26 luglio, 2020

26 luglio 1956 - Affonda l’Andrea Doria

Il 26 luglio 1956 al largo di Terranova affonda l’Andrea Doria, il transatlantico più moderno e lussuoso della flotta italiana, in servizio sulla rotta per gli Stati Uniti da soltanto tre anni. Lo spiacevole ruolo di killer del fiore all’occhiello della nostra marina tocca al piroscafo svedese Stockholm che, complice un banco di nebbia, sperona la lussuosa nave a bordo della quale ci sono più di millecinquecento persone tra passeggeri ed equipaggio. Richiamate dai messaggi radio convergono sulla zona centinaia di imbarcazioni che, in una gara contro il tempo, tentano di recuperare i naufraghi.. Alla fine i morti saranno cinquantuno. La foto del viso terrorizzato di una delle sopravvissute, la piccola Maria Paladino di quattro anni, fa il giro del mondo e diventa il simbolo della tragedia.

24 luglio, 2020

25 luglio 2003 - Patti, Carmen e Paola insieme a Napoli


Quello che si svolge il 25 luglio 2003 a Napoli non è il concerto dell’anno, ma gli assomiglia molto. In quella che dovrebbe essere, infatti, la serata conclusiva del Neapolis Festival, nella suggestiva cornice dell’ex Italsider di Bagnoli, il programma prevede l’esibizione tre cantautrici, tre “strani frutti” del rock che salgono una dopo l’altra su un palcoscenico rigorosamente al femminile. Le tre protagoniste hanno nomi nobili per chi pratica l’araldica musicale. Si chiamano, infatti, Patti Smith, Carmen Consoli e Paola Turci. Tre voci, tre mescole diverse tra musica e poesia, tre storie profondamente diverse. Apre la serata Paola Turci, impegnata a proporre i brani di “Questa parte di mondo”, l’album che ha segnato una nuova tappa nella sua carriera portandola definitivamente via dalle secche popperecce sulle quali rischiava di incagliarsi. Dopo di lei tocca a Carmen Consoli. La cantantessa si è dichiarata orgogliosa di poter dividere lo stesso palco con Patti Smith, uno dei suoi miti e, per molto tempo, l’inarrivabile esempio di un modo nuovo di concepire il rapporto tra musica e parole. Infine i riflettori sono tutti per lei, Patti Smith, la sacerdotessa del rock, che conduce il pubblico di Napoli in un viaggio musicale senza tempo, ripercorrendo i suoi successi di trent’anni di attività, sempre in bilico tra punk e new wave, songwriting e canzone di protesta.


