17 ottobre, 2020

17 ottobre 1952 – Marinella, la voce femminile del filone demenziale

Il 17 ottobre 1952 nasce a Bologna l’autrice e cantante Marinella Bulzamini, destinata alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta a lasciare un segno importante nella canzone italiana con una serie di brani che anticipano quello che verrà chiamato il filone “demenziale”. La ragazza bolognese con le sue canzoni volge in parodia i temi politici e di costume della sua epoca in parallelo con il lavoro di gruppi come i Pandemonium. Dopo aver fatto parte del gruppo femminile de Le Borgia, partecipa al Festival di Sanremo del 1979 con Autunno cadono le pagine gialle, lo sfogo di un’impiegata dell’impresa telefonica nazionale che tra i numeri telefonici ha perso la ragione. Torna sul palcoscenico sanremese nel 1981 accompagnata da quattro figuranti per accompagnare un balletto con una scopa di saggina il brano Ma chi te lo fa fare. Nello stesso anno pubblica anche l’album Ma lascia stare, ma chi te lo fa fare, che contiene brani come Datemi del sugo e Mi è scaduto il libretto della mutua. Dopo aver registrato Il cammello la prima sigla del programma per bambini "Bim Bum Bam" riduce l’attività. Nel 1985 realizza il suo ultimo singolo Colazione d'amore.

16 ottobre, 2020

16 ottobre 1979 – “Récital d’adieu” per Les Frères Jacques

Il 16 ottobre 1979 al teatro della Comédie des Champs-Élysées va in scena “Récital d’adieu”, l’ultimo spettacolo de Les Frères Jacques, uno dei gruppi più eccentrici e significativi dello spettacolo francese del Novecento. Creativi, geniali al limite del surrealismo e musicalmente ineccepibili Les Frères Jacques rappresentano un po’ l’isola sorridente dell’arcipelago degli chansonniers a partire dal nome che si sono scelti. Frères Jacques, infatti, fa il verso all’espressione «Faire le Jacques» che in italiano può essere tradotta in «fare il deficiente». Per più di quarant’anni la loro imprevedibile follia si è conquistata uno spazio particolare sulla scena musicale francese. Ogni loro esibizione è più di un semplice concerto perché le canzoni si mescolano con le mimiche prese in prestito dal teatro di strada e i travestimenti paradossali delle gag da circo. Con calzamaglia, guanti, cappello e il tocco delicato e paradossale di un particolare imprevisto, un paio d’occhiali o un mazzo di fiori, trasformano ogni canzone in una piccola pièce teatrale, un’avventura della fantasia. Gli inizi della storia de Les Frères Jacques si incrociano con il dramma di una Francia che sta precipitando sotto il tallone nazista. Tutto comincia nei primi anni Quaranta quando il ventiseienne André Bellec, appena congedato dall’esercito, raggranella qualche soldo insegnando drammatizzazione nelle strutture ricreative destinate ai giovani. Qui s’imbatte in varie compagnie teatrali che lo aiutano a perfezionarsi nel canto, nella danza e nelle tecniche da mimo. Con lui c’è suo fratello Georges, eccellente trombettista jazz con una passioncella per il canto comico costretto a lasciare l’accademia delle Belle Arti di Parigi per sfuggire al reclutamento coatto nelle squadre di lavoro obbligatorio messe in piedi dal governo collaborazionista francese. Proprio dai fratelli Bellec nasce l’idea di un gruppo che sappia coniugare interpretazione musicale ed espressività teatrale. Il progetto diventa realtà dopo la Liberazione quando entrambi tornano a Parigi. Il primo ad aggiungersi a loro è François Soubeyran, un cantante e attore che dopo aver combattuto nelle file della Resistenza sta cercando un progetto per tornare a nuovamente a lavorare. Il quarto e ultimo componente è Paul Tourenne, un ex impiegato delle poste con all’attivo numerose esperienze radiofoniche. Les Frères Jacques sono nati. In breve tempo arriva anche un ingaggio dalla Troupe Grenier-Hussenot, la prima compagnia teatrale formatasi a Parigi dopo la Liberazione che dà loro una interessante opportunità di farsi le ossa sul palcoscenico. Proprio nella Grenier-Hussenot conoscono Pierre Philippe, il pianista della compagnia, l’uomo che “inventerà” le sonorità del gruppo, che ne curerà gli arrangiamenti e che sarà considerato così indispensabile da essere soprannominato il “quinto componente” de Les Frères Jacques. Nello stesso periodo incontrano anche Jean-Denis Malclés, lo scenografo teatrale che “inventerà” i loro costumi di scena. All’inizio della loro carriera Les Frères Jacques, decisi a non farsi scappare alcuna occasione, diventano quasi dei forzati del palcoscenico. Accettano qualunque ingaggio e finita la serata in teatro corrono a esibirsi fino alle prime luci dell’alba nei cabaret della Rive Gauche. In breve tempo il loro umorismo, i loro costumi e soprattutto le loro originali interpretazioni conquistano il “popolo della notte” della capitale. Nel 1946 la canzone L’entrecôte interpretata per la prima volta sul piccolo palcoscenico del cabaret Capri diventa una specie di tormentone tra i giovani parigini e aumenta a dismisura la popolarità del gruppo che l’anno dopo viene scritturato per il suo primo spettacolo di rivista alle Folies-Belleville. Nel loro instancabile girovagare Les Frères Jacques si esibiscono sui palcoscenici di un’infinità di locali, ma il luogo cui sono più fedeli e dove si sentono più a loro agio è la Rose Rouge. Sul palco di quel locale nascono gran parte dei primi successi del gruppo, a partire da Le manège aux cochon roses a Nous voulons une petite soeur a Sérénade de la purée solo per citare i tre brani che fanno compagnia a L’entrecôte sul primo disco a 78 giri che registrano nel 1948. Ormai in grado di muoversi da soli sulla scena musicale nel 1949 lasciano la compagnia Grenier-Hussenot dopo aver dato il loro contributo alle repliche del “Les Gaietés de l’Escadron” al Théâtre de la Renaissance e accettano una scrittura di cinque mesi al prestigioso Bobino. L’evento più significativo di quell’anno resta, però, l’incontro con Jacques Canetti, l’ex direttore della scalcinata Radio Cité che nella Parigi del dopoguerra si è trasformato in uno dei più infallibili e ascoltati scopritori di talenti della scena musicale cittadina. È lui a proporre a Les Frères Jacques un cambiamento di repertorio che, a prima vista, sembra un po’ azzardato. In sostanza chiede al quartetto di cimentarsi in una serie di brani scritti da Jacques Prévert e musicati da Joseph Kosma senza rinunciare a filtrarli attraverso il proprio originale taglio interpretativo. Il risultato è sorprendente e viene accolto bene sia dalla critica che dal pubblico. Proprio con L’inventaire, un brano scritto da Prévert e musicato da Kosma Les Frères Jacques vincono il Grand Prix du Disque del 1950. Per i Frères Jacques gli anni Cinquanta e Sessanta sono quelli del grande successo internazionale iniziato con la prima tournée in nordafrica del 1951 cui segue l’anno dopo una lunga serie di concerti in Canada e negli Stati Uniti. Il loro repertorio spazia ormai dalle canzoni divertenti ai testi impegnati di Vian, Brassens, Queneau, Ferré e tanti altri protagonisti della scena artistica parigina oltre al loro amico Prévert. Nel 1953 il gruppo partecipa al film “Il paese dei campanelli” di Jean Boyer interpretato da Sophia Loren. Nel 1955 festeggiano il decimo anniversario della loro formazione con una grande festa spettacolo al teatro della Comédie des Champs-Élysées e un’applaudita e partecipata tournée francese. L’anno dopo recitano nell’operetta “La belle Anabelle”, messa in scena al Teatro de la Porte Saint-Martin dal loro amico Yves Robert e annunciano la loro intenzione non lavorare più con compagnie teatrali per dedicarsi soltanto ai récital e ai propri spettacoli musicali. Negli anni Sessanta Les Frères Jacques confermano e allargano ancora la loro popolarità e il loro successo nonostante l’irrompere sulla scena mondiale di nuovi generi arrivati dall’universo anglosassone, il rock innanzitutto. Nel 1964 viene annunciata la fine della collaborazione tra il gruppo e Pierre Philippe, il pianista e arrangiatore che da vent’anni viene considerato il quinto componente del gruppo. La separazione, che si concretizza soltanto nel 1966, è preceduta da una serie di affollatissimi concerti d’addio. Al posto di Pierre Philippe arriva Hubert Degeux che non farà rimpiangere il suo predecessore. Sempre nel 1966 i quattro componenti del gruppo vengono insigniti del titolo di Cavalieri delle Arti e delle Lettere. Lo scorrere del tempo non sembra lasciare segni particolari sulla carriera de Les Frères Jacques che negli anni Settanta diventano quasi un’icona per i giovani alfieri dell’avanguardia parigina. Nel 1977 non mantengono l’impegno di non partecipare più a spettacoli teatrali e mettono in scena con i vecchi amici della Compagnia Grenier-Hussenot uno spettacolo musicale dedicato alla Belle Epoque. Verso la fine del decennio si comincia a parlare dello scioglimento del gruppo. Interpellati sull’argomento i componenti non rilasciano dichiarazioni ma il 16 ottobre 1979 al teatro della Comédie des Champs-Élysées mettono in scena un nuovo recital con il significativo titolo di “Récital d’adieu” la cui scaletta non prevede brani nuovi ma una lunga carrellata sui principali successi della loro carriera. La storia de Les Frères Jacques si chiude ufficialmente nel 1982 anche se nel 1983 si esibiscono ancora una volta per salutare definitivamente gli ammiratori più affezionati e fedeli al Théâtre de Boulogne-Billancourt nella periferia parigina. Lasciate le scene ogni componente del gruppo si dedica ad attività diverse dalla musica. Georges Bellec si dedica alla pittura con buon successo, Paul Tourenne alla fotografia mentre André Bellec si occupa dell’associazione degli anziani dello spettacolo. Il quarto componente del gruppo François Soubeyran preferisce invece ritirarsi a vita privata nella sua casa di Pilette-Montjoux dove muore il 21 ottobre del 2002 a 83 anni.





