Il 17 giugno 1922 nasce a Pittsburgh, in Pennsylvania l'arrangiatore e direttore d’orchestra Jerry Fielding, all'anagrafe Joshua Feldman. In possesso di una solida preparazione musicale da giovane suona il piano, il clarinetto e i sassofoni, ma già all'età di diciassette anni lavora come arrangiatore nella West Coast con Alvino Rey, un chitarrista di buon livello. Successivamente scrive arrangiamenti per Tommy Dorsey, per Charlie Barnet, Kay Kyser. Si fa conoscere anche dal pubblico televisivo lavorando come direttore musicale in alcuni shows con Groucho Marx e Mickey Rooney. Nel 1954 è in tournée con una sua formazione e pubblica vari dischi sotto suo nome. Sua è la colonna sonora del film "Il mucchio selvaggio". Muore a Toronto il 17 marzo 1980.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
17 giugno, 2021
16 giugno, 2021
16 giugno 1942 - L'Ago del motociclismo
Il 16 giugno 1942 a Lovere, un paese sulle sponde del lago d'Iseo in provincia di Brescia nasce Giacomo Agostini. Primo di tre fratelli maschi cresce in una famiglia tranquilla. Il padre Aurelio è una sorta di piccola autorità nel paese, visto che fa per lungo tempo il messo comunale, e per arrotondare coltiva una torbiera. È difficile dire quando in un ragazzo nasca una passione vera. In quell’età sono tante e spesso quella di oggi è diversa da quella della settimana prima. Negli anni della sua fanciullezza, però, i motori sono un po’ il simbolo della ricostruzione del paese dalle macerie della guerra. Giacomo è affascinato da quelli delle moto. Le due ruote che sfrecciano sulle strade di Lovere lo emozionano e ha ancora i calzoni corti quando chiede al padre, come regalo per l’ammissione alle scuole medie (non c’era ancora la scuola dell’obbligo), un ciclomotore Aquilotto della Bianchi. Quelle due ruote alte piene di raggi come quelle di una bicicletta sono l’orizzonte dei suoi sogni. Lo smonta fino all’ultima vite, lo rimonta, ne testa le possibilità e, soprattutto, ci vive sopra. Proprio alla vigilia del compimento del diciottesimo anno ottiene dal padre il permesso per guidare e l’aiuto per acquistare una moto vera, anzi più che vera perché è quella che allora, insieme alla Ducati 125, era considerata la moto migliore per un aspirante corridore in moto: la Morini 175 Settebello, con un motore a quattro tempi ad aste e bilancieri, capace di raggiungere una velocità massime intorno ai 160 km/h. A diciannove anni in sella a questa moto prende parte alla sua prima gara, la corsa in salita Trento-Bondone del 1961 nella quale si classifica al secondo posto. Alle gare in salita Giacomo Agostini alterna presto anche le corse di velocità in circuito. Non passa inosservato visto che a soli sei mesi dalla gara del debutto racconta agli amici di essere in attesa di una chiamata da parte della Morini per l’inserimento nella squadra ufficiale. Non è una vanteria. La chiamata arriva, la nuova moto è pronta per la prima gara ufficiale sul circuito di Cesenatico dove il ragazzo parte al comando, rompe la leva del freno, urta una balla di paglie e conclude al terzo posto. Per gli osservatori è la conferma che il ragazzo ci sa fare. Nel 1963, infatti, Agostini conclude la sua attività di pilota di seconda categoria con le Morini 175 ufficiali, vincendo il campionato italiano della montagna, con otto vittorie e due secondi posti, e il campionato italiano di velocità juniores piazzandosi al primo posto di tutte le gare in programma. Quel 1963, però, è un anno magico che segna tutta la sua vita. Il patron Alfonso Morini, infatti, lo chiama a sorpresa e gli propone di debuttare nella terzultima prova del Campionato Mondiale. È il Gran Premio delle Nazioni a Monza, che si svolge il 13 settembre. Il suo compito è quello di fare da spalla a Tarquinio Provini nel tentativo di portare la monocilindrica Morini 250 a soffiare il Campionato del Mondo contro lo squadrone delle Honda capeggiato dal rhodesiano Jim Redman. Il tentativo di mettere fuori gioco i giapponesi non riesce ma gli appassionati lo vedono condurre in testa per ben due giri il Gran Premio delle Nazioni. Nel 1964 Tarquinio Provini molla la Morini e se ne va alla Benelli. La casa bolognese affida allora a Giacomo Agostini il ruolo di prima guida. Un successo dopo l’altro si fa conoscere su tutte le piste italiane e anche all’estero cominciano a chiedersi chi sia questo ventenne che sfiora il podio con una monocilindrica in Germania. Il ragazzo, però, morde il freno. È evidente che una monocilindrica come la Morini 250 va bene per vincere in Italia ma non è competitiva nelle gare di campionato del mondo. Chiede alla Morini di riprogettare una moto tecnologicamente più attrezzata ma la casa bolognese non ci sta. Dopo lunghe discussioni senza sbocchi Giacomo Agostini, che ormai i fans hanno soprannominato “Ago”, se ne va e accetta l’offerta del conte Domenico Agusta che lo vuole nella sua squadra MV Agusta di Cascina Costa, un marchio prestigioso per i titoli mondiali vinti. Qui conosce e lavora con una leggenda del motociclismo come Mike Hailwood, detto “Mike The Bike”, prima guida nella classe 500. Ad Agostini tocca lo stesso ruolo nella 350. È il 1965 e Giacomo vince il suo primo Gran Premio Mondiale al Nurburgring dopo una nottata passata in bianco a causa di vari problemi nelle prove. È solo l’inizio perché finirà per giocarsi anche il titolo mondiale fino all’ultima gara persa per un banale guasto elettrico in Giappone. L’anno dopo Hailwood va alla Honda e Giacomo Agostini diventa il nuovo, incontrastato, re di Cascina Costa. Inizia così la leggendaria stagione d’oro di Giacomo Agostini che, nel 1966 conquista il suo primo titolo mondiale nella classe 500 dopo un’incredibile gara a Monza nella quale rifila ben due giri di distacco al secondo classificato. Negli anni Settanta nuovi campioni e nuove tecnologie si affacciano sulla scena. Giacomo Agostini non cede facilmente il suo scettro ma anno dopo anno fatica sempre di più a imporre la sua legge. Con il passare del tempo anche il rapporto con l’MV Agusta tende a deteriorarsi. Come sempre accaduto nella sua