Il 13 aprile 1945 gli alleati arrivano nel campo di concentramento di Buchenwald, il luogo dove è nato il più famoso brano della resistenza antifascista europea. Si intitola Il canto dei deportati, ed è stato composto negli anni Trenta dall'elaborazione collettiva dei prigionieri politici. Viene poi ripreso anche nel campo femminile di Ravensbruk e successivamente tramandato in tutte le lingue d'Europa. La sua storia inizia quando, nel 1937 un gruppo composto da circa trecento deportati, provenienti dal disciolto campo di concentramento di Lichtenburg, presso Lipsia, inizia a costruire, con attrezzi primitivi e insufficienti, le prime baracche del campo di Buchenwald. Il legname necessario viene ricavato dalla vicina foresta di Ettersberg, un tempo descritta e amata da Goethe. Alla fine dello stesso anno il campo ospita già più di novemila prigionieri. Con l'inasprirsi della repressione e delle persecuzioni naziste il numero degli internati cresce in modo geometrico. Alla fine del mese di dicembre del 1943 le immatricolazioni sono 37.319. Un anno dopo diventano 63.084 e 80.436 verso la fine del marzo 1945, quando, cioè, manca ormai poco alla Liberazione dell'Europa. Si calcola, per difetto, che in quel campo siano transitate più di duecentotrentamila persone. La cifra vera dei morti è difficile da ricostruire con esattezza. I registri ufficiali riportano parlano di circa sessantamila, ma la cifra è certamente lontana dalla realtà. All'inizio della sua storia il Lager è uno di quelli affidati dai nazisti alla cosiddetta autogestione da parte dei "triangoli verdi" cioè dei delinquenti comuni il cui potere si esprimeva soprattutto in delazioni e violenze. Dopo aspri scontri e non senza vittime, giorno dopo giorno, però, i prigionieri politici, quelli del "triangolo rosso", finiscono per prendere il sopravvento. A Buchenwald viene sperimentato e applicato lo sterminio per lavoro. I deportati lavorano come schiavi nelle infrastrutture militari con tempi e ritmi oltre il limite della sopravvivenza. La presenza fra i prigionieri di numerosi dirigenti politici, soprattutto comunisti, favorisce, però, i contatti fra i vari gruppi nazionali e la costruzione di una rete clandestina di solidarietà. A poco a poco si sviluppa nel campo un movimento di resistenza con la costituzione di un comitato clandestino internazionale. Con il passare degli anni viene messa in piedi anche una struttura militare. I deportati che lavorano nelle fabbriche d'armi dei dintorni trafugano pezzo dopo pezzo armi, che vengono riassemblate di nascosto. Quando, nei primi giorni dell'aprile 1945; le SS decidono di sgombrare il campo il comitato clandestino dà l'ordine dell'insurrezione generale. Accade così che il 13 aprile 1945, gli alleati arrivino a Buchenwald in un campo che è già stato liberato con il comitato internazionale, non più clandestino, che ne gestisce la vita democraticamente.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
13 aprile, 2021
12 aprile, 2021
12 aprile 1975 - Josephine Baker, la venere nera
Il 12 aprile 1975 muore Josephine Baker, un pezzo di storia dello spettacolo francese. Nel 1925 un gonnellino di banane su un sinuoso corpo femminile lucido e nero segna la nascita di un mito. Josephine Baker, la “Venere nera”, cantante, ballerina, attrice, diventa la stella più fulgida del music-hall parigino e fa innamorare l’Europa intera con la sua bellezza, i suoi numeri di danza e le sue canzoni. La regina nera di Francia non nasce nel paese che l’incorona, ma arriva da lontano, dall’altra parte dell’oceano, nelle ex colonie francesi degli Stati Uniti. Apre gli occhi sul mondo il 3 giugno 1906 a Saint Louis, nel Missouri. I suoi genitori sono due artisti girovaghi. Carrie Mac Donald si chiama la madre ed Eddie Carson il padre che un anno dopo la sua nascita molla per sempre compagna e figlia. Si dice che dalla madre la ragazza abbia ereditato la bellezza e dal padre l’energia. Dopo Josephine arriveranno altri tre marmocchi, Richard, Margaret e Willie Mae. I tempi e le condizioni son quelli che sono e nessuno dei piccoli Mac Donald può permettersi di non lavorare. A otto anni, mentre le altre bambine vanno a scuola, Josephine va a servizio in una casa di bianchi che la maltrattano. Non dura molto. Scappa e si rifugia dalla comprensiva nonna Elvara. In quegli anni impara a danzare nelle strade ripetendo all’infinito i movimenti sinuosi dei ballerini jazz. Nel 1917, a soli undici anni, assiste atterrita a una serie di disordini razziali scoppiati a Saint Louis con l’uccisione di decine di persone colpevoli solo di avere la pelle nera. Lei stessa racconterà in futuro che quell’esperienza ha segnato in modo indelebile la sua coscienza spingendola ad affiancare all’impegno artistico l’impegno civile e sociale. La strada è una grande scuola e quando Josephine compie tredici anni la danza e il canto non hanno più segreti per lei. I passi più difficili dei ballerini jazz ripetuti all’infinito le sono diventati naturali, quasi istintivi. Si sente pronta per il palcoscenico, ma s’accontenta di esibirsi saltuariamente come cantante e ballerina in qualche locale della città sognando di diventare la stella delle grandi riviste. Il sogno sembra avverarsi quando a Saint Louis arrivano la compagnia Dixies Steppers. È il 1920, lei si propone e viene assunta, anche se soltanto aiutante della sarta di scena. «Troppo magra per andare in scena» ha sentenziato il direttore. Josephine, però, è testarda e passa più tempo a danzare e a imparare canzoni che a rammendare i costumi. In breve conosce a memoria tutte le canzoni e ogni coreografia. Tanto impegno non va sprecato. Nel mese d’aprile del 1921 viene chiamata a sostituire una delle soubrette infortunata al Gibson Theater di Filadelfia. Finalmente è arrivata sul palcoscenico e non lo lascerà più. Nel 1922 lavora nella rivista “Shuffle Along” e nel 1924 in “The Chocolate Dandies”. L’anno magico è però il 1925 quando la Baker, sbarcata sul suolo francese con la sua compagnia per una breve tournée, arriva al Teatro degli Champs Elysées con lo spettacolo musicale “Revue Nègre”. È il 2 ottobre quando il corpo splendido di Josephine Baker si esibisce per la prima volta su un palcoscenico francese e conquista prima Parigi, poi l’Europa intera. Pochi giorni dopo è già la stella dello spettacolo, anche grazie agli inimitabili manifesti di Paul Colin. Josephine Baker diventa la regina dei music-hall parigini e decide di non tornare più negli Stati Uniti. La sua nuova patria è la Francia dove il pubblico l’adora e la chiama Venere Nera. Il primo a ribattezzarla così è André Levinson che sulla rivista Commedia del 22 ottobre 1925 scrive «…i seni che sembrano scolpiti da uno scultore e il vibrare (nella sua danza ndr) dell’Eros africano ci catturano. La ballerina scompare per lasciare il posto alla Venere Nera di Baudelaire…». Josephine Baker diventa rapidamente un simbolo della Parigi dei famosi “Années Folles”, come viene chiamato quel periodo che va dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Trenta. La sua popolarità cresce geometricamente di rivista in rivista fino a toccare l’apoteosi con “La joie de Paris”, lo spettacolo