15 ottobre, 2020

15 ottobre 1935 - Sugar Pie DeSanto canta il blues

Il 15 ottobre 1935 a Brooklyn, New York, nasce Peylia Balinton, destinata a lasciare un segno importante nella storia del blues con il nome d’arte di Sugar Pie DeSanto. A due anni la sua famiglia lascia New York per trasferirsi a San Francisco, in California. Qui la bambina inizia a cantare nel coro della sua chiesa e frequenta corsi di danza classica. Affascinata dal blues inizia a modulare la sua voce sui brani della tradizione. Nel 1952 vince alcune rassegne per voci nuovi organizzate all'Ellis Theatre e trova così le prime vere scritture. Nel 1954 viene notata a Los Angeles da Johnny Otis, che le apre le porte della casa discografica Federal e, con il nome d’arte di Little Miss Sugar Pie la fa partecipare al proprio spettacolo viaggiante. Dopo una lunga serie di tournée nel “Johnny Otis Show” medita di mettersi in proprio. Nel 1957, dopo essersi esibita al Lincoln Club di Stockton, sposa il chitarrista e cantante Pee Wee Kingsley, con il quale registra vari dischi. Il notevole successo ottenuto con il brano I Want To Know le vale un ingaggio al prestigioso Apollo Theatre di New York, dove arriva in cartellone al fianco di James Brown, con il quale effettua poi varie tournée. All’inizio degli anni Sessanta si stabilisce a Chicago, dove registra vari dischi per la Chess, ottenendo un buon successo soprattutto con Slip In Mules del 1964. Nell'ottobre dello stesso anno viene in Europa al seguito dell'American Folk Blues Festival. Dalla fine degli anni Sessanta si esibisce soprattutto a San Francisco allo Sportsman Inn e al Continental Club. All’inizio del decennio successivo si ritira per qualche tempo dalle scene a causa di una malattia. Riapparsa in gran forma alla metà degli anni Settanta non lascia più il palcoscenico.


14 ottobre, 2020

14 ottobre 1953 - Michele Ascolese una delle chitarre di De André

Il 14 ottobre 1953 nasce a Salerno il chitarrista Michele Ascolese. È ancora molto giovane quando inizia a suonare la chitarra da autodidatta facendone poi pian piano la sua occupazione esclusiva. A ventun anni è già un professionista del mondo delle sette note. Dopo aver fatto parte del gruppo del percussionista brasiliano Mandrake, nel 1978 suona con la cantante Lilian Terry e l’anno dopo vola in Giappone in tournée con la band del trombettista Nini Rosso. Negli anni successivi partecipa a vari progetti tra i quali spiccano la big band di Tommaso Vittorini e la nascita di un trio a suo nome con il fratello Gian Paolo ed Enzo Pietropaoli. Sempre alla fine degli anni Settanta partecipa all'album di Enrico Rava Pupa o Crisalide. Chitarrista versatile ed eclettico dichiara una grande passione per la musica brasiliana, pur accumulando nel suo repertorio molti suoni diversi. Nel 1985 entra nel gruppo che accompagna la tournée “Insieme” di Ornella Vanoni con Gino Paoli. Considerato uno dei più completi e apprezzati session man del panorama musicale italiano ha accompagnato i progetti artistici di un gran numero di artisti. Oltre ai già citati Gino Paoli e Ornella Vanoni si sono “appoggiati” alla sua chitarra Sergio Caputo, Roberto Vecchioni, la PFM, Teresa De Sio, Angelo Branduardi, Fabio Concato, Eduardo De Crescenzo, Renato Zero, Eros Ramazzotti, Tullio De Piscopo, e molti altri. Per anni è stato collaboratore stretto di Fabrizio De Andrè