23 luglio, 2020

24 luglio 1937 – Pierette, una stella italiana nella Marsiglia delle gang

Il 24 luglio 1937 nasce a Nichelino, in provincia di Torino, Piera Bensi, destinata a conquistare una grande popolarità in Francia con il nome d’arte di Pierette. La grande epopea degli chansonnier non sarebbe riuscita a superare i limiti del tempo e dello spazio se non avesse potuto contare su una lunga sequenza di interpreti capaci di innervarne le canzoni con nuovo vigore, nuovo slancio e nuovi stili. È stato scritto che qual grande periodo musicale è figlio anche della capacità della Francia di influenzare e inglobare artisti provenienti da paesi diversi come il danese Ulmer, l’armeno Aznavour, il belga Brel, il russo Gainsbourg, l’americana Josephine Baker, l’ebreo greco Georges Moustaki, gli italiani Montand, Reggiani, Rina Ketty e molti altri. Tutti francesi eppure tutti “stranieri”. È difficile per chi vive al di fuori dei confini francesi capire e assimilare i concetti di una cultura che è, insieme, nazionalista e aperta alle innovazioni e ai contributi esterni. Sembra un paradosso ma è la realtà. In parte una delle ragioni che stanno alla base di questo perenne laboratorio di cultura è la leggendaria ospitalità della Francia che, dalla rivoluzione in poi, non ha quasi mai negato un tetto e un posto dove rifugiarsi ai perseguitati di tutto il mondo. Grazie al “diritto d’asilo” arrivano nel “territorio libero” francese personaggi come la Baker, Moustaki, Aznavour o Montand. Altri invece vengono attratti dalla vivacità di un tessuto artistico che non alza muri ma si apre ai figli di tante culture aiutandoli a innestarsi sulla tradizione e a regalarle nuova linfa. Come è già stato scritto la Francia non è l’unico paese che nel corso della sua storia ha aperto le frontiere a profughi e popoli diversi, integrandoli e inserendoli nel proprio tessuto sociale, ma è l’unico la cui struttura culturale, soprattutto quella musicale, ha saputo attingere e innervarsi di nuove sfumature senza perdere contatto con le radici. In parte è accaduto negli Stati Uniti con il rock & roll, nato dalla fusione tra le musiche dei coloni bianchi e i ritmi degli schiavi neri, ma è stato un fenomeno per molti aspetti casuale e irripetibile. In Francia invece è proprio la struttura del sistema culturale che riesce ad attirare nuovi stimoli grazie alla sua duttilità inserendo nella schiera degli chansonnier i “nuovi francesi” provenienti da varie parti del mondo. Se oggi la polvere del tempo non è ancora riuscita a coprire e a cancellare brani scritti quasi un secolo fa il merito non è soltanto della straordinaria vivacità delle composizioni ma anche della capacità degli interpreti di mescolare il nuovo con l’antico, i ritmi moderni con la melodia della tradizione, realizzando una fusione che appare ogni volta miracolosa. Un’importanza fondamentale assumono anche le voci delle cantanti, les chanteuses, melodiose creatrici di emozioni capaci di filtrare le canzoni attraverso la loro sensibilità aggiornandole e adeguandole alle esigenze del pubblico e dello scorrere del tempo. A loro Jean Cocteau rivolge l’omaggio poetico più famoso dell’epoca degli chansonnier: «Parigi cesserebbe di essere Parigi se lo strascico notturno del suo lungo vestito/non fosse inghirlandato da queste meravigliose cantanti…/ragazze che ne interpretano l’anima poetica con grande amore e profondità». Sono proprio queste “meravigliose cantanti” a possedere il segreto e la magia di fermare il tempo. Sono le loro voci che rendono immortali i brani degli chansonnier riproponendoli a un pubblico di uomini e di donne che in qualche caso non erano neppure nati quando venivano composte. A loro va il merito di non aver rinchiuso in un museo le emozioni in musica di un periodo fantastico. Tra queste cantanti c’è Pierette, la voce che nei locali della turbolenta e affascinante Marsiglia degli anni Settanta ha ridato nuova vita e nuovo splendore a un repertorio che rischiava di essere cancellato dal delirio della disco-music. Come spesso accade la carriera artistica della giovane Piera inizia quasi per caso negli anni Cinquanta quando partecipa più per gioco che per convinzione a un concorso canoro per dilettanti e lo vince. Della giuria fanno parte alcuni personaggi di spicco del mondo musicale dell’epoca. Tra loro ci sono gli autori Giovanni D’Anzi, Carlo Alberto Rossi e Norberto Caviglia che hanno parole di elogio per la ragazza e le pronosticano un futuro luminoso in qualità di cantante: «Lei ha talento. Lo metta a frutto». Piera non se lo fa dire due volte. Tenace e determinata inizia non si sottrae alla fatica dello studio e dell’esercizio vocale. Tanto impegno dà subito i primi risultati e la ragazza vince il festival della canzone piemontese che si svolge a Torino al Teatro Alfieri. È il viatico definitivo per il mondo della canzone e Pierette diventa una delle cantanti più presenti sui cartelloni dei locali torinesi. Il suo repertorio attinge alla tradizione melodica di tutto il mondo e, in particolare, alle suggestioni che arrivano dalla Francia degli chansonnier. Nel 1961 mentre si esibisce al Moulin Rouge di Torino si accorge che tra il pubblico c’è Gilbert Bécaud, uno dei suoi autori preferiti. Pierette decide di cambiare la scaletta e anticipare un paio di brani composti dall’importante spettatore. Con un po’ di emozione intona le prime note e le prime parole di Le mur (Y a toujours un côté du mur à l'ombre/Mais jamais nous n'y dormirons ensemble/Faut s'aimer au soleil/Nus comme innocents/Se moquant des saintes âmes qui grondent nos vingt ans...) poi si rilassa e la sua voce diventa ferma, sicura e seducente come sempre. Al termine Bécaud l’applaude convinto. Lei ringrazia e si lancia in Croque mitoufle, un brano scritto da Bécaud nel 1958 e inserito nella colonna sonora del film omonimo diretto da Claude Barma nel quale il cantante recita al fianco di Michel Roux, Micheline Luccioni e Mireille Granelli. Al termine dell’esibizione Gilbert Bécaud si complimenta con lei e la invita ad andare a Parigi, ma la ragazza è costretta a declinare l’invito perchè i suoi impegni non glielo permettono. Il rifiuto opposto da Pierette all’invito di Bécaud per un’esibizione parigina non è frutto di spocchia o presunzione. La cantante, infatti in quel periodo ha già sottoscritto una serie di contratti che prevedono anche la sua esibizione di fronte a Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo Scià di Persia. A dividere gli impegni con lei ci sono anche personaggi di fama internazionale come Jacqueline François, la più famosa interprete di Mademoiselle de Paris, Harold Nicholas e altri. Pierette allaccia anche una fraterna amicizia con Farah Diba, la terza e ultima moglie del sovrano persiano. In quel periodo incontra poi il musicista Carlo Alessandri, un uomo che si rivela determinante per la sua carriera artistica e per la sua vita sentimentale. Pierette, infatti, entra a far parte della sua formazione orchestrale come voce solista e nel 1965 lo sposa. Proprio con l’ensemble di Alessandri si esibisce in moltissimi locali notturni di vari paesi europei. Negli anni Settanta, con un ritardo di una decina d’anni sull’invito di Bécaud arriva finalmente in Francia. Dopo una lunga serie di applaudite esibizioni al cabaret Le Rêve di Parigi si trasferisce sulle sponde del Mediterraneo diventando una delle stelle di prima grandezza delle notti musicali di Marsiglia. Il grande successo marsigliese di Pierette coincide con un periodo molto turbolento della città meridionale francese. Il clima che si vive nei locali è molto simile a quello portato sul grande schermo nel 1972 dal regista Josè Giovanni con il film “La scoumoune”, uscito in Italia con il titolo de “Il clan dei marsigliesi” e interpretato da Claudia Cardinale, Jean-Paul Belmondo e Michel Constantin. La malavita e le gang erano una componente stabile delle serate nei locali. «Erano i padroni della notte e c’era sempre un tavolo a loro riservato anche quando il locale era stracolmo di pubblico». Così ricorda quegli anni Pierette che si esibisce soprattutto al mitico Real Club di rue de Catalans. Negli anni Ottanta la sua attività diminuisce progressivamente fino al ritiro dalle scene. Oggi Pierette vive tra “le vieux port” di Marsiglia e la residenza della sua famiglia di origine a Rivanazzano, in provincia di Pavia.

