha scritto anche il libro “Fare l'aiuto-regista nel cinema e nella tv” dedicato a tutti i giovani che vogliono fare il suo “mestiere”. Muore a Roma il 13 ottobre 2016.

19 maggio, 2020

19 maggio 1978 – Bob Marley conquista gli USA

Il 19 maggio 1978 Bob Marley parte insieme agli Wailers per un lungo tour statunitense destinato a promuovere Kaya, il suo album più recente che contiene gran parte del materiale registrato l’anno precedente e non utilizzato per Exodus e che è stato giudicato dalla critica come un disco piacevole, caratterizzato da canzoni d’amore e grandi slanci mistici. Il tour segna la sua definitiva consacrazione di Marley nel paese che aveva guardato con maggior scetticismo alla sua musica. Tutti i concerti vedono la presenza di un muro imponente di folla e indimenticabile resta quello al Madison Square Garden di New York, svoltosi davanti a diciottomila spettatori osannanti. L’esperienza non si ferma in America visto che la tournée prosegue e percorre l’Europa, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. La sua popolarità arriva così in ogni angolo della terra, ma non in Africa dove ancora non ha avuto l’occasione di suonare. È un’assenza che gli pesa e che si ripromette di colmare prima o poi. In una pausa degli impegni europei se ne va per qualche giorno in Etiopia, quasi a compensare l’impossibilità di esibirsi nel continente che ama di più. Il materiale registrato in questa lunga tournée finirà in un disco dal vivo, il doppio Babylon by bus.

18 maggio, 2020

18 maggio 1968 – Scocca a Berkeley la prima scintilla

Il 18 maggio 1968 a Berkeley, in California, migliaia di studenti occupano il campus universitario segnando un nuovo salto di qualità nel movimento studentesco e, in particolare, nella battaglia di massa contro la guerra d'aggressione che gli Stati Uniti stanno conducendo in Vietnam. L'obiettivo immediato dell'occupazione è quello di bloccare i procedimenti della magistratura contro 866 studenti che si sono rifiutati di combattere in una guerra che non è la loro, ma le parole d'ordine diventano un vero e proprio atto d'accusa contro l'imperialismo americano. Proprio nello stesso giorno, quasi a dimostrare la saldatura tra lotte per la pace, diritti civili e istanze di cambiamento sociale, gli studenti della Columbia University di New York, occupano la loro università per protestare contro la requisizione "per utilità pubblica" di un campo giochi per bambini in un'area abitata quasi esclusivamente da popolazione afroamericana. I due fatti sono emblematicamente indicativi di una lotta, quella degli studenti universitari americani, che fin dall'inizio è direttamente e indissolubilmente collegata allo sviluppo del movimento pacifista e a quello per i diritti civili. Non nasce nel Sessantotto, non si esaurisce lì e, soprattutto, non nasce per caso, visto che i leader che guidano gli scioperi degli studenti si sono formati all'inizio del decennio nel movimento di massa contro la guerra fredda e la minaccia di distruzione nucleare oltre che nelle rischiose azioni dei Freedom Riders contro il segregazionismo negli stati del Sud. Chi sono i Freedom Riders? Sono gruppi di studenti organizzati, bianchi e neri, provenienti soprattutto dal nord e dall'ovest degli Stati Uniti, che si recano negli stati del sud per "de-segregare" materialmente i luoghi pubblici con atti anche punitivi nei confronti dei razzisti. Sono azioni pericolose supportate da un'accurata preparazione che prevedono vari livelli di resistenza agli insulti e alle azioni razziste, non tutti pacifici e non violenti. Verso la metà degli anni Sessanta le istanze contro la guerra fredda e per i diritti civili si saldano con la spinta antiautoritaria e antirepressiva che sta emergendo in molte università. Il controllo sulla circolazione notturna tra le aree femminili e maschili dei campus e gli ottusi divieti opposti dalle autorità accademiche alla richiesta di poter fare politica nelle cittadelle universitarie, portano nel 1964 alla prima rivolta di Berkeley. Proprio quell'anno rappresenta per il movimento studentesco statunitense un punto di svolta. Due sono gli avvenimenti che lo segnano. Il primo è l'inizio dell'escalation statunitense in Indocina dove l'appoggio dato da Kennedy al governo "fantoccio" del Vietnam del Sud contro "i comunisti del Nord" con l'invio dei primi "consulenti", inizia a tramutarsi in aperto impegno bellico. Il secondo è la rivolta di Harlem che, nell'estate dello stesso anno, rappresenta l'inizio di una lunga serie di rivolte dei ghetti neri, spesso represse nel sangue. A partire da quel momento la lotta studentesca significherà sempre e in tutto il paese impegno contro la guerra e solidarietà con la rivolta dei ghetti. La guerra nel Vietnam è presente in tutte le principali lotte dei campus, dai grandi scioperi alle occupazioni. La mobilitazione ha momenti di azione diretta, come la cacciata dalle università degli addetti al reclutamento e dei politici in visita, che attingono la loro forza da un capillare lavoro di mobilitazione e denuncia del coinvolgimento delle università nella guerra, soprattutto a livello di ricerca tecnico-scientifica. L'altro elemento, quello della solidarietà con la rivolta dei ghetti, consente al movimento degli studenti di avviare un processo di collaborazione con i movimenti radicali neri destinato a formarne i nuovi quadri dirigenti. Tutti i leader del Black Power provengono infatti dalle università e l'SNCC, l'associazione degli studenti neri, regala al movimento la prima idea di una struttura organizzativa. Il 18 maggio 1968 a Berkeley inizia una nuova fase del movimento, la cui caratteristica più importante non è l'ulteriore radicalizzazione, che pure c'è, ma l'inizio del suo allargamento, dai campus privati alle università statali, nelle quali più tiepida era stata fino a quel momento la partecipazione alle mobilitazioni. È un processo destinato a proseguire per tutto il biennio successivo, fino a raggiungere la fase di massima espansione nel 1970, dopo l'invasione della Cambogia e l'uccisione da parte della Guardia Nazionale di quattro studenti nella Kent State University dell'Ohio, che, non a caso, è un'università statale. Uno solo è un manifestante, gli altri tre si sono semplicemente fermati a guardare. Questo fatto ispirerà a Neil Young la canzone Ohio, che diventerà un singolo di successo nell’interpretazione di Crosby, Stills, Nash & Young. Nei giorni successivi l'ostilità contro la guerra del Vietnam toccherà l'apice con ben quattrocento campus occupati dagli studenti e altri due ragazzi uccisi dalla polizia a Jackson, nel Mississippi. Proprio in quel periodo, però, nel movimento entreranno i germi della frantumazione e dell'autodissoluzione. La rottura dell'unità d'azione tra i gruppi radicali bianchi e il Black Panther Party, lasciato da solo a subire una repressione violentissima, e le divisioni crescenti tra i vari gruppi che compongono il movimento finiranno per esaurirne rapidamente la forza.