13 ottobre, 2020

13 ottobre 1936 – Shirley Bunnie Foy, una voce da jazz

Il 13 ottobre 1936 nasce New York la cantante Shirley Foy, più conosciuta come Bunnie Foy. La sua è una famiglia di musicisti. Sua madre è una violinista, suo padre un chitarrista, i suoi zii suonano tutti il sassofono e le sue quattro sorelle sono anche esse cantanti. La piccola Bunnie fin da bambina inizia a familiarizzare con tutti i tipi di canto popolare e rurale della cultura afroamericana come il gospel, blues, spirituals, anche alcuni tipi di canti africani e caraibici. In seguito frequenta la New York Schools of Music, studiando pianoforte teoria e solfeggio. In quel periodo collabora e studia anche con John Coltrane e Junior Cook. Negli anni Cinquanta a soli quattordici anni entra a far parte dei Delltones, un quintetto vocale di rhythm ann blues che si esibisce accompagnato da contrabbasso, batteria e da un gruppo di trombonisti tra i quali spiccano i nomi di Slide Hampton, Melba Liston, Dave Baker e Chuck Connors. Lavorato anche con musicisti come Count Basie e Maynard Ferguson. Nel 1959 si trasferisce a Parigi dove canta con il trio del pianista Pierre Franzino che diventerà suo marito. Tornata nel 1965 a New York canta con Archie Sheep e poi entra a far parte del gruppo di Charlie Shavers, che schiera Jo Jones alla batteria. Dal 1966 al 1968 collabora con Curtis Potter nelle sue composizioni e arrangiamenti per sedici voci Nel 1969 torna in Europa e, dopo una breve permanenza a Parigi e a Nizza si trasferisce a Milano per lavorare sugli arrangiamenti per Big Band scritti dal batterista Gil Cuppini. L’anno dopo Enrico Intra la vuole come voce solista nella sua Messa d’oggi, eseguita alla Certosa di Pavia e alla Fenice di Venezia. Negli anni Settanta Bunnie Foy collabora con alcuni dei maggiori protagonisti del jazz di quel periodo, da Franco Cerri ad Art Blackey, da Mario Rusca a Pino Presti Giampiero Boneschi a Johnny Griffin, da Bruno De Filippi a Sante Palumbo, da Freddie Hubbard a Tullio De Piscopo e Paolo Tomelleri. Nel 1977 collabora con Franco e Stefano Cerri alla realizzazione di un album di armonie sperimentali e l’anno dopo reinterpreta in chiave jazz i più grandi successi di Gorni Kramer accompagnata dallo stesso Kramer alla fisarmonica. In quegli anni insegna anche canto jazz nella scuola "Nuova Milano Musica". Instancabile e curiosa sperimentatrice non abbandona mai la scena e ancora nel 2007 ha registrato un disco con il pianista Jean-Sébastien Simonoviez, il contrabbassista François Gallix, il batterista Yohan Serra alla batteria e il sassofonista Gael. Muore a Nizza il 24 novembre 2016.




12 ottobre, 2020

12 ottobre 1971 – Gene Vincent, un profeta del rock and roll

Il 12 ottobre 1971 un attacco di ulcera perforata uccide Gene Vincent, uno dei profeti del rock and roll. Nato a Norfolk, in Virginia l’11 febbraio 1935, è registrato all’anagrafe con il nome di Eugene Vincent Craddock. Figlio di genitori poverissimi, come molti altri ragazzi di Norfolk, sede di una delle più importanti basi navali statunitensi, a soli diciassette anni si arruola in Marina e partecipa alla guerra di Corea. Nel 1955 mentre è impegnato nel suo lavoro di porta-ordini viene investito da un'auto. Nell’incidente riporta una gravissima ferita al piede che, per qualche tempo sembra destinato all’amputazione. Contrariamente alle previsioni, dopo una serie di dolorosissime cure, il piede guarisce ma resta rigido dando alla camminata di Vincent una caratteristica andatura claudicante. Qualche anno più avanti quella menomazione nella versione dei pubblicitari della sua casa discografica diventerà una “ferita di guerra”. Durante la lunga convalescenza l’unica compagnia di Vincent è una vecchia chitarra sulla quel inizia a comporre le canzoni destinate a regalargli la popolarità, anche se la leggenda racconta che Be-bop-a-lula, il suo maggior successo, non sia farina del suo sacco ma sia stata comprata per venticinque dollari da un marinaio suo amico. Alla fine del 1955, congedatosi, inizia a suonare nelle radio locali di Norfolk e, proprio in una di queste, la WCMS, viene scoperto da Bill “Sheriff Tex” Davis, un d.j. che ne intuisce le potenzialità. Nel mese d’aprile del 1956 Gene registra quindi un demo con la sua band, i Blue Caps, formata dai chitarristi Cliff Gallup e Willie Williams, dal bassista Jack Neal e dal batterista Dickie Harrell. Si tratta di una formazione che anticipa le pop band degli anni Sessanta, senza pianoforte e senza sax, due strumenti che fino a quel momento erano considerati fondamentali nei gruppi di rock and roll. Immediatamente scritturati dalla Capitol, Vincent e la sua band il 4 maggio 1956 registrano a Nashville un singolo con Woman love sul lato A e Be-bop-a-lula sul lato B. Tre settimane dopo un disc jockey di Baltimora inizia a trasmettere a tappeto l'intrigante motivo del lato B e, in poche settimane il disco scala la classifica statunitense, vendendo ben due milioni di copie soltanto nei primi cinque mesi. In rapida successione vengono pubblicati altri singoli come Bluejean bop, Little lover, Maybellene, Race with the devil, She she little Sheila, Lotta lovin' e Yes I love you baby, mentre Gene Vincent e i Blue Caps sfruttano la crescente popolarità girando in tour tutti gli Stati Uniti. Nello stesso periodo partecipano anche al film "Gangster cerca moglie" ma ben presto iniziano i primi guai. Dopo una serie di cause legali con il suo manager, Vincent viene ricoverato in ospedale a Norfolk per alcune cure. L’assenza dalle scene, aggiunta al contenzioso legale, fa sì che il ragazzo alla metà del 1957, si trovi costretto ricominciare tutto da capo, con un nuovo manager e con una nuova formazione dei Blue Caps composta da Harrell (unico sopravvissuto della vecchia formazione), Paul Peek, Tommy Facenda, Bobby Lee Jones e lo scatenato chitarrista Johnny Meeks. Ricominciare non è facile soprattutto quando la stampa conservatrice comincia a criticare la violenza dei suoi concerti, la durezza dei suoi testi, la carica provocatoria dei suoi movimenti sul palco e la dipendenza dall'alcool. In più i tempi stanno cambiando e tira un’aria normalizzatrice che spinge il pubblico a simpatizzare con nuovi artisti dalla voce impostata e dalla faccia dei ragazzi perbene come Frankie Avalon e Ricky Nelson. Gene però non si arrende e il 5 dicembre del 1959 sbarca in Gran Bretagna dove viene accolto dal produttore televisivo Jack Good che gli suggerì di rendere più aggressiva la sua immagine con un completo di pelle nera. In breve diventa un mito del pubblico inglese più giovane. Il 16 aprile 1960 si ferisce nuovamente alla gamba in un incidente automobilistico in cui perde la vita Eddie Cochran e la ripresa è ancora più difficile del solito. Nel 1965, perso lo smalto di un tempo e con sempre più gravi problemi d'alcolismo torna negli Stati Uniti per pubblicare alcuni dischi country per la Challenge Records. Ridotto a trovare spazio nel circuito del revival fatica a tirare avanti nonostante periodici ritorni al successo come la partecipazione al Festival rock di Toronto del 1969 insieme ad altri grandi della sua epoca come Jerry Lee Lewis, Little Richard e Bo Diddley. Con il fisico ormai minato muore il 12 ottobre 1971 per un attacco di ulcera perforante all'Inter-Valley Community Hospital di Newhall in California.

11 ottobre, 2020

11 ottobre 1960 - Bravi! Dopo le ballerine, Togliatti!