22 luglio, 2020

23 luglio 1992 – Arletty la collaborazionista

Il 23 luglio 1992 muore Arletty, una delle protagoniste, nel bene e nel male, dello spettacolo francese del Novecento. La sua vita è stata ricca di contraddizioni e di sbagli. La donna ha sbagliato ma, se paragonata ad altri protagonisti del suo tempo, ha pagato in misura certamente superiore agli sbagli commessi. Arletty l’altera, la bella e la traditrice, dopo essere stata la luminosa stella capace di scaldare il cuore della gente di Francia diventa la reietta e viene rinchiusa in un carcere con l’infamante accusa di aver collaborato con i nazisti. Per sua ammissione la vita non è stata tenera con lei ma nemmeno troppo maligna. Ogni volta che si è ritrovata nella polvere ha avuto la caparbietà ma anche la possibilità di risorgere. Grande attrice, ha saputo trasferire con naturalezza nella canzone quella straordinaria capacità interpretativa che le permetteva di brillare sul palcoscenico dei teatri e sullo schermo cinematografico. Amato o detestato, osannato o disprezzato il suo personaggio non ammette mezze misure e divide i sentimenti dei francesi. Suo malgrado Arletty è diventata un po’ il simbolo vivente delle contraddizioni anche drammatiche della Francia del Novecento. Léonie Bathiat, la futura Arletty, nasce il 15 maggio 1898 a Courbevoie. Suo padre Michel lavora nell’azienda dei tram, mentre la madre, Marie Dautreix, fa la lavandaia. Entrambi sognano un destino tranquillo e una vita serena per la piccola Léonie e con qualche sacrificio riescono a pagarle gli studi presso una scuola di stenografia. La sua vita trascorre apparentemente lineare con le emozioni e i sogni che caratterizzano l’adolescenza di migliaia di ragazze come lei. Le nubi che s’addensano sull’Europa, però, finiranno per cambiare in qualche modo il suo destino. Nel 1914 la guerra, quel massacro che i posteri chiameranno Prima Guerra Mondiale dopo averne messa in cantiere una seconda, le porta via il suo primo amore. La morte di Ciel, Cielo, come lei lo ha soprannominato per il blu intenso dei suoi occhi, la segna per sempre e l’accompagna per tutta la vita. «In quel momento ho deciso: non mi sposerò mai, non avrò alcun bambino perchè non voglio essere nè vedova di guerra ne madre di un soldato». Due anni dopo anche suo padre se ne va. Non se lo porta via la guerra ma un incidente. Travolto da un tram del deposito dove lavora lascia la famiglia nelle mani del destino. A diciott’anni la ragazza cerca allora di darsi da fare. Lavora un po’ come impiegata, ma soprattutto accetta la corte di un suo coetaneo, Jacques Georges Levy, rampollo di una famiglia di banchieri e innamorato perso di lei. È lui a introdurla nei salotti parigini e a farle conoscere il mondo del teatro. Il palcoscenico colpisce la sua immaginazione e la convince che quella deve essere la sua vita. Jacques George Levy diventa rapidamente un ricordo per la giovane Léonie che per sbarcare il lunario lavora come indossatrice a Parigi da Poiret con il nome d’arte di Arlette. Proprio nell’ambiente della moda conosce Paul Guillame, il gallerista che ha saputo intuire e valorizzare prima di tutti la genialità di pittori come Picasso e Modigliani. Tra i due nasce un’amicizia preziosa e la ragazza gli confida il suo sogno di lavorare in teatro. Per un tipo sveglio come Guillame darle una mano non è un problema. Una chiacchierata con il direttore del Théâtre des Capucines è sufficiente a cambiare la sua vita. Sui manifesti il nome d’arte da indossatrice, Arlette, viene modificato nel più esotico ed evocativo Arletty. È l’inizio di una lunga carriera. Per tutti gli anni Venti le sue canzoni e la sua straordinaria capacità interpretativa caratterizzano alcune tra le commedie musicali e le riviste di maggior successo. La popolarità di cui gode alla fine del decennio rende quasi inevitabile l’incontro con il cinema dove debutta nel 1930 interpretando un piccolo ruolo al fianco di Victor Boucher nel film “Douceur de vivre” diretto da René Hervil. La sua interpretazione viene notata da Jean Choux che le affida un ruolo di primo piano accanto al popolare Jean Coquelin nel lungometraggio “Un chien qui rapporte”. Negli stessi anni anche la sua carriera teatrale è costella da successi strepitosi come “Un soir de réveillon” al Bouffes-Parisiens, un’operetta di Sacha Guitry, e soprattutto “Le Bonheur mesdames” con Michel Simon che viene replicato ben cinquecento volte consecutive nonostante le liti tra Arletty e il suo compagno di scena. A completare il periodo magico c’è anche il successo di pubblico del lungometraggio “Pensione Mimosa” del belga Jacques Feyder. Proprio durante la lavorazione di questo film, l'attrice conosce il ventottenne Marcel Carné, all'epoca assistente alla regia di Feyder, che nel 1938 la chiama a interpretare, “Albergo Nord” con Louis Jouvet, e l’anno dopo la vuole in “Alba tragica” al fianco di Jean Gabin. Il successo di critica e pubblico ottenuto da questi film fanno di Arletty una delle attrici più popolari e pagate della Francia di quel periodo. All’inizio degli anni Quaranta proprio con Marcel Carné Arletty gira i due film destinati a regalarle l’immortalità artistica. Il primo è “L'amore e il diavolo”, girato nel 1942 con al suo fianco Alain Cuny e il secondo è “Amanti perduti” con Jean-Louis Barrault girato più o meno nello stesso periodo ma caduto sotto gli strali della censura degli occupanti nazisti e presentato al pubblico soltanto nel 1945 dopo la Liberazione. I due lungometraggi, nati dalla collaborazione di Carné con il poeta Jacques Prévert, sono considerati ancora oggi quanto di meglio abbia prodotto il realismo francese di quegli anni. È all’apice del successo quando si ritrova in una sorta di girone infernale apparentemente senza uscita. Come dicevano gli antichi, l’eccesso di fortuna finisce per suscitare l’invidia degli dei. Nell’estate del 1944, subito dopo la liberazione di Parigi, Arletty viene catturata e rinchiusa nel campo di prigionia di Drancy, a due passi da Parigi. L’accusa che le viene rivolta è la più infamante che in quel periodo si possa immaginare: collaborazionismo con le forze di occupazione naziste della città. In realtà la sua colpa vera è quella di essersi innamorata di un ufficiale tedesco di stanza nella capitale, ma il tribunale è inflessibile. Dopo 120 giorni nel carcere di Fresnes sconta un paio d’anni di libertà vigilata con l’impegno di stare lontana da Parigi. Gli amici però non l’abbandonano, neppure quelli più impegnati politicamente, a partire da Jacques Prévert. Capiscono che la sua colpa è stata soltanto quella d’innamorarsi e l’aspettano. Scontata la sua pena, a partire dal 1947 Arletty torna a lavorare, soprattutto in teatro dove ritrova il suo pubblico e l’antico successo. Più faticoso è il rientro nel cinema. Nel 1948 Marcel Carné la scrittura per il suo “La Fleur de l'âge” un film mai terminato per il fallimento della produzione. Le prime interpretazioni degne di nota sono del 1953 ne “Il grande gioco” di Robert Siodmak che la vede al fianco di una giovanissima Gina Lollobrigida e in “Aria di Parigi” di Marcel Carné con Jean Gabin. Quando nella sua vita tutto sembra tornato a posto, il destino ha in serbo un’altra brutta sorpresa. Arletty viene colpita da una grave forma di cecità progressiva. Lei reagisce con l’energia di chi è abituato a far fronte alle avversità, ma pian piano finisce per arrendersi all’ineluttabile. Nel 1962 chiude con il cinema interpretando “Viaggio a Biarritz” diretto da Gilles Grangier. Nonostante la perdita della vista lavora ancora in teatro per qualche anno prima di lasciare definitivamente le scene. Il suo ritiro non assume mai le caratteristiche dell’abbandono. Negli anni seguenti resta in contatto con il pubblico rilasciando interviste, raccontando la sua vita e commemorando gli amici scomparsi. Nel 1971 pubblica “La défense”, un’autobiografia ricca di aneddoti sconosciuti e considerazioni sulla vita. L’unica regola che si dà è quella di comparire il meno possibile in video, anche per lasciare ai suoi ammiratori l’immagine splendida degli anni migliori. Il canale di comunicazione con il pubblico resta affidato principalmente alla sua voce. Muore a Parigi il 23 Luglio del 1992 all'età di novantaquattro anni.