17 maggio, 2020

17 maggio 1936 - Renata Mauro, cantante, attrice e soubrette

Il 17 maggio 1936 nasce a Milano Renata Maraolo. Figlia di un industriale milanese e di una ricchissima ereditiera la ragazza è destinata a ottenere un grande successo nel mondo dello spettacolo come cantante, attrice e soubrette con il nome di Renata Mauro. Tutto inizia nel 1953 quando, pur senza coltivare particolari ambizioni di carriera nel mondo dello spettacolo, prende lezioni di canto da Gorni Kramer. Una sua estemporanea esibizione tra amici in un locale di Ischia nell’estate del 1955 entusiasma l’attrice Franca Valeri che la convince a partecipare alla commedia "L'arcisopolo". Nel 1957 prende il posto di Giovanna Ralli nella commedia musicale "Un paio d'ali" di Garinei e Giovannini, cui seguono vari impegni con numerose compagnie. Dopo un periodo passato con la compagnia di Carlo Dapporto ed Elena Giusti, sembra intenzionata a lasciare l'ambiente, ma il destino ha deciso diversamente. Nel 1961, infatti, debutta come cantante nella trasmissione televisiva "Giardino d'inverno" con Ti odio, un brano scritto per lei da Lelio Luttazzi con il quale vince anche la Sei Giorni della Canzone di Milano. Nello stesso anno è ospite fissa del varietà televisivo a "Studio Uno" con Mina e partecipa a "Canzonissima" con Il tempo è tra noi e Passerà. L'anno dopo riceve il Premio Mario Riva per la sua conduzione dello show televisivo "Alta pressione" e nel 1963 interpreta una cantante da night nello sceneggiato televisivo "La sciarpa". Nel 1966 partecipa al Festival di Napoli in coppia con Nunzio Gallo con 'Stu ppoco 'e bene. Dotata di una voce particolare, molto sensuale, interpreta moltissimi brani nella sua carriera ottenendo un buon successo con, oltre a quelli citati, Non piove sui baci, Cantando un blues, Il tempo è tra noi, Passerà, Tafetas e Portami tante rose. A lei tocca il difficile e drammatico compito di annunciare all'Italia il suicidio di Luigi Tenco. Lasciato l'ambiente dello spettacolo si dedica alla cura e all'allevamento di cani. Muore a Biella il 28 marzo 2009.