L’11 ottobre 1960 alle ore 21 la televisione inaugura “Tribuna politica”. Il dibattito d’apertura si svolge allo Studio 4 di Via Teulada a Roma, ha come ospite il ministro degli Interni Mario Scelba ed è condotto da Gianni Granzotto. È la prima volta che i politici parlano direttamente ai telespettatori senza la mediazione del telegiornale, ma soprattutto, non è mai successo che la televisione intervistasse esponenti dei partiti dell’opposizione. L’onore di essere il primo protagonista della trasmissione non placa le ire del democristiano Mario Scelba, contrario a questa innovazione, che rivolgendosi al suo compagno di partito Amintore Fanfani dichiara con disappunto: «Bravi! Dopo le ballerine siete riusciti a far entrare nelle case degli italiani Palmiro Togliatti. Vergognatevi!»


10 ottobre, 2020

10 ottobre 2003 – “Viaggio in Italia” per Alice

Il 10 ottobre 2003 esce Viaggio in Italia un album con cui Alice ritorna sulla scena discografica a tre anni di distanza da Personal juke-box, il suo ultimo lavoro in studio. La cantante, che non ha mai nascosto la passione per le «canzoni in cui il valore della parola è in primo piano», si misura con quattordici brani nati dall'ispirazione e dalla genialità di grandi autori. Chi la conosce bene sa che con lei anche le canzoni più conosciute cambiano forma, perdono l'innocenza originaria e diventano intrigantemente adulte. Ciò non è dovuto soltanto alle indiscusse capacità vocali e all'intelligenza esecutiva, ma alla sua capacità di liberarne le potenzialità nascoste, di regalare loro nuove ali per farle volare in cieli diversi da quelli per cui erano state immaginate. La cantante e il suo fido produttore Francesco Messina definiscono il disco «un nuovo viaggio nella musica italiana d'autore» nato da «una ritrovata passione per la bellezza della nostra lingua» che finisce per incontrarsi con «il patrimonio poetico e musicale di diverse culture». Tra i quattordici brani dell'album, però, ce ne sono due che sfuggono a questo ragionamento: Islands dei King Crimson e Golden hair, scritta da Syd Barrett su una poesia di James Joyce. Che cosa c'entrano con il Viaggio in Italia? La risposta di Alice è spiritosa «In questo caso il "viaggio in Italia" è quello compiuto da Tim Bowness, il vocalist dei No-Man, per venire a cantarle con me». Il titolo del disco è una citazione di un opera di Goethe. Il richiamo non è casuale: «un po' come lui, infatti, sono andata a vedere, a studiare alcuni aspetti del nostro paese attraverso le pagine dei nostri più grandi autori». Se prevedibili, pur se non scontate sembrano le scelte di brani targati Guccini, De André, Fossati, De Gregori, o del Battisti più problematico del periodo con Pasquale Panella e dell'amico e antico mentore Battiato, meno usuali appaiono l'inserimento di due brani inediti con testi di Pier Paolo Pasolini musicati da Mino Di Martino e la ripresa di Non insegnate ai bambini, la canzone che molti considerano il “testamento spirituale” di Giorgio Gaber. Per una cantante pop, come lei si ostina a definirsi, cercare la poesia delle parole è una scelta di igiene mentale e professionale in tempi in cui la musica fatica sempre più a regalare parole. «È avvilente ascoltare canzoni che non significano nulla. Certi testi non sono soltanto innocui: fanno danni». Come sempre, anche in questo disco ha cercato e trovato la collaborazione di altri musicisti e colleghi che le hanno dato una mano in studio. Oltre al già citato Tim Bowness, questa volta ci sono Paolo Fresu, Morgan e Jakko Jakszyk.