22 luglio 1977 - Richie Kamuca, un talento precoce

Il 22 luglio 1977 alla vigilia del suo quarantasettesimo compleanno muore a Los Angeles, in California, il sassofonista Richie Kamuca, all’anagrafe Richard Kamuca. Nato a Philadelphia, in Pennsylvania, il 23 luglio 1930, è un talento precoce tanto che a soli vent’anni viene scritturato da Stan Kenton con il quale resta fino al 1953 in una delle più belle formazioni della sua orchestra che schiera musicisti come Conte Candoli, Maynard Ferguson, Frank Rosolino, Bill Russo, Lee Konitz, Bill Holman, Bob Gioga, Sal Salvador o Stan Levey. Dal 1954 al 1955 va con la band di Woody Herman dando vita, insieme a Bill Perkins, Arno Marsh e Phil Urso, a una sezione sax di notevole valore. Nel 1957 suona nelle formazioni di Chet Baker e di Maynard Ferguson e, sul finire dell'anno, come gran parte dei musicisti di Kenton e di Herman, entra nei Lighthouse All Stars di Howard Rumsey. La collaborazione con Rumsey prosegue anche nel 1958 e successivamente Kamuca suona nelle formazioni di Shorty Rogers e di Shelly Manne. Nel 1962 lascia la California e si trasferisce a New York dove viene ingaggiato da Gerry Mulligan per una big band che, tra alterne vicende, rimane in vita quasi quattro anni. Successivamente viene scritturato da Gary McFarland e poi forma un quintetto a suo nome che dirige insieme a Roy Eldridge pur senza mai cessare le collaborazioni, soprattutto in studio di registrazione, con Kenton, Lee Konitz, con Zoot Sims, Al Cohn e Jimmy Rushing. Nel 1972 torna a Los Angeles e ricomincia a lavorare nei circoli jazzistici della zona entrando anche a far parte della big band del trombettista Bill Berry senza rinunciare però a qualche esperienza in proprio. A partire dal 1975 la sua attività diminuisce progressivamente per i problemi creati da un tumore che lo porta alla morte.

21 luglio, 2020

21 luglio 1990 - Il muro di Roger Waters davanti al muro di Berlino

Sono almeno duecentomila gli spettatori che il 21 luglio 1990 assistono dal vivo alla messa in scena di “The wall” (Il muro) davanti a ciò che resta del muro di Berlino in Potzdamer Platz, di fronte alla Porta di Brandeburgo, in quella che fino a pochi mesi prima era terra di nessuno tra la parte occidentale e quella orientale della città. L’opera, un classico dei Pink Floyd, dovrebbe essere, nelle intenzioni degli organizzatori, più che una celebrazione della caduta del muro, uno spettacolare ponte di culture lanciato tra due parti d’Europa che si stanno riunendo. Non a caso le immagini più forti della rappresentazione sono quelle delle guerre che hanno insanguinato il nostro continente, viste come un orpello di un passato nato dalla stupidità degli uomini. La sua messa in scena, curata dallo stesso autore, l’ex Pink Floyd Roger Waters, è destinata a diventare un esempio di “concerto europeo” da contrapporre ai ridondanti e, spesso, leziosi quanto monocordi “eventi” di scuola statunitense. Nella stesura spettacolare non c’è solo il rock. Ci sono anche i cori e le orchestre dell’Armata Rossa e della Radio di Berlino Est, ad affiancare un cast eccezionale che comprende, tra gli altri, Bryan Adams, la Band (senza Robbie Robertson), James Galway, gli Hooters, Cyndi Lauper, Ute Lemper, Joni Mitchell, Van Morrison, Sinead O’Connor, gli Scorpions, Marianne Faithfull, l’ex chitarrista dei Thin Lizzy Snowy White e gli attori Tim Curry e Albert Finney. Europei sono anche gli evidenti richiami al mondo delle arti figurative della scenografia, i riferimenti al cabaret e anche le atmosfere musicali, alle quali collabora il direttore d’orchestra Michael Kamen. Oltre ai duecentomila convenuti a Berlino, sono più di due miliardi gli spettatori che assistono, in mondovisione, per più di due ore a uno spettacolo che non annoia grazie ai frequenti colpi di scena e a una tensione interna che si materializza nell’attesa prima della costruzione e poi della distruzione del muro.

19 luglio, 2020

19 luglio 2002 – L’ordinanza contro Franco Trincale

È il 19 luglio 2002. Provate a immaginare tra i mille problemi della città di Milano qual è quello che tormenta di più i sogni del Sindaco Gabriele Albertini? La disoccupazione, il traffico, le nuove povertà, l'ambiente… Macché il problema principale si chiama Franco Trincale, di professione cantastorie, "reo" di disturbare con le sue canzoni la gente per bene che vota a destra e deplora ogni "disordine". L'attivo Sindaco di Milano, infatti, il 19 luglio prende carta e penna (si fa per dire) e scrive, anzi scolpisce, un’ordinanza con cui si stabilisce di vietare l'uso di «impianti di amplificazione per l'esercizio di attività musicali disciplinate dal vigente Regolamento comunale degli artisti di strada nelle aree pedonali di Piazza Duomo, C.so Vittorio Emanuele e Via Dante». Indovinate chi si esibisce in quelle aree pedonali? Franco Trincale. La cosa, se non fosse una vera e propria persecuzione contro un artista che ha il torto di aver mai piegato la testa di fronte a nessuno, sarebbe ridicola. Non è così. In realtà è un attacco contro la libertà di espressione artistica e un atto di insofferenza contro i "fastidiosi" cantastorie che "osano" prendere in giro il potere. Mentre crescono gli attestati di solidarietà nei confronti di Franco Trincale, la questione arriva in Parlamento grazie a un'interrogazione presentata dai senatori, Pizzinato, Togni, Pagliarulo, Donati, Dalla Chiesa e Piloni ai Ministri della Cultura e dell'Interno. Alla fine vince Trincale, ma il braccio di ferro sarà lungo e ricco di nuovi tentativi di limitarne la libertà.