16 maggio, 2020

16 maggio 2003 – Il primo album di Mirko, l’alfiere della terza generazione dei Casadei

Il 16 maggio 2003 è un venerdì. Proprio quel giorno in tutti i negozi d’Italia viene messo in vendita Doccia fredda, il primo album di Mirko, l’alfiere della terza generazione dei Casadei e nuovo front man della più famosa e innovativa orchestra da ballo italiana.
Con lui quello che gli osservatori distratti si ostinano ancora a chiamare “liscio” nonostante le evoluzioni degli ultimi trent’anni, cambia ancora pelle. Il nuovo linguaggio musicale targato Casadei diventa così un pop folk meticciato, arioso e solare che si apre al mondo e ne assorbe gli umori di festa e speranza. Uno dei brani dell’album è quasi un “documento programmatico” di questa svolta. Si intitola La musica del mondo e racconta l’incontro tra le diverse culture della musica popolare.

15 maggio, 2020

15 maggio 1985 – L’ultimo concerto de Les Compagnons de la Chanson

Il 15 maggio 1985 Les Compagnons de la Chanson cantano insieme per l’ultima volta dopo un tour d’addio durato anni. Finisce così la storia di un gruppo che per oltre quarant’anni ha segnato con la sua presenza la scena musicale francese grazie a un’originale formula interpretativa che sposa il classico con il popolare senza mai farsi coinvolgere dalle mode. La chiave di un successo così inossidabile è da ricercare nell’estrema professionalità dell’ensemble e in una presenza scenica che qualcuno ha definito “deliziosamente demodè” fin dagli anni Quaranta quando muovono i primi passi nel mondo dello spettacolo. Les Compagnons de la Chanson nascono in un periodo complicato e drammatico come il 1941 con la Seconda Guerra Mondiale in corso e la Francia quasi interamente occupata dalle truppe naziste. Tutto inizia a Lione, in quel periodo in zona libera, quando un maestro di cappella che si chiama Louis Liébard forma un gruppo che viene chiamato Compagnons de la Musique con alcuni ragazzi formatisi nei Compagnons de France. L’idea è quella di farne un ensemble vocale che si esibisca nella zona con un repertorio imperniato prevalentemente sui brani popolari e folkloristici più conosciuti. Tra i primi componenti ci sono Jean-Louis Jaubert, che all’anagrafe è registrato come Jacob e ha ventun anni, il diciottenne Hubert Lancelot, Guy Bourguignon un ventunenne rampollo di una famiglia di banchieri, Jean Albert, la maschera comica del gruppo soprannominato “petit roquin” (piccolo rossino) perché ha i capelli rossi e Marc Herrand il cui cognome vero è Holtz. I cinque rappresentano un po’ la prima struttura fissa di un gruppo che ospita periodicamente anche altri ragazzi. Nel 1943 un diciannovenne di origini italiane, Fred Mella, si unisce al gruppo per sfuggire ai tedeschi e finisce per diventarne la voce solista. Nel 1944 si esibiscono per la prima volta a Parigi nei locali della Comédie Française in uno spettacolo di beneficenza cui partecipa anche Edith Piaf che, affascinata dal talento dei ragazzi, decide di occuparsi di loro. Pone però una condizione: il repertorio va aggiornato e reso più moderno. Il gruppo accetta ma intanto ha altro da fare visto che dopo la Liberazione di Parigi se ne va con l’armata del generale De Lattre che sta combattendo contro i tedeschi nel Nord della Francia. In questo periodo l’ensemble cresce di numero con l’arrivo di Jo Frachon e Gérard Sabbat. Nel 1946, probabilmente anche per le insistenze di Edith Piaf, si chiude la collaborazione con Louis Liébard mentre la formazione, dopo l’arrivo di Paul Buissoneau, si completa e muta definitivamente nome in Les Compagnons de la Chanson. I nove componenti sono: Fred Mella, Jean-Louis Jaubert, Guy Bourguignon, Marc Herrand, Jean Albert, Jo Frachon, Gérard Sabbat, Hubert Lancelot e, appunto, Paul Buissoneau. Nello stesso anno ottengono il primo grande successo della loro carriera con Les trois cloches, un brano cantato insieme a Edith Piaf che, pubblicato su disco, vende più di un milione di copie. Niente male per un debutto! Con la loro “divisa da scena” composta dalla camicia bianca e dai pantaloni blu diventano popolarissimi prima in Francia e poi sulla scena internazionale. È sempre la Piaf a scandire le tappe della loro scalata