Il 4 ottobre 1985 i Communards, un duo formato dall’ex leader dei Bronski Beat Jimmy Somerville e dal pianista Richard Coles, realizzano il loro primo singolo You are my world. Il nome del gruppo, scelto dallo stesso Somerville, risponde alla necessità di caratterizzarsi immediatamente dal punto di vista politico con un esplicito riferimento all’esperienza della Comune di Parigi. Sembra quasi che Jimmy abbia voglia di liberarsi al più presto dai segni lasciati su di lui dall'esperienza precedente. Nonostante la stampa abbia parlato di una sorta di "separazione consensuale" della vecchia band, quando viene interpellato sulle ragioni dello scioglimento appare feroce e caustico nei suoi giudizi sui suoi ex compagni dei Bronski Beat: «Larry e Steve, con il successo, hanno perso la testa. Hanno cominciato a frequentare un altro giro, diverso dai nostri amici precedenti e hanno cominciato a trascurare l’impegno politico. Non riuscivo più a discutere di cose serie con loro. La politica non li interessava più e non leggevano nemmeno i giornali. L’unica cosa che suscitava il loro interesse erano i soldi, volevano guadagnarne tanti e mantenere il successo più a lungo possibile. Io non potevo andare avanti così. Non ce la facevo davvero più. Avevo ricominciato a bere ancora più di quanto non facessi quando ero disoccupato. Arrivavo sbronzo ai concerti perché, in fondo, provavo vergogna di fronte a me stesso di salire sul palco insieme a loro. Far musica solo per avere successo per me è una stronzata. Equivale ad autodistruggersi. Non sei più nessuno, perché non è possibile fare buona musica quando non si ha niente da dire. Per questo ho formato i Communards con Richards, con il quale divido molti ideali, e voglio rendere più forte il mio messaggio sociale, senza abbandonare la musica pop perché mi interessa far arrivare il messaggio in modo più diretto possibile senza filtri intellettuali o cervellotici. Per me, per noi e per il socialismo».
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
04 ottobre, 2022
03 ottobre, 2022
3 ottobre 1967 – Una chitarra che uccide i fascisti
Il 3 ottobre 1967 dopo un calvario durato tredici anni di ricoveri, guarigioni e speranze muore al Queen Hospital di New York, consumato dal morbo di Hutchinson, il folksinger Woody Guthrie. Il padre della moderna canzone di protesta statunitense ha da pochi mesi compiuto cinquantacinque anni. Registrato all’anagrafe con il nome di Woodrow Wilson Guthrie, nasce, infatti, il 12 luglio 1912 nella cittadina di Okemah in Oklahoma e a dieci anni già si guadagna da vivere come manovale e impara a strimpellare la chitarra. Quando esplode la crisi della Grande Depressione, cerca fortuna vagabondando con gli "hobos", i disoccupati costretti a spostarsi da un lato all'altro degli Stati Uniti alla ricerca di lavori precari. Le esperienze vissute in quel periodo e le storie delle persone che incontra diventano canzoni. La sua vicenda personale di artista “on the road” si intreccia però anche con le grandi lotte operaie, con i movimenti dei disoccupati e con i tentativi della sinistra americana degli anni Trenta e Quaranta di organizzare e offrire prospettive credibili alle grandi masse di quell’immenso paese. Woody non è al di sopra delle parti e, prima da solo, poi con gli Almanac Singers, garantisce presenza, sostegno e solidarietà alle azioni di lotta. Per non lasciare dubbi sul suo modo di pensare incide sulla cassa armonica della sua chitarra la frase “this machine kills fascists” (Questa macchina uccide i fascisti). Dopo la seconda guerra mondiale, deluso dalla litigiosità interna della sinistra statunitense e perseguitato dalla caccia ai comunisti, cerca di sopravvivere come può, ma inizia a fare i conti con un nemico invisibile: la paralisi progressiva provocata dalla malattia che l’ha colpito. Nel 1954 entra per la prima volta in ospedale e fino alla morte non avrà più una vita normale. Non per questo rinuncerà a lavorare nei giorni in cui la malattia allenta la presa. Quando il suo cuore cessa di battere lascia in eredità al mondo un patrimonio musicale di enormi proporzioni. La sua produzione musicale, infatti, ha spaziato su molti fronti: dalle canzoni per bambini a quelle di lotta, alle ballate, alle canzoni di protesta. Si calcola che siano più di un migliaio i brani da lui composti e destinati a influenzare le generazioni successive di folksinger nordamericani. Sulla sua esperienza ha scritto nel 1943 il libro autobiografico “Bound for glory”, da cui nel 1976 è stato tratto un film uscito in Italia con il titolo “Questa terra è la mia terra".