09 ottobre, 2020

9 ottobre 1978 - Jacques Brel, ribelle fino alla fine

Il 9 ottobre 1978 muore Jacques Brel. «Io non porto messaggi, lo lascio fare ai postini». Accompagnata da un sorriso sarcastico la frase di Jacques Brel arriva come una frustata a chi tenta di stanarlo sulle questioni politiche. Nascosto dietro quell’aria un po’ indolente, con la sigaretta sempre accesa e le dita gialle di nicotina, lo chansonnier belga trattato dai parigini come se fosse uno di casa non sopporta chi tenta di ficcare il naso nelle sue cose siano esse opinioni, idee o anche soltanto canzoni. L’uomo non è poi tanto differente da quello che sembra ascoltando le sue composizioni. In lui essere e apparire coincidono o, meglio, l’apparenza non esiste proprio. Franco e diretto nel modo di rapportarsi con gli interlocutori assomiglia più di quello che vorrebbe al suo grande amico Brassens soprattutto nella sua istintiva imprevedibilità e nella sua ostinata attenzione a non farsi strumentalizzare. Il pubblico italiano conosce la sua faccia prima delle sue canzoni. Il suo volto diventa popolare alla fine degli anni Sessanta attraverso il cinema ma per la voce ci vuole più tempo e il grande pubblico si accorge della bellezza delle sue canzoni solo grazie all'impegno di un pugno di infaticabili e appassionati divulgatori guidati da Gino Paoli, Duilio Del Prete ed Herbert Pagani. I giovani contestatori del Sessantotto fanno di alcuni suoi personaggi cinematografici una sorta di culto come accade quando scappano per le vie della città con la polizia alle calcagna si sentono un po’ emuli della Banda Bonnot. Negli anni Sessanta, quando il mondo si accorge di lui, Jacques Brel non è più un ragazzino. È nato, infatti, a Schaerbeek, nei dintorni di Bruxelles, l'8 aprile 1929 da una mescola etnica di cui andrà fiero nel futuro. Suo padre è fiammingo ma francofono mentre nelle vene della madre secondo i racconti dello stesso Jacques scorrerebbe sangue francese con abbondanti tracce di sangue spagnolo lasciato in dote ai cittadini di quelle terre dal dominio castigliano del XVI e XVII secolo. Questa storia delle radici iberiche lo solletica e lo affascina al punto che nei suoi brani le atmosfere spagnoleggianti sono tutt’altro che rare così come i riferimenti alla figura di Don Chisciotte. Mescole di sangue a parte, la sua famiglia è del tutto normale, simile a tante altre. Suo padre è un piccolo industriale che produce cartoni e il giovane Brel sembra destinato a seguirne le orme visto che ancora adolescente lascia gli studi e comincia a lavorare come impiegato. Giocando con i termini, dirà che in quel periodo si sentiva "encartonné", chiuso in una gabbia di cartone. Appena possibile cerca di percorrere una strada diversa cominciando a comporre canzoni e a cantarle in giro nelle bettole di Bruxelles e dovunque sia possibile. Sono brani che mescolano l'amore e i sentimenti con l’impegno sociale, che fanno incontrare la poesia con il desiderio di ribellione e la vita con i sogni. Non sono canzoni facili ma si fanno notare e negli anni che vanno dal 1948 al 1953 il buon Jacques si costruisce un piccola ma solida fama nella sua città natale. La popolarità nei bar e nei locali della sua città natale non gli bastano. Vorrebbe andarsene e tentare la strada di una popolarità più ampia ma non è facile puntare a qualcosa di così difficile per uno che canta la vita da un angolo di visuale critico e radicato nella realtà. Forse per questo il suo primo disco arriva relativamente tardi, nel febbraio del 1953, dopo ottantadue provini falliti. È un 78 giri e nelle due facciate ci sono le canzoni La foire e Il y a. Il disco, pubblicato dalla Philips, vende la non straordinaria cifra di duecento copie, ma la soddisfazione per essere finalmente arrivato in sala di registrazione lo aiuta a non arrendersi. Nel frattempo anche la fortuna ha deciso di dargli finalmente una mano. Il disco arriva quasi per caso nelle mani di Jacques Canetti uno dei più infallibili e ascoltati scopritori di talenti della scena parigina che si entusiasma per questo sconosciuto chansonnier belga, lo contatta e lo convince a seguirlo a Parigi. Brel, un po’ confuso dalla svolta imprevista, si lascia alle spalle la famiglia, Bruxelles, i club e gli amici che fino a quel momento lo hanno sostenuto e se ne nella capitale francese. Il debutto avviene nel Trois Baudets, il locale gestito dallo stesso Canetti nel quale qualche tempo prima un altro debuttante dal nome di Georges Bassens aveva infiammato e deliziato il pubblico. Jacques Brel non infiamma ma piace e finisce per tornarci ancora altra volte nei cinque anni seguenti. Non è ancora il successo, ma lo chansonnier venuto da Bruxelles riesce a restare a Parigi alzando le spalle quando le critiche si fanno feroci, sopportando con pazienza le offensive storielle sui belgi, mangiando pane e formaggio e accettando di suonare in tutti i locali dove è possibile accettando qualunque compenso. Nel 1954 suona anche in sette locali in una notte cantando canzoni per spettatori non sempre attenti dalle otto di sera alle prime luci dell’alba. In questo periodo di fatica, sudore e fame trova il modo di registrare il suo primo album Grand Jacques. La fatica non è inutile. Lo stralunato chansonnier comincia a trovare nuovi ammiratori tra i protagonisti della scena musicale francese di quel periodo, da Dario Moréno a Catherine Sauvage, da Maurice Chevalier a Michel Legrand, a Serge Gainsburg ad Aznavour e Zizi Jeanmarie. Un’artista in particolare si rivela decisiva per la sua carriera. Si chiama Juliette Gréco, ed è considerata una sorta di dea dalle parti di Saint-Germain-des-Prés e dai protagonisti della corrente esistenzialistica. Proprio lei decide di inserire nel suo repertorio e nella sua produzione discografica un brano di Brel intitolato Le diable. L'incontro con la Gréco si rivela fondamentale per lo chansonnier arrivato da Bruxelles che, oltre a moltiplicare le entrate in diritti d’autore e le richieste d’esibizione inizia una collaborazione preziosa con Gérard Jouannest, pianista e compagno della cantante, e con l'arrangiatore François Rauber. Il rapporto con i due segna un’evoluzione decisiva nella qualità compositiva di Brel. Le sue melodie escono dalla secca essenzialità per mettere al servizio delle parole un nuovo, variegato cromatismo. È il successo. Parigi lo adotta e ne fa un protagonista della scena musicale al punto che nel 1961 il patron dell’Olympia Bruno Coquatrix lo vuole per sostituire Marlene Dietrch che ha dato improvvisamente forfait. Il successo non cambia Jacques Brel. Lo chansonnier resta un ribelle nella vita come nelle canzoni. Nel 1965, incurante della guerra fredda e delle tensioni internazionali accetta di andare in URSS, oltre che in Canada e negli Stati Uniti. Più volte annuncia la sua intenzione di non cantare più in pubblico e altrettante volte si smentisce da solo, mentre anche il cinema inizia a utilizzare la sua faccia e la recitazione fredda e tagliente come un coltello. Dopo "La Banda Bonnot" di Fourastié interpreta più di un pugno di film con registi come Cayatte, Molinaro, Carné, Lelouch. Nel 1968 mette in scena "L'uomo della Mancia", una sua versione del musical "The Man of the Mancha", ma i medici gli dicono che un tumore ha iniziato a mangiargli un polmone. Compra una barca a vela e, dopo un intervento chirurgico, se ne va in giro per il mondo. Si ferma a Hiva-Oa, nell'arcipelago delle Isole Marchesi che, di fatto, diventa la sua nuova patria. Mort Shuman, suo grande ammiratore, gli dedica un lavoro teatrale il cui titolo sembra una beffa del destino: "Jacques Brel is alive and well and living in Paris" (Jaques Brel è vivo, sta bene e vive a Parigi). Nel 1977, quando sente che la fine s'avvicina, registra il suo ultimo disco (due milioni di copie di prenotazioni) e destina il 90% dei proventi alla ricerca sul cancro. Non rinuncia alla poesia neppure di fronte alla propria morte, raccontando che gli abitanti della "sua" isola la trovano un evento del tutto naturale e che parlano «della morte/come si parla d’un frutto». Pochi mesi dopo, il 9 ottobre 1978, muore all'ospedale di Bobigny, un sobborgo di Parigi. Ha quarantanove anni e viene seppellito sulla adorata isola Hiva-Oa.

 

08 ottobre, 2020

8 ottobre 2004 - Christina Aguilera: basta cazzeggi, andate a votare!

L’8 ottobre 2004 il nome di Christina Aguilera si aggiunge a quello degli artisti impegnati nella campagna elettorale statunitense con l’obiettivo primario di convincere le ragazze e i ragazzi a iscriversi alle liste elettorali e a votare per mandare a casa Bush. Per il suo appello la cantante ha scelto un mezzo di larga diffusione come lo schermo televisivo. È infatti comparsa su MTV indossando una maglietta con la scritta “Stop bitching” (Basta cazzeggi) e ha lanciato un appello destinato principalmente alle ragazze. Ha usato parole durissime nei confronti di chi si limita a mugugnare e poi non fa niente per cambiare le cose. Il succo del suo discorso è che la superficialità e l’indifferenza finiscono per lasciare ad altri il potere di decidere del destino di tutti. «È tempo di iniziare una rivoluzione – ha concluso – per questo mi rivolgo alle ragazze: andate a votare, ve lo dico dal profondo del cuore, andate a votare».


07 ottobre, 2020

7 ottobre 1959 – Mario Lanza, una voce da leggenda

Il 7 ottobre 1959 il tenore Mario Lanza muore a Roma nella Clinica Valle Giulia dove era stato ricoverato d'urgenza per un malore. Figlio di un emigrato italiano, Mario Lanza, registrato all’anagrafe con il nome di Alfredo Arnold Cocozza, nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il 31 gennaio 1925. Dopo aver compiuto regolari studi di canto alla Berkshire School, nel 1947 debutta come tenore nell’opera “Le allegre comari di Windsor” a Tanglewood nel Massachusetts, ottenendo un successo strepitoso. Dotato di una voce potente diventa rapidamente uno degli interpreti più popolari del mondo, grazie anche a una lunga serie di film musicali. Nel suo repertorio figura una lunga lista di canzoni napoletane tradizionali, ma anche moderne come Guaglione, Come prima, Resta cu’ mme e Strada ‘nfosa. Quando la morte lo sorprende a Roma ha trentaquattro anni. La sua voce e il suo nome entrano nella leggenda.