andato in scena al Casino nel dicembre del 1932. Per lei stravedono gli artisti che la considerano un simbolo di anticonformismo e liberazione sessuale. Mentre i benpensanti si scandalizzano e chiedono provvedimenti contro l’immoralità dilagante di cui sarebbe simbolo, di lei s’innamorano diplomatici e principi. Dal teatro di rivista al cinema il passo è breve e il successo costante con film come “Zouzou” del 1934 e “Princesse Tam-Tam” del 1935. Le sue canzoni, in particolare J’ai deux amours che diventa quasi la sua sigla, fanno il giro del mondo. Nel 1937 diventa ufficialmente cittadina francese e quando la Francia viene occupata dai tedeschi lei cambia aria visto che la sua pelle nera non appare proprio in sintonia con le teorie naziste sulla supremazia della razza ariana. L’esilio non cambia né la sua vita né il successo. Continua a esibirsi sui palcoscenici del mondo, ma diventa anche un agente segreto. Nel corso del conflitto, infatti, viene arruolata dai servizi segreti inglesi che utilizzano la sua mobilità per trasmettere importanti messaggi in codice nascosti negli spartiti musicali. La sua attività è incessante. Va ovunque sia possibile: in Spagna, in Portogallo, nel nord Africa. Organizza poi concerti destinati ai soldati al fronte per cercare di sollevare il morale delle truppe Alleate. Usa poi le arti della seduzione per convincere i governi dei paesi non allineati a schierarsi con le “Forze Armate della Libera Francia” guidate dal generale De Gaulle. Per questa sua attività di resistenza e di intelligence il 18 agosto 1961 riceverà dal generale Valin la Legione d’Onore e la Croce di Guerra. Nel dopoguerra Joséphine comincia ad avere vari problemi di salute. Costretta a ridurre un po’ la sua attività artistica nel tempo che si libera si dedica agli altri impegnandosi anche nella lotta contro la segregazione razziale. Negli USA raccoglie fondi, offre gratuitamente concerti, partecipa a conferenze e a marce per la pace, mentre nel suo castello di Milandes, in Dordogna, ospita dodici bambini adottati ciascuno appartenente a una razza e una religione diversa per dare un esempio di fraternità universale. Gli spettacoli, però, non bastano a mantenere economicamente tutte queste attività e, all’inizio degli anni Sessanta, Josephine, quasi sul lastrico, decide di vendere Milandes. Nel febbraio 1964 alla vigilia del giorno fissato per la vendita Brigitte Bardot, in quel periodo al culmine della sua popolarità, lancia un appello per aiutare la Venere Nera. La vendita viene sospesa, ma i debiti e i problemi non scompaiono per magia. Passato l’effetto Bardot Josephine si ritrova sola nella sua battaglia quotidiana e comincia ad avere problemi di cuore sempre più frequenti. Non manca chi l’aiuta a far fronte ai debiti. Nel 1968 il suo amico Bruno Coquatrix le organizza un concerto all’Olympia mentre la Pathé Marconi si impegna a pubblicare un album speciale per l’occasione. Nonostante i generosi tentativi la battaglia contro i debiti finisce male. Nel 1969, mentre i suoi ragazzi sono rifugiati a Parigi da amici, tenta di resistere alla sfratto ma nella notte viene presa e buttata fuori da Milandes. La sua vita riprende a muoversi tra tournée e ricoveri in ospedale. L’8 aprile 1975 celebra i cinquant’anni dal suo debutto in Francia mettendo in scena al Bobino uno straordinario spettacolo di fronte a un parterre colmo di personalità. Nessuno lo sa ma quello è il suo ultimo saluto alla città. Due giorni dopo si addormenta per un sonnellino pomeridiano e non si sveglia più. Colpita da un’emorragia celebrale muore il 12 aprile 1975. Parigi l’accompagna nel suo ultimo viaggio con un corteo immenso, ripreso in diretta televisiva, che attraversa la città sostando davanti ai teatri che hanno costruito il suo mito e i suoi successi.
11 aprile, 2021
11 aprile 1953 - Il “giallo” Montesi
L’11 aprile 1953 viene rinvenuto sulla spiaggia di Torvaianica il corpo seminudo e senza vita della giovane Wilma Montesi. Inizia così uno scandalo politico e di costume destinato a monopolizzare l’attenzione morbosa della cronaca e a provocare un terremoto politico. La ragazza si allontana da Roma, alle cinque del pomeriggio, per recarsi a Ostia e da quel momento le sue tracce diventano confuse, anche se una testimone, la professoressa Rosetta Passarelli, conferma che ha effettivamente preso il treno per Ostia. Il giallo si alimenta di sempre nuove voci, ma, a poco a poco, la pista principale diventa quella di una lussuosa Alfa 1900 che in molti hanno visto aggirarsi nella zona di Torvaianica con a bordo la Montesi e “il figlio di una nota personalità politica”. La testimonianza principale sull’identità delle persone a bordo dell’auto è del meccanico Mario Piccinini di Castelporziano, uno dei pochi personaggi di questo giallo che non cambierà mai versione e che ha riconosciuto nei due occupanti la signorina Wilma Montesi e il signor Piero Piccioni. Quest’ultimo è il figlio del ministro Attilio Piccioni, tra i più autorevoli esponenti della Democrazia Cristiana dell’epoca e considerato da molti il probabile successore di Alcide De Gasperi alla guida del partito. Le indagini si fanno più serrate, ma le conclusioni cui giungono gli investigatori destano sconcerto e perplessità. Secondo la ricostruzione, infatti, la morte sarebbe da attribuire a una disgrazia: Wilma toltesi le calze, avrebbe messo i piedi in acqua e sarebbe stata colta da un malore, morendo annegata. Qualcuno parla chiaramente di ‘versione di comodo’ non suffragata da prove, anche perché sembra che il cadavere non presenti alcuna traccia di permanenza in mare. A zittire gli scettici interviene però il padre della ragazza, Rodolfo Montesi, che dichiara “È stata una disgrazia”. Un caso chiuso? Così si vorrebbe, ma il diavolo ci mette lo zampino. Il 6 ottobre 1953 il settimanale ‘Attualità’, diretto dal ventiquattrenne Silvano Muto, parla esplicitamente di delitto e denuncia la responsabilità di non ben precisate persone altolocate, dedite alla cocaina e allo sfruttamento della prostituzione. Nel gennaio 1954 il Muto, processato per aver diffuso “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, decide di rivelare ai giudici i nomi dei suoi confidenti: due aspiranti attrici, Anna Maria Moneta Caglio e Adriana Bisaccia, e un funzionario della camera, il dottor Angioy. Il caso si riapre. La Caglio sostiene che Wilma Montesi sarebbe morta per mano di Piero Piccioni durante un ‘droga party’ organizzato da un certo Ugo Montagna, consulente dell’INA per gli affari immobiliari, descritto come un trafficante di droga invischiato in un giro di prostituzione d’alto bordo. Il 21 settembre 1954 il giudice istruttore Sepe ordina la cattura di Piccioni per assassinio e Montagna per favoreggiamento. I due vengono rinchiusi nel carcere di Regina Coeli. Lo scandalo segna la fine della carriera politica del potente ministro Piccioni. Il processo si svolgerà a Venezia nell’estate del 1957 in un clima torbido e confuso. Il dibattimento, ricco di mezze verità e di testimoni improbabili, si concluderà con l’assoluzione di entrambi gli imputati. Il giallo Montesi, persa la sua attualità politica, resterà per sempre senza risposte.