carriera Agostini non si lascia consumare dagli eventi e nel 1974, a sorpresa, lascia la casa dove ha costruito la sua leggenda e vola in Giappone alla Yamaha. Dopo tredici anni di successi la scelta appare come un salto nel buio e sono molti a chiedersi se il campione non sia ormai arrivato alla fine. Lui fa capire subito che non sarà così quando nella mitica 200 miglia di Daytona in sella a una moto provata pochissimo incontra e batte quel Kenny Roberts che tutti hanno indicato come il suo più probabile successore. Non contento si ripete due settimane dopo a Imola smentendo anche le critiche più “tecniche” che avevano individuato possibili difficoltà nell’adattarsi ai motori a due tempi della Yamaha, la cui guida è molto diversa da quella dei quattro tempi su cui ha costruito la sua leggenda. L’anno dopo per completare il senso della sua sfida vince il titolo mondiale nella classe 500 dopo una lunga serie di memorabili battaglie con Phil Read. È il quindicesimo e sarà l’ultimo. Il campione ha trentatrè anni e capisce che ormai non ha più molto da chiedere. Negli anni successivi vince ancora ad Assen e al Nurburgring ma i tempi migliori sono alle spalle. Tenta anche l’avventura automobilistica con la Formula 2 e con la Formula Aurora e capisce che le quattro ruote non fanno per lui. Alla fine degli anni Settanta smette di correre. Non sarà un addio all’ambiente, però. Nel 1982 rientrerà alla Yamaha come team manager iniziando un’altra storia.
14 giugno, 2021
14 giugno 1955 - La freccia nata dal maggiolino
Il 14 giugno 1955 nasce la Karmann Ghia, un'auto disegnata sulla struttura della maggiolino Volkswagen. Bassa, slanciata, capace di evocare a prima vista l’idea della velocità, la Karmann Ghia è uno dei modelli più suggestivi tra quelli derivati dal leggendario Maggiolino. Nata dalla collaborazione tra il disegnatore della Ghia, l’italiano Mario Boano, e il costruttore-carrozziere tedesco Karmann, nelle sue varie versioni sfreccerà sulle strade d’Europa per una ventina d’anni. La leggenda vuole che nella definizione delle linee di penetrazione aerodinamica ci sia anche la mano del designer statunitense Virgin Exner, ma non risultano rivendicazioni specifiche né conferme. Tutto comincia nel 1950 quando Mario Boano, in quell’epoca disegnatore per la Ghia, colpito dalle forme del Maggiolino e dalla sua struttura, comincia a lavorare di matita creando possibili vestiti sportivi per quel telaio. Più che proposte sono schizzi, suggestioni, esercizi di bravura senza troppe speranze visto che in casa Volkswagen l’idea di una versione sportiva non entusiasma. La Karmann di Osnabrück, infatti, aveva già inutilmente avanzato una proposta in tal senso, ma in Volkswagen si vedeva come il fumo negli occhi una rivalità con la Porsche, la nuova casa automobilistica fondata dall’antico ideatore del Maggiolino. Wilhelm Karmann, però, non è tipo da mollare così facilmente e quando incontra a uno dei tanti saloni dell’auto Luigi Segre, proprietario della Carrozzeria Ghia, gli propone di lavorare insieme sul progetto e di costruire un prototipo. Nel 1952 è pronto il primo prototipo di una grande cabriolet. È un’auto che dà già l’idea della vettura finale, ma che non riesce ancora a suscitare in chi la guarda la suggestione della maneggevolezza e della velocità. Sembra goffa e incompleta, come se la fantasia del disegnatore fosse venuta meno all’improvviso. In realtà il vero problema è il telaio del Maggiolino. La sua forma non riesce ad adattarsi a un modello che incorpora i parafanghi nella carrozzeria. Dopo vari tentativi si decide di tagliare la testa al toro, o meglio di modificare la struttura del pianale. Da quel momento la strada è in discesa. Alla fine del 1953 è pronto il prototipo definitivo: un coupé a due posti più due eventuali per passeggeri magrissimi con una carrozzeria hardtop, senza montante centrale, bassa e slanciata. Una gioia per gli occhi. Dopo alcuni mesi dedicati a risolvere qualche piccolo problema e a mettere in atto gli ultimi ritocchi, la Vw Karmann Ghia Coupé viene ufficialmente presentata al pubblico il 14 giugno 1955. Rispetto al prototipo ha i paraurti maggiorati e i vetri laterali sono stati rafforzati da un sottile montante. L’accoglienza del pubblico supera le più rosee previsioni dell’ufficio vendite di casa Karmann e, nonostante il prezzo tutt’altro che contenuto, le prenotazioni fioccano. La produzione giornaliera si attesta rapidamente sulla ragguardevole cifra di cinquanta vetture al giorno. Il successo della vettura, oltre che alla sua linea sportiva ed elegante, è da attribuire alla grande affidabilità e alla robustezza di un motore capace di viaggiare per ore ad alta velocità. Sono questi gli elementi che le consentono di conquistare il mercato statunitense e di trasformarsi in una delle vetture di maggior successo della storia dell’automobilismo mondiale. La leggenda narra che il passaggio più difficile della storia della Karmann Ghia sia stata la ricerca del nome per il modello. Inizialmente si pensa di utilizzare direttamente la sigla di progetto, Typ 143, per il nome commerciale, ma l’idea fa storcere il naso a molti. Una sigla è troppo impersonale e anonima per una vettura che cerca di comunicare un’impressione di grande personalità. L’argomento è tutt’altro che un dettaglio trascurabile. Un errore nel nome può banalizzare il frutto di tre anni di ricerca sulle forme e sulla qualità oppure, più semplicemente, fare un pessimo servizio alla diffusione e alla vendita della vettura. Dopo una lunga serie di proposte, verifiche e scarti, si fa largo un’idea semplice e suggestiva? Perché non chiamarla semplicemente Karmann-Ghia? In fondo le due sigle storiche sottolineano, più di qualunque invenzione linguistica, la qualità e l’affidabilità della tecnologia tedesca (Karmann) e lo stile impareggiabile del design italiano (Ghia). Proprio per sottolineare meglio la diversità e la complementarietà dei due caratteri la scritta apposta sul cofano posteriore reca la scritta Karmann intersecata dal nome Ghia in corsivo, come fosse una firma su un’opera d’arte.
