Il 26 novembre 1975 muore a Bologna, la città dove è nata quarantanove anni prima, il 26 febbraio 1926, la cantante Vittoria Mongardi. Dotata di una bellezza che i periodici dell’epoca definiscono “statuaria” Vittoria Mongardi debutta come cantante a vent’anni nel 1946 dopo essersi trasferita a Trieste. L’inizio avviene per gioco nel corso di una festa che si svolge al locale Circolo Ufficiali dell’esercito statunitense. La sua bellezza e la sua personalità colpiscono il maestro Guido Cergoli che le propone di cantare con la sua orchestra. Nel 1948 Vittoria Mongardi debutta con successo ai microfoni di Radio Trieste e due anni dopo ottiene uno straordinario successo con il brano Sapevi di mentire. Nel 1954, chiamata dal maestro Cinico Angelini per sostituire Nilla Pizzi, partecipa al Festival di Sanremo con quattro canzoni: Notturno per chi non ha nessuno, in coppia con Natalino Otto, Angeli senza cielo con Flo Sandon’s, Rose con Katyna Ranieri e Aveva un bavero, insieme al Duo Fasano e abbinata al Quartetto Cetra. Nello stesso anno entra a far parte dell’orchestra di Armando Fragna, con cui resterà fino allo scioglimento della formazione romana. Nel 1957 vince il Festival della canzone italiana a Toronto insieme al Duo Fasano con la canzone Casetta in Canadà. All’inizio degli anni Sessanta, mentre la sua popolarità in patria inizia a declinare, decide di andare all’estero. Continua a esibirsi nei locali di tutto il mondo fino a pochi mesi prima della morte. Tra i suoi successi sono da ricordare L'uomo della mia vita, Cicocì, Il mambo del trenino, Arriva la corriera, Mambo cileno, Mi manca un venerdì, Piccolo brigante, Io vendo baci, Il festival del mambo, Alle terme di Caracalla, Vent’anni in cuore, Batti batti dattilografa, Ritroviamoci, Boccuccia di rosa e Quando vien la sera.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
26 novembre, 2020
25 novembre, 2020
25 novembre 1930 - Gianni Bedori, alias Johnny Sax
Il 25 novembre 1930 nasce a Mantova il sassofonista Gianni Bedori. Studia clarinetto al conservatorio di Bologna e contemporaneamente suona vari tipi di sassofoni e il flauto in molti gruppi jazz ispirandosi prima allo stile di Charlie Parker, in seguito a quello di John Coltrane. Nel 1963 incontra il pianista Giorgio Gaslini con il quale inizia una collaborazione destinata a durare a lungo. Il sax di Bedori suona in gran parte degli album realizzati da Gaslini negli anni Sessanta e Settanta. Nel 1973 compone la suite Dedicated To Picasso, in cui esplora l'intera gamma degli strumenti ad ancia. Nel campo della musica leggera ottiene un grande successo commerciale con particolari rielaborazioni dei successi più ascoltati sotto lo pseudonimo di Johnny Sax. Muore a Milano il 21 gennaio 2005.
24 novembre, 2020
24 novembre 1945 - Lee Michaels, uno dei Sentinels
Il 24 novembre 1945 nasce a Los Angeles, in California, Lee Michaels destinato a diventare, intorno alla metà degli anni Sessanta, il cantante e pianista dei Sentinels, uno dei gruppi seminali del rock californiano. Sciolti i Sentinels, lui e il batterista John Barbata si uniscono più tardi ai Joel Scott Hill. Nel 1966 Lee forma una propria band mentre Barbata segue una strada diversa che lo porterà qualche anno dopo a suonare con i Jefferson Airplane. Nel 1968 Michaels viene scritturato dalla A&M di Herb Alpert per la quale pubblica nel 1968 con scarso successo gli album Carnival of life e Recital. L’anno dopo, inaspettatamente entra per la prima volta nella classifica dei dischi più venduti con Lee Michaels riuscendo poi a ripetersi nel 1970 con gli album Live e Barrel e nel 1971 con 5th. Nel 1972 piazza ancora in classifica i singoli Do you know what I mean? e Can I get a witness? estratti dal suo album Space and first takes, ma è l’ultimo sussulto. Da quel momento la sua carriera entra in una fase discendente sottolineata dagli album Nice day for something del 1973, Tailface del 1974 e Saturn rings del 1975.
23 novembre, 2020
23 novembre 1961 – Maurice Durand se ne va
Il 23 novembre 1961 muore in California il trombettista Maurice Durand, uno dei grandi trombettisti del jazz delle origini. Nato a New Orleans, in Louisiana, il 4 luglio 1893 comincia a suonare quando è ancora ragazzo con varie brass band mettendosi in evidenza per la notevole tecnica strumentale di cui è in possesso. All'inizio degli anni Venti entra a far parte della Onward Brass Band e della Tuxedo Brass Band, due delle più prestigiose bande di New Orleans, diventando in breve tempo molto popolare. Verso la metà degli anni Venti forma una sua orchestra da ballo, che ha tra i componenti il giovanissimo ma già validissimo clarinettista Willie Humphrey destinato a diventare uno dei protagonisti del New Orleans revival. Con questa formazione Maurice Durand suona per parecchio tempo al Pythian Temple Roof Garden, uno dei locali più in voge di quel periodo. Durante la crisi economica Durand decide di chiudere con la musica e si ritira in California, abbandonando la professione.