17 luglio, 2020

17 luglio 1976 – A Montreal il primo boicottaggio di un'Olimpiade

Alla vigilia dell’apertura dei giochi olimpici di Montreal, prevista per il 17 luglio 1976, entra per la prima volta nel linguaggio sportivo un termine nuovo: boicottaggio. La prima nazione ad annunciare la sua rinuncia a partecipare ai giochi per protesta è Taiwan che, non potendo utilizzare dopo il riconoscimento della Cina Popolare la dizione "Repubblica di Cina" se ne va. Il comitato organizzatore non dà troppo peso al gesto e lascia fare senza tentare alcuna mediazione. Non ci si rende conto dell’importanza che i giochi stanno assumendo anche come formidabile cassa di risonanza per azioni clamorose e gesti propagandistici. L’inerzia e l’incomprensione fanno sì che nubi ben più nere inizino ad addensarsi sui giochi canadesi. La Tanzania chiede l'esclusione dalle gare della Nuova Zelanda, accusata di aver intrattenuto rapporti sportivi con il Sudafrica razzista, e, di fronte al rifiuto degli organizzatori se ne va. Con lei lasciano l'Olimpiade ventisei paesi africani, la Guyana e l'Iraq, ma l’elenco rischia d’allungarsi. Da più parti si chiede che vengano ridotti a quattro i cerchi olimpici che simboleggiano i cinque continenti, vista l'assenza dell'Africa. Iniziano febbrili quanto tardive trattative diplomatiche per salvare i giochi finché, in extremis, si riesce a garantire la presenza del Senegal e della Costa d'Avorio. Il quinto cerchio dell’Olimpiade è salvo.

15 luglio, 2020

16 luglio 1966 – Nascono i Cream

Il 16 luglio 1966, nella Londra deserta di mezza estate nascono i Cream, destinati a diventare il gruppo più famoso e più popolare della storia del blues revival. I loro componenti non sono novellini, ma tre protagonisti del circuito blues londinese sempre meno underground. Guidato dalla chitarra di Eric “Slowhand” Clapton, già con John Mayall e poi con gli Yardbirds, il trio schiera il polipercussionista Ginger Baker alla batteria e Jack Bruce l’ex bassista dei Bond e dell’Alex Korner Band. I Cream portano sui grandi palchi dei concerti rock le esperienze nei fumosi club londinesi, alzando il volume ai massimi livelli. Nel 1966 il loro primo album, Fresh Cream, ottiene un successo incredibile. Le distorsioni e il wah-wah di Clapton su una ritmica incalzante fanno il giro del mondo. L’anno dopo raddoppiano i risultati sul piano commerciale con Disraeli Gears, un album prodotto da Felix Pappalardi che ammorbidisce i suoni in chiave pop. La loro popolarità è supportata dalle devastanti esibizioni dal vivo che con le lunghe concessioni all’improvvisazione, aprono un nuovo mondo agli adolescenti ancora troppo costretti dalla rigida ripetitività del beat. I tre si integrano a meraviglia. Ciascuno porta sul palco una personalità diversa e insieme cambiano gli stereotipi della musica di consumo. Nel 1968 il doppio Wheels Of Fire metà registrato in studio e metà dal vivo, segna il punto più alto della loro carriera e, insieme, l’inizio della fine. Pochi mesi dopo l’album Goodbye dà il segno dell’imminente separazione. I tre, per evitare di restare prigionieri di una sorta di agonia autocelebrativa, decideranno di separarsi ufficialmente dopo un indimenticabile concerto d’addio.

14 luglio, 2020

14 luglio 1973 – L'ultima volta al vertice per i Camaleonti

Il 14 luglio 1973 i Camaleonti arrivano per la quinta volta nella loro storia al vertice della classifica dei singoli più venduti in Italia con Perché ti amo. Il brano, un'accattivante, ma un po' stucchevole, melodia scritta da Totò Savio consacra definitivamente il paroliere Giancarlo Bigazzi che, per l'occasione non si è troppo spremuto (Perché ti amo/io non lo so/ma stai sicura/che non dormirò). Rappresenta però una sorta di canto del cigno per la band milanese, arrivata al capolinea di un'involuzione stilistica iniziata alcuni anni prima con la separazione dal suo primo cantante e frontman Riki Maiocchi. Nati all'inizio degli anni Sessanta nel Santa Tecla, uno dei locali di culto del rock milanese, con il già citato Maiocchi, il bassista Gerry Manzoli, il chitarrista Livio Macchia, il tastierista Tonino Cripezzi e il batterista Paolo De Ceglie, sono per qualche tempo una delle più genuine espressione del garage beat dell'area alternativa milanese. Nei primi dischi e, soprattutto, nei concerti, i cinque entusiasmano i giovani rocker del capoluogo lombardo con le loro ruvide versioni di brani inglesi e americani. Il primo successo discografico è, nel 1965, Sha-la-la-la la, versione dell'omonimo brano di Paul Clarence. La popolarità finisce per innescare o, forse, accelerare un processo di revisione interna. Persa per strada la roca voce blues di Riki Maiocchi che viene sostituita da quella più melodica e perbene di Tonino Cripezzi, la band cambia rapidamente impostazione e casa discografica. Chiude in un cassetto il garage beat degli inizi e si avvia su una strada decisamente commerciale abbracciando progressivamente un pop melodico di grande successo. All'inizio degli anni Settanta sotto la spinta dei cambiamenti in atto nella canzone italiana la popolarità dei Camaleonti è in declino. Nel 1973 il successo di Perché ti amo sembra inaugurare una nuova stagione per quello che è ormai divenuto uno dei gruppi simbolo del pop melodico italiano, ma non sarà così.

