Il 9 giugno 1991 Keith Wozencroft, un rappresentante di dischi della EMI, è particolarmente loquace e allegro. Al commesso del negozio di Oxford che gliene chiede la ragione risponde: «Sto per cambiare settore, mi mettono a caccia di nuovi talenti». Il commesso risponde: «Davvero? Pensa che fortuna, io suono in un gruppo. Ci chiamiamo On A Freeday e raggranelliamo qualche soldo intrattenendo la gente nei locali della zona. Io sono il bassista». Poi gli consegna un demo. Wozencroft ascolta le registrazioni, più che dai suoni dei ragazzi rimane colpito da quella che chiama “la loro intelligenza musicale” e si dà da fare. Trova nuovi ingaggi e cerca di far conoscere la band nel giro dei locali e degli addetti ai lavori. In breve tempo il gruppo viene scritturato dalla EMI. Il commesso di Oxford che fa il bassista per hobby si chiama Colin Greenwood. Un anno dopo il la band pubblica il suo primo disco. È un EP che si intitola Drill e, cedendo alle insistenze di manager e discografici i ragazzi hanno accettato di cambiare nome. Gli On A Freeday vengono ribattezzati Radiohead prendendo in prestito titolo di una canzone dei Talking Heads incisa nell'album True Stories. Inizia così la storia di una delle rockband più geniali dell’ultimo decennio del Novecento.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
07 giugno, 2020
06 giugno, 2020
6 giugno 2003 – I Sud Sound System contro la guerra infinita
Il 6 giugno 2003 arriva nei negozi l'album Lontano dei Sud Sound System, uno dei gruppi storici della dancehall italiana. I ragazzi sono divenuti popolari con brani che raccontano come «È l'ignoranza che crea la violenza… è l'ignoranza che crea l'intolleranza» o anche «te dicenu: "o con nui o contru de nui"/per primu c'è lu statu ca te ole omologatu cu tutte le leggi soi» (ti dicono "o con noi o contro di noi"/per primo devi essere omologato allo stato e alle sue leggi). Salentini e impegnati da sempre a rompere quel “recinto di indifferenza” che circonda gli strati marginali della società i Sud Sound System non hanno armi che le regole auree dell'hip hop: sparare le parole come fossero proiettili. Dopo aver portato con successo nei teatri d'Italia "Acido Fenico - Ballata per Mimmo Carunchio camorrista" sono tornati in sala di registrazione per questo album che ha il peso delle opere destinate a lasciare un segno. Tredici brani curati in proprio con una lunga serie di collaborazioni e musicalmente sospesi in un luogo ideale tra la Giamaica e il Salento. Fin dal primo ascolto suona diverso dal passato, meno "colloso" e più solido. Un svolta? «Non direi - risponde Nando Popu - piuttosto c'è la lettura di una realtà cruda, difficile e drammatica. L'abbiamo realizzato mentre il mondo stava entrando in una nuova fase della guerra infinita. Ci sono i nostri umori di quel periodo, c'è l'Iraq, la Palestina, ci sono i popoli aggrediti del mondo…». In un brano parlate di "N'aura Crociata" (Un'altra crociata)… «Si. Noi siamo del Salento, nelle nostre vene scorre il sangue dell'oriente e dell'occidente. Noi siamo il frutto fisico di quell'equilibrio. E visto che siamo anche oriente, la guerra all'Iraq, ai popoli di quell'area è una guerra contro una parte di noi stessi. Non parlo solo in senso figurato. Il nostro stesso paese è, insieme, oriente e occidente soltanto che ormai la storia, la cultura, le radici, vengono rimosse. Le nuove generazioni sono figlie di una televisione che ha distrutto con violenza la nostra stessa storia. Quando l'informazione sostituisce la cultura c'è qualcosa che non va.». Anche il recupero del dialetto fa parte del vostro progetto? «Beh, il dialetto o meglio la lingua salentina, è stata all'inizio una scelta quasi obbligata, perché lo usavamo cantando nelle feste tra amici. Poi è diventata una scelta vera. Ma il pubblico ci capisce da Monaco a Palermo e anche in Giamaica perché la musica è un linguaggio universale». Il brano che dà il titolo all'album riprende il tema della saldatura tra Oriente e Occidente ed è in italiano perché «in dialetto salentino non si può coniugare un brano sul futuro».
8 giugno 1990 - Le notti magiche del mondiale di calcio
Accompagnati dalle note di Un’estate italiana, il brano scelto come “canzone ufficiale” dell’evento e interpretato da Edoardo Bennato e Gianna Nannini, l’8 giugno 1990 iniziano in Italia i Campionati Mondiali di calcio. Centododici sono le squadre che hanno partecipato alle qualificazioni e ventiquattro quelle che danno vita alla fase finale negli stadi delle maggiori città italiane ristrutturati per l’occasione. Proprio sull’entità degli investimenti strutturali e sui relativi sperperi si sono scatenate nei mesi precedenti violente polemiche destinate a durare per anni. La nazionale italiana esordisce a Roma battendo l’Austria con un gol di Totò Schillaci, che diventerà il capocannoniere del torneo. Gli azzurri vincono anche le successive partite contro Stati Uniti (1 a 0) e Cecoslovacchia (2 a 0). Quest’ultimo incontro vede l’esordio mondiale di Roberto Baggio. Negli ottavi di finale l’Italia supera l’Uruguay con un gol di Schillaci e uno di Serena. Sempre Schillaci è l’autore della rete che elimina l’Eire nei quarti e apre le porte alla semifinale con l’Argentina. Contro i campioni in carica alla rete di Schillaci risponde un colpo da maestro di Maradona che, dopo aver attirato su di sé tre uomini, rifinisce per la deviazione in gol di Caniggia. Terminata in parità anche dopo i tempi supplementari, la partita si risolve ai calci di rigore, che sanciscono l’accesso dell’Argentina alla finale. Il 7 luglio l’Italia vince la finale per il terzo posto a Napoli contro l’Inghilterra con il punteggio di 2 a 1, mentre la Germania Ovest vince il titolo mondiale allo Stadio Olimpico battendo gli argentini con un contestatissimo rigore realizzato da Brehme.