al successo. Nel 1947 a New York vengono accolti con gli onori che si riservano alle stelle. Nel 1949 Paul Boissoneau lascia i compagni per amore di una ragazza del Quebec. Al suo posto arriva René Mella, il fratello più giovane del solista Fred. Gli anni Cinquanta segnano la definitiva consacrazione del gruppo che è ormai entrato nel cuore dei francesi. Il loro nome appare in cartellone in tutti i migliori locali di Parigi e della Francia compresi l’ABC, la sala Pleyel e l’Alhambra. Quando non si esibiscono nel loro paese se ne vanno in giro per il mondo, soprattutto negli Stati Uniti. E mentre i concerti registrano il tutto esaurito, i loro dischi si vendono come il pane. Non è estraneo a questo risultato il contributo di Edith Piaf con la quale Les Compagnons de la Chanson registrano brani di successo come Céline, Dans les prisons de Nantes o quella C’est pour ça che entra anche nella colonna sonora del film “Neuf garçon, un coeur”, una delle tante pellicole cui partecipano da protagonisti. La struttura del gruppo è solida e consente di superare anche situazioni apparentemente difficili come l’improvviso abbandono di Marc Herrand che nel 1952 torna a fare il direttore d’orchestra a tempo pieno. Al suo posto subentra Jean Broussolle e il gruppo guadagna un buon autore e uno straordinario arrangiatore. Il suo arrivo segna un salto di qualità importante per Les Compagnons de la Chanson il cui repertorio si va sempre più caratterizzando, oltre che per le canzoni originali, per la capacità di riprendere e rielaborare i grandi successi francesi e internazionali. Nel 1956 c’è un nuovo cambiamento nella formazione. Jean Albert se ne va per tentare la carriera come solista e viene sostituito dal giovane cantante e chitarrista Jean Pierre Calvet. Il segreto della loro solidità è da ricercare anche nella strutturazione interna che assegna a ogni componente un ruolo nella vita del gruppo: Jaubert si occupa di contratti e pubbliche relazioni, Bourguignon della regia scenografica, Sabbat delle luci e della cassa, René Mella dei costumi di scena, Broussolle e Calvet degli arrangiamenti e Lancelot dei dettagli. La popolarità e il successo de Les Compagnons de la Chanson non vengono scalfiti neppure dall’avvento del rock and roll negli anni Sessanta. Poco disposti a lasciarsi condizionar dalle mode festeggiano i vent’anni della loro storia il 26 gennaio 1961 al Bobino. L’unico cambiamento riguarda la casa discografica. Dopo quindici anni con la Pathé Marconi passano alla Polydor che li paga a peso d’oro. Per il resto Les Compagnons de la Chanson continuano a tenere concerti, a fare tournée e, soprattutto, a vendere dischi. Incuranti del rock, del beat, del rhythm and blues e degli altri generi che si affermano in quel periodo loro continuano a vendere milioni di dischi con brani come Verte campagne, Roméo, Un mexicain o La chanson de Lara. Il 4 ottobre 1969 iniziano quella che è destinata a restare nella storia come l’ultima tournée della formazione a nove elementi. Il 31 dicembre dello stesso anno, infatti, muore Guy Bourguignon. I compagni decidono di non sostituirlo e di continuare con la formazione a otto componenti. Gli anni Settanta li vedono ancora protagonisti pur con qualche cambiamento nella formazione. Nel 1972 Jean Broussolle chiude la sua esperienza con i compagni per continuare come autore e viene sostituito da Michel Zasser chiamato Gaston, un polistrumentista che ha suonato con Claude François e che contribuisce a ringiovanire il repertorio del gruppo. Alla fine del decennio mentre stanno per festeggiare i quarant’anni di carriera annunciano di aver preso la decisione di chiudere con la musica dopo un ultimo tour mondiale. Tra il dire e il fare ci sono di mezzo… cinque anni. Tanto dura, infatti, il tour d’addio anche perché nel 1982 deve essere interrotto per consentire a Fred Mella di sottoporsi a una difficile operazione al cuore. Dopo un commosso abbraccio ai loro ammiratori di molti paesi del mondo Les Compagnons de la Chanson cantano insieme per l’ultima volta il 15 maggio 1985. Tutti i componenti lasciano la scena musicale tranne Fred Mella che, per qualche tempo, tenta di continuare da solo senza risultati apprezzabili.