13 giugno, 2021
13 giugno 1942 - Martin van Duynhoven, un olandese ai tamburi
Il 13 giugno 1942 nasce a Boxmeer, in Olanda, il batterista Martin van Duynhoven. Dal 1959 al 1960 studia presso il conservatorio di Tilburg, sotto la guida di Tricht e a partire dal 1975, perfeziona la sua preparazione sotto la guida di Andrew Cyrille. In quel periodo partecipa anche a vari workshop tenuti da Charlie Persip. Nella su carriera collabora con molti jazzisti statunitensi come Paul Gonsalves, Don Byas, Booker Ervin, Ben Webster, Jimmy Owens, Burton Greene, Roswell Rudd, Art Farmer e molti altri. In patria è il batterista preferito dai migliori improvvisatori olandesi da Leo Cuypers a Willem Breuker, da Hans Dulfer a Theo Loevendie, da Ronald Snijders, a Loek Dikker e ad Harry Verbeke. Strumentista assai dotato è considerato il miglior batterista olandese e uno dei migliori in Europa.
12 giugno, 2021
12 giugno 1968 - Il primo giro del Cannibale
Dopo ventidue tappe, il 12 giugno 1968, Eddy Merckx vince il Giro d’Italia con un vantaggio di 5’01’’ su Vittorio Adorni e 9’05’’ sul terzo classificato Felice Gimondi. È la prima vittoria nella principale corsa a tappe italiana di un atleta destinato a lasciare un segno indelebile nella storia del ciclismo mondiale. «Chi arriva prima di me può vantarsi di avermi battuto, perché io non concedo nulla a nessuno». In questa frase è racchiusa la filosofia di Eddy Merckx, soprannominato "il cannibale" per la sua insaziabile fame di successi. Nei circuiti paesani come nelle grandi classiche ai suoi avversari non lascia niente e il suo impegno è sempre finalizzato a vincere tutto. Nato il 17 giugno 1945 a Leensel-Kiezegem, in Belgio, vincitore di cinque Giri d’Italia e di cinque Tour de France, vanta un palmarès di vittorie destinato, con ogni probabilità, a rimanere insuperato per molto tempo. Tre volte campione del mondo ha segnato con la sua classe e il suo stile il decennio che va dalla fine degli anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta. Spietato dominatore su tutti i terreni, non appena si accorge di non poter continuare ad alti livelli decide di lasciare il ciclismo agonistico e nel 1978 appende la bicicletta al chiodo.
11 giugno, 2021
11 giugno 1903 - Jimmy James Dudley, dal violino agli strumenti ad ancia
L’11 giugno 1903 nasce ad Hattiesburg, nel Mississippi, il sassofonista e clarinettista Jimmy James Dudley. Cresciuto a St. Louis a dieci anni comincia a studiare il violino passando in seguito agli strumenti ad ancia. Suona con Charlie Creath a Milwaukee, poi con Everett Robbins, Charlie Elgar e Eli Rice. Entrato nei McKinney's Cotton Pickers, ci resta fino al 1934, anno in cui formò la sua orchestra che restò a lungo attiva a Milwaukee e dintorni con occasionati trasferte a Chicago. Nel dopoguerra riduce progressivamente l’attività fino a far pardere per molto tenpo le sue tracce. Gravemente ammalato muore negli anni Settanta nei pressi di Milwaukee.