05 giugno, 2020
7 giugno 1987 – Muore Bruno Pallesi
Il 7 giugno 1987 il cantante Bruno Pallesi muore a Milano, la città che gli aveva dato i natali il 1° gennaio 1921. Dopo essersi fatto le ossa nelle balere milanesi e nelle feste studentesche nel 1939 ottiene il suo primo successo con Yo te quiero. Il suo primo estimatore è Natalino Otto che, nel 1944, lo aiuta a entrare nell'orchestra del maestro Carlo Zeme. In breve tempo diventa popolarissimo alla radio con brani come Da te era bello restar, Pino solitario, Amore amore amor, Chattanooga e Serenata a Vallechiara. A partire dalla seconda metà degli anni Quaranta affianca all’attività di cantante anche quella di paroliere. Nel 1955 partecipa al Festival di Sanremo presentando Cantilena del trainante, Che fai tu luna in ciel e Sentiero tutte in coppia con Jula De Palma, e Canto nella valle, in duo con Nuccia Bongiovanni e replicata da Natalino Otto, che si piazza al terzo posto. Ormai più impegnato come autore che come cantante, nel 1960 partecipa sia al Festival di Milano con Non voglio perderti che alla Sei Giorni della Canzone con Voglio. Abbandona poi le scene e lavora soltanto come autore. Nel 1975 gli viene affidata anche l’organizzazione del Festival di Sanremo.
5 giugno 1954 - Peter Erskine, l’allievo di Stan Kenton
Il 5 giugno 1954 nasce a Somers Point, in New Jersey, il batterista Peter Erskine. Il suo primo incontro con la musica avviene da bambino quando il padre, un affermato psichiatra che da giovane aveva suonato il contrabbasso, lo iscrive a uno dei corsi estivi diretti da Stan Kenton. Peter continua per diverso tempo a frequentarli studiando con Alan Dawson e Dee Barton. Negli anni successivi entra a far parte dell'orchestra di Stan Kenton, che affianca anche come insegnante nei seminari. Quando l’esperienza al fianco di Kenton arriva alla fine per qualche tempo si offre come batterista free lance suonando tra gli altri con Joe Farrell e Freddie Hubbard e a partire dal 1975 entra a far parte della big band di Maynard Ferguson, con la quale registra anche una fortunatissima versione di Gonna Fly Now, il tema del film “Rocky”. Chiusa l’esperienza con Ferguson nel 1978 diventa il batterista dei Weather Report, il più famoso gruppo di jazz-rock. Il suo affiatamento con il bassista Jaco Pastorius è ritenuto l’elemento fondamentale del successo della band. Successivamente suona anche con Mike Brecker, Mike Mainieri, Don Grolnick e Eddie Gomez negli Steps Ahead.
04 giugno, 2020
4 giugno 1955 – Carosone inaugura la Bussola
Il 4 giugno 1955 a Focette, in Versilia, si inaugura la Bussola. Il compito di fare da intrattenitori è affidato a Renato Carosone e alla sua mitica orchestra. Il locale, di proprietà di Sergio Bernardini, è destinato a diventare uno dei templi della musica leggera italiana. Carosone, che sta vivendo in quel periodo uno dei migliori momenti della sua carriera, attira migliaia di ammiratori per un’inaugurazione che si trasforma in uno dei più importanti avvenimenti mondani dell’anno. Ci resta per l’intera stagione estiva con un compenso, tutt’altro che disprezzabile per l’epoca, di 160.000 lire a sera. Il cantante napoletano resterà molto legato al locale di Bernardini tanto da sceglierlo per il suo ritorno nel 1975, quindici anni dopo il suo addio alle scene. La Bussola diventa uno dei locali alla moda, punto d’incontro per i vecchi e i nuovi ricchi dell’Italia del boom. Anche i componenti dello staff del locale diventano famosi come le star della musica, soprattutto il direttore di sala Aldo Bellandi, lo chef Carletto Pirovano e l’amministratore Antonio Favilla. Nell’arco di un decennio sul palco della Bussola passano quasi tutti i grandi protagonisti della musica leggera italiana e internazionale, da Louis Armstrong a Neil Sedaka, dai Platters ad Adriano Celentano, da Peppino Di Capri a Don Marino Barreto jr., a Milva, Ella Fitzgerald, Domenico Modugno, Gilbert Bécaud e tantissimi altri, compresa Mina che proprio qui muove i suoi primi passi verso la gloria.