22 novembre, 2020
22 novembre 1963 - L’assassinio di Kennedy
Il 22 novembre 1963 John Fitzgerald Kennedy, Presidente degli Stati Uniti, è in visita ufficiale a Dallas, una città del Texas. Mentre sta percorrendo una via della città su una macchina scoperta con al suo fianco la moglie Jaqueline e il governatore Connaly, viene colpito mortalmente da tre proiettili d’arma da fuoco. Le prime indagini individuano in Lee Harvey Oswald l’assassino, ma la vicenda è solo all’inizio. Lo stesso Oswald verrà ucciso e tra verità, menzogne, coperture e supposizioni il responsabile della morte di Kennedy e gli eventuali mandanti resteranno per i più un mistero. Il gruppo britannico dei Renegades dedicherà allo scomparso presidente il brano John Fitzgerald Kennedy, cantato interamente in italiano.
21 novembre, 2020
21 novembre 1936 - Jimmy De Preist, dal piano alla batteria
Il 21 novembre 1936 nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il batterista Jimmy De Preist, registrato all’anagrafe come James Anderson De Preist. Nipote della cantante Marian Anderson muove i primi passi nella musica pigiando sui tasti bianche e neri del pianoforte all'età di dieci anni, passando poi alla batteria che studia anche con un maestro come Jules Benner. Nel periodo in cui i suoi compagni si accontentano di suonare con l’orchestra scolastica, lui è già il leader di una band da ballo. Negli anni dell’università, colpito dall'ascolto di alcuni dischi incisi da Shelly Manne, scopre il jazz e se ne innamora. Il risultato è la formazione di un quintetto che ottiene da parte della Music Society Of America il riconoscimento di miglior gruppo universitario operante nell'est degli Stati Uniti. Nel 1956 a soli vent’anni riveste i ruoli di direttore d'orchestra e di arrangiatore in occasione della prima edizione del Modern Music Festival tenutosi all'università della Pennsylvania. Neppure il servizio militare di leva lo ferma. Nonostante la divisa chiede e ottiene il permesso necessario per partecipare all’edizione del 1959 del Festival del jazz di Philadelphia. L’anno dopo diventa direttore della Contemporary Music Guild e scrive la partitura musicale per un balletto, rappresentato per la prima volta nel febbraio de1 1960 alla Academy of Music di Philadelphia. Muore l'8 febbraio 2013.
20 novembre, 2020
20 novembre 2004 - Hakim, il leone d’Egitto
Il 20 novembre 2004 arriva in Italia Hakim, “Il leone d’Egitto”, un mito per i giovani arabi e un personaggio di spicco della scena pop internazionale con più di otto milioni di dischi venduti. L’artista si esibisce al Palaghiaccio di Marino, in provincia di Roma nel primo di due concerti già esauriti da giorni (il secondo si svolge due giorni dopo al Palamazda di Milano). I concerti sono l’occasione per vedere e ascoltare dal vivo uno dei fenomeni dell’incontro tra pop e tradizione mediorientale. Nato a Maghnagha, un centro del meridione egiziano, Hakim ha fatto conoscere a tutto il mondo la sua mescola tra lo “sha’bi”, il suono della musica popolare da strada del nordafrica, e le nuove ritmiche del pop. Scoperto da Hamid El Shaeri arriva al successo nel 1991 con l’album Nazra, il primo di una lunga serie giunta nel 2004 all’ottava tappa con Lela, un disco in cui duetta con Stevie Wonder e James Brown. La sua popolarità è rafforzata anche da un costante impegno sociale a favore dei popoli dei paesi del nordafrica che negli anni gli è valso una lunga serie di riconoscimenti ufficiali.
19 novembre, 2020
19 novembre 1964 – Little Johnny Jones, dall'armonica al piano
Il 19 novembre 1964 a Chicago, nell’Illinois, muore il pianista e cantante Little Johnny Jones. Nato a Jackson nel Mississippi, il 1° novembre 1924 in una famiglia di musicisti muove ancor piccolo i primi passi nella musica. Il suo primo strumento è l’armonica a bocca, ma alla fine degli anni Trenta l’incontro con Otis Spann lo stimola a dedicarsi allo studio del pianoforte. Definito dalla critica come un «…pianista dalla vigorosa mano sinistra e dallo stile ricco di contrasti…» Jones debutta professionalmente intorno al 1943 e un anno più tardi si trasferisce a Chicago dove continua a studiare piano pur suonando come armonicista nel complesso di Eddie Boyd. Nel 1947 inizia a collaborare con Tampa Red con il quale rimane fino al 1951. Suona poi per qualche tempo con L. C. McKinley e nel 1952 entra a far parte del gruppo di Elmore Jones dove resta fino fino al 1960. In quel periodo lavora in concerti e in session discografiche con Muddy Waters, Jimmy Rogers, Dusty Brown, Homer Harris, Jyl Johnson, Magic Sam, Big Maceo, Tampa Red, Big Joe Turner, Albert King e J.B. Hutto. Nel 1961 dà vita a un proprio gruppo e nel 1963 suona con Billy Boy Arnold, continuando parallelamente la propria attività in studio di incisione. Lavora fino all’ultimo giorno quando, poco dopo il compimento del quarantesimo anno, un tumore ai polmoni se lo porta via per sempre.