06 ottobre, 2020

6 ottobre 2000 – Mina canta l’anno del giubileo

Anticipato da una succosa anteprima via Internet il 6 ottobre del 2000, l'anno del Giubileo, arriva nei negozi Dalla terra, un album nel quale Mina si cimenta in dodici brani che affondano le loro radici nella musica sacra della tradizione cattolica. La cantante nega una correlazione diretta con l’evento ma l'impianto d'immagine che accompagna la nascita del nuovo disco sembra funzionale a una normalissima operazione d'aggancio all'anno giubilare. Per quel che riguarda le collaborazioni è da notare la consulenza del teologo Luigi Nava e di quella del direttore della Schola Gregoriana del Duomo di Cremona, Massimo Lattanti. A loro va aggiunto l'apporto compositivo di Monsignor Frisina, il compositore delle musiche per le messe del Papa, in un paio di brani tra cui il Magnificat che apre la raccolta. I "cattivi pensieri" di una scontata operazione commerciale reggono, però, fino a quando si ascolta il disco. Fin dalle prime note, infatti, ci si accorge che Mina ha fatto proprio i brani fino a trasformarli. I canti sacri emergono con una forza tutta pagana, con una vitalità che pare derivare la sua energia più dalle musiche diaboliche come il jazz e il blues che dalla asessuata e monocorde tradizione cattolica. C'è un apporto personale della cantante che si nota. Mina non se ne sta sullo sfondo, ma riempie di passione musiche nate per esaltare la spiritualità distaccata. Certamente non si tratta di un album in linea con la precedente produzione della cantante anche se bisogna ricordare che nel 1980 l'album Kyrie Mina conteneva già una singolare versione dell'Aria di chiesa di Antonio Stradella. C’è una rilettura del tutto personale della tradizione cattolica con caratteristiche decisamente pagane. Come si potrebbe definire altrimenti una versione dell'Ave Maria di Gounod in tempo leggero quasi fosse uno standard jazzato? La cantante, accompagnata da un’orchestra sinfonica diretta dal fedele Gianni Ferrio piega la struttura originaria dei brani alle proprie esigenze interpretative. Rispetto al passato più recente scompaiono gli abbellimenti estetici e vengono sostituiti da un rigore interpretativo che non toglie, però, anima e passione alla partecipazione emotiva. Fin dal Magnificat che apre il disco si capisce che Mina parla di religiosità al femminile. Al centro del suo interesse e della forza evocativa dei brani c'è la donna, cioè quel soggetto che dalla Chiesa Cattolica è da sempre marginalizzato e ridotto nel suo apporto al disegno ecclesiale. Nei brani si coglie non tanto l'asettica e distaccata percezione del rapporto con Dio quanto la forza decisamente carnale di una passione religiosa al femminile vissuta attraverso i temi della maternità e del dolore causato dalla perdita del figlio. Sono impressioni forti che non emergono solo dai brani più direttamente collegati alla tematica come il Magnificat o il Pianto della Madonna di Monteverdi, ma traspaiono anche nel caso di puri brani gregoriani come Veni creator spiritus, che acquista un calore sconosciuto dall'incontro con la voce di Mina. Quasi a dare più peso alla sua libertà di scelta per Quanno nascette Ninno, il canto seicentesco in dialetto napoletano di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, antesignano del natalizio Tu scendi dalle stelle, si avvale nientemeno che della collaborazione decisamente poco angelica di un chitarrista come Andrea Braido, vecchio compagno d'avventura di Vasco Rossi e altre rockstar italiane. Per finire la cantante fa sapere che il disco vuole essere un puro e semplice “omaggio a chi vive la religiosità” destinato soprattutto alle donne, se si presta bene ascolto ai brani.




05 ottobre, 2020

5 ottobre 1962 – “Love me do” arriva nei negozi

Il 5 ottobre 1962 la EMI distribuisce in tutti i negozi britannici Love me do, il primo singolo dei Beatles. Il suo numero di catalogo è Parlophone R 4949 e, sul retro c'è un altro brano destinato a entrare nella leggenda: P.S. I love you. La gestazione non è stata priva di problemi. Quando, un mese prima, il 4 settembre, i quattro ragazzotti di Liverpool erano entrati negli Abbey Road Studios per registrare avevano trovato qualche resistenza da parte del responsabile di produzione, George Martin, che preferiva affidare alla band un altro brano, How do you do it di Mitch Murray. I Beatles però si erano impuntati e alla fine la scelta era caduta su Love me do. Finito? No, perché l'11 settembre George Martin, non completamente soddisfatto dalla prima registrazione aveva convocato nuovamente la band per ri-registrare il brano. Per sicurezza aveva convocato anche il batterista Andy White temendo lo scarso affiatamento con i compagni da parte di Ringo Starr, inserito nel gruppo da meno di un mese ma i timori si erano rivelati infondati.



04 ottobre, 2020

4 ottobre 1875 – Le Olimpiadi? Ma quale leggenda, quella è storia...

Il 4 ottobre 1875 il professor Ernst Curtius, originario di Lubecca, inizia a scavare tra le macerie di quella che veniva indicata come l'antica Olimpia. Il suo scopo è quello di dimostrare che le Olimpiadi non sono un mito. Il cocciuto studioso ci riesce. Il 20 marzo 1881 conclude la sua opera di scavo consegnando agli allibiti contemporanei i ruderi dell'antico stadio olimpico e un'ampia relazione sull'argomento contenuta in ben sei volumi. Sulla base dei suoi studi diventa così certo che il fatto che, a partire dal 776 a.C. al 393 d.C., ogni quattro anni Olimpia diventava sede di giochi in onore di Zeus, durante i quali anche le guerre tra le litigiose nazionalità greche si fermavano. La leggenda più diffusa e pretenziosa attribuisce la prima organizzazione dei giochi nientemeno che a Ercole, mentre un'altra, meno nobile, ma certamente più vicina alla realtà elegge a padre dei giochi un certo Pelope, figlio di Tantalo, che avrebbe voluto, in questo modo, celebrare la sua vittoria, ottenuta corrompendo un cocchiere, su Enomao re di Olimpia, che aveva messo in palio la mano della figlia Ippodamia. Gli storici, invece, ritengono che varie siano state le ragioni per la nascita delle Olimpiadi: l'aspirazione a ingraziarsi gli dei in un periodo di stragi ed epidemie in tutto il Peloponneso, la possibilità di mimare senza spargimenti di sangue la lotta per il potere, l'esaltazione dell'individualità (non c'erano prove di gruppo) per stemperare le tensioni tra città ed etnìe e, in qualche modo, anche per incrementare il commercio e il turismo nell'Elide con l'arrivo di migliaia di spettatori e pellegrini. Fino alla trentaseiesima edizione i Giochi Olimpici vennero riservati soltanto ai giovani rigorosamente "di buona discendenza Greca", vale a dire agli aristocratici che avevano così occasione di mostrare al popolo la loro bellezza, la loro bravura e la loro forza. I giochi furono sempre vietati alle donne, ammesse solo negli accampamenti degli atleti e degli spettatori, anche se nel 396 la spartana Kiniska riesce a figurare tra i vincitori perchè proprietaria dei cavalli che avevano trionfato nella corsa. Accanto alle manifestazioni sportive si tenevano poi concorsi di poesia e di eloquenza, oltre a numerosissime celebrazioni religiose. Con il passare del tempo però lo spirito delle Olimpiadi si inquinò. Nonostante l'individualità delle gare, riaffiorarono le competizioni tra le etnìe e le città iniziarono ad accaparrarsi con ingaggi sempre più alti gli atleti migliori, trasformandoli, in professionisti ben pagati. Questo fatto portò, alla fine del secolo scorso, il buon De Coubertin a sostenere che il professionismo fosse il vero nemico delle Olimpiadi perchè le aveva già corrotte nel passato. In realtà non fu questa la causa del progressivo declino dei giochi. Altri furono gli elementi che lo determinarono: la progressiva decadenza della Grecia, il programma delle gare dilatato a dismisura e la concorrenza di altri centri, che, in anni diversi, organizzavano gare simili per attirare turisti furono gli indici più evidenti della decadenza e della perdita d'importanza dell'avvenimento. La fine venne decretata nel 393 d.C., quando i cristiani, che avevano ormai un enorme peso politico, dopo una rivolta seguita da un eccidio in un circo di Tessalonica (l'odierna Salonicco) chiesero e ottennero dall'imperatore Teodosio la soppressione dei Giochi Olimpici. Quello degli incidenti di Tessalonica fu, in realtà, un pretesto, perchè da tempo i cristiani meditavano la soppressione di una cerimonia che, al di là del fatto sportivo, rinnovava ogni quattro anni feste religiose antagoniste e legate agli antichi culti. La richiesta di soppressione venne avanzata da Ambrogio, vescovo di Milano e a Teodosio non restò che adeguarsi. Si chiuse così il sipario sui più famosi giochi dell'antichità. La storia ha tramandato solo il nome dell'atleta più popolare dell'ultima edizione: un pugile armeno di nome Varasdate.