13 luglio, 2020

13 luglio 1985 - L’ingombrante santificazione di Bob Geldof

“Un giorno Dio voleva trovare una soluzione al problema della carestia in Africa e, probabilmente per sbaglio, ha bussato alla porta di Bob Geldof. Quando questo irlandese trasandato ha aperto la porta, dopo qualche perplessità deve aver pensato: Oh, al diavolo, andrà bene anche lui!”. In questo modo singolare la rivista “Life” esprime il proprio ammirato stupore nei confronti dell’iniziativa di Bob Geldof, il cantante dei Bootown Rats, principale artefice della mobilitazione del rock a favore delle popolazioni africane colpite dalla carestia. Il 13 luglio 1985 sono un miliardo e mezzo i telespettatori di tutto il mondo che assistono al “Live Aid”, il più grande concerto benefico della storia della musica rock. E non è casuale che l’organizzatore sia proprio un artista non di primissimo piano e da tempo impegnato sui problemi sociali del suo paese. L’ambiente, infatti, è diffidente nei confronti dei grandi nomi, dopo le truffe e le vergognose speculazioni del “Concerto per il Bangladesh” organizzato anni prima da George Harrison e divenuto famoso perchè nessuno dei soldi raccolti era arrivato a destinazione. In molti ci provano, ma solo Geldof ce la fa e porta quasi in contemporanea su due palchi costruiti negli Stadi di Wembley e di Filadelfia in sedici ore del megaconcerto quasi tutti i vecchi e nuovi personaggi del rock e del pop mondiale. Il successo dell’evento provoca un effetto imitazione e nei mesi successivi una pioggia di dollari si riverserà sugli organismi internazionali impegnati nella lotta contro la carestia africana. Il Live Aid resta nella storia del rock ma rischia di cambiare per sempre la vita del suo ideatore. Bob Geldof, ribattezzato “Santo Bob” viene anche proposto per il Premio Nobel per la Pace e per qualche tempo non riesce più a trovare qualcuno che ne prenda sul serio le ambizioni e le qualità artistiche. L’immagine salvifica che lo accompagna finisce per pesare come un macigno sulla sua carriera di cantante, costringendolo a ripartire quasi da zero e finisce per farlo sempre più assomigliare a una tranquillizzante immaginetta.

12 luglio, 2020

12 luglio 1963 - Una pallottola nel cuore di Gino Paoli

Il cantautore Gino Paoli viene ricoverato alle 18.30 del 12 luglio 1963 al pronto soccorso dell’ospedale genovese di San Martino con una ferita d’arma da fuoco alla “regione parasternale destra”. La prognosi è riservata e i medici disperano di salvarlo. I giornali sostengono che il cantante, in preda a una forte crisi depressiva, ha deciso di farla finita e si è sparato al cuore. Paoli, invece, sostiene che si tratta di un colpo accidentale partito mentre stava pulendo l’arma. Contrariamente alle previsioni la vicenda ha un felice epilogo. La pallottola si è incastrata in un punto non vitale del cuore, per cui non è neppure necessario procedere alla sua estrazione. Dopo una lunga convalescenza il cantautore riprenderà a lavorare.


11 luglio, 2020

11 luglio 1949 – Danny Polo, il clarinettista che amava l'Europa

L'11 luglio 1949 all'Illinois Masonic Hospital di Chicago muore il clarinettista e sassofonista Danny Polo, uno dei migliori ed eclettici musicisti di sezione, oltre che ottimo solista. Ha quarantotto anni. Il giorno prima è stato colto da un improvviso malore mentre era impegnato con l'orchestra di Claude Thornhill all'Edgewater Hotel di Chicago. Figlio d'arte (suo padre è clarinettista) nasce a Clinton, nell'Indiana, e fin dai primi anni d'età inizia soffiare negli strumenti ad ancia. A otto anni veste la divisa di una banda della sua città. Negli anni successivi forma una coppia inseparabile con un suo amico d'infanzia, il pianista Claude Thornhill, lo stesso che gli sarà accanto anche nel suo ultimo concerto. A Chicago, nel 1923, ottiene i primi ingaggi professionali con l'orchestra di Elmer Schoebel al Midway Gardens cui segue un breve periodo nella band di Merritt Brunies. Tra il 1924 e il 1925 lavora in Florida e a New York con varie orchestre da ballo. Nell'inverno del 1926 sostituisce per tre mesi Don Murray nell'orchestra di Jean Goldkette e nell'estate successiva si lascia tentare dall'idea di andarsene via per un po'. Insieme al batterista Dave Tough, lascia gli Stati Uniti per un lungo soggiorno europeo durante il quale suona con le band del banjoista George Carhart, di Lud Gluskin e con quella di Arthur Briggs, senza rinunciare a una breve esperienza in proprio. All'inizio degli anni Trenta è a Londra con il gruppo di Bert Ambrose. Nel 1935 torna negli Stati Uniti, ma non può resistere alla nostalgia per l'Europa. Nel 1938 torna a Parigi al fianco di Ambrose e poi si aggrega alla band di Ray Ventura. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale lo costringe a rientrare in patria. Lo fa malvolentieri anche se riesce a suonare con alcuni tra i migliori gruppi del periodo, come quelli di Joe Sullivan e di Jack Teagarden. Alla fine della guerra rientra nell'orchestra del suo amico Claude Thornhill con la quale resta fino alla morte.

10 luglio, 2020

10 luglio 1968 - I Nice bruciano la bandiera USA

Il 10 luglio 1968 nel corso di un loro partecipatissimo concerto alla Royal Albert Hall di Londra i Nice bruciano e calpestano la bandiera statunitense. Il gesto avviene durante l'esecuzione di una versione molto “psichedelica” di America, il brano di Leonard Bernstein tratto dal musical "West side story". La band, che in quel periodo è composta dal bassista Keith “Lee” Jackson, proveniente dai T.Bones come il tastierista Keith Emerson, dal chitarrista Dave O'List, già con gli Attack e dal batterista Brian "Blinky" Davison ex Mark Leeman Five, è solita eseguire il pezzo di Bernstein insieme a una serie di evoluzioni improvvisative intitolate Second emendment. In quel 10 luglio alla dissacrazione musicale viene aggiunta la provocazione visiva. Quella bandiera USA che brucia sul palco vuole essere, secondo quanto annunciato dallo stesso Keith Emerson “di un segno di protesta per l’ignobile guerra in Vietnam”. Il gesto che attira sui Nice molte simpatie da parte dei movimenti pacifisti finisce per costare caro sul piano professionale. La band, infatti, viene messa al bando dal locale, uno dei luoghi più prestigiosi per la musica dal vivo britannica.