18 novembre, 2020
18 novembre 1939 - Lia Scutari, cantante da Juke Box
Il 18 novembre 1939 nasce a Cavarzere, in provincia di Venezia, la cantante Lia Scutari. Terminate le scuole medie frequenta i corsi d’economia domestica a Padova. Tornata in famiglia lavora nel mulino paterno ma non rinuncia alla passione del canto, spinta anche dal padre che ogni sera al termine del duro lavoro si esibisce come basso in una corale. La ragazza a diciott’anni partecipa ai vari concorsi canori della sua zona e diventa in breve popolarissima. Nel mese di gennaio del 1959 si trasferisce a Milano per studiare canto con il maestro Federico Bergamini e pochi mesi dopo si fa notare al Festival del Juke Box di Rimini. Nel 1960 dopo aver partecipato al Festival di Villa Olmo e alla Sei Giorni della Canzone di Milano ottiene una sorprendente affermazione al Burlamacco d'oro di Viareggio con Briciole di baci. Vince poi il Festival di Pesaro con È ritornato il sole, in coppia con Flo Sandon's. Prosegue poi l’attività con alterna fortuna per qualche anno. Tra i brani di maggior successo si ricordano Tu sei simile a me, Notte mia, Il corsaro, Ruby Baby, Cerasella rock e Faro di Bahia. Muore ad Agliano Terme il 15 agosto 2011.
17 novembre, 2020
17 novembre 2004 – Il ritorno di Archie Sheep
Mercoledì 17 novembre 2004 l’Auditorium del Parco della Musica di Roma ospita un vero e proprio evento con il ritorno sulle scene italiane di Archie Sheep, uno dei più interessanti personaggi della storia del jazz del Novecento. Il sessantasettenne sassofonista statunitense alfiere del free jazz è da sempre impegnato in dure battaglie contro il sistema capitalista, il razzismo e l’imperialismo del suo paese. Sul palco romano è affiancato dal Roswell Budd Quartet e da un vecchio compagno di lotta e impegno come il poeta e scrittore Amiri Baraka, che scandisce i suoi versi sulla musica. Per il pubblico che affolla la sala è un piacere rivedere e riascoltare un grande strumentista che ha dedicato una vita all’impegno sociale e ha collaborato con i migliori jazzisti americani, da Cecil Taylor a John Coltrane, da Don Cherry a Bill Dixon, a Max Roach, solo per citarne alcuni. Fin dallo shock provocato dalla sua performance in chiave free a Lecco nel 1967 di fronte a un pubblico impreparato ai nuovi suoni, i suoi concerti italiani non sono mai passati inosservati, anche se il raduno di oltre diecimila persone all’Arena di Milano per ascoltarlo insieme all’Art Ensemble of Chicago alla fine degli anni Settanta sembra ormai appartenere a un’altra epoca. Il suo impegno artistico non è mai stato disgiunto da quello politico. Negli anni Sessanta fonda con il batterista Max Roach e con Abdullah Ibrahim, un collettivo di jazz d'avanguardia visto come uno strumento di emancipazione sociale dei neri. Nella sua concezione il jazz, e in particolare il free jazz, potevano diventare un’arma importante per il recupero dell’identità afroamericana e per la lotta contro il razzismo. Come si può immaginare, in quegli anni passa parecchi guai, soprattutto quando, oltre a suonare decide si mettersi a parlare e, soprattutto a scrivere. Acceso sostenitore del black power, rischia la completa emarginazione dichiarando in un articolo il suo appoggio alle lotte antimperialiste di Ho Chi Minh e di Fidel Castro. Messo al bando dalle case discografiche americane trova nuovi amici e nuovi spazi prima in Europa e poi in Africa. Tra i suoi dischi africani rimane insuperato Live at the Pan African Festival registrato ad Algeri nel 1969. Il 17 novembre 2004 il buon vecchio Archie chiude il Roma Jazz Festival e non sono pochi a emozionarsi rivedendolo al fianco di Amiri Baraka.
16 novembre, 2020
16 novembre 1906 - Wallace Jones, la prima tromba del Duca
Il 16 novembre 1906 nasce Baltimora, in Maryland, il trombettista Wallace Leon Jones. Cugino di Chick Webb debutta professionalmente nel 1928 con gli Harmony Birds di Ike Dixon. All'inizio degli anni Trenta si stabilisce a New York dove lavora per un certo periodo proprio con il cugino Webb, prima di essere ingaggiato dall'orchestra di Willie Bryant. Nel 1936 dopo una breve permanenza nel complesso di Putney Dandridge, entra a far parte stabile dell'orchestra di Duke Ellington, prendendo il posto di Arthur Whetsel, e con il Duca suonerà ininterrottamente sino al 1944, svolgendo prevalentemente il ruolo importante, anche se non molto prestigioso, di prima tromba, essendo chiuso, come solista, dai due mostri sacri Cootie Williams e Rex Stewart. Nel 1945 si aggrega all'orchestra di Benny Carter e negli anni immediatamente successivi si esibisce a New York con le formazioni di Snub Mosely e di John Kirby, prima di ritirarsi dalle scene musicali. Muore nel 1983.