03 giugno, 2020
3 giugno 1935 - Ted Curson, la tromba del migliore Mingus
Il 3 giugno 1935 a Philadelphia, in Pennsylvania, nasce Theodore Curson, destinato a lasciare un’impronta significativa come trombettista con il nome di Ted Curson. I primi passi in musica li muove sotto la guida di Jimmy Heath. In quel periodo incontra anche Miles Davis che dopo averlo ascoltato lo incoraggia a proseguire. A vent’anni se ne va a New York dove si fa conoscere nell’ambiente del jazz e suona con personaggi di spicco come Mal Waldron, Red Garland, Philly Joe Jones, Cecil Taylor. Nel 1959 Charlie Mingus lo vuole con sé in quella che i critici considerano forse la miglior formazione raccolta dal grande bassista le cui idee vengono assecondate e sviluppate dalle geniali intuizioni di Eric Dolphy. Più tardi entra a far parte del gruppo di Max Roach e poi di quello di Bill Barron e solo dopo molti tentativi riesce finalmente a riunire una formazione sotto suo nome. Negli anni Sessanta suona con quasi tutti i grandi protagonisti del jazz internazionale, da Chris Woods ad Andrew Hill, da Lee Konitz a Kenny Barron, da Nick Brignola ad Arne Dommerus a molti altri. Scrive anche colonne sonore per il cinema e la TV e registra vari dischi con Cecil Taylor, Charlie Mingus, Kenny Barron, Archie Shepp, oltre che con formazioni sotto suo nome. Di chiara ispirazione hard bop appare come un curioso e instancabile ricercatore nel rispetto della tradizione jazzistica segnalandosi come uno dei più interessanti trombettisti della seconda metà del Novecento. Muore il 4 novembre 2012.
02 giugno, 2020
2 giugno 1937 - Pierre Favre, uno svizzero alle percussioni
Il 2 giugno 1937 nasce a Le Locle, in Svizzera, il batterista e percussionista Pierre Favre. A quindici anni inizia a studiare la batteria e soltanto due anni dopo è già un professionista. Dopo aver lavorato in varie orchestre europee, nel 1956 entra come percussionista nell'Orchestra radiofonica di Basilea. Uscitone, nel 1960 si trasferisce a Parigi come free-lance e l’anno dopo suona a Roma con l'American Jazz Ensemble di Bill Smith e John Eaton. Nel 1962 si unisce alla big band di Max Greger. Successivamente suona con grandi jazzisti come George Gruntz, Barney Wilen, Bud Powell, Chet Baker, Lou Bennett, Benny Bailey e tanti altri. Contemporaneamente all’attività orchestrale inizia a sviluppare una propria nuova concezione percussiva nella linea degli improvvisatori europei di quel periodo collaborando con personaggi come Manfred Schoof, Michel Portal e altri. Dalla fine degli anni Sessanta registra anche in proprio pur proseguendo la propria collaborazione con musicisti come John Tchicai, Ole Thilo, Leon Francioli con cui forma anche un duo, Jean-Charles Capon, Mal Waldron, Eje Thetin, Terumasha Hino, Masahiko Sato e Giorgio Azzolini. Negli anni Settanta comincia a esibirsi in concerti per sole percussioni, registrando anche vari album, uno dei quali in duo con Andrea Centazzo. Insieme a Chick Corea, Ornette Coleman, Gary Burton, Eubie Blake e altri, partecipa al "Solo Now Night" al Berliner Jazz Tage. In quel periodo i suoi interessi musicali iniziano a dirigersi sempre più verso le musiche etniche, in particolare Africa, India e Brasile, oltre che verso la musica classica europea. Favre inizia anche a studiare pianoforte e composizione componendo musica e trasformando il suo set di percussioni in un unico e indipendente strumento dotato di un proprio universo espressivo. Nel 1994 crea i Singing Drums con Paul Motian, Nana Vasconcelos e Fredy Studer.
01 giugno, 2020
1° giugno 2001 – Jean Ferrat ricorda Ferré a San Benedetto del Tronto
Venerdì 1 giugno 2001 inizia il Festival Ferré di San Benedetto del Tronto. Il compito di aprire la kermesse è affidato al poeta e musicista Jean Ferrat, un tipo schivo che non può essere considerato un abituale frequentatore dei palcoscenici italiani. La serata che inaugura la settima edizione della manifestazione dedicata allo scomparso Leo Ferré è ispirata all'Âme des poetes. Chi meglio di lui, uno dei "mostri sacri" della canzone francese che ha messo in musica le liriche di Aragon, Apollinaire e tanti altri, può rappresentare lo stretto legame che esiste tra la canzone d'autore e la poesia? La prima serata della manifestazione, articolata in due giorni intensi di iniziative, si svolge in quella stessa Sala Consigliare del Palazzo Comunale di San Benedetto del Tronto dove la manifestazione è iniziata. Era il 1994 e gli organizzatori, celebrando il Memorial Ferré a un anno dalla morte del grande poeta e cantautore francese, giurarono di ritrovarsi ogni anno. Nell'anno 2001 c’è anche Jean Ferrat. Lo affiancano sei artisti italiani e francesi, ciascuno dei quali contribuisce ad aggiungere una piccola perla al programma della serata. "Parigi e le sue canzoni" è, invece, il filo conduttore del secondo appuntamento del Festival con un'altra ospite di riguardo. Sabato 2 giugno al Teatro Calabresi è infatti, di scena Isabelle Aubret, che Jean Ferrat ha soprannominato "Isabelle bleu et Isabelle blanche" per sottolineare le due facce del suo temperamento artistico. La cantante presenta al pubblico di San Benedetto il recital che per sei settimane ha infiammato i cuori dei frequentatori del Bobino di Parigi. Il già ricco programma della serata viene poi ulteriormente impreziosito dalla presenza dei Têtes de Bois che propongono alcuni brani di Ferré nelle versioni e negli arrangiamenti che li hanno resi famosi. A otto anni dalla sua morte Leo Ferré, l'anarchico poeta e cantautore torna a rivivere in una manifestazione che va al di là del ricordo di chi lo ha amato. In molti sottolineano che gli sarebbe piaciuta l'impostazione data dagli organizzatori al Festival di San Benedetto del Tronto. È decisamente in sintonia con il suo spirito. Non ci sono inutili celebrazioni, ma vita, poesia e canzoni. Lo spettacolo si mescola con le citazioni, allo stesso modo in cui la musica si mescola abilmente con la poesia. L'impianto organizzativo, le stesse manifestazioni sono decisamente prive della spocchiosa supponenza con la quale spesso si tenta di manipolare gli artisti scomparsi. Attraverso la presenza di protagonisti della canzone d'autore francese e dei molti che si sono innamorati del suo lavoro, Leo Ferré rivive così ogni anno nella musica e nella poesia che sono più forti e più duraturi del semplice e rituale ricordo.