09 luglio, 2020

9 luglio 2006 - Campioni del mondo!

Il 9 luglio 2006 l'Italia vince per la quarta volta il campionato del mondo di calcio. La finale, che si gioca all'Olympiastadion di Berlino, vede di fronte le rappresentative nazionali di Italia e Francia. Proprio i transalpini vanno in vantaggio a soli sei minuti dall’inizio con Zidane che mette a segno un calcio di rigore concesso per un fallo di Materazzi su Malouda. È poi lo stesso Materazzi a pareggiare il conto al 19' con un gran colpo di testa su corner di Pirlo. La partita si chiude sull'1-1. Si va ai tempi supplementari durante i quali Zidane viene espulso per aver colpito con testata al petto il difensore italiano Materazzi. Alla fine dei supplementari il risultato non cambia pertanto il titolo deve essere assegnato ai calci di rigore. Tocca all’Italia cominciare. Per primo calcia Pirlo e segna. Poi per la Francia c'è Wiltord che non sbaglia. Va a segno anche Materazzi con un sinistro rasoterra, mentre il francese Trezeguet calcia sulla traversa. Dopo quelli messi a segno da De Rossi e Del Piero per l’Italia e da Abidal e Sagnol per la Francia il rigore decisivo per gli azzurri è affidato ai piedi di Grosso che segna e consacra la vittoria della nazionale italiana. Al terzo posto si classifica la Germania battendo al Gottlieb-Daimler-Stadion di Stoccarda il Portogallo per 3-1.

07 luglio, 2020

8 luglio 1965 - Willie Dennis, tra melodia e violenza espressiva

L’8 luglio 1965 muore in un incidente stradale il trombonista Willie Dennis. William De Berardinis, questo è il suo vero nome, nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il 10 gennaio 1926 e i suoi primi passi con la musica li muove più seguendo l’istinto che le lezioni degli insegnanti. Per tutta la vita racconterà di aver imparato da solo i segreti del trombone. Negli anni Quaranta suona nelle orchestre di Elliott Lawrence, Claude Thornhill e Sam Donahue prima di suonare passare in quella di Benny Goodman per la tournée europea del 1958. Nello stesso anno se ne va anche in America Latina con Woody Herman. Insofferente ai legami troppo lunghi si diverte a suonare in piccole formazioni con gran parte dei grandi protagonisti del jazz di quel periodo, da Howard McGhee a Charlie Ventura, da Coleman Hawkins a Lennie Tristano a Kai Winding. Proprio con Winding dà vita al gruppo di quattro trombonisti (gli altri due sono J. J. Johnson e Benny Green) ideato da Charlie Mingus. Nel 1959 entra nel quintetto di Buddy Rich, con Phil Woods al sassofono contralto. All'inizio degli anni Sessanta fa parte della Concert Jazz Band di Gerry Mulligan. La morte improvvisa ne chiude la carriera. In possesso di una tecnica eccezionale, Dennis riusciva a fondere una grande sensibilità melodica con la violenza espressiva ricavata dal lungo contatto con Mingus.

06 luglio, 2020

7 luglio 1967 - Alle figlie della rivoluzione non piace Hendrix

Il 7 luglio 1967 è un venerdì. Jimi Hendrix è in viaggio verso Jacksonville, in Florida, con i suoi Experience, dove il giorno dopo l’attende, al Coliseum, il primo concerto di una lunga tournée con i Monkees, i freschi e puliti idoli dei teen-ager locali. È il suo primo tour nella nazione dove è nato, quell’America che non lo ama troppo, che detesta la sua musica nervosa e la mescola di razze che porta nel sangue, metà nero e metà pellerossa. Non è un caso che siano stati gli europei a scoprirlo e a dargli la possibilità di farsi conoscere in tutto il mondo. Il suo manager è un inglese, il ruvido Chas Chandler, già bassista degli Animals, che ha creduto in lui e lo ha aiutato anche economicamente nei momenti duri. In Europa ha colto i suoi primi successi e ora, con l’aureola della gloria, torna nel suo paese per una lunga serie di concerti. Non lo convince l’idea di essere accoppiato ai Monkees, un gruppo dolciastro nato a tavolino come risposta americana ai Beatles, ma i contratti sono contratti e lui è uno di parola. Nel tardo pomeriggio di quel 7 luglio 1967, al suo arrivo a Jacksonville trova, però, la città tappezzata da manifesti che lo contestano. Sono firmati da un gruppo di destra chiamato “Associazione delle figlie della rivoluzione americana” e chiedono ai “veri americani” di mobilitarsi contro le sue esibizioni, considerate “oltraggiose” e “pornografiche”. Non sono minacce vuote. I luoghi dove si deve esibire vengono presidiati da gruppi di manifestanti che danno alle fiamme i suoi manifesti. La contestazione spaventa gli organizzatori della tournée che, dopo aver tentato qualche formale resistenza in nome della “libertà d’espressione”, danno il benservito al buon Jimi e lo rimandano a casa.