14 maggio, 2020

14 maggio 2004 – Hic Sunt Leones, la resistenza degli Assalti Frontali

Il 14 maggio 2004 si svolge il primo dei due concerti romani con i quali gli Assalti Frontali presentano al loro pubblico l’album HSL. Il titolo va spiegato. HSL significa “Hic Sunt Leones”, lì ci sono i leoni, è meglio stare alla larga. Così i cartografi dell’Impero Romano contrassegnavano le aree africane fuori dal controllo del “loro” ordine. Che i leoni ci fossero davvero o meno non era poi così importante, l’essenziale era evidenziare che in quelle zone le legioni romane non garantivano nulla. L’acronimo HSL viene poi utilizzato dai “conquistadores” per segnare sulle mappe nautiche gli approdi da evitare nei loro traffici coloniali. Naturalmente a loro agio nei territori ribelli gli Assalti Frontali hanno scelto questa sigla per il nuovo album, il primo dopo cinque anni e dopo la rottura con la BMG. Cinque anni, un secolo, anzi un millennio, lo separano dal precedente Bandit sia per i testi che per il clima. Militant A, il deus ex machina del gruppo, che il 14 e 15 maggio è in concerto a Roma, conferma: «Il disco è diverso perché diversa è l’aria che si respira oggi. Bandit è del 1999 e risente del clima autunnale di quel periodo tormentato in cui il capitalismo trionfante sembrava non avere limiti. Noi stessi, io per primo, ragionavamo come un nucleo di resistenza culturale di lunga durata. C’era un po’ il senso del ripiegamento sia nella musica che nei testi. HSL invece raccoglie l’esplodere di un grande movimento internazionale, dei milioni di persone che nel cuore dei paesi occidentali hanno iniziato a far scricchiolare il nuovo ordine unipolare, la sua folle politica guerrafondaia e a gridare che un altro mondo è possibile». Quanto ha influito in questa svolta la rottura con una major come la BMG? «Chi lo sa? L’unica cosa certa è che dopo la rottura abbiamo preso il materiale registrato e l’abbiamo buttato iniziando a lavorare su un progetto nuovo». Alla fine avete ritrovato un filo antico, visto che questo album sembra il più vicino, per atmosfere e immediatezza, all’ormai storico Batti il tuo tempo. «È vero. Abbiamo abbandonato i codici da tribù, è esplicito, diretto e ci sembra stia conquistando anche i figli di quelli che ci seguivano ai tempi del nostro primo album». È una bestemmia chiamarlo pop? «No, se per pop si intende la capacità di entrare in rapporto con il pubblico abbattendo senza tanti filtri». Un bell’aiuto arriva anche dal groove dei Brutopop che pompa potente su ogni pezzo... «Ci sono loro, ma c’è anche l’energia che ci trasmette la salutare mobilitazione di questi anni». È naturale per chi ha sempre cercato di battere il suo tempo, ma questo che tempo è? «È il tempo dell’indignazione, della rivolta, della mobilitazione per fermare la guerra, mandare a casa i guerrafondai e cambiare il sistema. Ogni giorno che passa la guerra è più vicina e bisogna fermarla». Pessimista? «No, tutt’altro. La seconda potenza mondiale, quella che si mobilita nelle piazze di tutto il mondo può vincere, qui come in Spagna e ovunque. Un anno fa sono diventato padre di una bellissima bambina, ti pare che io possa essere pessimista?».

13 maggio, 2020

13 maggio 1938 - Tony Renis, l’imitatore di Dean Martin

Il 13 maggio 1938 nasce a Milano Elio Cesari, destinato a diventare popolarissimo come cantante e compositore con il nome d’arte di Tony Renis. Negli anni Cinquanta si fa conoscere imitando Dean Martin in coppia con Adriano Celentano nei panni di Jerry Lewis. Il debutto ufficiale come cantante solista avviene alla Sei Giorni di Milano con Tenerezza. Nel 1961 esordisce anche al Festival di Sanremo con Pozzanghere, in coppia con Emilio Pericoli. Quest’ultimo è suo partner anche nella rassegna sanremese del 1962 in Quando quando quando, un brano che diventa un successo internazionale e nel 1963 in Uno per tutte, che vince il festival. Torna a Sanremo anche nel 1964 con I sorrisi di sera, in coppia con Frankie Avalon, nel 1968 con Il posto mio, insieme a Domenico Modugno e nel 1970 con Canzone blu, in coppia con Sergio Leonardi. Autore di brani di successo per altri interpreti, come Grande grande grande per Mina, dalla fine degli Sessanta vive a lavora soprattutto negli Stati Uniti. Tra i suoi successi si ricordano anche Uno per tutte e Non mi dire mai goodbye.


12 maggio, 2020

12 maggio 1940 - Xavier Chambon, una tromba parigina

Il 12 maggio 1940 nasce a Parigi il trombettista Xavier Chambon. Musicista di stile mainstream molto dotato soprattutto nel registro acuto inizia la carriera nel 1959 con il gruppo del batterista Maurice Martin nel quale militano anche Wani Hinder al clarinetto, Riccardo Galeazzi al trombone e Jean Pierre Mulot al contrabbasso. In seguito diventa uno dei protagonisti dell'attività jazzistica della capitale francese suonando con Bill Coleman, Stuff Smith, Albert Nicholas e Mezz Mezzrow Nel 1965 entra a far parte del gruppo del clarinettista Maxim Saury con il quale rimane per parecchio tempo. All'inizio degli anni Settanta cominicia a suonare prevalentemente con vari gruppi pop. Non dimentica però il suo primo amore e torna più volte sulle strade del jazz, spesso insieme al trombonista Michel Camicas, un altro ex componente dell'orchestra di Maxim Saury.