10 aprile, 2021
10 aprile 1933 - Chelo Alonso, da Cuba alle Folies Bergères
Il 10 aprile 1933 a Central Lugrano, in Cuba, nasce la cantante, attrice e ballerina Chelo Alonso. Il suo vero nome è Isabel Garcia e fin da piccola la sua aspirazione è quella di diventare una bravissima ballerina. La costanza, l’impegno, lo studio e uno straordinario talento naturale le consentono di bruciare rapidamente le tappe e di diventare, ancora adolescente, una delle ballerine più applaudite dei Caraibi. A vent’anni è già una star delle riviste e dei music hall statunitensi di Miami, New Orleans e Broadway. Quando arriva a Parigi, dove è stata scritturata dalle Folies Bergères, tutti parlano di lei come della “nuova Josephine Baker”. La ragazza però ha altre ambizioni. Vuole diventare anche una stella del cinema. Alla fine degli anni Cinquanta diventa una delle più popolari protagoniste della stagione dei “peplum” vestendo panni diversi, dalla cattivissima regina Syria in “Maciste nella terra dei ciclopi” all’orgogliosa Landa ne “Il terrore dei barbari”. Non mancano interpretazioni di commedie come “Gastone” di Mario Bonnard nel 1958 con Alberto Sordi e Vittorio De Sica o “La ragazza sotto il lenzuolo” di Marino Girolami del 1961 con Walter Chiari. Alla sua popolarità non guasta una nutrita serie di presenze televisive. Alla metà degli anni Sessanta decide di lasciare le scene per amore. Fa soltanto tre eccezioni per tre film western all’italiana: “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone nel 1966, “Corri uomo corri” di Sergio Sollima nel 1968 e “La notte dei serpenti” di Giulio Petroni nel 1969. Muore a Mentana il 20 febbraio 2019.
09 aprile, 2021
9 aprile 2004 – “Fotti Bush”, l'invito degli Xiu Xiu
Il 9 aprile 2004 viene pubblicata in Italia una delle foto della campagna stampa che accompagna l’ultimo album degli Xiu Xiu, nella quale James Stewart, l’inventore della sigla e deus ex machina del progetto è fotografato insieme alla sua compagna d’avventura Caralee McElroy con una maglietta nera su cui compare, in rosso e molto evidente, la scritta “Fuckbush”(Fottibush). In più sull’ultimo album c’è un brano dal titolo esplicitamente ironico Support our troops in Iraq Oh! che, invece di essere una canzone, è un sorta di drammatica sonorizzazione di un equivoco insito nel titolo. Se anche un gruppo di culto o, meglio, un progetto ad assetto variabile, come quello degli Xiu Xiu, lontanissimo per sonorità e per impostazione dal concetto di “musica militante” aggiunge il suo piccolo mattoncino alla battaglia per fermare il delirio dell’amministrazione americana vuol dire che il movimento è più diffuso di quello che potrebbe apparire. Ciò avviene nel momento in cui il linguaggio di James Stewart e compagni si apre verso il pop, diventa più accessibile e allarga gli orizzonti di possibile ascolto. Nei suoni dei loro album, compreso l’ultimo Fabulous Muscles la voce di Stewart incontra e qualche volta sfida su terreni diversi tutte le costruzioni stilistiche degli ultimi vent’anni, dalla new wave alla classica, al technopop, all’etnica elettronica. Il lavoro di frammentazione e ricostruzione avviene trattando gli strumentisti come se fossero macchine sonore con l’anima. Non sempre, peraltro, gli strumentisti ci sono davvero perché talvolta accade che lo stesso Stewart crei direttamente i vari suoni. Tutto ciò, pur intrigante, non ne fa necessariamente un campione d’originalità. La differenza con molti altri sperimentatori sta invece nel fatto il progetto Xiu Xiu non punta a far vivere in maniera astratta o casuale i vari suoni. Due sono gli elementi che, a detta di Stewart, vengono presi a riferimento nella composizione e nella registrazione di un brano. In un primo momento c’è la ricerca di un equilibrio sonoro in grado di rendere efficacemente un testo, uno stato d’animo, un concetto o un’emozione. Ottenuto il primo risultato inizia una sorta di ambientamento storico del suono ottenuto. Che cosa vuol dire? Che siccome niente o quasi nasce dal nulla, ottenuto un suono dichiaratamente new wave lo si utilizza in modo da rispettare i riferimenti storici del genere a cui è legato. Il risultato è un lavoro ricco di quei riferimenti culturali la cui mancanza ha spesso fatto sembrare arida e insulsa la sperimentazione technopop.
08 aprile, 2021
8 aprile 1929 - Eiji Kitamura, il clarinetto dello swing giapponese
L’8 aprile 1929 nasce a Tokyo, in Giappone, il clarinettista Eiji Kitamura. Autodidatta, si afferma sulla scena jazz giapponese con uno stile ispirato soprattutto a Benny Goodman e ai musicisti dell’epoca dello swing e delle grandi orchestre. Tra il 1951 e il 1953 suona con il gruppo di Saburo Nanbu e successivamente si mette in proprio con la formazione dei Cats Herd. Nel 1957, dopo lo scioglimento della band suona a lungo con Mitsuru Ono con il quale resta fino al 1960. Ormai divenuto il più popolare clarinettista giapponese proprio nel 1960 parte per una nuova avventura formando un quintetto a suo nome. Nel corso della sua lunga carriera Kitamura ha inciso numerosi album, alcuni dei quali in compagnia del suo ispiratore Teddy Wilson.
07 aprile, 2021
7 aprile 2003 – Cindy Lauper al Gay & Lesbian Alliance Against Defamation Media Awards
Il 7 aprile 2003 Cindy Lauper viene invitata a parlare all'annuale Gay & Lesbian Alliance Against Defamation Media Awards. Si tratta di un riconoscimento importante per la cantante, icona dei movimenti per i diritti civili, nell’anno del suo cinquantesimo compleanno. Il tempo che passa non la spaventa. «Questa società è ossessionata dall'idea di invecchiare. Quando si chiede l'età a una donna che lavora lo si fa come se si scalciasse un cerchione di una ruota per verificare la tenuta dell'intelaiatura». Con la sua faccina da svampita, le multicolori acconciature, il look stravagante e la vocetta acuta e duttile negli anni del disimpegno ha osato l'inosabile facendo ballare una generazione su parole tutt'altro che ingenue. Quando la sua Girls just want to have fun (Le ragazze vogliono solo divertirsi) diventa un canto liberatorio per milioni di adolescenti alle prese con una società maschilista, lei spinge la provocazione più in là con She bop (Lei esplode), un inno alla masturbazione («dicono che dovrei smetterla,/se no divento cieca… non è ancora/una cosa proibita dalla legge»). Con la sua aria un po' stordita e una musica che salda il punk alle energie danzerecce "buca" il disimpegno di quel periodo portando in discoteca parole impegnative («padre, padre/non c'è bisogno di grandi scalate/la guerra non è una soluzione»). In lei il divertimento si coniuga con la rabbia e il ritmo con le idee. Riesce a far ballare il popolo delle discoteche su un brano feroce contro la loro superficialità come Love to hate (Amo odiare) «Fascisti alla moda,/lì fuori in branchi,/alcuni con la cipria sul naso… amo odiarvi, amo odiarvi, lo dico sul serio…». Guai poi a cascare nella trappola della sua faccetta ingenua e stordita pensando che in fondo sia soltanto il prodotto inconsapevole di un marketing provocatorio studiato a tavolino da un gruppo di esperti. Quando chiacchiera con i giornalisti le sue idee sono più dirette ancora dei testi delle canzoni: «Io sono nata in un quartiere povero, ho visto con i miei occhi la lotta di classe e so che cosa significa il fascismo economico. Se sei povero non c'è altra via d'uscita che la lotta. Si lotta per tutto anche solo per riuscire a vivere e a trovare un lavoro». Nell’anno del suo cinquantesimo compleanno promette di continuare a cantare, forse per mantenere l'impegno preso proprio in True colors: «se questo mondo ti fa impazzire/e hai subito tutto quello che puoi sopportare/tu chiamami/perché lo sai che ci sarò».