31 maggio, 2020
31 maggio 1961 – Corey Hart, la promessa non mantenuta del rock canadese
Il 31 maggio 1961, nasce a Montreal il cantante Corey Hart, considerato un po’ l’eterna promessa del rock canadese. Dopo aver passato l'infanzia e l'adolescenza tra Canada, Spagna e Messico al seguito degli spostamenti per lavoro del padre, si fa notare per le sue qualità musicali e sceniche e a diciotto anni viene scelto per rappresentare il Canada, con Dan Hill, al Festival Mondiale della Canzone di Tokyo. La sua esibizione colpisce una vecchia volpe del music business come Ritchie Cannata che lo porta con sé a New York. Qui il ragazzo registra nel 1983 il suo primo album, First offence, con la collaborazione di molti musicisti di spicco, compreso Eric Clapton. L’album esce nel 1984 e ottiene un notevole successo in Canada mentre il singolo estratto Sunglasses at night scala le classifiche statunitensi regalandogli una popolarità internazionale. Nel 1985 conferma le sue potenzialità con l’album Boy in the box e il singolo Never surrender. Nonostante le premesse Corey non riesce a ripetersi a questi livelli con i lavori successivi . Dopo la modesta accoglienza riservata dal pubblico all’album Jade del 1998 si ritira alle Bahamas dove vive ancora oggi con sua moglie, la cantautrice canadese francofona Julie Masse e i quattro figli India, Dante, River e Rain. Negli anni ha scritto vari brani di successo per sua moglie e altri artisti, compresa la sua amica Celine Dion.
30 maggio, 2020
30 maggio 1907 - Fernando Arbello, il trombone portoricano
Il 30 maggio 1907 nasce a Ponce, in Portorico, il trombonista Fernando Abello. Avvicinatosi alla musica fin da bambino a dodici anni suona il trombone nella banda della scuola e a quindici fa già parte dell’orchestra sinfonica della sua città natale. Emigrato a New York nel 1926, scopre il jazz di cui assimila rapidamente il linguaggio e in breve tempo riesce a entrare nel giro delle grandi orchestre. Tra la fine degli anni Venti e la prima metà dei Trenta, infatti, suona in rapida successione con tutte o quasi le migliori orchestre del momento, da quella di Wilbur de Paris a June Clark, da Claude Hopkins a Bingie Madison, da Chick Webb a Fletcher Henderson e Lucky Millinder. Saltuariamente suona anche con i gruppi di Fats Waller, Edgar Hayes, Marty Marsala, Zutty Singleton e Benny Carter. Dal 1942 al 1946 è nella formazione di Jimmie Lunceford e nel corso degli anni Cinquanta suona prevalentemente in proprio. Nel 1960 si unisce alla band di Machito per ritornare, alla fine del decennio, nella natìa Portorico. Tra i suoi interventi solistici sono rimasti leggendari quelli in I May Be Wrong con l’orchestra di Chick Webb e in Big Chief De Sota e Christopher Columbus con quella di Fletcher Henderson.
29 maggio, 2020
29 maggio 1922 - Ivan Giachetti, una voce da crooner
Il 29 maggio 1922 nasce a Roma il cantante Ivan Giachetti. Nel 1941, a diciannove anni, superata un'audizione dell'EIAR, decide di lasciare gli studi universitari per dedicarsi a tempo pieno alla canzone. Per un paio d'anni canta alla radio, recita nella compagnia di rivista di Radio Torino e in quella di Radio Roma e fino al 1943 canta con quasi tutte le orchestre dell’organico EIAR, da quella di Cinico Angelini a quella di Carlo Zeme. Dopo l’8 settembre 1943 fugge nel meridione d’Italia e dopo l’arrivo degli alleati colpisce l’immaginazione delle orchestre statunitensi con la sua voce calda da crooner. In quel periodo si esibisce con varie band alleate, oltre che con il duo pianistico Galzio-Graziosi. Nel dopoguerra lascia poi le scene e si ritira a vita privata. Tra le sue più famose interpretazioni sono da ricordare Ohi Marì, Ascension (cantata in duo con Lina Termini), Maria Luisa, Ciribiribin, Cielito lindo (con Silvana Fioresi), Tornerai, La canzone dei sommergibili, La piccinina e Passa la serenata.