10 giugno, 2021
10 giugno 1918 – Patachou, la monella parigina
Il 10 giugno 1918 nasce a Parigi Patachou. La critica l’ha spesso definita “una commediante prestata alla canzone”, ma la definizione è riduttiva e rischia di far torto questa straordinaria cantante. Personaggio chiave del processo di rinnovamento della canzone francese degli anni del dopoguerra non s’è limitata a curare se stessa e il proprio repertorio ma ha sostenuto e fatto conoscere al mondo intero personaggi carismatici e geniali come Georges Brassens o Guy Béart. Figlia di un’epoca in cui lo spettacolo non si faceva ancora rinchiudere nell’angusto recinto delle specializzazioni ha arricchito le sue indubbie qualità vocali con interpretazioni che sembravano attingere direttamente alla grande scuola teatrale della commedia dell’arte. Se n’è accorto anche il cinema d’autore che, soprattutto nella seconda parte della sua carriera, le ha offerto nuove e stimolanti opportunità. Patachou nasce il 10 giugno 1918 a Parigi, nel borgo popolare di Ménilmontant e il nome con cui viene registrata all’anagrafe è quello di Henriette Ragon. La piccola è figlia unica di una famiglia di condizioni modeste. Il padre è un ceramista molto apprezzato e la madre è casalinga. In casa Ragon il denaro non abbonda ma quello che arriva è sufficiente per le necessità essenziali e tanto basta. Con qualche sacrificio si trovano anche i soldi necessari a garantire abiti, libri e materiale per mandare a scuola la piccola Henriette che impara così a leggere, scrivere, far di conto e soprattutto a dattilografare, una specializzazione che le regala il primo lavoro della sua vita come impiegata presso le edizioni musicali Raoul Breton. È questo il suo primo incontro, indiretto, con la musica ma non dura a lungo. Quasi a interrompere la monotonia di un lavoro fisso e discretamente pagato arriva lo scoppio della seconda guerra mondiale che spinge la famiglia Ragon a lasciare Parigi e a trasferirsi per sicurezza nelle campagne della zona della Loira dove Henriette trova un lavoro da impiegata in una fabbrica. Qui incontra Jean Billon, un uomo di cui s’innamora, che sposa e con il quale mette al mondo un figlio, Pierre. Mentre la guerra e, soprattutto, l’occupazione tedesca volgono rapidamente verso la fine la donna torna a Parigi insieme al marito mentre la maternità e i nuovi impegni famigliari la portano ad adattarsi a vari lavori senza guardare troppo per il sottile ciò che il destino le regala. È così che si inventa, di volta in volta, venditrice di scarpe, pasticciera e antiquaria. Mentre il tempo passa la musica resta più che altro una passione nascosta da coltivare nel profondo del cuore e da alimentare con l’ammirato stupore con il quale guarda la gente dello spettacolo camminare nelle vie della capitale francese. La situazione cambia improvvisamente nel 1948 quando Henriette e suo marito decidono di rilevare la gestione del Patachou, un ristorante-cabaret della zona di Montmartre. È proprio Henriette a introdurre un’usanza destinata a diventare una leggenda delle notti parigine: la cravatta tagliata del Patachou. Armata di un paio di forbici la donna taglia le cravatte di tutti i maschi che entrano nel locale, siano essi celebrità o semplici cittadini, appendendo poi il pezzo tagliato al soffitto del locale stesso. Nel Patachou Henriette può finalmente dare sfogo alla sua passione per il mondo dello spettacolo. Le risorse e il livello del locale non permettono di offrire alla clientela le stelle più brillanti della Parigi notturna ma, grazie al suo intuito e alla sua passione, sul palcoscenico del cabaret si esibiscono tanti artisti promettenti, molti dei quali destinati a fare molta strada. Spinta dai clienti anche lei finisce per esibirsi e cantare qualche canzone. Dopo i primi tentativi messi in atto quasi per scherzo sera dopo sera prende maggior fiducia in se stessa e regala performance sempre più lunghe ed elaborate. La svolta nella sua vita arriva quando la sua verve seduce un cliente d’eccezione come Maurice Chevalier che resta colpito (lui dirà «sedotto») dal suo carisma e la incoraggia a fare sul serio. Henriette ci crede e nel 1950 con il nome d’arte di Lady Patachou regalatole dai giornalisti parigini, inizia a farsi conoscere anche fuori dalle mura del suo locale. Ha trentadue anni e l’entusiasmo di una ragazzina. La sua voce rauca sottolineata da un’affascinante postura scenica seduce gli abitatori della notte con canzoni come Bal petit bal o Un gamin de Paris. Lady Patachou vive un successo rapido e irresistibile. L’anno dopo viene chiamata ad aprire lo spettacolo di Henri Salvador all’ABC e ottiene la definitiva consacrazione con un’inusuale versione di Mon homme, uno dei cavalli di battaglia di Mistinguett. Il 6 marzo 1952 ascolta per la prima volta uno chansonnier di cui ha sentito dire un gran bene. Si chiama Georges Brassens. Resta impressionata dalle sue canzoni e lo ingaggia per aprire i suoi spettacoli. Tre giorni dopo, il 9 marzo Georges Brassens inizia grazie a lei un percorso artistico destinato a regalargli l’immortalità. Nel 1953 anche gli Stati Uniti s’inchinano di fronte allo straordinario successo della sua tournée iniziata al Waldorf Astoria di New York e continuata con una lunga serie di spettacoli nelle principali città. I giornali parlano di lei come di “Una monella francese dal nome affascinante” e i locali che la ospitano sono tutti esauriti. È proprio in questo periodo che Henriette decide di accorciare il suo nome d’arte togliendo l’imbarazzante titolo di Lady e diventando per tutti e per sempre soltanto Patachou. È il palcoscenico del Théatre des Variétés di Parigi il primo testimone del cambiamento quando nell’aprile del 1954 la cantante si esibisce con il nome più corto e un repertorio