15 novembre, 2020
15 novembre 2005 - Il primo vero tour italiano di Scout Nibblet
Con la sua testa bionda, l’aria dissociata da adolescente imprigionata in un corpo adulto, la geniale e scostante presenza scenica e una voce capace di arrampicarsi in pericolose evoluzioni senza farsi male torna il 15 novembre 2005 torna in Italia Scout Nibblet. La cantante, batterista e chitarrista britannica con la sua disarmante follia e i suoi brani dalle atmosfere scarne e aggressive ha conquistato anche un personaggio difficile come lo scontroso Steve Albini, uno dei guru del rock indipendente statunitense. Proprio lui, già produttore di gruppi come i Pixies o i Nirvana, ha prodotto il suo terzo album Kidnapped by Neptune arrivato nei negozi nei primi mesi del 2005, due anni dopo il buon successo di I Am. L’irrequieta artista è attesa da un tour italiano che inizia il 15 novembre a Bologna e prosegue il 16 a Roma, il 17 a Napoli, il 19 a Cavriago e il 20 a Milano. Non è la prima volta che la ragazza arriva dalle nostre parti, visto che pochi mesi prima fa ha aperto le date del tour dei Kills ma quello era solo un assaggio, una specie di anteprima, una scusa per mettere in mostra la merce senza concedere troppo ai potenziali acquirenti. Questa volta arriva in proprio con una spalla d’eccezione come Todd Trainer, il batterista degli Shellac. Ogni concerto fa storia a sé, come un’opera unica, perché da sempre Scout Nibblet è abituata a seguire l’ispirazione del momento senza ripetersi mai. È il suo stile, una linea da cui non ha derogato mai, neppure nella produzione discografica dove dopo il successo di I Am invece di ripetersi ha preferito spostare più in là la sua ricerca camminando su nuove strade ricche di sensualità e di allusioni sonore attraversando territori inesplorati dove il lirismo del rock fa l’amore con la poesia. Come talvolta succede di fronte alla genialità la critica si è divisa di fronte a questa «…bambina isterica in un corpo di donna che… guarda fisso nel vuoto e urla, percuotendo un grosso tamburo oppure sussurra con un filo di voce delle minimali e molto poetiche ninne-nanne…» e, alla fine un po’ «…affascina, e un po’ fa paura». Chi guarda al di là delle apparenze scopre che sotto quella parrucca bionda c’è un’artista geniale che si inserisce a pieno titolo allo stesso filone cui appartengono Cat Power o le CocoRosie e non lascia mai indifferenti. Chi non l’ama ne è spaventato. Il suo stile e i suoi brani intimoriscono soltanto chi non sa accettare la follia creativa in un’epoca in cui la musica di plastica sembra obnubilare le coscienze. Chi non si ferma alla superficie si innamora perdutamente di questa giovane autrice dai mille talenti dotata di una voce che rapisce e di grandi performance strumentali. Batteria, pianoforte, chitarra, basso e altre diavolerie sonore non hanno segreti per questa ragazza capace di suonare ogni cosa ritenga indispensabile alla sua espressione artistica. C’è una band al completo nascosta in quella figura piccola, da fatina, che ammicca allusiva nascosta dalla sua inseparabile parrucca bionda. Ogni suo concerto è un’avventura sonora e sensoriale. La forza del suo stile nelle esibizioni dal vivo è in un’apparente semplicità che prima cattura l’attenzione e poi si snoda progressivamente passando dalla più nuda linearità alla distorsione più intricata, accarezzando, mordendo, graffiando l’anima di chi ascolta. Ogni concerto è un camaleontico mosaico di suoni ed emozioni in cui Scout Nibblet si muove come un serpentello nella stagione della muta, cambiando pelle, colore e atteggiamento. È anche un gioco di potere crudele e affascinante al tempo stesso in cui l’artista è la predatrice e lo spettatore la preda. Il viso angelico e la voce magnetica hanno la stessa funzione del canto delle sirene nella mitologia greca. Servono a disarmare l’anima di chi ascolta, sgretolarne le difese, ripulirla dal sedime dell’abitudine per consentire l’ingresso in universo artistico ricco di contraddizioni e distonie che si muove sull’onda di un rock graffiante, irrequieto, incapace di restare tranquillo nella sua definizione. È come specchiarsi in uno stagno apparentemente tranquillo e scoprire che l’immagine rimandata è confusa, alterata, quasi distorta e proprio nella sua diversità dal reale trova una nuova sublimazione.