28 maggio, 2020
28 maggio 2004 - Modstock II, quarant’anni di modernismo
Il 28 maggio 2004 inizia il Modstock II, la manifestazione con la quale il Movimento Mod festeggia i quarant’anni dalla sua nascita a Streatham, un quartiere di Londra, la città dove tutto è cominciato. I Mods tornano così sul luogo del delitto dopo che il primo Modstock per i trent’anni di vita del movimento si era svolto a Saarbrucken, in Germania, rompendo clamorosamente con la culla britannica. La manifestazione, che dura tre giorni, prevede, oltre all’esibizione di una serie di band “storiche” del periodo di grande esplosione mod, l’alternarsi di un nutrito numero di gruppi provenienti da tutto il mondo. Tra mostre, rassegne cinematografiche, concerti e performance di Dj rigorosamente in tema la notte diventa solo un’espressione gergale per definire alcune ore della giornata. La prima serata vede, tra gli altri, l’esibizione dei Pretty Things, che si esibiscono accompagnati da filmati pop art che ruotano sul palco. Il programma dei concerti di sabato vede il popolo modernista scatenarsi con le musiche dei Creation mentre la chiusura domenicale è riservata a una furibonda performance degli Action. Tra gli appuntamenti di maggior impatto spettacolare c’è anche un corteo in scooter per le vie di Londra.
26 maggio, 2020
26 maggio 1970 – Claudio Villa a "Speciale per voi": Patetico? Ma io picchio…
Il 26 maggio 1970 tutta Italia ha modo di assistere, sugli schermi televisivi, a un incontro-scontro tra Claudio Villa e i giovani che lo contestano. L’ideatore di questa contesa destinata a entrare nella storia del costume è Renzo Arbore che chiama il cantante a partecipare come ospite alla trasmissione televisiva “Speciale per voi”. Villa appare in gran forma e determinato a sostenere le sue ragioni. Attaccato ferocemente da un gruppo che lo bersaglia di strali velenosi sostenendo che il suo genere è finito, replica: «Qui tutti protestano, qui tutti vogliono sentire cose nuove e socialmente impegnate, almeno dicono. Poi però quando canto Marina cascano tutti a terra commossi». Sornione, Arbore guida con mano ferma il dibattito, ma non riesce a contenere l’esuberanza dei giovani e a trattenere l’irruenza di Villa. La discussione si surriscalda quando un giovane dice «Sei patetico» al cantante che, non accettando di subire passivamente, replica a suo modo: «Patetico a me? Ma io picchio, io ve faccio paura...». I giovani si dividono. C’è chi apprezza quello che il cantante fa, pur non sentendolo così vicino alla sua sensibilità, e chi apertamente gli manifesta simpatia. Alla fine della trasmissione Claudio, visibilmente soddisfatto, così conclude: «Ci sono i giovani, i meno giovani e i sempre giovani. Io sono uno di quelli».
25 maggio, 2020
25 maggio 1965 – “Un amore”, un libro da Oscar
«Circa esito pubblicazione in collana Oscar suo ultimo romanzo altissimo grado diffusione ammontante a 200 mila copie». Così il 25 maggio 1965 Arnoldo Mondadori annuncia con malcelata soddisfazione e orgoglio con un telegramma a Dino Buzzati lo straordinario successo del suo romanzo “Un amore”, il quarto titolo dei neonati Oscar. La cifra, incredibile per l’epoca, non è che un primo resoconto parziale delle vendite che toccheranno le 400 mila copie. Sono tirature davvero impressionanti e mai toccate prima d’allora, soprattutto da una storia che fa storcere il naso all’Italia conservatrice, codina e preoccupata per la degenerazione dei costumi. Il romanzo di Buzzati parla, infatti, dell’amore appassionato di un tranquillo borghese per una giovane squillo. I risultati commerciali eccellenti danno il segno di un profondo cambiamento nelle abitudini degli italiani. Il libro, fino a quel momento considerato o un contenitore di nozioni scolastiche o un lusso destinato ad alimentare la cultura dei ceti più abbienti, diventa nei primi anni Sessanta una delle abitudini quotidiane per migliaia di italiani. Gli Oscar, pratici e comodi da portare in tasca o nella borsetta, diventano i compagni delle trasferte in treno dei pendolari, delle pause nei giardini e anche delle scampagnate domenicali. Quando si è finito di leggere li si presta agli amici in una sorta di circolo virtuoso che si alimenta costantemente.
24 maggio, 2020
24 maggio 1941 – Il mistero della vita e della morte di Berthe Sylva.