rinnovato da una lunga serie di canzoni regalatele da Léo Ferré e Georges Brassens. Nel 1955 accetta l’invito del suo amico Jean Renoir e partecipa al film “French Cancan” scoprendo così il cinema, destinato a diventare il suo secondo grande amore dopo la canzone e prima del teatro. In quell’anno regala al pubblico canzoni come La bague à Jules, Voyage de noces e, soprattutto, Bal chez Temporel, il brano composto dalla sua nuova scoperta Guy Béart. Gli anni Cinquanta assomigliano a una lunga cavalcata di successi scandita da episodi memorabili come i concerti all’Olympia e al Bobino. Nel 1960 al Théâtre des Ambassadeurs entusiasma pubblico e critica con la commedia musicale “Impasse de la fidélité” che conferma le sue qualità sceniche e teatrali. Negli anni Sessanta e Settanta, di fronte ai grandi cambiamenti degli stili musicali e dei gusti del pubblico lei, una delle protagoniste del rinnovamento musicale del dopoguerra, preferisce tenersi un po’ in disparte e dedicarsi più al cinema e al teatro che alla canzone. Non abbandona, però, le scene e, di tanto in tanto, torna a regalare al pubblico concerti strepitosi, come accade nel 1972 al Théâtre des Variétés. Nel 1983 la sua interpretazione di una signora matura in un telefilm di Jacques Ertaud le apre anche le porte della fiction televisiva dove diventa una delle nonne più arzille e amate dal pubblico. Risponde poi con generosità alle richieste dei giovani registi cinematografici che la vogliono nei loro film, spesso sperimentali, oltre che per le sue qualità anche per l’indiscutibile richiamo che il suo nome esercita ancora sul pubblico. Non dimentica, comunque, la musica e nel 1985 pesca dal cilindro delle sue risorse ul recital intitolato “Premiers adieux définitifs” (Primi addii definitivi) che già nel titolo fa capire come per lei quello dell’addio sia un concetto puramente ipotetico. «Non credete ai miei addii», dice ai giornalisti e per rafforzare il concetto in quello stesso 1985 debutta al Théâtre Hébertot nel lavoro teatrale “Le sexe faible” di Edouard Bourdet. Nel 1990 critica e pubblico si inchinano di fronte alla sua interpretazione della versione teatrale di “Des journées entières dans les arbres” di Marguerite Duras. Nel mese di giugno del 2004 il ministro della cultura francese la insignisce del titolo di “Commendatore delle arti e delle Lettere”. Muore il 30 aprile 2015.
09 giugno, 2021
9 giugno 1976 - Joseph Dejean, il gigante del free jazz che aveva previsto la sua morte
Il 9 giugno 1976, dopo aver suonato nel Festival de Saintes muore in un incidente stradale il chitarrista Joseph Dejean. La morte lo sorprende a Montreal, in Canada, la città dove è nato il 4 agosto 1947. La sua morte, che chiude una carriera all'apice del successo, in qualche modo era stata prevista dallo stesso artista che aveva rifiutato di conseguire la patente di guida perché convinto che quei "mezzi rombanti e inutili" l'avrebbero ucciso. A partire dal 1969 fa parte di numerose orchestre e suona con quasi tutti i musicisti d'avanguardia da Archie Shepp a Saheb Sarbib, al Full Moon Ensemble alla Michel Portal Unit ad altri ancora. Nel 1970 dà vita al Cohelmec Ensemble uno dei gruppi più emblematici del free jazz degli anni Settanta nel quale oltre a lui militano il sassofonista Jean Cohen, il flautoclarinettista Evan Chandlee, il trombettista Jean-François Canape, il batterista François Méchali e il vibrafonista Jean-Louis Méchali. Protagonista di spicco dell'effervescente scena del free jazz francese degli anni Settanta, nel 1975 viene insignito del prestigioso "Prix Django Reinhardt". Nella sua carriera suona anche accanto a Noah Howard, Joachim Kuhn e forma inoltre un duetto di chitarre con Gérard Marais.
08 giugno, 2021
8 giugno 1963 – Pete Seeger sta con la revoluciòn
Non sono molti quelli che negli Stati Uniti del 1963 hanno il coraggio di schierarsi dalla parte del popolo cubano. La revoluciòn di Fidel Castro è vista come una minaccia terribile da contrastare in ogni modo e la tensione sfiora il parossismo dopo che gli aerei spia hanno scoperto alcune rampe missilistiche sovietiche sull'isola. Eppure, nonostante tutto, c'è chi ha il coraggio di schierarsi con Cuba. Pete Seeger, il folksinger amico e compagno di Woody Guthrie sopravvissuto alle persecuzioni anticomuniste del periodo maccartista, è uno di questi coraggiosi. L'8 giugno 1963 nel corso di un concerto alla Carnegie Hall di New York manifesta la sua solidarietà al popolo cubano eseguendo Guantanamera, un brano della tradizione popolare cubana che deve il suo testo al poeta rivoluzionario José Martì. Lo fa con tale passione che il pubblico finisce per accompagnarlo in coro. La versione finisce in un celeberrimo album live del folksinger
07 giugno, 2021
7 giugno 1953 – Non passa la legge truffa
Alle elezioni del 7 giugno 1953 viene respinta la cosiddetta "legge truffa". Tutto comincia nel mese di gennaio del 1953 quando viene approvata dalla Camera una nuova legge elettorale, che conferisce il 65% dei seggi parlamentari al partito o al raggruppamento di partiti che ottenga più del 50% dei voti. La sinistra, che l’ha definita "legge truffa", ha tentato d’impedirne l’approvazione con una grande mobilitazione in Parlamento e nelle piazze. Alla Camera le opposizioni hanno presentato ben milleseicento emendamenti. Durante la sua discussione al Senato, nell’aprile 1953, la tensione tra i due schieramenti tocca l’apice con quaranta minuti di insulti e schiaffi. Dopo la sua approvazione la battaglia si sposta nei seggi elettorali e la legge truffa non passa. Alle elezioni del 7 giugno 1953, infatti, la DC arretra e per poche migliaia di voti il raggruppamento dei partiti di governo resta senza premio di maggioranza. La legge elettorale verrà cambiata circa un anno più tardi.