11 maggio, 2020

11 maggio 1938 – Il talento e il genio di Carla Bley

L’11 maggio 1938 nasce a Oakland, in California, la cantante, compositrice, tastierista e arrangiatrice Carla Bley, uno dei grandi talenti musicali femminili del Novecento. Il suo nome alla nascita è quello di Carla Borg. È suo padre, organista e maestro del coro in una chiesa di Oakland, che la spinge prestissimo a cantare e a imparare il pianoforte. Finite le scuole l’adolescente Carla lascia la famiglia e, dopo aver raggranellato i soldi necessari suonando nei locali e arrangiando brani per un cantante folk californiano, se ne va a New York, dove trova lavoro come venditrice di sigarette in un jazz club. Qui conosce Paul Bley, che la sposata nel 1957 e le regala il nome con il quale diventerà famosa. Nel 1959 inizia a scrivere brani per Paul Bley, Jimmy Giuffré, George Russel e Art Farmer ma la musica non le dà ancora il necessario per vivere e la ragazza si arrangia lavorando nei teatri come guardarobiera o come maschera. La svolta arriva nel 1964 quando entra a far parte del gruppo del batterista Charles Moffett insieme a Pharoah Sanders e Alan Shorter. Dopo aver lasciato Paul Bley, con il trombettista Michael Mantler divenuto suo compagno fonda la Jazz Composer's Orchestra Association, una struttura destinata a favorire la realizzazione dei progetti orchestrali. Quasi contemporaneamente fonda anche una propria casa discografica, la JCOA e nel 1965 forma i Jazz Realities, un quintetto di cui, oltre a Mantler, fa parte anche Steve Lacy. Nello stesso periodo suona anche con musicisti europei, tra cui il sassofonista Peter Brötzmann. Nel 1967 scrive la parte del vibrafonista Gary Burton nella suite “A Genuine Tong Funeral”, poi registrata dal quartetto di Burton con un'orchestra diretta dalla stessa Bley. Seguono altre composizioni e collaborazioni con un numero impressionante di artisti dei generi più svariati, dalla Liberation Music Orchestra di Charlie Haden alla clavicembalista Antoinette Vischer, dalla Jack Bruce Band, a John Cage, al sassofonista Gary Windo. Il suo stile pianistico è stato definito come “una sorta di fusione tra gli stili dell'ex marito Paul e di Cecil Taylor”, il canto attinge ai colori della popular music e delle nuove cantautrici americane. Nelle composizioni e negli arrangiamenti invece i suoi riferimenti appaiono più colti, da Kurt Weill a Gil Evans con qualche lezione solistica ispirata a Duke Ellington.