14 novembre, 2020
14 novembre 2001 – Quando Genova danzò vicino a Dio
Il 14 novembre 2001 a Genova si conclude una due giorni sospesa tra danza e spiritualità. Nell'ambito degli appuntamenti di Echo Art - Festival Musicale del Mediterraneo, al Teatro della Corte, infatti, si svolge "I suoni dell'estasi", una lunga notte di musica e danza dedicata al sufismo, il movimento mistico-ascetico nato nel VII secolo e accolto dall'ortodossia islamica solo quasi cinquecento anni dopo. Ispiratore di gran parte della letteratura araba e persiana il sufismo prevede il raggiungimento dell'unione mistica con Dio attraverso stadi progressivi da percorrersi sotto la guida di un maestro. In questo cammino spirituale la musica e la danza vengono vissuti come una sorta di liberazione catartica, un abbandono mistico che allontanando dal mondo materiale avvicina alla sfera del divino. Quello che viene proposto a Genova con "I suoni dell'estasi" è un appuntamento ambizioso e decisamente nuovo: un progetto comune di interpretazione e di incontro fra musicisti e danzatori marocchini, italiani e turchi. Il compito di aprire l'incontro viene assegnato alla confraternita Gnawa Sidi Mimoun di Casablanca, rappresentante del sufismo nordafricano, esponente della musica rituale e di trance marocchina. Presenti nelle regioni di Essauira, Fes , Marrakesh, Casablanca, gli Gnawa sono membri della confraternita sufi costituita dagli eredi degli antichi schiavi neri originari del Ghana, Sudan occidentale, Guinea, Mali , Niger , Senegal e portati, come soldati della guardia reale, in Marocco. La principale pratica della loro confraternita è la partecipazione collettiva alla Lila e alla Derdeba, rituali di musica e danza vissuti come liberazione catartica, avvicinamento spirituale e perdita di coscienza. Le roteanti danze estatiche vengono accompagnate dall’incessante poliritmia delle percussioni a membrana T’bel, dalle qaraqeb, le grandi nacchere di ferro, oltre che dall’ipnotica melodia della chitarra tamburo guembri. La seconda parte è dedicata gli ideatori della serata, i gruppi Echo Art e i danzatori della Compagnia Arbalete che propongono un'intersezione tra suono e movimento individuando alcuni scenari possibili tra sacro e profano. Tocca poi alla Sema dei Dervisci Danzanti Mevlevi di Istanbul, diretto dallo Sheik Nail Kesova. Basata principalmente sui versi delle Mescevi, uno dei poemi sacri dell'Islam, la liturgia Mevlevi utilizza musiche, chiamate Vestei-Kadim, composte in oltre cinquecento anni, dal XIV al XIX secolo. Il Sema dei Dervisci Danzanti è una delle forme coreutico-musicali più affascinanti del sufismo. Si apre con l'ingresso nello spazio cerimoniale dei dervisci in preghiera e, dopo la recitazione dei dieci passi più importanti del Corano, un flauto di canna (ney) introduce con una sorta d'improvvisazione (taksim) la parte danzata. I Dervisci, dopo l'approvazione del Maestro, cominciano a ruotare su se stessi in senso antiorario, allargando sempre di più le braccia a formare un ponte simbolico attraverso il cuore, con il palmo della mano destra rivolto al cielo, più in alto della mano sinistra che ha, invece, il palmo rivolto verso terra. È evidente il simbolismo cosmico che tende a rappresentare l'universo, la totalità, l'essenza del divino. La danza è diretta dal semazen che, proprio per mantenere l'unione spirituale, corregge i movimenti in modo impercettibile dall'esterno. L'ultima parte dell'appuntamento genovese è, infine, dedicata a uno straordinario e, per molti versi, unico incontro di musica e danza tra Oriente e Occidente. Per la prima volta una donna occidentale, la cantante Simona Barbera di Echo Art, duetta con lo Sheik Nail Kesova mentre i passi dei danzatori occidentali rammentano ed esaltano la forza evocativa della rotazione dei Dervisci.
13 novembre, 2020
13 novembre 1928 - Hampton Hawes, da Bird ai suoni elettrici
Il 13 novembre 1928 nasce a Los Angeles, in California, il pianista e compositore Hampton Hawes. Il suo incontro con la musica avviene ascoltando spirituals nella chiesa dove il padre è pastore di anime. Ancor piccolo comincia a studiare pianoforte aiutato da una sorella più grande di dieci anni che aspira a diventare concertista. Tenace e costante progredisce velocemente. Nel 1946 mentre è ancora studente alla Polytecnic High School di Los Angeles, ottiene il primo ingaggio nella orchestra di Jay McNeely. L’anno dopo, a diciannove anni, suona con Charlie Parker. L’esperienza resta scolpita nella sua immaginazione. Nei mesi in cui suona con Parker e Howard McGhee cerca di fare tesoro di tutto ciò che vede e che sperimenta. In un’intervista rilasciata qualche anno più tardi ricorda che la concezione del tempo di Parker, la sua maniera di improvvisare non restando legato al tempo ma giocando sugli anticipi, i ritardi o i raddoppi, gli ha fatto comprendere che anche il suo pianismo poteva sfruttare queste risorse. Hampton Hawes suona poi con diverse formazioni di rilievo, come quelle di Wardell Gray, Red Norvo, Dexter Gordon e Teddy Edwards. Durante un concerto organizzato da Gene Norman cattura l’attenzione di Shorty Rogers che lo vuole in studio nel 1952 per la registrazione del primo album dei Giants per la Capitol e dal vivo per il famoso concerto degli Howard Rumsey's All Stars all’Hermosa Beach Lighthouse. Nello stesso anno la sua carriera viene interrotta dal servizio di leva. Dopo il congedo nel 1955 forma un trio con Red Mitchell al basso e Chuck Thompson alla batteria. Il gruppo diventa popolarissimo anche per la sua tecnica inusuale che vede Hawes dialogare con il basso di Mitchell senza mummificarlo nel ruolo d’accompagnamento. Nel 1956 viene premiato come miglior talento dell’anno dalla rivista Down Beat. All’apice del successo è costretto a una lungo periodo di silenzio per gravi problemi personali. Ricomincia a suonare saltuariamente a partire dal 1961 ma soltanto nel 1963 ritorna in scena con una certa continuità. All’inizio degli anni Settanta scopre le nuove suggestioni dell’elettrificazione e muta completamente stile dedicandosi al piano elettrico e al sintetizzatore e fuoriuscendo dalla tradizione bop. Muore a Los Angeles il 22 maggio 1977.