06 giugno, 2021
6 giugno 1943 – Mimì Maggio, il capostipite
Il 6 giugno 1943 muore a Roma Mimì Maggio. Iniziatore di una dinastia di attori e cantanti, registrato all’anagrafe con il nome di Domenico Maggio, nasce a Napoli il 2 febbraio 1879 in una famiglia di pizzaioli. A soli dieci anni debutta al teatro Rossini di Napoli acquisendo, poi, una vasta popolarità come interprete del repertorio tradizionale napoletano. Nel 1913, insieme a Silvia Coruzzolo e Roberto Ciaramella forma un trio che ottiene un grande successo sceneggiando le canzoni più popolari. Considerato l’inventore della “sceneggiata” sposa Antonietta Gravante, che gli dà sedici figli cinque dei quali destinati a seguire le orme del padre.
05 giugno, 2021
5 giugno 1932 - Pete Jolly, il pianista che si abbevera alla scuola dei boppers
Il 5 giugno 1932 nasce a New Haven, nel Connecticut Peter A. Ceragioli, destinato a lasciare un segno importante nel jazz come pianista con il nome d’arte di Pete Jolly. A tre anni inizia a studiare la fisarmonica sotto la guida del padre che suona e insegna questo strumento. È sempre il padre a incoraggiarlo e aiutarlo quando, a soli anni, passa al piano. I suoi primi concerti sono quelli con l'orchestra scolastica e in vari gruppi locali. All’inizio degli anni Cinquanta si trasferisce a Los Angeles dove nel 1952 viene scritturato da George Auld. Nel 1954 entra nei Giants di Shorty Rogers con i quali resta fino alla fine del 1956 quando passa con il quartetto di Buddy De Franco. Successivamente costituisce un trio sotto suo nome e suona anche in duo con il bassista Ralph Peña. Negli anni Sessanta limita le sue attività a lavori televisivi e cinematografici collaborando con compositori come Neal Hefti, J. J. Johnson, William Byers, Don Costa, Anita Kerr, Artie Butler, Earle Hagen. Registra anche con la Herb Alpert's Tijuana Brass e nel 1974 appare con Ray Brown, Herb Ellis e Louie Bellson all'università statale del Texas per una serie di concerti dimostrativi. In seguito lavora ancora in qualche club dedicandosi anche all'insegnamento. Appare in alcuni spettacoli televisivi jazzistici e partecipa alla realizzazione dei film “Non voglio morire”, “L'uomo dal braccio d'oro”, “Wild Party”. Il suo stile di chiara derivazione boppers è assai incisivo e originale. Muore il 6 novembre 2004 a Pasadena.
04 giugno, 2021
4 giugno 1980 – Franco Gasparri, il tenebroso eroe dei fotoromanzi
Il 4 giugno 1980 un terribile incidente immobilizza per sempre su una sedia a rotelle Franco Gasparri, considerato il personaggio più emblematico dell’Italia dei fotoromanzi, il più acclamato eroe di questo mondo di carta. Figlio del famoso illustratore Rodolfo Gasparri alla cui penna si devono moltissimi manifesti cinematografici degli anni Cinquanta, diventa famoso interpretando personaggi avventurosi e romantici in fotoromanzi seriali come “Le avventure di Jacques Douglas”. Quando il cinema si accorge di lui rifiuta di rifare per il grande schermo i ruoli che l’hanno reso famoso su carta e cerca di ritagliarsi uno spazio diverso. Dopo qualche estemporanea presenza in film erotico - romantici il suo momento di massimo splendore arriva negli anni Settanta quando presta la sua immagine a “Mark il poliziotto”, il commissario della squadra narcotici deciso, spericolato e lesto di mano. Il film, costato poco più di duecento milioni di lire, incassa oltre sette miliardi dando vita a un paio di altrettanti fortunati sequel. Il bel tenebroso dei fotoromanzi finisce immobilizzato su una sedia a rotelle dopo l’incidente stradale avvenuto il 4 giugno 1980 e muore il 28 marzo 1999 quasi dimenticato.
03 giugno, 2021
3 giugno 1983 – È ufficiale, in Italia c’è l’AIDS
<Il 3 giugno 1983 dopo un'infinita serie di smentite viene ufficialmente confermato che l’AIDS, il virus che agisce sul sistema immunitario distruggendolo, comincia a diffondersi anche in Italia. Secondo il Ministero della Sanità nel 1982 sono stati due i decessi provocati dalla malattia. Le associazioni degli omosessuali accusano governo e istituzioni scientifiche di non far nulla per informare la popolazione e i soggetti a rischio sulle precauzioni da prendere per evitare di contrarre il morbo.