10 maggio, 2020

10 maggio 1963 – La prima volta degli Stones alla Decca

Il 10 maggio 1963 sei ragazzacci cresciuti nei club jazz e rhythm and blues delle periferie londinesi entrano negli Olympic Studios della Decca a Londra per registrare qualche brano. Non possono evidentemente saperlo ma con loro sta per entrare nella storia il lato "sporco" del beat, quello più mescolato con la musica nera, capace di spaventare i benpensanti perché «…eccita la violenza degli sfaccendati…» e si contrappone, almeno nell'immaginario collettivo, al pop pulito, rispettoso ed educato dei Beatles. A differenza di questi ultimi nessuno dei sei al momento di varcare la soglia dello studio di registrazione immagina che la musica possa diventare una fonte di sostentamento. Il loro ingresso negli asettici studi della Decca (una casa discografica che fino a quel momento ha costruito le sue fortune sulla musica classica) è frutto di una serie di coincidenze: l'insistenza di Andrew Loog Oldham, un ragazzo come loro autonominatosi manager del gruppo, la curiosità degli ambienti discografici verso le note che emergono dalle cantine e, soprattutto, la paura della stessa Decca di ripetere l'errore già fatto qualche mese prima con i Beatles, scartati perché "senza futuro". Qualche diffidenza è, in fondo, giustificata. La formazione che si presenta con l'aria assonnata e un po' stropicciata negli studi di registrazione il 10 maggio, infatti, ha alle spalle non più di dieci mesi di vita e una breve gavetta in una dozzina di locali di jazz e rhythm and blues della capitale britannica. L'anima del gruppo è Mick Jagger, uno studente che canta e suona l'armonica dotato di un precoce talento commerciale al punto da vendere gelati davanti alla scuola che frequenta. Al suo fianco ci sono l'aspirante architetto Brian Jones, polistrumentista nonché finanziatore degli impianti della band e figlio di un conosciuto, rispettato e autorevole ingegnere aeronautico, lo studente d'arte, manovale e chitarrista Keith Richards, il rappresentante di commercio e bassista Bill Wyman e il grafico Charlie Watts, batterista con un passato in vari gruppi blues e tanto scetticismo nei confronti dei giovani compagni. Il sesto uomo si chiama Ian Stewart, suona il piano «…come un nero…» ed è quello che meno ama apparire dal vivo. I sei varcano la soglia degli Olympic Studios dubbiosi su tutto: sui pezzi da scegliere, sull'utilità di produrre un disco e anche sul nome della band, che varia da Rollin' Stones a Rolling Stones a seconda dell'ispirazione del tipografo che stampa i manifesti. Non li aiuta in quel giorno neppure l'aria che si respira negli studi della Decca, abituati agli ovattati suoni della tradizione classica e poco disposti a comprendere l'esuberanza non solo musicale di quei sei mocciosi dall'aria stralunata. Jagger e compagni registrano due brani. Il primo si intitola Come on ed è un pezzo di Chuck Berry pressoché sconosciuto al grande pubblico e l'altro I want to be loved di Willie Dixon. Di quel giorno resterà nella memoria della band l'atmosfera gelida e ostile dell'ambiente in cui registrano tanto che Bill Wyman anni dopo confesserà: «Siamo rimasti in studio per tre ore e non ci piaceva per niente». Più per rispettare il contratto che per reale convinzione il disco viene pubblicato e in pochi giorni esaurisce le scorte. Resterà nelle zone alte della classifica di vendita per quasi una stagione. Nell'immagine pubblica Ian Stewart viene "tagliato" e la formazione si assesta stabilmente su cinque componenti. Con i Rolling Stones il beat cessa di essere rassicurante come un'eccentrica curiosità di costume e recupera le sue radici più selvagge e crude. Ridiventa rock e accompagna gli umori e i sapori di una Gran Bretagna ricca di fermenti culturali, musicali e politici in cui suoni neri del blues si mescolano alla voglia di protagonismo delle giovani generazioni. La musica si salda con le istanze di cambiamento sociale. Per molto tempo i Rolling Stones interpreteranno meglio e più di altri la rabbia e il senso di frustrazione di una generazione che pochi anni più tardi tenterà di dare la scalata al cielo. Tra i primi a capirne la forza e le potenzialità c'è una donna, la giornalista Norman Joplin che resta affascinata da questi ragazzi che «cantano e suonano in modo da sembrare un gruppo americano di colore più che un pugno di scatenati, eccitanti ragazzi bianchi». In quella session negli studi della Decca si spargono i primi segni di un movimento destinato a lasciare un segno profondo nella musica del Novecento. Lì nasce il gruppo che Tom Wolfe definirà “spauracchio della borghesia” perché capace di creare un legame istintivo con gli strati più emarginati della società con i «bassifondi della vita, un cono d’ombra che per anni è stato il regno degli outsider dell’arte e della fotografia, abitato da poveri ragazzi» che nella musica della band troveranno per molto tempo la scintilla necessaria a incendiare la loro rabbia.


09 maggio, 2020

9 maggio 1965 – L’Association for the Advancement of Creative Musicians

Il 9 maggio 1965 nasce l’A.A.C.M, Association for the Advancement of Creative Musicians, Associazione per la valorizzazione dei musicisti creativi, una struttura destinata a segnare fortemente l’evoluzione del jazz negli anni Sessanta e Settanta. L’associazione ha sede a Chicago e viene fondata dal pianista e compositore Muhal Richard Abrams, il primo presidente e il più importante e stimolante animatore, dal bassista Malachi Favors, da Jody Christian, Phil Cohran e Steve McCali. Con una struttura simile a quella delle nostre cooperative essa raggruppa alcuni tra i più importanti improvvisatori dell'area di Chicago e ha lo scopo esplicito di «…educare i giovani musicisti e creare una musica di un livello artistico elevato da presentare al grande pubblico in occasione di programmi destinati a valorizzare l'importanza della Musica Creativa; creare una atmosfera stimolante per favorire, nell'ambito di un lavoro comune, l'espressione collettiva di musicisti di talento; organizzare programmi d'ascolto per i musicisti più giovani; procurare lavoro ai musicisti che se lo meritano; partecipare finanziariamente a progetti d’aiuto; rivalutare l'immagine pubblica del musicista creativo; favorire lo stabilirsi di rapporti equi e rispettosi tra gli artisti creativi e i responsabili del commercio musicale (agenti, managers, promotori, fabbricanti di strumenti); rivalutare la tradizione culturale dei musicisti che, in passato, è stata ampiamente svalutata...”. Nella sua attività l'A.A.C.M. favorirà l'incontro e lo scambio di informazioni e collaborazioni tra i musicisti più avanzati e aperti dell'area di Chicago. In quell’ambito si formeranno gruppi come l’Afro-Arts Ensemble, l’Experimental Band, l’Artistic Heritage Ensemble e soprattutto il celeberrimo Art Ensemble of Chicago, il gruppo che forse meglio rappresenterà le ambizioni estetico-musicali dell’associazione.