06 aprile, 2021
6 aprile 1935 – Fred Bongusto, il cantautore confidenziale
Il 6 aprile 1935 nasce a Campobasso Fred Bongusto, all’anagrafe Alfredo Buongusto. Sua mamma è veneta e papà campano. Gli anni dell’infanzia non sono facili. Tira aria di guerra e allo scoppio del conflitto suo padre viene spedito sul fronte greco. Non tornerà più. Nel 1942, quando arriva la notizia della sua morte, il futuro Fred Bongusto ha soltanto sette anni e tanti sogni. A scuola è bravino e la madre lo incoraggia a proseguire gli studi. Frequenta il liceo classico “Mario Pagano” e dopo la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Modena coltivando una nuova irresistibile passione: la musica. Uno zio musicista per diletto e grafico di professione gli ha regalato una chitarra e il ragazzo pian piano ha imparato a suonarla fino a restare sempre più affascinato dalle canzoni. Tra lo studio e la musica sceglie sempre di più la seconda finendo per abbandonare gli studi universitari e tornare a Campobasso dove frequenta un corso post-diploma giusto per non gettare via anni di impegno sui libri. Sono anni intensi di passioni e speranze. Gioca a calcio con risultati discreti ma soprattutto suona e canta in vari gruppi locali. Deciso a giocarsi il suo destino fino in fondo lascia di nuovo Campobasso per cercare fortuna altrove. Nei primi anni Sessanta Fred Bongusto comincia a essere molto conosciuto tra i frequentatori dei locali da ballo e dei night-club. L’Italia dopo gli sforzi della ricostruzione sta uscendo dalle difficoltà economiche e la gente ha una gran voglia di divertirsi. In questi anni, che verranno poi ricordati come quelli del “boom”, Bongusto imbocca finalmente la strada giusta per il successo. La svolta nella sua carriera arriva quando il suo amico ed estimatore Ghigo Agosti, il popolarissimo interprete di Coccinella, scrive appositamente per lui il brano Bella bellissima che viene pubblicato su un 45 giri accompagnato sul lato B da Doce Doce. Il disco, uscito per l’etichetta milanese Primary di Gianbattista Ansoldi, è decisivo per allargare la sua popolarità soprattutto nell’ambiente degli addetti ai lavori. Sempre per la Primary pubblica Madeleine aufwiedersen, che nel dicembre 1962 porta per la prima volta il suo nome nella classifica dei dischi più venduti, sia pure per una sola settimana. Tra i suoi estimatori c’è anche il grande maestro Gorni Kramer che nel 1963 scrive per lui Amore fermati una canzone utilizzata anche come sigla per un popolare programma televisivo che ottiene rapidamente un grande successo commerciale. Nel mese d’aprile arriva al quarto posto della classifica dei dischi più venduti in Italia. Il 1964 per Fred Bongusto è l’anno della consacrazione definitiva. Il cantante partecipa alla prima edizione della manifestazione “Un disco per l’estate” indetta dalla RAI con il brano Mare non cantare senza troppe soddisfazioni ma il grande successo arriva con Una rotonda sul mare, una delle canzoni più conosciute del suo repertorio destinata a diventare una sorta di emblema del periodo tanto da regalare trent’anni dopo il titolo a un fortunato programma televisivo di revival e nostalgia. Per il cantante è un periodo magico con ripetuti successi discografici e grandi soddisfazioni con brani come Frida e Malaga. Un buon successo ottiene anche al Festival di Napoli dove presenta una sua composizione intitolata Napoli c'est fini in coppia con Luciano Lualdi. Nel 1965 partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo con Aspetta domani un brano che porta anche la sua firma. A interpretarlo con lui sul palcoscenico della città dei fiori c’è la giovanissima Kiki Dee, destinata alcuni anni dopo a diventare una stella del pop al fianco di Elton John. La canzone, pur entrando in finale, non ha grande fortuna con le giurie anche se ottiene un buon successo di pubblico. Decisamente sfortunata è, invece, la partecipazione di Fred Bongusto a “Un Disco per l’estate” del 1965 con Il mare quest’estate, un brano che non arriva neppure alla serata finale. Si rifà l’anno dopo vincendo la manifestazione a mani basse con Prima c’eri tu, un brano che si piazza davanti a Se la vita è così di Tony Del Monaco e Tema dei Giganti. Nel 1967 torna al Festival di Sanremo con Gi, un brano interpretato insieme alla polacca Anna German che non riesce neppure ad arrivare alla serata finale. Nel 1968 Fred Bongusto si lascia catturare dalla moda del “ritorno” agli anni Trenta iniziata con il successo mondiale del film “Gangster Story” e pubblica la divertente e ironica Spaghetti a Detroit, il cui attacco «…spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè…» si trasforma in un tormentone senza tempo. In quegli anni i suoi dischi arrivano anche al vertice delle classifiche del Sud America aprendogli la strada a un periodo di intense e nuove esperienze e collaborazioni prestigiose come quelle con Vinicius De Moraes, Tom Jobim e Joao Gilberto, che pubblica anche una sua personalissima versione di Malaga. Non mancano poi collaborazioni con grandi jazzisti come Chet Baker e direttori d’orchestra come Don Costa. Negli anni Settanta entra anche per un tempo brevissimo nel Clan Celentano prima di riprendere la sua strada solitaria. Nel 1989 torna al Festival di Sanremo con il brano Scusa. Nel 1992 ottiene un grande successo con una tournée in Italia al fianco di Toquinho. L’esperimento viene poi ripetuto in Brasile qualche anno dopo. Il nuovo millennio lo trova ancora in grande attività. Il 18 marzo 2005 riceve dal Governo italiano una targa d'argento per i suoi cinquant’anni anni di carriera mentre il 2 giugno 2006 viene nominato commendatore dal Presidente della Repubblica. In suo onore la città di Roma organizza un grande concerto presso Villa Celimontana cui partecipano migliaia di persone. Nell’inverno del 2007 è nuovamente protagonista di una affollatissima tournée in Uruguay e in Argentina. Muore a Roma l'8 novembre 2019.