02 giugno, 2021
2 giugno 1917 - Leonard Caston, detto "Baby Doo”
Il 2 giugno 1917 a Sumrall, nel Mississippi, nasce il cantante, chitarrista e pianista Leonard Caston. Da piccolo viene chiamato Baby Doo, un soprannome che diventerà anche il suo nome d’arte. Comincia a suonare la chitarra a nove anni sotto la guida del cugino Alan Weathersby, e il pianoforte verso il 1936 nella cittadina di Natchez, sempre nel Mississippi dove si è trasferito. Sul finire degli anni Trenta si stabilisce a Chicago, suona con Big Bill Broonzy e Joshua Altheimer e intorno al 1939 è uno dei primi a suonare la chitarra elettrica. Dà poi vita ai Five Breezes con i quali si esibisce in vari locali di Chicago. Nel 1942 sciolto il gruppo, suona con il pianista Bob Moore a Peoria nell'Illinois. Tornato a Chicago forma con il chitarrista Ollie Crawford e il bassista Alfred Elkins i Rhythm Rascals Trio e lavora allo Squire's Lounge, al Cafè Society allo Ship Shore Lounge e in altri locali della città. Nel 1945 sciolti i Rascals, riprende l'attività di pianista a Chicago e l'anno successivo insieme al bassista Willie Dixon e al chitarrista Bernard Dennis, poi rimpiazzato da Ollie Crawford, forma il Big Three Trio con il quale tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta si esibisce in vari stati del Midwest. Tornato dal 1955 all'attività di solista di pianoforte a causa di una malattia che lo aveva reso improvvisamente afono, si esibisce occasionalmente con il batterista Reuben Moose Upchurch. Sul finire degli anni Sessanta, ormai guarito, lavora con Sonny Allen. Muore d'infarto il 22 agosto 1987 a Minneapolis, nel Minnesota.
01 giugno, 2021
1° giugno 1966 - Papa Jack Laine l'eccentrico
Il 1° giugno 1966 muore Papa Jack Laine, un eccentrico e geniale jazzista capace di passare con nonchalance dalla batteria al flicorno alla direzione d'orchestra. La sua morte avviene a New Orleans, in Louisiana, la città dove è nato il 21 settembre 1873 con il nome di George Vitelle Laine. Nel 1890 forma la sua prima ragtime band e in quella che da tutti viene chiamata “l’epoca prejazzistica” è a capo di numerosi gruppi bandistici, ai quali dà il nome di reliance bands. Nel 1904 guida una sua orchestra a St. Louis. Nel 1917 si ritira dalle scene musicali per dedicarsi al mestiere di fabbro e più tardi gestisce un’autorimessa. Negli anni Quaranta viene spesso chiamato a tenere conferenze nei jazz club di New Orleans..
31 maggio, 2021
31 maggio 2000 – Addio all'imperatore del Mambo
A Manhattan il 31 maggio 2000 si spegne a settantasette anni Tito Puente, una delle leggende del mambo. Se lo chiamavano il "Re del Mambo", andava su tutte le furie. Non amava confusioni. Lui era "L'imperatore", mentre il Re era cubano e si chiamava Perez Prado. Figlio di emigrati portoricani, Tito Puente, all'anagrafe Ernesto Anthony Puente Jr., nasce il 20 aprile 1923 a New York in quel Barrio Latino di East Harlem, che negli anni Trenta è il crocevia di quasi tutti i fermenti sociali e culturali della gioventù latino-americana della città. Ragazzo prodigio di grande talento musicale e percussionista dagli evidenti colori africani, nella sua lunga carriera ha composto più di mezzo migliaio di brani vincendo quattro volte i prestigiosi Grammy Awards, gli Oscar della musica. «Rivendico il fatto di essere nato nel Barrio di New York dove si passava indifferentemente dal jazz alla musica latina. Per questo amo entrambi i generi senza distinzioni. Non è un caso che, quando me lo posso permettere, tengo i piedi in… due orchestre». Tutto il mondo oggi gli riconosce il merito di aver imposto le sue variazioni ritmiche al jazz orchestrale, anche se per molto tempo, nonostante le prestigiose collaborazioni con Dizzy Gillespie e tanti altri, l'impegno su questo fronte sembrava un po' la valvola di sfogo di un artista in declino. È avvenuto soprattutto nei primi anni Sessanta quando il mambo sembrava essere diventato un cimelio da museo, roba buona solo le nostalgie dei poveri latino-americani. Tito Puente con Celia Cruz, Xavier Cugat e Perez Prado è l'espressione più vera di una musicalità latina che non accetta di essere subalterna e che trova la sua sublimazione in un genere la cui componente africana è rivendicata già nel nome, Mambo, lo stesso del dio della guerra dei popoli caraibici. «Il Mambo è nato da una catena che si è spezzata, quella degli schiavi africani di Cuba, costretti a coltivare lo zucchero rimanendo legati per la caviglia con una grossa e fastidiosissima catena. Allora per far passare il tempo ballavano la rumba, muovendo molto le anche per limitare i movimenti dei piedi. Poi un giorno li slegarono e loro inventarono un ballo più sensuale, veloce ed agile: il Mambo» Così racconta la nascita di questa musica lo scrittore Oscar Hijuelos nel romanzo “I Mambo Kings suonano canzoni d’amore”. Chi può sapere quanto nella descrizione si mescolino realtà e fantasia? Un fatto è, però, certo: c’è qualcosa di magico e misterioso in questa danza che porta il nome di un dio e che fonde in modo armonioso ritmo e sensualità. Negli anni Quaranta Tito Puente assorbe la lezione del compositore e direttore d’orchestra cubano Arsenio Rodríguez, il primo che codifica le strutture ritmiche e armoniche del mambo e ne detta le regole sovrapponendo i ritmi sincopati del jazz orchestrale nordamericano e quelli afro-cubani della sua terra d’origine. Anticipando quanto avverrà in seguito anche con il rock and roll, in esso si incontrano tradizioni musicali molto diverse tra loro: quella nordamericana di derivazione anglosassone