12 novembre, 2020
12 novembre 1930 - Pierre Braslavsky, il jazzista che si fece architetto
Il 12 novembre 1930 nasce a Parigi il saxoclarinettista Pierre Braslavsky. Fin da bambino si dedica allo studio del violino classico ma nel 1946, dopo aver ascoltato il sassofonista Alix Combelle, decide di cambiare strumento e passare al jazz. Comincia così a studiare clarinetto e sassofono soprano. Ricco di talento già nel 1947 fa il suo debutta al club parigino dei Lorientais, in sostituzione di Claude Luter partito per una tournee. Il 18 dicembre 1948 al Coliseum vince l'annuale torneo fra dilettanti organizzato dalla rivista “Jazz Hot” e successivamente partecipa a un gran numero di concerti della serie “Jazz Parade” che lo rivelano al pubblico francese. Nel 1948 forma una propria orchestra che l’anno dopo viene scritturata dalla casa discografica Selmer. L'orchestra è composta da Bernard Zacharias al trombone, René Franc al clarinetto, Eddy Bernard al pianoforte, Roger Kara alla chitarra elettrica, Zozo d'Halluin al basso e Michel Pacout alla batteria. Poco tempo dopo viene scelta per accompagnare Sidney Bechet. L’irrequieto Braslavsky resta con Bechet per qualche mese poi decide di continuare da solo per la sua strada e viene sostituito da Claude Luter. Pian piano scopre che la musica lo appassiona sempre meno e nel 1956 decide di chiudere con il jazz per dedicarsi agli studi di architettura. Muore il 30 giugno 1995.
11 novembre, 2020
11 novembre 1932 - We Are The Levitts
L’11 novembre 1932 nasce a New York il batterista Alan Levitt. Allievo di Irv Kluger ottiene il suo primo ingaggio da professionista nel 1951 quando suona nelle formazioni di Chuck Wayne e di Barbara Carroll. L’anno dopo è con Stan Getz che lo utilizza con Bob Brookmeyer, Tony Fruscella e John Williams non solo per un giro di concerti, ma anche per la registrazione dell’album The Steamer. Il suo apporto al disco non sfugge alla critica che parla esplicitamente di “avvento di un nuovo batterista moderno di gran talento”. Le qualità di Levitt non sfuggono nemmeno a Lennie Tristano, Lee Konitz e Teddy Charles che, in periodi diversi, si accaparrano le sue prestazioni. Nel 1954 Levitt suona con Paul Bley e più tardi decide di trasferirsi in Europa. Nel 1956 è in Olanda con Pia Beck e qualche tempo dopo sbarca a Parigi dove lavora e incide dischi con Sidney Bechet, Martial Solal, Rene Urtreger e moltissimi altri. Nel 1958 torna negli Stati Uniti dove suona con Akiyoshi Toshiko e con Jackie McLean prima di entrare nei gruppi dei cantanti Chris Connor e Dick Haymes. Nel 1966 Levitt suona nella grande orchestra di Lionel Hampton e l’anno dopo è a Los Angeles con George Auld, Joe Albany e Teddy Edwards. Nel 1968 dopo la pubblicazione del singolare brano We Are The Levitts inciso con la moglie, un figlio e altri parenti preferisce accompagnare vari cantanti di successo. Solo nel 1971 ricomincia a suonare con strumentisti famosi come Lee Konitz e Zoot Sims e l'anno seguente un tour con Charlie Mingus segna il suo ritorno a tempo pieno sulla scena del jazz internazionale. Muore il 28 novembre 1994.
10 novembre, 2020
10 novembre 2005 – Parte da Brescia il tour degli Ardecore
Il 10 novembre 2005 un concerto a Brescia segna l’inizio del tour degli Ardecore, il gruppo nato da una singolare mescola tra il blues sporco e nero di Giampaolo Felici, alias Blind Loving Power, Geoff Farina, il leader della band statunitense post-rock dei Karate, la follia degli Zu, la genialità improvvisatrice di Luca Venitucci, già al fianco di Lou Reed con gli Zeitkratzer, e l’eccentrica creatività di un piccolo guru della musica contemporanea come Valerio Borgianelli. Questo apparentemente improbabile ensemble si è misurato con le canzoni della tradizione romana più antica, quella dei quartieri dove non arriva mai il sole e delle carceri. Il risultato di tutte queste componenti è, appunto, Ardecore. Nato quasi per gioco il progetto è diventato prima un disco e poi un tour. In Ardecore le ballate della malavita e del carcere, dell’amore, della violenza e della morte inventate dagli antichi cantastorie trasteverini tornano alla vita innervati da un suono e una rielaborazione che guarda più a Tom Waits o ai Calexico che ai neomelodici di casa nostra. Secondo quanto racconta lo stesso Felici «Il progetto nasce nella primavera del 2002 durante il tour europeo dei Karate con Zu e Blind Loving Power a fare da apertura. I concerti, estremamente vari come proposta venivano aperti e chiusi da vecchi dischi di musica romana giusto per depistare il pubblico». Quei brani ispirano e stuzzicano la creatività dei gruppi anche se il progetto non nasce subito. Trattenuti dai propri impegni i vari componenti si ritrovano tre anni dopo e si chiudono in sala di registrazione. L’album degli Ardecore ottiene un successo inaspettato che spiazza un po’ l’ambiente. I brani proposti hanno quasi un secolo di vita, a parte Come te posso amà che è del Settecento. Il gruppo, senza stravolgere le partiture originali, ne dà una rilettura particolare con soluzioni stilistiche decisamente moderne che Giampaolo Felici così definisce: «Non vorrei che apparisse una bestemmia, ma è blues, anzi folk blues. È il suono dell’anima di uomini e donne vissute sulle rive del Tevere e non sul delta del Mississippi. Pur non ignorandole, non scimmiotta esperienze di popoli lontani e cerca di dare voce a chi ne ha sempre avuta poca». I brani sono stati scelti cercando di dare un senso logico alla loro scansione. L’album può così essere diviso in tre capitoli di tre episodi ciascuno che richiamano un po’ alla memoria le antiche tavole dei cantastorie. Nel primo l'ambientazione è quella del carcere, della malavita, dell' amore, del dramma della morte, della strada verso l'amore divino. Nel secondo la morte sale in cattedra e il Tevere diventa lo scenario della sua azione drammatica. Il terzo trittico è dedicato alla struttura della "serenata", il fiore all'occhiello della musica popolare romana, la radice della melodia italiana più pura, quella che non teme il confronto con il tempo.