05 aprile, 2021
5 aprile 2003 – Per gli Avion Travel “Poco mossi gli altri bacini”
«In fondo abbiamo sempre sognato di suonare dal vivo la sigla del meteo o dei tg...». Così il 5 aprile 2003 Peppe Servillo, l'uomo immagine più che il leader autoritario di un gruppo da sempre strutturato come un collettivo di uguali, commenta il titolo del nuovo album Poco mossi gli altri bacini firmato Piccola Orchestra Avion Travel arrivato nei negozi il giorno prima. Il disco è una sorpresa. Le sonorità, il divertimento e il gusto di sorprendere riportano alla mente gli anni degli esordi, quelli in cui la band casertana mescolava il rock un po' standardizzato degli anni Ottanta con la nobiltà degli echi dello swing. Le discografie pubblicate negli stessi giorni stranamente fanno partire la storia del gruppo dal 1991, dall'album Bellosguardo dimenticando due lavori, forse ingenui, ma sicuramente vivi e sinceri come Sorpassando del 1987 e Perdo tempo del 1989. La dimenticanza, se non è frutto di ignoranza, è singolare, perché rimuove gli anni della metamorfosi, quelli in cui la band scompare. Parte per un lunghissimo tour in Unione Sovietica e quando torna è così diversa da far nascere la battuta che i sovietici ne abbiano sostituito i componenti con dei sosia. Gli echi ska, le cavalcate sospese tra un pop rock intelligente, anche se un po' maniera, e la leggerezza di un dialogo musicale che strizza l'occhio alle sonorità alternative di quel periodo scompaiono. Al loro posto c'è una band elegante, che mescola il gusto per la melodia della tradizione italiana con le suggestioni delle esperienza più colte del pop internazionale. Quella metamorfosi tanto repentina finisce per cancellare un pezzo della stessa storia del gruppo. È una vera e propria rimozione dimostrata ancora oggi dal fatto che molti ancora oggi citino il loro terzo album Bellosguardo come quello del debutto. Che cosa c'entra questo ragionamento con il nuovo disco della band? C'entra perché Poco mossi gli altri bacini getta un ponte con il passato, recupera un entusiasmo che via via appariva annacquato da uno stile che sembrava raffreddato da una ricerca troppo concettuale. Nel nuovo album cultura e intelligenza tornano ad andare sottobraccio con il divertimento. È sufficiente ascoltare il brano-autoritratto Banda casertana per accorgersi che non si tratta di un'operazione casuale, ma di un progetto voluto e pensato a lungo nei quattro anni in cui il gruppo è stato lontano dalla sala di registrazione. «Sono stati quattro anni molto intensi, confusi e ricchi di tante esperienze» commenta Servillo che, a chi gli fa notare una sorta di recupero del linguaggio dei primi Avion Travel, risponde ammiccando: «..l'album ci riporta all’innocenza e all’ingenuità dei primi dischi fin dal titolo, che è semplice e spiritoso». Dea ex machina dell'operazione è, come sempre, Caterina Caselli, una delle poche discografiche capace di rischiare in proprio sulla qualità. La sua ala protettrice questa volta si è spinta più in là del solito fino a partecipare direttamente alla realizzazione di una bella versione di Insieme a te non ci sto più, un suo antico successo. Non è l'unica voce femminile che si aggiunge agli Avion Travel in questo disco. L'altra è quella di Elisa, che nella suggestiva Vivere forte duetta con Peppe Servillo portando la sua vocalità a percorrere strade tanto diverse da quelle su cui cammina abitualmente da sembrare irriconoscibile. Detto per inciso è una lezione importante quella che arriva dalla cantante di Monfalcone perché segnala all'universo mondo l'inutilità di aggiungere intonazioni rhythm and blues a brani che non ne hanno bisogno. Sembra una cosa da poco ma in tempi in cui l'omologazione porta tutti a rifare all'infinito lo stesso stile la capacità di Elisa di adattare voce e impostazione fino a integrarsi con l'ambiente musicale che la circonda appare quasi rivoluzionaria. I testi dei brani parlano con pudore e ironia della difficoltà dei rapporti umani. Non mancano scelte diverse dal solito anche dal punto di vista linguistico, come E mo, cantata in dialetto (una rarità nella storia della band casertana) o Le style de ma memoire, in francese. Nella track list ci sono infine anche due brani legati al cinema: Piccolo tormento, nato per la colonna sonora del film "La felicità non costa niente" di Mimmo Calopresti e Avrei bisogno d’amore, scritta insieme a Fabrizio Bentivoglio per l'ultimo film di Gabriele Muccino "Ricordati di me". A quattro anni dal suggestivo ma troppo cerebrale Cirano gli Avion Travel o, meglio, la Piccola Orchestra Avion Travel torna a fare canzoni che raccontano storie e sentimenti.
04 aprile, 2021
4 aprile 1959 – La prima volta di Mina in TV
Il 4 aprile 1959 Mina fa il suo debutto sul piccolo schermo cantando Nessuno a “Il musichiere”, un gioco a quiz musicale presentato da Mario Riva. La puntata è interamente dedicata agli “urlatori” e con lei si esibiscono anche Giorgio Gaber, Jenny Luna, Adriano Celentano e Tony Dallara. Qualche settimana dopo consolida la sua popolarità partecipando a “Lascia o raddoppia?”, il programma di Mike Bongiorno che ha stregato gli italiani e che conta su una platea di oltre venti milioni di spettatori, almeno dieci volte il numero di televisori esistenti in quel momento in tutto lo stivale. L’Italia resta affascinata da questa ragazza alta e magra che indossa un maglioncino chiaro sopra un paio di jeans. Mina canta Nessuno guardando la telecamera con i suoi grandi occhi che sbucano da una zazzera spettinata e accompagna il ritmo agitando freneticamente braccia e mani. Quando la congeda Mike Bongiorno si lancia in un augurio profetico giocando con il titolo della canzone: «Ragazza mia, non ti fermerà nessuno».
03 aprile, 2021
3 aprile 1917 - Bill J. Finegan, l’unico assolo è il rumore di un cavallo
Il 3 aprile 1917 nasce a Newark, nel New Jersey il pianista, compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra Bill J. Finegan, all’anagrafe William J. Finegan. Si appassiona alla musica fin da piccolo visto che tutti i suoi familiari sono pianisti dilettanti. Durante le scuole superiori comincia a studiare il pianoforte prima prendendo lezioni private, poi frequentando il conservatorio. Per sbarcare il lunario scrive arrangiamenti e partiture che vende a vari editori. La sua carriera di arrangiatore professionista inizia quando Tommy Dorsey acquista la sua orchestrazione di Lonesone Road e la fa ascoltare a Glenn Miller. Questi resta favorevolmente sorpreso e nel 1938 invitò Finegan a collaborare con lui. La collaborazione far i due dura fino al 1942, quando Bill diventa l'arrangiatore di fiducia di Tommy Dorsey per il quale lavora una decina d’anni sia pur con qualche interruzione. Nel 1952 fonda con Eddie Sauter la Sauter-Finegan Orchestra, nata inizialmente come formazione esclusivamente da studio sull’onda del successo partecipa poi a vari programmi televisivi e si esibisce in molti locali. Il successo dell’orchestra nasce soprattutto dall’amalgama sonora tra gli strumenti, i cantanti Joe Mooney, Florence Fogelson, Anita Boyer e i cori del gruppo dei Doodlers. In tutta la sua carriera Finegan non svolge mai attività solistica e se ne fa un vanto quando dice sorridendo che l'unico suo assolo registrato è un'imitazione della corsa di un cavallo da slitta ottenuta battendo le mani sul petto. Non è uno scherzo. Esiste davvero e la si può ascoltare nel brano Midnight Sleigh Ride, inciso con la Sauter-Finegan Orchestra. Muore il 4 giugno 2008.