6 luglio 1940 – Gianfranca Montedoro, una catanese tra jazz e pop

Il 6 luglio 1940 nasce a Catania la cantante Gianfranca Montedoro, una delle più interessanti voci femminili degli anni Sessanta e Settanta. Sempre divisa tra jazz e musica leggera, muove i primi passi in varie formazioni dixieland romane. Nel 1961 partecipa al Festival Jazz di Saint Vincent con la band di Franco Ambrosetti e Gianfranco Tommaso, ma sviluppa anche un'interessante carriera parallela nella musica leggera, vincendo nel 1963, con la squadra della Sicilia, "Gran Premio", la trasmissione televisiva abbinata alla lotteria di Capodanno. Fra il 1964 e il 1965 gira l'Italia con jazzisti come Carlo Loffredo, Nunzio Rotondo, Gato Barbieri e molti altri. Quando nel nostro paese sbarca la bossa nova forma i Valiom 5, un gruppo composto da musicisti brasiliani. Nello stesso periodo presta la sua voce a varie colonne sonore cinematografiche. Alla fine degli anni Sessanta entra nella formazione dei Braintjchet, un gruppo di jazz-rock guidato dal tastierista belga Joe Vandrogenbroeck, con i quali partecipa al Festival Pop di Caracalla del 1971. Instancabile vagabonda nel 1972 partecipa alla formazione dei Living Music, un gruppo sperimentale di cui fanno parte, tra gli altri, Umberto Santucci, Andrea Carpi e Nino De Rose. Con questa band pubblica l'album To Allen Ginsberg e partecipa al Festival d'Avanguardia e Nuove Tendenze. Affascinata dalle esperienze di confine tra jazz, musica sperimentale e pop, non si risparmia. Il suo approccio non è freddo e distaccato. Non si fa problemi. Presta la sua voce a numerosissime opere di ricerca musicale, ma non disdegna di accompagnare in tour un personaggio di punta del pop come Mal, l'ex cantante dei Primitives. Nel 1975 realizza insieme ai Murple l'album Donna Circo, un'opera a metà tra teatro e musica con i testi di Paola Pallottino. Negli anni successivi, di fronte all'evoluzione del pop italiano e all'affermarsi di nuovi generi e tendenze, finirà per rifugiarsi sempre di più verso il jazz.

05 luglio, 2020

5 luglio 1946 - La prima volta del bikini

È il 5 luglio 1946 quando alla piscina Molitor di Parigi viene mostrato in pubblico un costume a due pezzi: una mutanda che lascia scoperto l’ombelico e un reggiseno che valorizza in modo prepotente il petto. L’ideatore è un designer svizzero che si chiama Louis Réard e i modelli sono stati realizzati dal couturier Jacques Heim. I due hanno faticato un po’ a trovare le modelle disposte a indossare quel costume nel defilé della “prima”. Nessuna professionista della moda, infatti, se la sente di mostrarsi in pubblico con un costume così succinto. Alla fine gli organizzatori hanno un improvviso colpo di genio reclutando elementi adatti alla parte nel meno altezzoso mondo delle spogliarelliste. Le ragazze sfilano di fronte agli occhi sorpresi di un pubblico scelto per l’occasione ed entrano nella storia. Una in particolare colpisce la fantasia dei presenti e anche degli assenti che l’ammirano in fotografia sui rotocalchi di mezzo mondo. Si chiama Micheline Bernardini, diventa la prima star del costume a due pezzi e nei mesi successivi alla sfilata riceve ben cinquantamila proposte di matrimonio. Al momento della sua nascita ufficiale il costume a due pezzi che i suoi ideatori inizialmente avevano pensato di chiamare Atome viene ribattezzato con il nome di Bikini, preso in prestito dall’omonimo atollo della Micronesia. La scelta nasce dalla suggestione e dalla preoccupazione suscitata nel mondo intero dalla scelta degli Stati Uniti di far esplodere in via sperimentale due bombe all’idrogeno sugli isolotti di quell’atollo. Mai nome è stato più azzeccato. L’effetto che il costume a due pezzi avrà sul costume dell’epoca si rivelerà davvero esplosivo.

04 luglio, 2020

4 luglio 2002 – Il patrocinio dell’Unesco al Folkest

Il 4 luglio 2002 inizia il Folkest, più che un Festival musicale la manifestazione è un luogo dove John Trudell, il cantore dell'epopea e dei drammi dei nativi americani e le musiche zingare del serbo Goran Bragovic si prendono per mano mentre la fisarmonica diatonica del basco Kepa Junkera fa da controcanto a un tappeto di note israeliane e palestinesi. In questo mondo di barriere e ingiustizie planetarie fa bene al cuore sapere che non esiste davvero in un triangolo di terra compreso tra Friuli, Veneto e Istria. Assomiglia all'Isola che non c'è di Peter Pan, ma non è frutto della fantasia. Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo, infatti, si incontrano al Folkest 2002, considerato il più importante festival folk dell'Europa meridionale, dedicato in particolare alle culture etnicamente minoritarie. Dopo più di vent’anni di storia nel 2002 ottiene anche il patrocinio dell'Unesco. Oltre trenta comuni del Friuli Venezia Giulia, del Veneto e dell'Istria ex Yugoslava fanno da scenario agli eventi in programma. L'apertura avviene il 4 luglio con due concerti, quasi in contemporanea, degli irlandesi Niall O'Callanain & S. T. Band a San Quirino e della European Youth Folk Orchestra a Crevatini, in terra istriana. Alla faccia delle frontiere tracciate dagli uomini la musica fin dall'inizio si libra alta, in nome dell'incontro tra i popoli e le loro culture. Tra le ragioni del successo di questo appuntamento, oltre alla capacità di operare scelte artistiche senza compromessi, c'è da considerare anche lo straordinario scenario in cui si svolge. Il suo girovagare tra ville, castelli e antiche piazze ne fa una sorta di festival "zingaro" che si srotola, giorno dopo giorno, abbinando itinerari inconsueti ai suoni di tradizioni spesso dimenticate. Vent'anni di storia hanno consentito al Folkest di diventare adulto e gli interpreti meno noti godono della stessa accoglienza riservata ai grandi nomi, perché ormai del Folkest "ci si fida", e si sa che la qualità dell'offerta è sempre all'altezza. Le proposte del 2002 spaziano come sempre in tutto il mondo e fin dalle prime battute offrono più di una sorpresa con molte perle da conservare, in particolare quella European Youth Folk Orchestra, un gruppo formato da dodici tra i migliori giovani talenti del folk europeo, che ha fatto da apripista. Ogni artista porta il suo bagaglio e lo regala volentieri. Tanta Europa, nei primi giorni, con escursioni tra le atmosfere scozzesi e irlandesi e la presenza del "cavaliere elettrico" Massimo Bubola, seguito dagli spagnoli Azarbe. La serie degli ospiti è infinita: da Vinicio Capossela ai messicani Los de Abajo, dai leggendari cubani Los Van Van agli ottoni della Wedding & Funeral Band, al canto dell'israeliana Noa, alle suggestioni palestinesi dei Radiodervish e a tanti altri momenti di grande emozione. Piccolo esempio della globalizzazione solidale, il Folkest mescola le culture e la sapienza dei popoli in un'unica colonna sonora. Ogni diversità, lungi dall'essere nemica, è apprezzata e, insieme, costituisce l'humus che alimenta la vita stessa della manifestazione.