02 ottobre, 2022
2 ottobre 1981 – Fun Boy Three, tre ragazzi divertenti
«Sì, lasciamo gli Specials. Abbiamo nuovi progetti in mente, ma le nostre idee non cambiano». Il 2 ottobre 1981 il cantante Terry Hall, il chitarrista Linval Golding e il percussionista Neville Staples annunciano in una conferenza stampa la decisione di abbandonare gli Specials e di dare vita a un nuovo gruppo, i Fun Boy Three. Smentiscono però le voci che attribuiscono a divergenze politiche con il leader del gruppo Jerry Dammers le ragioni della scelta. «Da Jerry ci dividono le scelte artistiche, non quelle politiche. La linea politica della band è sempre stata elaborata da tutto il gruppo e non ci sono mai state discussioni sull’argomento. Crediamo invece che sia ora di dare più leggerezza alla parte musicale, di aprirsi a nuove sonorità e di trasformare in divertimento anche l’impegno politico. Non sempre gli Specials sono riusciti a essere impegnati e divertenti allo stesso tempo. Forse è giunto il tempo di aggiungere una nuova voce al movimento musicale alternativo, capace di conquistare anche il pubblico che guarda con sospetto chi si ripete all’infinito. Tutto qua. La rottura con il passato è nell’impostazione artistica, non nella linea politica. Nessuno s’illuda: ci consideriamo sempre al di qua della barricata e lo dimostreremo presto». Nonostante la smentita ufficiale c’è chi approfitta dell’uscita del trio dagli Specials per parlare di crisi politica del movimento ska e di sostanziale ritorno alla normalità dei tre, stanchi di essere la bandiera dei gruppi più radicali della sinistra giovanile inglese. Per i sostenitori di questa tesi il nome stesso del nuovo gruppo, Fun Boy Three, indicherebbe la scelta del divertimento e del disimpegno come linea fondamentale. Le illazioni durano lo spazio di un mese. Il primo singolo del gruppo, The lunatics have taken over the asylum spazza via ogni dubbio. Con un testo ricco di caustica ironia, la canzone prende di mira il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e la premier britannica Margaret Thatcher. Le novità rispetto al passato riguardano la musica, meno aggressiva e più aperta alle contaminazioni commerciali. La scelta è indovinata: i Fun Boy Three continueranno su questa strada per qualche anno con buon successo alternando canzoni d’impegno politico a originali cover di brani famosi.
01 ottobre, 2022
1 ottobre 1980 – L’inatteso fiasco di Paul Simon
Il 1° ottobre 1980 c’è molta attesa a New York per il debutto cinematografico come protagonista di Paul Simon, ex componente del mitico duo Simon & Garfunkel in cerca di conferme. Dopo la buona prova nell’inedita veste d’attore fornita nel 1977, quando Woody Allen gli ha affidato una piccola parte in “Io e Annie”, il pubblico e la critica lo attendono al varco con curiosità. Preceduto da una martellante campagna promozionale il film s’annuncia ricco di spunti autobiografici e ha un cast che comprende famosi protagonisti della scena musicale: da Lou Reed ai B-52’s, a Tiny Tim, ai Lovin’ Spoonful. Anche il regista sembra una garanzia. È Robert M. Young, il geniale artefice di film come “Alambrista”, premiato dalla critica un paio d’anni prima al festival di San Sebastian e di “Esecuzione al braccio 3”, un pregevole film corale sulle condizioni carcerarie statunitensi. Nelle ore che precedono la prima del film cresce l’attesa per quello che, forse un po’ troppo avventatamente, è già stato definito “uno degli eventi cinematografici della nuova stagione”. Il 1° ottobre 1980, finalmente, in una sala newyorkese assediata dai soliti fans vocianti attirati dalla presenza delle rockstar, viene proiettato per la prima volta “One-trick pony” (che arriverà in Italia con l’incredibile titolo “Divorzio stile New York”). Il pubblico che assiste alla prima è composto, oltre che dai protagonisti e da qualche invitato di riguardo, da un rilevante numero di critici. Quasi tutte le più importanti testate della carta stampata e i principali network radiotelevisivi sono presenti alla proiezione. Quando le luci si riaccendono l’evento dell’anno è già divenuto uno dei primi “flop” della stagione cinematografica. L’applauso che accoglie i titoli di coda è gelido e formale. La lacrimosa storia della rockstar in crisi che tenta di salvare il matrimonio e di recuperare il proprio pubblico è un pasticcio che non convince nessuno. Paul Simon è legnoso, assente e non riesce a emozionarsi neppure quando la trama si inerpica su alcune evidenti citazioni autobiografiche. Insomma, il film si rivela un disastro e la critica lo fa a pezzettini. Sarà un fiasco anche ai botteghini. Il pubblico salverà solo la colonna sonora, scritta dallo stesso Paul Simon, e, soprattutto la canzone Late in the evening, che volerà alta nelle classifiche per tutto il periodo natalizio.
30 settembre, 2022
30 settembre 1977 – I Foghat: salviamo la memoria del blues!