02 aprile, 2021
2 aprile 1979 - Jean Lumière, “chanteur de charme”
Il 2 aprile 1979 muore a Parigi Jean Lumière. Interprete sopraffino, capace di lavorare di cesello sulla voce con una cura quasi maniacale, Jean Lumière corre il rischio di essere ricordato soltanto per la sua capacità di insegnare ad altri il “mestiere” degli chansonniers. È uno strano destino il suo. Attore, cantante e fine dicitore di canzoni prende tremendamente sul serio la “missione” di insegnare e dà il meglio di sè con le interpreti femminili molte delle quali, proprio grazie a lui, diventano vivide e brillanti stelle della canzone francese. La più luminosa tra loro è Edith Piaf, un mito che lo scorrere del tempo non è riuscito neppure a scalfire, ma l’elenco è lunghissimo e comprende personaggi come Gloria Lasso, Cora Vaucaire, Mireille Mathieu, Christiane Legrand e moltissimi altri, non esclusa quella Marie Dubas che non è propriamente una sua creatura ma che lui adotta quasi come modello per affinare le qualità sceniche e interpretative della Piaf. Molte sono le incertezze quando si affrontano i primi anni di vita di Jean Lumière. C’è chi lo fa nascere a Marsiglia nel 1895 con la stessa sicurezza con la quale altri attribuiscono i suoi natali alla stessa città ma dieci anni dopo, cioè nel 1905. Non è finita perchè ci sono storici e ricercatori che lo vogliono ancora più giovane e originario di una città diversa facendolo nascere ad Aix-en-Provence nel 1907. Anche il nome con il quale viene registrato all’anagrafe è oggetto di discussione. C’è chi dice che il suo vero nome sia Jean Anezi e chi Jean-Louis Anezin. A completare il quadro nebuloso che avvolge i primi anni di vita del futuro Jean Lumière ci sono infine le ricostruzioni dell’ambiente famigliare. Nessuno discute sul fatto che la musica sia stata una sorta di passione naturale fin dall’infanzia perchè è una sua affermazione, ma alcuni sostengono che i suoi genitori possedevano un cabaret e altri sposano una tesi leggermente diversa che li vuole commercianti con la passione per la musica. Dettagli che non cambiano la sostanza delle cose ma contribuiscono a far capire come con il tempo gran parte delle notizie relative a Jean Lumière tendano a corrompersi e a sfumare un indistinto alone leggendario. La sua storia artistica comincia quando ha ancora i pantaloni corti e non ha la musica al centro. Il piccolo Jean è intenzionato a diventare attore. Metodico e senza lasciare nulla al caso frequenta con profitto regolari corsi di recitazione ottenendo alcuni prestigiosi riconoscimenti scolastici sia sul versante della commedia leggera d’ispirazione moderna che in quello della tragedia classica. Il ricongiungimento tra musica e teatro avviene quando il giovane e promettente attore viene scritturato dal Théâtre de Variétés di Marsiglia, all’epoca considerato il tempio dell’operetta dell’intero meridione francese. Non è una stella e i ruoli che gli vengono affidati hanno funzioni di contorno, ma gli consentono di affinare anche le sue qualità come cantante oltre che come attore. Con l’operetta la musica entra nel cuore di Jean Lumière, anche se non è ancora la sua attività principale. Il ragazzo, poi, è riluttante ad abbandonare una rassicurante carriera teatrale per dedicarsi interamente alla musica. Non vuole lasciare il certo per l’incerto. È la sorte a decidere per lui. La svolta nella sua carriera avviene nel 1929 in occasione della grande festa d’addio al pubblico del cantante Henri Dickson all’Opera di Marsiglia. Come molti protagonisti della stagione teatrale e musicale cittadina viene invitato a salire sul palco per un breve omaggio al festeggiato e canta uno dei brani del repertorio di Dickson. La sua esibizione sorprende sia il pubblico che gli addetti ai lavori. Tra i personaggi più entusiasti c’è Esther Lekain, una delle grandi vedette dell’Alcazar di Marsiglia a quell’epoca al vertice della popolarità. È lei la prima a suggerirgli di lasciar perdere il teatro per dedicarsi a tempo pieno alla musica ed è sempre lei a scegliere il suo nome d’arte: «...caro ragazzo, avete una voce chiara come la luce di un giorno d’estate di questo nostro meridione. Perchè non la mettete nel vostro nome? Io credo che voi dobbiate prendere il nome di Jean Lumière...» Così accade. La luminosa vedette Esther Lekain diventa la sua madrina e lo aiuta a farsi conoscere nel giro che conta. La scalata al successo è velocissima. Un anno dopo l’esibizione all’Opera di Marsiglia ottiene un inaspettato contratto discografico della sua carriera con la Odeon. I primi due brani registrati per quella prestigiosa etichetta sono Les trois filles e Notre amour. Il 1930 non è soltanto l’anno della prime registrazioni discografiche. In quello stesso anno, infatti, Jean Lumière fa anche il suo debutto dal vivo a Parigi. La sua prima esperienza nella impegnativa e sfolgorante notte parigina avviene sul palcoscenico dell’Européen, un locale che all’epoca è famoso proprio per la capacità di scovare e proporre giovani talenti. In breve tempo diventa uno dei cantanti più apprezzati delle notti parigine. Il suo stile melodico e aggraziato, senza eccessive forzature né appesantimenti stilistici lo iscrive di diritto alla schiera di quegli interpreti che la critica definisce “chanteurs de charme”, avvicinandoli ai crooners del jazz orchestrale e del pop e considerandoli una sorta di congiunzione tra la tradizione melodica dell’Europa mediterranea e la scuola dei balladeers anglosassoni. Il pubblico viene catturato da quella voce tenera dalla dizione perfetta, sempre controllata e intonata, e ne fa uno dei suoi beniamini. Ancora oggi è ritenuto uno dei più significativi esponenti di quello stile insieme a personaggi come Fragson, Paul Delmet e Tino Rossi. Negli anni Trenta la sua popolarità raggiunge vertici inaspettati anche grazie all’ennesimo colpo di fortuna. Nel 1933, infatti, proprio la vedova di Paul Delmet gli chiede un appuntamento. Colpita dalla somiglianza della sua tecnica con quella del marito vuole fargli un dono. È un brano che si intitola La petite église, scritto dal suo defunto marito nel 1890 insieme a Charles Fallot e mai più interpretato da nessuno dopo di lui. Il brano, inserito da Jean Lumiére nel suo repertorio diventa il più grande successo della sua carriera. Proprio con La petite église vince anche il Grand Prix du Disque del 1934. Sull’onda del successo riprende altre canzoni del passato riportandole alla luce. Vivono così di nuova vita e nuovo splendore brani come Visite à Ninon, scritto nel 1879 da Gaston Maquis, Lilas blancs di Théodore Botrel o L’âme des violons di René de Buxeuil. Nel 1941 è uno dei protagonisti dei concerti dell’Étoile organizzati da Georgius. Dopo la Liberazione la popolarità di Jean Lumière resta notevole nonostante il cambiamento di gusto del pubblico e l’emergere di nuovi protagonisti della scena musicale. Tra i brani di maggior successo del 1945 anche la sua interpretazione di Ah le petit vin blanc. In quel periodo la sua fama si allarga anche all’estero grazie anche alla sua disponibilità a viaggiare. Nella seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta le sue tournée toccano vari paesi Europei, dell’America Settentrionale e di quella Meridionale, oltre che dell’Africa e del medio oriente. Considerato dai critici “la miglior voce radiofonica” del panorama musicale francese affianca all’attività di cantante quella di insegnante di canto destinata ad appassionarlo sempre di più fino a convincerlo, nel 1960, a lasciare le scene per dedicarvisi a tempo pieno. I suoi metodi d’insegnamento fanno scalpore perchè mescolano vocalità a particolari posture corporali, ma risultano particolarmente efficaci soprattutto con le voci femminili.