Il 24 maggio 1941 muore improvvisamente a Marsiglia la cantante Berthe Sylva, una delle protagoniste di primo piano della canzone francese degli anni Trenta. Ancora oggi, a decenni di distanza dalla sua scomparsa, la sua vita e, soprattutto, la sua morte sono fonte costante di supposizioni, ipotesi, illazioni in una mescola in cui diventa arduo distinguere tra fantasia morbosa e verità. Di questa situazione la cantante è, insieme, vittima e complice. È vittima perchè molto spesso le vicende vere o inventate della sua vita finiscono per oscurarne le notevoli qualità artistiche ma è anche complice perchè gran parte delle ricostruzioni scandalistiche nasce da sue misteriose allusioni a episodi drammatici, avventurosi ed esotici svoltisi negli anni che precedono il suo successo visto che Berthe Sylva è divenuta popolare soltanto dopo aver compiuto i quarant’anni. Le leggende sul suo personaggio nascono anche dal fatto che la sua stella ha brillato così intensamente da consumarsi in uno spazio temporale brevissimo. Una decina d’anni, infatti, separano il primo approdo al successo dalla scomparsa della cantante. In mezzo c’è la straordinaria avventura di un’artista che ha saputo conquistare il cuore di milioni di francesi grazie alle sue qualità vocali, e alla capacità quasi istintiva di adattarsi e utilizzare al meglio le innovazioni tecnologiche dell’epoca, dall’introduzione del microfono alle tecniche di registrazione. Il mistero di Berthe Sylva comincia dalla ricostruzione storica della sua nascita che secondo alcuni sarebbe avvenuta a Saint Brieuc nel 1886 e secondo altri a Lambézellec, un comune che oggi fa parte del territorio di Brest, il 7 febbraio 1885. Sua madre si chiama Anne Poher e suo padre Joseph Faquet. Quest’ultimo è un marinaio e, secondo la leggenda, sarebbe stato lontano da casa il giorno in cui sua figlia vedeva la luce. La piccola, registrata all’anagrafe con il nome di Berthe Francine Ernestine Faquet, cresce nelle strade del suo borgo natale. Le condizioni della famiglia non sono tali da consentire grandi illusioni sul futuro e la bambina è costretta ben presto ad abbandonare i giochi e le compagnie della sua età per dedicarsi al lavoro. Si racconta che mentre le sue coetanee sono ancora impegnate ad accudire le bambole, lei passi gran parte del suo tempo a fare commissioni per le signore che affidano i loro lavori di casa alla madre. Pian piano la bimbetta impara anche a spolverare, rassettare, lavare, insomma riesce a cavarsela in tutti i “mestieri di casa” che fanno della madre una delle più apprezzate “bonnes” (domestiche) del borgo dove vive. La piccola Berthe impara talmente bene che viene assunta a tempo pieno come “bonne” quando non ha ancora compiuto i quattordici anni. Siccome la famiglia che richiede i suoi servigi abita nella cittadina di Saumur, la ragazza lascia paese natale e genitori per andarsene a vivere da sola presso i suoi nuovi padroni. Di questo periodo, pettegolezzi a parte, non si sa con certezza quasi niente. L’unico elemento di verità è che Berthe negli anni seguenti resta incinta e dà alla luce un bambino di cui si disfa con grande rapidità. Il piccolo, registrato all’anagrafe con il nome di Henri, viene praticamente abbandonato e affidato alla famiglia d’origine di Berthe in quel di Lambézellec. Sempre secondo la leggenda la madre non avrebbe mai più avuto contatti con lui, salvo tre incontri quasi casuali e senza seguito ed Henri, divenuto adulto, abbia saputo della morte della madre assolutamente per caso e molto tempo dopo. Henri non è l’unica creatura messa al mondo da Berthe Sylva. Dopo di lui nasce anche Emilienne, una figlia ugualmente inaspettata e prontamente abbandonata a un gruppo di parenti disponibili a occuparsene. Quanto ci sia di vero e quanto di leggenda nella storia degli abbandoni nessuno può dirlo con certezza anche perchè, come raccontano i biografi e i cronisti dell’epoca quando si chiedevano a Berthe Sylva spiegazioni o informazioni su quel periodo della sua vita la risposta era sempre la stessa: «Lascia perdere, prendi un bicchiere e bevi con me!» Nonostante la difficoltà di discernere tra le storie e le leggende che si raccontano su Berthe Sylva, un dato sembra certo. Il suo debutto nel mondo della spettacolo avviene intorno al 1910, quando si è da poco liberata di Henri. Anche le testimonianze di questo periodo però sono contraddittorie e scontano un eccesso di illazioni e chiacchiere spesso messe in giro dalla stessa cantante negli anni seguenti. Si racconta di una serie di tournée che l’avrebbero portata a esibirsi sui palcoscenici di mezzo mondo, dall’America del Sud alla Russia, dalla Romania all’Egitto. A riprova che non sono tutte esagerazioni o ricostruzioni fantasiose c’è una foto realizzata negli anni della Prima Guerra Mondiale nella quale è raffigurata al fianco della celebre chanteuse Eugénie Buffet e dello chansonnier cieco René de Buxeuil. Proprio in quegli anni si fa conoscere e apprezzare per le sue doti interpretative dal taglio fortemente drammatico con canzoni come Mon gosse, Je n’ai qu’un maman o Ne quittez jamais votre enfant (Non abbandonate il vostro bambino), una sorta di scherzo del destino per lei, che s’è liberata così rapidamente dei suoi figli. Il tempo passa e la sua carriera appare simile a quella di tante cantanti da cabaret e da bistrot, apprezzate e applaudite dagli abitatori della notte ma pressoché sconosciute al grande pubblico. La svolta, inaspettata, arriva nel 1928 quando Berthe ha già superato la boa dei quarant’anni e si sta esibendo, con il solito buon successo, al “Caveau de la Republique” di Parigi. L’artefice delle sue fortune è il fisarmonicista e compositore Léon Raiter. L’ascolta cantare nel locale, ne resta impressionato e le chiede di esibirsi ai microfoni di Radio Tour Eiffel in uno spazio musicale da lui condotto e prodotto da un altro fisarmonicista che risponde al nome di Maurice Privas. La cantante, un po’ sorpresa, accetta e nel suo debutto radiofonico interpreta Les roses blanches, una canzone scritta dallo stesso Léon Raiter su un testo di Charles Louis Pothier. Il risultato è inaspettato e quasi incredibile. L’emittente riceve migliaia di lettere inviate da ascoltatori entusiasti