09 novembre, 2020
9 novembre 1974 - Giovanna Mezzogiorno, talento, studio e applicazione
Il 9 novembre 1974 nasce a Roma Giovanna Mezzogiorno. Figlia di Vittorio Mezzogiorno e dell'attrice Cecilia Sacchi fin da giovane studia recitazione e, per affinare la sue esperienza e le sue qualità, si trasferisce a Parigi intenzionata a frequentare il laboratorio teatrale di Ariane Mnouchkine. A vent’anni entra nel Centre International de Créations Théatrales, il laboratorio teatrale di Peter Brook. Il suo debutto sul palcoscenico avviene nel 1995 quando interpreta Ofelia in “Qui e là”, una ricerca teatrale creata e diretta da Peter Brook ispirata all'Amleto di Shakespeare con testi di Artaud, Brecht, Craig, Mayerhold, Stanislavski e Zeami. Per la sua interpretazione riceve nel 1996 il premio Coppola-Prati. Nel 1997 fa il suo debutto nel cinema nel ruolo di Porzia in “Il viaggio della sposa” di Sergio Rubini che le vale la Targa d'Argento "Nuovi Talenti del Cinema Italiano" alle Grolle d'Oro, il Globo d'Oro della Stampa Estera e il Premio Internazionale Flaiano come migliore interprete femminile della stagione 97-98. L'anno successivo ottiene il Nastro d'argento, il Ciak d'oro e il premio Pasinetti per la splendida interpretazione di Liliana nel film di Michele Placido "Del perduto amore". Nello stesso anno dà voce e volto a Elena Ballarin, una ragazza affetta da distrofia muscolare in “Più leggero non basta”, una fiction televisiva di Elisabetta Lodoli che ha tra i protagonisti anche Stefano Accorsi, destinato a diventare per alcuni anni il suo compagno anche nella vita. Nel 1999 è Anna in “Asini” di Claudio Bisio e Silvia in "Un uomo perbene" di Maurizio Zaccaro, il film ispirato al caso Tortora che la vede ancora insieme a Stefano Accorsi. L’anno dopo interpreta Suor Simplice nel film per la TV "I Miserabili" di Josée Dayan cui segue il ruolo di Giulia in “L’ultimo bacio” di Gabriele Muccino per il quale riceve il Premio Internazionale Flaiano 2001 quale miglior interprete femminile. Nel 2001 è Giovanna in “Tutta la conoscenza del mondo” di Eros Puglielli, Eleonora in “Nobel” di Fabio Carpi e Francesca in “Malefemmene” di Fabio Conversi. Seguono i pluripremiati “Il più crudele dei giorni” di Ferdinando Vicentini Orgnani, nel quale la sua interpretazione del personaggio di Ilaria Alpi le vale il Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista, e il ruolo di Giovanna in “La finestra di fronte” di Ferzan Ozpetek per cui riceve il David di Donatello, il Nastro d’Argento e il Globo d’Oro come miglior attrice protagonista. Nel 2003 guadagna un nuovo Nastro d’Argento interpretando Lena in “L’amore ritorna” di Sergio Rubini e nel 2005 vince la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica Venezia vestendo i panni di Sabina in “La bestia nel cuore di Cristina Comencini. Tra le sue interpretazioni più recenti ci sono, nel 2007, quelle della Dottoressa in “Lezioni di volo” di Francesca Archibugi, di Fermina Daza in “L’amore ai tempi del colera” di Mike Newell, di Martina in “L’amore non basta” di Stefano Chiantini e di Flavia in “The Palermo Shooting” di Wim Wenders. Nel 2008 è la protagonista di"Vincere" di Marco Bellocchio. La sua interpretazione le vale un Nastro d'Argento e un Globo d'oro e anche una candidatura come miglior attrice ai David di Donatello 2010,
08 novembre, 2020
8 novembre 1949 - Bonnie Raitt, tra rock e blues
L’8 novembre 1949, nasce a Burbank in California Bonnie Raitt. Sua madre è la pianista Marjorie Haydock mentre suo padre è pianista, mentre il padre è il famoso cantante e attore John Raitt, una delle stelle dei musical di Broadway. Fin da piccola impara a suonare la chitarra e dopo un lungo tirocinio con vari gruppi e artisti, diventa una delle protagoniste femminili della scena rock blues degli anni Settanta. Il suo debutto discografico risale al 1971 con l'album Bonnie Raitt, cui seguono lo splendido Give it up pubblicato l’anno dopo come il singolo Love has no pride. Bonnie nel corso di una carriera avara, soprattutto all'inizio, di successi discografici sa farsi apprezzare soprattutto dal vivo suonando con quasi tutti i migliori musicisti della West Coast. Tra i suoi maggiori successi commerciali degli anni Settanta ci sono gli album Sweet forgiveness del 1977, The glows del 1979 e il singolo Runaway, una versione ricca di grinta del successo di Del Shannon pubblicata nel 1977. Nel settembre del 1979 partecipa al festival “No nukes” cui seguono ben tre anni di silenzio discografico. Quando torna in sala di registrazione realizza Green light l’album pubblicato nel 1982 che segna un cambiamento nel suo stile divenuto più duro e aggressivo. In quel periodo il gruppo che