08 maggio, 2020

8 maggio 1982 – Addio Gilles!

Arrivato nel 1978 alla Ferrari per fare da "secondo" a Carlos Reutemann, Gilles Villeneuve si fa rapidamente la fama di uno "sfasciamacchine". È un pilota all’antica, capace di dare tutto in corsa e di infiammare l’entusiasmo dei tifosi. Enzo Ferrari stravede per lui e lo paragona ai grandi dell’epoca eroica dell’automobilismo. Viso da ragazzino e una gran voglia d’arrivare, Gilles Villeneuve accetta pazientemente di essere il numero due in squadra, prima dietro a Reutemann, poi al sudafricano Jody Sheckter. In molti pensano che sia inadatto allo "stile Ferrari", ma gode della protezione del ‘patron’ Ferrari e quindi può farsi le ossa senza problemi. Pian Piano conquista la fiducia di tutti e, all’inizio degli anni Ottanta, è ormai considerato uno dei piloti più promettenti del panorama mondiale. Il suo tragico destino si compie, però, sabato 8 maggio 1982. Sono in corso le prove del Gran Premio del Belgio. Quel giorno è inquieto. Quindici giorni prima il suo compagno di squadra Didier Pironi gli ha "rubato" la vittoria del Gran Premio di Imola proprio sul traguardo e lui non gliel’ha perdonata. Ce l’ha con Pironi, ce l’ha con la Ferrari, ce l’ha con tutto il mondo. Quando l’ultima sessione delle prove ufficiali si sta ormai concludendo il suo compagno ha il miglior tempo per un’inezia: 1’16’’500 contro il suo 1’16’’620. Decide di tentare di batterlo. Si fa montare quattro nuovi pneumatici e ritorna in pista. Compie un giro in 1’17’’ poi si butta in un’altra tornata. Sono le 13,52, mancano pochi minuti alla fine delle prove. Arriva velocissimo in una curva che si prende in piena velocità, a duecentocinquanta chilometri l’ora. Davanti alla sua vettura c’è la March di Jochen Mass, più lenta. Cerca di passarla all’interno, convinto che il pilota tedesco l’abbia visto e gli agevoli la manovra. Non è così. La ruota anteriore sinistra della Ferrari sale sulla ruota posteriore destra della March e perde l’assetto. Dopo un volo di quasi duecento metri si schianta sull’asfalto. Ai soccorritori appare chiaro che non c’è più niente da fare. Poco tempo prima aveva detto: «Oggi in curva si va come sui rettilinei e tutto questo è semplicemente assurdo perché in questo modo non ci sono possibilità di sorpasso e l’abilità del pilota conta fino a un certo punto. La velocità ci vuole nei rettilinei, ma poi bisogna dare al pilota la possibilità di azionare freni e cambio per affrontare nella maniera migliore le curve. Altrimenti non c’è più spettacolo e anche il pilota si prende dei rischi in più che non avrebbe alcun senso correre».

07 maggio, 2020

7 maggio 1905 - Bumble Bee Slim, l’alfiere del blues urbano

Il 7 maggio 1905 nasce in Georgia Amos Easton destinato a lasciare un segno importante nelle storia del blues con il nome d’arte di Bumble Bee Slim. Tipico esponente del blues urbano che si sviluppa negli Stati Uniti verso la fine degli anni Venti, attraversa un momento di grande notorietà verso la metà degli anni Trenta quando registra moltissimi dischi per la Vocalion, la Bluebird e la Decca. I suoi brani hanno testi poetici ricchi di un sottile erotismo, spesso tormentato e sofferto nel rispetto della tradizione dell'urban blues. Allievo di Leroy Carr, che incontra per la prima volta nel 1928, quando dalla natia Georgia si trasferisce a Indianapolis, negli anni Trenta vagabonda tra il Tennessee e l'Ohio prima di stabilirsi a Chicago, dove si consacra tra i principali esponenti del blues urbano. In quel periodo lavora anche con Tampa Red e Big Bill Broonzy, prima di riprendere a vagabondare per gli States. Negli anni Cinquanta entra in una fase di declino che coincide con un appannamento generale dell’interesse degli americani verso il blues. Negli anni Sessanta, sull’onda di una rinnovata passione internazionale per il blues, torna in sala di registrazione.