01 aprile, 2021
1° aprile 1992 - L’Oscar a “Mediterraneo”. Non è uno scherzo
Non è un pesce d’aprile anche se il giovane regista italiano
per un po’ sospetta che sia tutto uno scherzo. Il 1° aprile 1992 nella lunga e
spettacolare notte del Dorothy
Chandler Pavilion di Los Angeles il regista italiano Gabriele Salvatores
viene premiato con l’Oscar destinato al miglior film straniero. L’ambita
statuetta è per “Mediterraneo”, un lungometraggio da lui diretto e interpretato
da Claudio Bigagli, Diego Abatantuono, Giuseppe Cederna, Ugo Conti, Gigio
Alberti, Vanna Barba, Claudio Bisio e Antonio Catania. Tra i cosiddetti esperti
che nel nostro paese abbondano più che altrove le prime reazioni sono di
stupore. Nella cerchia degli invidiosi si finge soddisfazione ma si lanciano
strali avvelenati a rilascio lento. Tra le osservazioni nate dal bolo
dell’invidia la più velenosa è quella di chi mostra un incantato e quasi
ingenuo stupore perché i giudici degli Academy Awards avrebbero premiato con la
prestigiosa statuetta un film dalle caratteristiche tutte interne al dibattito
culturale italiano e le cui dinamiche sono comprensibili soltanto a chi ha
vissuto nell’Italia degli anni Settanta. Non è tutto perché anche le vendette
degli invidiosi hanno delle regole precise. Non si può esagerare perché se si porta
alle estreme conseguenze questa teoria del film dalle tematiche provinciali e
incomprensibili si rischia di ipotizzare che i giudici della prestigiosa
Academy hollywoodiana abbiano pescato a caso da un cappello il biglietto con il
nome di uno dei film stranieri perché non avevano voglia di vederseli oppure (peggio!)
che si siano bevuti il cervello. Entrambe le ipotesi possono rivoltarsi contro
a chi, nonostante l’invidia e il fastidio per i successi degli altri, nel mondo
del cinema deve comunque continuare a lavorare. Per questa ragione insieme alla
sorpresa per il risultato si fa sapere con nonchalance, quasi si trattasse di
un dettaglio, che “Mediterraneo” è distribuito in tutto il Nord America dalla
potentissima (all’epoca) Miramax dei fratelli Weinstein. E siccome le due
comunicazioni viaggiano accoppiate l’effetto indotto è che si tratta di un
Oscar immeritato assegnato in virtù delle pressioni di un potente distributore.
Nonostante gli invidiosi “Mediterraneo” era e resta uno splendido film girato
con mano leggera e destinato a commuovere anche chi non appartiene alla
generazione del regista. Per chi invece ha vissuto l’esaltazione del sogno di
cambiamento degli anni Settanta e il lungo riflusso degli Ottanta è la “chiusa”
finale della cosiddetta “trilogia della fuga” di Gabriele Salvatores, iniziata
nel 1989 con “Marrakesh Express” e proseguita l’anno dopo con “Turné”. Il
centro della narrazione filmica di Salvatores in quel periodo (e non soltanto
in quello) è rappresentato dal vortice di disillusioni, incertezze e voglia di fermare
il tempo che caratterizza l’impatto con il riflusso degli anni Ottanta (e con
la maturità) da parte di una generazione, la sua, dopo l’illusione di poter
cambiare il mondo. Mentre i primi due film della trilogia entrano direttamente
nel vivo di queste tematiche, “Mediterraneo” ci si avvicina per contiguità di
emozioni mentre la chiosa finale del Salvatores-pensiero sulla questione arriva
una citazione da Henri Laborit («In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo
per mantenersi vivi e continuare a sognare») e dalla dedica che appare prima
dei titoli di coda («Dedicato a tutti quelli che stanno scappando»).
31 marzo, 2021
31 marzo 1911 - Freddie Green, la morbida chitarra di Count Basie
Il 31 marzo 1911 nasce a Charleston, nel South Carolina, il chitarrista Frederick William Green, conosciuto con il nome d’arte di Freddie Green. Comincia a suonare la chitarra a dodici anni con ottimi risultati. Trasferitosi a New York per terminare gli studi guadagna qualche dollaro esibendosi nei locali del Greenwich Village. Una sera tra il pubblico di uno di questi locali c’è John Hammond che resta favorevolmente impressionato dal suo talento e qualche giorno dopo parla di lui a Count Basie, in quel periodo alla ricerca di un chitarrista. È così che nel marzo 1937 Green entra a far parte dell'orchestra di Basie alla quale, da quel momento la sua vita artistica resta indissolubilmente legata. Sono pochissimi i jazzisti capaci di affermarsi senza mai praticamente esibirsi come solisti. Uno di loro è proprio Freddie Green, che con la sua chitarra acustica resta con Count Basie per mezzo secolo, tranne una brevissima interruzione nel 1950. I critici hanno scritto che «...ha il dono, con la sua sola presenza in una sezione ritmica, di farla suonare supremamente bene. Con le sue pennate morbide, elastiche, perfettamente a punto, con la sua scelta sempre felice degli accordi e dei rivolti, cementa i compagni che sono intorno a lui e le sezioni ritmiche di Basie hanno sempre avuto un tocco speciale e un fascino discreto che proveniva appunto dalla chitarra di Freddie Green, intimamente fusa con lo scarno e sempre squisito pianoforte di Basie...». Per questa ragione il suo apporto in sala di registrazione è molto ambito e la sua chitarra appare nei dischi di artisti straordinari come Benny Carter, Benny Goodman, Lionel Hampton, Pee Wee Russell, Joe Sullivan, Dicky Wells, Teddy Wilson, Lester Young, Herb Ellis, Gerry Mulligan, Mildred Bailey, Billie Holiday e tanti altri... Muore il 1° marzo 1987.
30 marzo, 2021
30 marzo 2002 – Eve: Basta con la violenza sulle donne!
Il 30 marzo 2002 le agenzie di stampa specializzate in notizie musicali titolano: Basta con la violenza sulle donne. Non è uno slogan, ma un grido di battaglia, visto che a lanciarlo è la rapper Eve, una delle più cattive e famose bad girls d’inizio millennio. Forte della fama che l'accompagna e della grinta che la caratterizza la ventitreenne, che un tempo si faceva chiamare Eve Of Deconstruction, ha affrontato il problema pubblicando un brano, Love is blind (L'amore è cieco) che parla di violenza domestica sulle donne e ha fatto comunella con le associazioni che forniscono assistenza legale e materiale alle donne maltrattate. Il suo impegno su questo fronte non nasce oggi. In molti suoi brani si ritrova quel concetto complesso che negli ambiente femministi veniva definito con il termine di "sorellanza", sia pur filtrato con la sensibilità di una ragazza nata a Philadelphia nel 1979 e abituata a confrontarsi con gli uomini nella dura palestra delle strade dei ghetti. Il suo Gangsta bitches (traducetelo voi) realizzato a tre voci con altre due ragazze cattive come Da Brat e Trina ha spiegato con le parole e le durezza del linguaggio gangsta, le differenze di genere ai machos del sottobosco rap. Da quando è una star del firmamento hip hop non si è, però, fermata lì. Proprio il 30 marzo ha chiamato a raccolta due cantanti sue amiche come Faith Evans e Amel Larrieux, un pugno di attrici (Salma Hayek, Rosario Dawson, Rosie Perez e Lynn Whitfield) e ha programmato un'uscita clamorosa in occasione del "V-day Harlem 2002", la festa d'inaugurazione del leggendario Apollo Theater di Harlem, chiuso da tempo per lavori di restauro.
29 marzo, 2021
29 aprile 1920 - Grazia Gresi, dal basket alla canzone
Il 29 aprile 1920 nasce a Melfi, in provincia di Potenza la cantante Grazia Gresi. Registrata all’anagrafe con il nome di Grazia Grasso è un’esponente di spicco del basket femminile degli anni Quaranta. Poco più che ventenne lascia la pratica sportiva, trova un impiego all’Intendenza di Finanza di Napoli e si dedica alla canzone per hobby. Nel 1947 vince un concorso per voci nuove della RAI che le vale la prima scrittura a Radio Napoli con l’orchestra Campese. Partecipa a varie audizioni di Piedigrotta e nel 1956, in coppia con Aurelio Fierro, vince il Festival di Napoli con Guaglione. Negli anni successivi torna varie volte alla rassegna partenopea riscuotendo sempre un notevole successo. Negli anni Settanta lascia la musica. Tra le sue interpretazioni più famose sono da ricordare L’urdemo raggio ‘e luna, Cantammola ‘sta canzone, Te sento dint’ ‘e vvene, Napule ncopp’ ‘a luna e Non fa cchiù ‘a frangesa. Muore a Napoli il 17 aprile 2003.