che chiedono di poter riascoltare la voce di Berthe. La forza di penetrazione della radio ha trasformato la cantante del “Caveau de la Republique” in una star a più di quarant’anni. Dopo Les roses blanches Berthe Sylva lancia altre due canzoni nate dalla vena malinconica di Léon Raiter, On n’a pas tous les jours vingt ans e Grisante folie, entrambe destinate al successo. Nel 1929 registra per la Odéon il primo disco di una serie lunghissima. Si calcola che in tutta la sua carriera la cantante abbia registrato circa quattrocentocinquanta brani. Per tutti gli anni Trenta la sua popolarità tocca vertici altissimi e non mancano episodi di vera e propria follia da parte dei suoi ammiratori. Nel 1935 i fans marsigliesi in preda al furore parossistico dopo una sua esibizione distruggono le poltroncine dell’Alcazar e tentano di sfondare la porta del suo camerino per poterla toccare. Il successo non ne cambia però lo stile di vita, disordinato e sempre più spesso condizionato dall’amicizia con l’alcol . I soldi finiscono con stessa rapidità con la quale sono stati guadagnati. A volte molto più velocemente. Quando i nazisti occupano Parigi lei si rifugia a Marsiglia dove nel 1940 il suo nome fa bella mostra di se sul cartellone dell’Alcazar per oltre quindici giorni di repliche. Proprio in quella stessa città l’anno dopo muore. Succede all’improvviso il 24 maggio 1941. Non son passati che pochi mesi dalla sua ultima esibizione e qualche anno dai grandi trionfi eppure Berthe Sylva muore povera e praticamente sola. Con la fine dei soldi sono scomparsi quasi tutti gli amici. Ad accompagnarla nel suo ultimo viaggio verso il cimitero Saint Pierre di Marsiglia ci sono soltanto cinque persone due delle quali sono lo chansonnier Darcelys, suo fedele amico da sempre, e l’impresario Hervais, l’ultimo amore della sua vita.
23 maggio, 2020
23 maggio 1974 – Chiude “Il Rischiatutto”
Il 23 maggio 1974 finisce “Il Rischiatutto”. «Fiato alle trombe, Turchetti!» la frase che Mike Bongiorno rivolge al regista Piero Turchetti per dare inizio al programma è il tormentone principale di questo programma entrato nel costume degli italiani di quel periodo. Il gioco è costruito sulla falsariga dei precedenti, con qualche modifica nella struttura, ma con l’immancabile “cabina” nella quale rinchiudere il concorrente. A condurlo c'è un Mike Bongiorno con i capelli più lunghi del passato affiancato da una valletta in linea con l’evoluzione dei costumi giovanili dell’epoca. Si chiama Sabina Ciuffini, è molto giovane e indossa con assoluta naturalezza hot pants, micro e maxi gonne. Come tutte le assistenti precedenti ovviamente non può parlare, ma non rinuncia a diventare protagonista. Le cronache mondane si occupano di lei che per completare il personaggio anticonformista e fuori dagli schemi della moralista televisione dell'epoca accetta di posare per un servizio su Playboy che manda su tutte le furie il “signore dei telequiz”. "Il Rischiatutto" va in onda per la prima volta il 5 febbraio 1970 e chiude definitivamente i battenti il 23 maggio 1974. Con la sua chiusura finisce l'epoca d’oro dei grandi quiz che incollano le folle ai televisori.
21 maggio, 2020
21 maggio 2004 – Il primo disco da solista di Raiz
Il 21 maggio 2004 esce Wop, il primo album da solista dell’ex cantante degli Almamegretta. In quel momento si chiama Raiz, ma nel corso del tempo è stato anche Rais, Raiss o come lo si è voluto chiamare. Sulla sua carta d’identità c’è scritto Gennaro Della Volpe, ma in fondo quei documenti servono solo per le statistiche. Per molti anni voce carismatica degli Almamegretta, non è un tipo a cui piace stare fermo. Teatro, collaborazioni, la sua voce ha percorso in questi anni tante strade, spesso piccoli sentieri prima di approdare al suo primo disco da solista. Si intitola Wop e contiene dieci brani, dieci piccoli e delicati fiori del deserto curati insieme a Paolo Polcari, un altro protagonista della storia degli Almamegretta. Raiz, come John Frusciante, è uscito dal gruppo? Se lo si chiede a lui la risposta è meticcia: «Non sono e, probabilmente, non sarò più la voce degli Almamegretta, ma il rapporto con il gruppo non è chiuso. Hanno fatto un disco senza di me, inseguono nuovi progetti, ma sono e restano un gruppo aperto. Credo che collaboreremo ancora». Intanto, però, c’è Wop, un album delizioso ricamato dal filo duttile della tua voce, che si muove tra le sponde del mediterraneo e riesce a unificare, spesso nello stesso brano, atmosfere diverse, stili apparentemente lontanissimi… «È un disco che volevo fare da tempo e che dimostra come, in musica, la convivenza culturale tra impostazioni diverse è un valore e finisce per dar vita a un nuovo linguaggio». Quello che non accade nella realtà… «Forse sarebbe meglio dire “quello che si impedisce accada nella realtà”. In questo Mediterraneo, in cui i rapporti vengono distrutti e lacerati dalla “guerra di petrolio e acqua”, sarebbe sufficiente cominciare a scrutare le somiglianze per trovare una strada nuova. Ecco, io questo faccio. Lavoro sulle somiglianze, sulle linee che si incrociano, in musica come nelle tradizioni culturali. Ci sono leggerezze armoniche pakistane che si integrano perfettamente con alcune strutture della canzone napoletana, ci sono somiglianze, sguardi, tradizioni che non possono essere colti perché, magari, qualcuno ha eretto nella nostra testa un muro…» Come in Dietro il tuo chador quando dici “…noi siamo due sponde dello stesso mare, divisi da un muro che è fatto di parole…”, ma una canzone può cambiare il mondo? «Una canzone non può cambiare il mondo, ma può aiutare a capire, far crescere il dubbio, costruire un dialogo… Se tu ascolti il pop israeliano e quello palestinese e non capisci la lingua non ti accorgi della differenza, eppure c’è un muro che impedisce a molti di cogliere la somiglianza…». Nel tuo disco ci sono tante parole di speranza. C’è ancora spazio per la speranza in un tempo in cui la guerra copre le parole? «C’è spazio, basta che lo si voglia trovare. Il mondo è in movimento e anche nella piccola e tormentata area geografica che circonda il Mar Mediterraneo sono in tanti quelli che hanno cominciato a camminare verso i propri simili che stanno al di là del muro».