e quella caraibica, figlia dell’incontro tra la cultura africana degli schiavi, l’umore delle tradizioni locali e la struggente nostalgia delle melodie spagnole. In questa struttura vive, irrisolto e irrisolvibile, il fascino della contraddizione di una musica eseguita in tempo di 4/4, ma con una suddivisione talmente irregolare da essere ballata come se fosse un tempo di 3/4, ovvero con due movimenti semplici seguiti da un terzo molto marcato. La sua carica liberatoria di ritmo e sensualità non resta a lungo confinata nei quartieri dove si parla la lingua degli antichi conquistadores, ma, a partire dagli anni Cinquanta, si diffonde a macchia d’olio fino contagiare tutto il mondo. In quel periodo Tito Puente inizia a dividersi in due. Da un lato percorre fino in fondo la strada della celebrità commerciale con un'orchestra da sala che compete con quelle dei suoi amici e rivali Machito, Xavier Cugat o Perez Prado e dall'altro non perde occasione di ritrovarsi al Palladium di New York per suonare jazz fino a mattina con gruppi improvvisati. Gli sono compagni d'avventura, di volta in volta, personaggi come Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Woody Herman o Buddy Morrow, oltre a numerosissimi musicisti cubani e portoricani. E quando il mambo sembra declinare non si arrende. Continua a comporre brani e a suonare con piccole orchestre nelle feste di battesimo e nei matrimoni della comunità latina di New York. Si ritorna a parlare di lui quando Carlos Santana porta al successo due suoi brani, "Oye como va" e "Para los rumberos", realizzando una nuova sintesi tra il rock e le musiche del Caribe. È l'inizio della rinascita che, questa volta, sarà definitiva. Insignito di ben quattro lauree "ad honorem" da altrettante università, il 20 novembre 1997 vede il suo nome inserito nella Hall of Fame del Jazz accanto a quelli di Nat King Cole, Miles Davis, Ray Charles e Anita O'Day. La popolarità non lo sorprende più. «La mia è una generazione che ne ha viste tante da non stupirsi più di nulla». Probabilmente non la racconta giusta se è vero che, come raccontano, si commuove fino alle lacrime quando legge una dichiarazione di Lou Bega, alfiere dell'ennesima rinascita del mambo: «Le cose nel mondo non vanno bene e oggi c’è forse solo la musica latino-americana che riesce a far star meglio le persone. Sarà perché è moderna o perché ha dentro di sé una forza vera, che viene dalla realtà, ma quando l’ascolti non puoi impedirti di sentirti bene e iniziare a ballare!».
30 maggio, 2021
30 maggio 1962 - Calci, pugni e colpi di testa
I mondiali che si svolgono in Cile dal 30 maggio al 17 giugno 1962 restano nella storia del calcio, oltre che per la splendida vittoria del Brasile, per l’incontro tra i padroni di casa e l’Italia che, grazie all’arbitraggio incredibile dell’inglese Aston, diventa uno dei più violenti mai visti sui campi da gioco. Calci, pugni e provocazioni caratterizzano l’impostazione della partita da parte dei cileni, mentre l’arbitro tollera senza battere ciglio la spirale di violenza della squadra di casa e penalizza le reazioni degli azzurri con due espulsioni. L’italiano Maschio, insultato dall’inizio alla fine della partita come traditore per aver rinnegato le sue origini sudamericane, resta in campo per tutto l’incontro con il setto nasale fratturato.
29 maggio, 2021
29 maggio 1927 - Dick Hafer, un campione dell'ancia doppia
Il 29 maggio 1927 nasce a Wyomissing, in Pennsylvania, John Richard Hafer, più conosciuto come Dick Hafer sassofonista, flautista e gran suonatore di strumenti ad ancia Dopo aver studiato il clarinetto durante il liceo nel 1949 entra a far parte dell’orchestra di Charlie Barnet, con cui rimane fino al 1951, rientrandovi a più riprese per sedute d'incisione negli anni seguenti. Nel 1950 suona con Claude Thornhill. Dal 1951 al 1955 fa parte dell'orchestra di Woody Herman, con la quale viene in tournée in Europa nel 1954. Dalla metà degli anni Cinquanta lavora come session-man a New York, comparendo anche al fianco di Tex Beneke, Bobby Hackett, Nat Pierce, Larry Sonn per concerti e trasmissioni radio. Dal 1958 al 1960 lavora con Elliott Lawrence. Tra il 1962 e il 1963 fa parte dei gruppi di Charlie Mingus, con cui incide il famoso The Black Saint and the Sinner Lady. Negli anni Sessanta suona con Benny Goodman, Merv Griffin, Johnny Hartman. Particolarmente utilizzato nei contesti orchestrali, Hafer se la cava con sassofoni e clarinetti, flauto e soprattutto strumenti ad ancia doppia come l’oboe e il corno inglese. Muore il 15 dicembre 2012.
28 maggio, 2021
28 maggio 1939 - Wojciech Karolak dal sassofono all’organo
Il 28 maggio 1939 nasce a Varsavia il pianista e organista jazz Wojciech Karolak. Eclettico e versatile polistrumentista, dopo avere debuttato nel 1958 come sassofonista dedicarsi al pianoforte. Nel 1962 costituisce un trio col quale accompagna vari solisti di passaggio in Polonia e nel 1966 si trasferisce in Svezia dove soggiorna sino al 1972 dedicandosi alla musica leggera. In seguito visita vari paesi europei in qualità di organista e ha modo di suonare tra gli altri con Red Mitchell e Putte Wickman. Alla fine del 1972 si unisce ai Constellation di Michal Urbaniak e l'anno dopo riprende la via della Polonia per dare vita a un trio. Nel 1974 è di nuovo al fianco di Urbaniak, questa volta negli Stati Uniti e, tornato nuovamente in patria, diviene co-leader del gruppo Mainstream. Successivamente entra a far parte della Polish Radio Studio Jazz Orchestra.
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