l’accompagna è la Bum Band, un ensemble straordinario formato dall'ex Faces Ian McLagan, l'ex Beach Boys Ricky Fataar, Ray O'Hara e Johnny Lee Sheel. Nel 1983 partecipa alla registrazione dell'album The distance di Bob Seger con Roy Bittan della E. Street Band, Bill Payne e Glenn Frey. Per vedere la pubblicazione di Nine lives il suo nuovo album come solista occorre attendere fino al 1986. Nel 1988 Bonnie lavora con Don Was dei Not Was alla realizzazione di due dischi: uno per la Disney e l'altro, con Marlo Thomas destinari ai bambini. Nello stesso anno partecipa, con Linda Ronstadt, Bob Seger e Renee Armand, alla realizzazione di Let it roll, l'album del ritorno sulle scene dei Little Feat. Pochi mesi dopo anche per lei arriva il momento del grande successo con Nick of times, un album prodotto da Don Was e realizzato con la partecipazione di Graham Nash, David Crosby, Herbie Hancock e i Fabulous Thunderbirds. Nick of times vende ben tre milioni di copie soltanto negli Stati Uniti, e vince tre Grammy: per il miglior album, la miglior voce solista femminile di rock e la miglior voce solista femminile di pop. Nello stesso anno Bonnie vince anche un quarto Grammy per il miglior disco di blues tradizionale con I'm the mood, cantato in coppia con John Lee Hooker. Sempre nel 1989 partecipa alla realizzazione dell'album Word in motion di Jackson Browne con David Crosby, Sly Dunbar e altri. L'anno dopo ha collabora alla registrazione dell'album The healer (1990) di John Lee Hooker. Pur essendo arrivata al successo commerciale a quarant'anni, Bonnie ha saputo ripetersi nel 1991 con l'album Luck on the draw e con il singolo Something to talk about. Negli anni Novanta limita il suo lavoro discografico a altri due album più un doppio live, Road Tested, nel quale rispolvera la sua antica grinta. Il 3 marzo del 2000 viene inserita nella Rock and Roll Hall of Fame. Due anni dopo realizza l’album Silver Lining (2002) cui seguono Souls Alike nel 2005 e Slipstream nel 2012.
07 novembre, 2020
7 novembre 2003 – I sessant’anni di Joni Mitchell valevano meno di quelli di Dylan
Il 7 novembre 2003 Joni Mitchell compie sessant'anni nel silenzio quasi generale. È strano, a pensarci bene. Si sono spesi fiumi d'inchiostro per il sessantesimo compleanno di Bob Dylan e per quello virtuale di John Lennon, si consumano pagine di preziosa carta patinata per ogni spostamento progressivo nel tempo per le icone del rock, anche le più piccole, ma solo per i maschi. Fateci caso. Le icone femminili del rock sono tali solo se morte giovani, fissate per sempre in una sorta di limbo in cui la gioventù è eterna. Le donne del rock non possono invecchiare, pena l'oblio o, quando va bene, una infastidita tolleranza. L'anno prima proprio Joni Mitchell aveva detto di essere stanca e schifata da un music business che chiede alle donne di essere "bambole inanimate", figurine astratte in cui l'immagine prevale sulle qualità artistiche. Era la vigilia dell'uscita di "Travelogue", una pregevole raccolta di brani registrata con la London Symphony Orchestra, e lei aveva detto che non avrebbe più pubblicato altri dischi. «Una donna della mia età, nonostante un nome e una storia che in qualche modo la tutelano, non ha più il look. In più non ho mai avuto la voglia di "collaborare''. Ditemi voi che cosa dovrei fare. Mostrare le tette? Farmi allungare i capelli e assumere un coreografo? Questo non è il mio mondo, si aggiustino da soli, io non ci sto più». Parole forti, precise e destinate a scuotere le coscienze se il sistema mass-mediatico non le avesse sintetizzate in un unico, diverso, concetto: «È l'ultimo album di Joni Mitchell, imperdibile, compratelo!». Stop. Il resto era diventato contorno, funzionale all'obiettivo primario di vendere qualche disco in più di un'interprete femminile già virtualmente fuori catalogo. Il pressoché generale silenzio che circonda il suo sessantesimo compleanno è significativo. Accade a lei, figurarsi alle altre. Già, perché non è facile nascondere o ignorare quasi quarant'anni di carriera di un personaggio a suo modo unico nel panorama della musica folk rock. Poetessa e pittrice, Joni Mitchell ha attraversato la scena musicale da protagonista, suscitando amori, passioni e divenendo amica, compagna, fonte di ispirazione e punto di riferimento per un numero impressionante di artisti. Ha un solo difetto: non è un maschio ed è viva. E, quindi, invecchia. James Taylor invecchiato e senza capelli può andare bene lo stesso, ma Joni Mitchell o Sheryl Crow con un fisico segnato dalla vita non funzionano né nei video né sulle copertine dei dischi. Questo è il mondo del music business.
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