20 maggio, 2020
20 maggio 1934 – Tonino Valerii, un regista nato sulle strade del West
Il 20 maggio 1934 nasce a Montorio al Vomano in provincia di Teramo Tonino Valerii. Nel 1955, superato l’esame d’ammissione, entra al Centro Sperimentale di Cinematografia dove si diplomerà in regia. Per raggranellare qualche soldino e per farsi un po’ le ossa lavora come sceneggiatore e come assistente di regia con diversi registi da Camillo Mastrocinque ad Alessandro Blasetti. La svolta alla sua carriera arriva nel 1966 quando, dopo aver fatto l’aiuto regista di Sergio Leone nei primi due film della “trilogia del dollaro” realizza Per il gusto di uccidere, il suo primo western e anche il suo primo film in assoluto. Il western all’italiana è un linguaggio senza segreti per Tonino Valerii, che con Sergio Leone collabora senza citazione in Per un pugno di dollari e dirige la seconda unità di regia in Per qualche dollaro in più. Più che un allievo è un fedele collaboratore di Leone, con il quale condivide il gusto per le citazioni e il piacere della ricerca scenografica, tecnica e culturale. Quando lavora a Per il gusto di uccidere, il primo western in proprio, di cui firma soggetto, sceneggiatura e regia, si diverte a riprendere e a rielaborare un po’ la figura dell’antieroe cinico e gelido dei primi due film leoniani. Due anni dopo con I giorni dell’ira, il secondo western della sua carriera, recupera la trama dell’omonimo romanzo di Ron Barker innestando sul clima crudo e ricco di tensione tipico della scuola di Leone un inaspettato e all’epoca inedito finale pacifista. Nel 1969 gira forse il suo progetto più ambizioso con Il prezzo del potere trasportando in chiave western l’assassinio di Kennedy a Dallas. La sua ricerca non si ferma lì. Nel 1972 torna sulle polverose strade della frontiera con Una ragione per vivere e una per morire, un film nel quale gioca a mescolare nel western all’italiana le suggestioni di due capisaldi del cinema hollywoodiano come Quella sporca dozzina e Il mucchio selvaggio. Proprio da quest’esperienza forse nasce nel 1973 Il mio nome è nessuno il film ispirato e prodotto da Sergio Leone che segna l’incontro tra il western classico e quello all’italiana e affida al vecchio pistolero interpretato da Henry Fonda il compito simbolico di liquidare con il Mucchio Selvaggio anche l’epopea del west. La sua cinepresa non scruta soltanto le polverose strade della frontiera. Nel corso della sua carriera, infatti,. Tonino Valerii si cimenta con successo anche con altri generi realizzando, tra l’altro La ragazza di nome Giulio, il film del 1970 tratto dall’omonimo scandaloso romanzo di Milena Milani, il thriller Mio caro assassino del 1972 e gli avventurosi Vai gorilla del 1975 e Sahara cross del 1977. A partire dagli anni Ottanta lavora più per la televisione pur non disdegnando di tornare al grande schermo con lavori come Senza scrupoli del 1985 e Una vacanza all’inferno del 1997. Ha scritto anche il libro “Fare l'aiuto-regista nel cinema e nella tv” dedicato a tutti i giovani che vogliono fare il suo “mestiere”. Muore a Roma il 13 ottobre 2016.
19 maggio, 2020
19 maggio 1978 – Bob Marley conquista gli USA
Il 19 maggio 1978 Bob Marley parte insieme agli Wailers per un lungo tour statunitense destinato a promuovere Kaya, il suo album più recente che contiene gran parte del materiale registrato l’anno precedente e non utilizzato per Exodus e che è stato giudicato dalla critica come un disco piacevole, caratterizzato da canzoni d’amore e grandi slanci mistici. Il tour segna la sua definitiva consacrazione di Marley nel paese che aveva guardato con maggior scetticismo alla sua musica. Tutti i concerti vedono la presenza di un muro imponente di folla e indimenticabile resta quello al Madison Square Garden di New York, svoltosi davanti a diciottomila spettatori osannanti. L’esperienza non si ferma in America visto che la tournée prosegue e percorre l’Europa, il Giappone, l’Australia e la Nuova Zelanda. La sua popolarità arriva così in ogni angolo della terra, ma non in Africa dove ancora non ha avuto l’occasione di suonare. È un’assenza che gli pesa e che si ripromette di colmare prima o poi. In una pausa degli impegni europei se ne va per qualche giorno in Etiopia, quasi a compensare l’impossibilità di esibirsi nel continente che ama di più. Il materiale registrato in questa lunga tournée finirà in un disco dal vivo, il doppio Babylon by bus.
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