28 marzo, 2021
28 marzo 1973 - Meglio i nativi dell’Oscar
Nella notte degli Oscar del 28 marzo 1973 Marlon Brando rifiuta di ritirare la preziosa statuetta, vinta per la sua interpretazione nel film “Il Padrino” e va a rendere omaggio ai nativi americani, quelli che nei film western statunitensi vengono chiamati "indiani" in segno di solidarietà con le loro rivendicazioni. Son passati quasi vent’anni da “Fronte del Porto” ma Marlon Brando non è cambiato. Negli Stati Uniti squassati da una mobilitazione senza precedenti contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili, il mito dei giovani degli anni Cinquanta decide di stare dalla parte delle nuove generazioni. Se nella prima parte della sua carriera l’identificazione con i giovani ribelli era basata sulla sua diversa interpretazione del ruolo dell’attore visto come un soggetto in grado di restituire un significato più complesso della semplice interpretazione di un ruolo, in questo caso la sua presa di posizione appare ancor più sincera perché slegata dalla sua carriera cinematografica. Con quel gesto manda un messaggio preciso: Marlon Brando è un ribelle nella vita prima ancora che sullo schermo. Le nuove generazioni, figlie dei suoi primi ammiratori, capiscono il messaggio e si riconoscono in lui, magari contro i padri e le madri che in gioventù si erano identificati con il motociclista del selvaggio.
27 marzo, 2021
27 marzo 1990 - Un Tornatore da Oscar
«Un capolavoro, un grande affresco poetico e un atto d’amore verso il cinema»: la critica di tutto il mondo va in visibilio di fronte a “Nuovo Cinema Paradiso”, un film di Giuseppe Tornatore. Dopo aver ottenuto nel 1989 il Gran Premio Speciale della giuria al Festival di Cannes, il 27 marzo 1990, nel corso della ‘Notte delle stelle’ di Hollywood, anche la prestigiosa Academy statunitense si inchina di fronte al geniale regista italiano attribuendo alla sua opera l’Oscar per il miglior film straniero.
26 marzo, 2021
26 marzo 2004 – “Salvamm’ ‘o munno”!
Il 26 marzo 2004 in una lunga intervista Enzo Avitabile presenta il suo nuovo disco Salvamm’ ‘o munno. Ci sono le voci e gli strumenti di tutti i Sud della terra nell’album del cantautore napoletano che destina parte dei proventi al finanziamento della campagna di Amnesty contro la piaga dei bambini-soldato. L’artista lo firma insieme ai Bottari di Portici, un gruppo che utilizza botti, tini e falci come strumenti percussivi seguendo le regole di un’antichissima tradizione, ma i brani vedono la partecipazione di un nutritissimo gruppo di artisti, da Khaled a Manu Dibango, Hugh Masekela, Simon Saheen, Amina, Baba Sissoko, Bachir Mizmar, Adel Shaaer, Luigi Lai e tanti altri. Una vera e propria chiamata a raccolta per salvare il mondo? Con la gentilezza e l’ironia napoletana che lo caratterizzano Enzo Avitabile si schernisce «Magari potessimo salvare il mondo con le canzoni!» Poi si fa più serio e spiega «Sono convinto che ciascuno debba fare qualcosa per questa terra. Io con la mia musica, tu con la tua vita quotidiana, con quello che sai fare, tutti insomma devono sapere che non si può uccidere la speranza e che la guerra, questo mondo di guerra che ci circonda, è una prigione da cui dobbiamo uscire. Bisogna essere consapevoli della necessità di fare qualcosa senza avere prima la garanzia che serva davvero. Bisogna perché si deve, perché tutto si lega, perché il piccolo gesto che faccio io può cominciare a cambiare le cose…». Come può essere spiegato questo in un disco? «Intanto con l’esempio. Se lo ascolti bene puoi capire che ciascun musicista entra nel linguaggio musicale senza prevaricazioni, senza imporre niente. Dalla mescola di individualità così diverse nasce quindi un linguaggio nuovo. Non è la somma di tanti stili, ma una costruzione nata dallo sforzo comune. Son partito dalle radici della musica della mia terra, ho chiesto la collaborazione dei Bottari di Portici e poi, insieme, abbiamo aperto la porta ai nostri fratelli e ai nostri amici perché lavorassero con noi». Il risultato è all’altezza delle aspettative, con artisti di fama mondiale che entrano nei suoni degli altri senza disturbare… «Sì e questo vale non soltanto per i grandi personaggi, ma anche per il lavoro fatto sulle sonorità di tutti. Per esempio l’apporto del basso o i rumorini dei tamburi sono minimali per non sovrapporsi al suono dei Bottari. Sai perché? Perché così nessuno colonizza nessuno, ma tutti insieme si lavora per qualcosa che quando inizi a costruire non sai ancora come sarà». C’è qualche novità anche nei testi…«Le parole sono più calate dentro la realtà, cercano di accarezzare il mondo e i suoi problemi ma senza esagerare. Io scrivo canzoni non articoli giornalistici e il mio lavoro funziona quando riesco a farmi capire immediatamente». Insomma vuoi proprio cambiare il mondo? «Se insisti ti dico di sì, ma a modo mio. Questo album è la dimostrazione che per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi. Che se si predica una cosa bisogna cominciare a praticarla, a dimostrare che è possibile. Io credo che su questa terra tutte le razze debbano e possano vivere insieme, in simbiosi? Bene. Siccome sono un musicista comincio a far vivere questa convinzione nel mio lavoro. Capito come funziona?»
24 marzo, 2021
24 marzo 1961 – Addio a Freddy Johnson
Il 24 marzo 1961 scompare il pianista Freddy Johnson. La sua morte avviene a New York, la città dove è nato il 12 marzo 1904. Il pubblico comincia a conoscerlo e ad apprezzarlo nel 1922 nelle vesti di accompagnatore di Florence Mills. Due anni dopo formare una sua orchestra e debutta a New York. Successivamente suona con Elmer Snowden, Billy Fowler e Noble Sissle prima di aggregarsi all'orchestra di Sam Wooding con la quale si trasferisce in Europa nell'estate del 1928.. Tra il 1929 e il 1930 si esibisce più volte con successo al Bricktop's, di Parigi come solista. Nel 1933 insieme al trombettista Arthur Briggs forma una propria orchestra con la quale suona nei più eleganti ritrovi di Parigi mettendosi in luce anche come efficace arrangiatore. Nel 1934 è in Belgio e Olanda a fianco di Lex Van Spall e, successivamente, al Negro Palace di Amsterdam sia come solista, sia alla testa di un trio comprendente Coleman Hawkins. Nel 1939 entra a far parte, per un breve periodo, dell'orchestra di Willie Lewis poi va a Parigi alla testa di una nuova orchestra della quale fanno parte il trombettista Louis Bacon, il sassofonista Alix Combelle, il bassista Wilson Myers e il batterista Tommy Benford. Si ritira quindi ad Amsterdam ove apre un suo club, La Cubana, nel quale si esibisce stabilmente per diversi anni consecutivi. Rientrato negli Stati Uniti nel 1944 lavora prima con George James e poi con l'orchestra di Garvin Bushell. Negli anni successivi continua a esibirsi in vari ritrovi di New York come solista. Verso la fine degli anni Cinquanta ritorna in Europa con lo spettacolo di rivista “Free And Easy”, ma proprio durante questa tournée scopre di essere malato di cancro e dopo un primo ricovero a Copenaghen rientra a New York dove viene ricoverato al St. Barnabas Hospital. Ci resta fino alla morte.
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