3 ottobre 1907 – L’eclettico Edgar W. “Puddinghead” Battle

Il 3 ottobre 1907 nasce ad Atlanta, in Georgia, Edgar W. Battle detto “Puddinghead”. Figlio di un pianista e di una chitarrista, comincia a suonare la tromba all'età di otto anni. Nel 1922, a quindici anni, fa il suo debutto in pubblico con la formazione di J. Neal Montgomery e l'anno dopo forma un proprio gruppo, i Dixie Serenaders, alla Morris Brown University. Sul finire del 1928, diventa il solista dell'orchestra di Gene Coy e successivamente fa parte dell'organico di Andy Kirk. Con questa formazione, che comprende tra gli altri Mary Lou Williams come pianista e arrangiatrice, registra nel 1930 a Chicago. Nel 1931 entra nell'orchestra di Blanche Calloway, sorella di Cab, nelle cui file militano Ben Webster, Clyde Hart e Cozy Cole. Ancora alla guida di una propria formazione si esibisce nel New Jersey fino a quando non viene ingaggiato nel 1933 da Ira Coffey e nel 1934 da Sam Wooding e Benny Carter. L'anno successivo, dopo aver suonato brevemente con Alex Hill, entra nell'orchestra di Willie Bryant, mettendosi in mostra oltre che come trombettista, trombonista e sassofonista, anche come arrangiatore. In questa veste ha occasione dalla fine degli anni Trenta di lavorare con le orchestre di Cab Calloway, Fats Waller, Earl Hines, Count Basie, Jack Teagarden, Louis Prima e altri. Negli anni Cinquanta fonda una propria etichetta discografica, la Cosmopolitan, per promuovere musicisti poco conosciuti. Muore il 6 febbraio 1977 a New York.

02 ottobre, 2020

2 ottobre 2002 – Il Mediterraneo di pace di Eugenio Bennato

Il 2 ottobre 2002, mentre qualcuno conia nuove medaglie per gli eroi della Santa Crociata dell'occidente contro il nemico della fede e della civiltà che arriva dal mare, c'è anche chi ricorda a tutti che il Mediterraneo è una grande madre per un crogiolo di culture i cui crediti e debiti si confondono. È il caso di Eugenio Bennato che quel giorno pubblica l’album Che il Mediterraneo sia. L'artista napoletano non vuole sentire parlare di "scontro di civiltà. «Le radici del nostro sud ci portano direttamente all'idea di un Mediterraneo della pace e degli scambi. Quando ho suonato ad Algeri ho visto cadere in un attimo la diffidenza di un pubblico arroccato su posizioni di sospetto verso l’europeo privilegiato e colonizzatore: dopo i primi colpi di tamburello e di chitarra battente i ragazzi algerini si sono sentiti partecipi e protagonisti di una musica che appartiene anche a loro». Il disco, nato dai viaggi e dalle esperienze maturate in questi ultimi anni dal musicista partenopeo, continua il discorso iniziato con Taranta power incrociando le suggestioni di una mescola culturale che abbraccia senza stritolare una serie straordinaria di forme musicali e poetiche. Gli echi della lunga ricerca storica e musicale di Eugenio Bennato arricchiscono un lavoro che pur attualizzandone le sonorità, continua un discorso rigoroso iniziato negli anni Settanta con la Nuova Compagnia di Canto Popolare. È intero il fascino di un Sud che cessa di essere una imprecisa definizione geografica per diventare un luogo della fantasia. Ci sono (e come potrebbero non esserci?) le danze, le donne, il mare, i navigatori, i mercanti e i contadini, protagonisti di leggende antiche e nuove, ma c'è anche la realtà di oggi con la sua cupa disperazione e con le nuove emigrazioni. In Ninna nanna 2002, per esempio, è esplicito l'omaggio ai profughi che inseguono un sogno che spesso è di morte e non di vita. Affascinante, infine, è l'incrocio tra l'Africa, il Maghreb e il Salento che apre Taranta sound, uno dei brani più suggestivi e danzabili di un album che fa bene all'anima e alla mente.

01 ottobre, 2020

1° ottobre 1964 – Con l'arresto di Jack Weinberg nasce il movimento studentesco statunitense

Il 1° ottobre 1964, sulla Sproul Plaza del campus di Berkeley, lo studente Jack Weinberg viene arrestato senza troppe giustificazioni mentre sta distribuendo volantini politici. Quel giorno e quell’evento segnano la nascita del Movimento Studentesco statunitense. Nello spazio di pochi, frenetici minuti, gli studenti capitanati da Mario Savio e Jackie Goldberg mettono in stato d'assedio l'università, bloccando per ben trentadue ore l'auto della polizia sulla quale è stato caricato Weinberg. In quelle ore concitate viene fondato il Free Speech Movement. Sono i primi passi di un movimento destinato a crescere nel movimento pacifista la cui azione culminerà nella marcia sul Pentagono del 21 ottobre 1968. Quello statunitense è un movimento singolare che, salvo sporadiche fiammate, non metterà mai davvero in discussione il sistema politico del paese ma contribuirà a determinare un poderoso rinnovamento generazionale nelle strutture stesse del potere.

30 settembre, 2020

30 settembre 1915 - Cristina Denise dalla canzone alla pittura

Il 30 settembre 1915 nasce a Torino la cantante Cristina Denise. Fino agli anni Cinquanta il suo lavoro non è la musica. Dai primi anni Trenta, infatti, prima lavora e poi guida con piglio fermo nel capoluogo piemontese la casa di mode Gladysmoore, di proprietà della sua famiglia. L'attività artistica resta per lungo tempo un hobby da coltivare a margine del lavoro e quando nel 1955 debutta come cantante alla radio con l'orchestra di Gorni Kramer non è più una ragazzina. Il buon successo ottenuto la spinge però a continuare con le orchestre di Lelio Luttazzi, Carlo Esposito e Dino Olivieri. Scritturata dalla RCA si esibisce in tutto il mondo riscuotendo particolari consensi in America Latina, in Australia e in Inghilterra. Nel 1958 è una delle principali attrazioni canore dei più importanti locali europei, nei quali si esibisce accompagnata da un duo di chitarre. Negli anni Sessanta lascia la musica e si dedica, con successo, alla pittura.

29 settembre, 2020

29 settembre 1975 – La caduta di Jackie Wilson

Il 29 settembre 1975 il Latin Casino di Cherry Hill nel New Jersey è affollato da un pubblico entusiasta e attento. Sul palco c’è il soulman Jackie Wilson, un artista che sa bene come affascinare l’uditorio con il suo passo dinoccolato, le sigarette che si susseguono una dopo l’altra e le canzoni cantate con voce potente e inframmezzate da battute. Improvvisamente il cantante barcolla, come se avesse incontrato un ostacolo invisibile, e cade a terra battendo violentemente la testa contro il cordolo che delimita l’esterno del palco. Il suo corpo non si muove più. Arriva un’ambulanza che lo trasporta rapidamente al più vicino ospedale. I medici del Pronto Soccorso accertano che è stato colpito da un lieve attacco cardiaco. Quello che li preoccupa, però, non è il cuore, ma la testa. Nella caduta il cantante ha, infatti, riportato gravissime lesioni al cervello. Riusciranno a risvegliarlo dal coma, ma non a ridargli una vita. Passerà nove anni in uno stato vegetativo, senza più comunicare con il mondo, prima di morire il 21 gennaio 1984. Si consuma così la triste fine di uno dei più esplosivi interpreti del soul statunitense, amato alla follia dal suo pubblico che gli perdona tutto: gli eccessi, la passione per le donne e per la droga e gli inevitabili e frequenti guai con la giustizia. Ex pugile di successo, vincitore del Golden Glove nella categoria dei pesi welters ed ex cantante dei Dominoes, è tra i protagonisti dell’esplosione del soul ‘n’ roll nero. Al momento dell’incidente ha trentanove anni e non è la prima volta che rischia la vita su un palcoscenico. La leggendaria esuberanza delle sue ammiratrici per poco non gli è fatale nel 1961 quando una fan, in preda a una violenta crisi isterica, gli spara a bruciapelo e lo ferisce gravemente. Dopo una lunga degenza in ospedale ricomincia. Negli anni Settanta fa storcere il naso ai puristi e ai critici bianchi con le sue dissacranti e violente incursioni nella musica classica e lirica come Alone at last, (una riscrittura ritmata di Ciaikovskij) e My empty arms (versione “nera” di un brano di Leoncavallo). Lui non si cura delle critiche. «Se i bianchi rubano la nostra musica perché io non posso migliorare la loro?» racconta tra una sigaretta e l’altra al pubblico in adorazione. I suoi programmi si fermano, però, sul palco di Camdem, in quella dannata sera di settembre in cui il suo cervello smette di funzionare per sempre.


28 settembre, 2020

28 settembre 1970 - L’ultima volta delle Renault 8 Gordini

Il 28 settembre 1970 scendono per l’ultima volta in pista le Renault 8 Gordini dopo aver dominato per anni nei Rally europei. Tutto comincia sei anni prima. «La Renault 8 Gordini nasce per consentire a tutti gli appassionati di guida sportiva di soddisfare la propria passione senza dover sborsare il costo spropositato di un prototipo o di una vettura di lusso». Queste parole sono stampate a lettere cubitali sul foglio che apre la cartella stampa con la quale la Renault annuncia nell’autunno del 1964 la nascita della R8 Gordini, un’auto destinata a sostituire la leggendaria Dauphine nei rally e a infiammare il cuore degli appassionati. Visto dal di fuori non si tratta di un modello nuovo, ma di una sorta di aggiustamento di una vettura già esistente. La Renault 8, infatti, gira sulle strade e sui circuiti di tutta Europa da un paio d’annetti, con un motore derivato direttamente da quello della già citata Dauphine, di cui rappresenta un po’ la naturale evoluzione. I risultati sportivi, però, sembrano non sostenere il confronto con la vettura che l’ha preceduta. Abituata a dominare o, quantomeno, a lasciare il segno, la Renault non può accontentarsi delle scarse performance della R8. Infatti non s’accontenta. Accade così che, mentre gli ambienti sportivi s’interrogano sulle reali potenzialità di quel modello e i più esigenti iniziano a storcere il naso, il progettista Amédé Gordini stia già lavorando nel suo laboratorio di Boulevard Victor Hugo a Parigi a un motore di nuova concezione destinato a trasformare quella che sembra la pallida erede della Dauphine in una velocissima bomba. Il geniale mago della meccanica decide di accantonare la motorizzazione in essere. Recupera un motore a 4 cilindri da 956 cmc originariamente montato sulle Estafette e sulle Caravelle e comincia a modificarlo e a ridisegnarne alcune componenti per aumentarne la potenza e la duttilità. I risultati non si fanno attendere e in breve tempo la cilindrata passa da 956 a 1.108 cmc. Il nuovo motore, che sui registri Renault porta la sigla R1134, montato sulla R8 dimostra di avere potenzialità e performance decisamente inusuali per le vetture da turismo sportivo all’epoca. Quando, in prova, tocca i 170 kmh la casa francese capisce di avere tra le mani un gioiello. Nel 1964 sono pochissime le berline in grado di competere con un veicolo che abbia una velocità massima di 170 kmh. Per fare un paragone basti pensare che la leggendaria DS19 della Citroën non supera i 160 kmh mentre la Peugeot 404 fatica a raggiungere i 140! L’arrivo sulla scena automobilistica della Renault 8 Gordini ha, quindi, l’effetto di un fulmine a ciel sereno, una sorta di tornado che si abbatte sulle certezze degli addetti ai lavori e sconvolge pronostici e gerarchie. Un mese dopo la presentazione ufficiale la vettura trionfa al Rally di Corsica, dove si ripeterà anche nel 1965 e nel 1966, superando le Alfa Romeo GTA e le Porsche 911. I risultati stimolano la creatività. L’entusiasmo degli sportivi e della stampa specializzata spingono la Renault a non accontentarsi dei positivi risultati raggiunti e a lavorare ancora sulla competitività della vettura. Nel 1966 viene presentata la R8 Gordini 1300. Distinguibile dalla prima serie per la calandra a quattro fari, l’auto monta un motore da 1255 cmc che accresce la potenza delle frecce blu sui circuiti da Rally di tutto il mondo. Nonostante tutto, però, Renault mantiene la caratteristica fondamentale della prima R8 Gordini: il prezzo contenuto rispetto agli altri modelli in circolazione. Questa scelta, unitamente alla solida maneggevolezza dell’auto, saranno una delle componenti fondamentali della leggenda targata Gordini. Nascerà anche un circuito di gare riservate a questa vettura e moltissimi giovani talenti sceglieranno di iniziare così la loro carriera. Dopo la 1300 Gordini comincia a ritenere decisamente finito il lavoro di miglioramento della vettura. L’unico cambiamento sostanziale riguarda il colore della carrozzeria che, fin dagli inizi, è stato unico e quasi intoccabile: blu con due bande verticali bianche che la attraversano verticalmente. Nel 1968, non senza proteste e indignazioni, la gamma dei colori disponibili si allarga a ben quattro tinte diverse, tutte rigorosamente corredate dalle due bande verticali. Nello stesso anno si comincia a parlare di un nuovo misterioso progetto che prende corpo nel 1970 con l’annuncio della fine della produzione delle Renault 8 Gordini. A giugno la catena di montaggio si ferma per sempre mentre il 18 e 19 luglio sul Circuito Paul Ricard di Le Castellet vengono presentate per la prima volta le nuovissime Renault 12 Gordini, auto diversissime per concezione e per meccanica con trazione e motore anteriori. Nonostante tutto, però, la R8 Gordini resta nel cuore della gente e sono migliaia le persone che accorrono il 28 settembre a salutare per l’ultima volta in pista le vetture blu e bianche. Quando la bandiera a scacchi chiude l’ultima corsa della squadra ufficiale delle R8 l’ovazione del pubblico fa capire che l’eredità di quest’auto sarà difficile da raccogliere.