Nell’estate del 1977 vari intellettuali e ricercatori denunciano lo stato di conservazione delle vecchie registrazioni di brani del blues delle origini conservate presso la Public Library di New York in Lincoln Centre. «C’è bisogno di un restauro complessivo degli archivi. Alcuni supporti magnetici sono già irrimediabilmente danneggiati e nessuno si preoccupa. È un pezzo importante della non lunghissima storia di questo paese che se ne sta andando. Non ci bastano le adesioni formali, abbiamo bisogno di soldi e di attrezzature, non di chiacchiere…». Il grido d’allarme degli studiosi sembra non scalfire l’ambiente musicale statunitense che non dà segni di vita. In più, come se non bastasse la mancanza d’attenzione, c’è chi mette addirittura in discussione la legittimità di considerare “reperti storici” i nastri e i documenti conservati nell’archivio, ritenendoli in gran parte «paccottiglia musicale la cui scomparsa lascerà del tutto indifferenti i veri studiosi della storia e delle tradizioni degli Stati Uniti d’America». Proprio quando sembra che la questione stia ormai annegando in polemiche inutili e pretestuose, qualcuno trova il coraggio di prendere posizione. È la rock-band britannica dei Foghat, che il 30 settembre 1977 rompe gli indugi e si esibisce in concerto al Palladium di New York per raccogliere fondi da destinare al restauro della raccolta. Nato da una costola dei Savoy Brown, il gruppo ha lasciato nel 1973 il Regno Unito seguendo le rotte degli antichi emigranti e ha ottenuto uno straordinario successo negli Stati Uniti con album come il milionario Energized o Rock and roll outlaws. Tocca al cantante Dave Peverett spiegare al pubblico il motivo per il quale proprio loro, britannici, hanno deciso di battersi per salvare l’archivio: «Non capisco perché gli americani non si impegnino in modo più energico per difendere un pezzo di quello che secondo noi è il patrimonio più importante della loro cultura: una musica che ha cambiato il modo di suonare di milioni di persone nel mondo. Vorremmo sbagliarci, ma abbiamo l’impressione che dietro a tutte le strane giustificazioni, le polemiche e l’indifferenza che abbiamo colto in questi giorni ci fosse una ragione sola: il razzismo. Si vuol far morire la memoria del blues perché la si considera soltanto la memoria dei neri».
29 settembre, 2022
29 settembre 1971 – Gilbert O'Sullivan, il cantautore vestito da operaio
Il 29 settembre 1971 alla Royal Albert Hall di Londra è in programma un concerto a favore del WWF. Il cartellone prevede, accanto ai nomi di personaggi popolarissimi di quel periodo come i Rockpile, gli Sweet e Ashton Gardner, la partecipazione di Gilbert O’Sullivan, un oscuro e sconosciuto cantautore. Quando si presenta sul palcoscenico il pubblico resta colpito da questo venticinquenne pallido e dall'aria triste vestito come un operaio inglese dei primi del Novecento: calzoni corti, scarpe grandi, camicia di flanella e berrettone di traverso. Il suo vero nome è Raymond O'Sullivan ed è nato a Waterford, in Irlanda. Le sue canzoni gentili e delicate rappresentano una ventata di novità nel frastuono di suoni e colori del glam rock imperante in quegli anni. L'esibizione alla Royal Albert Hall lascia il segno. Sottolineata da brani come Nothing rhymed, Underneath the blanket go, We will e No matter how I try la sua popolarità cresce di giorno in giorno. Sempre più sicuro di se stesso Gilbert ottiene nel 1972 un grande successo internazionale con
Alone again (naturally), un vero e proprio inno alla semplicità che viene vissuto, a dispetto delle parole, come una sfida anticonformista agli eccessi del music business. Si ripete l'anno dopo con Get down, ma la decisione del suo produttore Gordon Mills di insistere su brani eccessivamente semplici lo fa scadere ben presto nella banalità. Il cantautore cerca di ribellarsi alle imposizioni con l'unico risultato di bloccare per un lungo periodo la sua attività discografica. La separazione da Mills, in possesso di diritti esclusivi su di lui gli impedisce, infatti, di tornare in sala di registrazione. Gilbert, però, piuttosto di restare sotto la tutela del suo manager, accusato dallo stesso cantante di averlo eccessivamente sfruttato negli anni precedenti, preferisce il silenzio. Si libera dell'opprimente cappa soltanto nel 1980 quando torna al successo con l'album Off centre e con il singolo What's in a kiss?. Nel 1982 la causa con Mills si conclude con la condanna di quest'ultimo. O'Sullivan recupera così i diritti sulle sue canzoni e ottiene due milioni di sterline di risarcimento, ma non riuscirà più a ripetersi ai livelli del suo periodo d'oro. Circondato dall'atteggiamento ostile dell'ambiente discografico che non gli perdonerà mai la ribellione alle regole, si accontenterà di suonare dal vivo nei locali e di qualche sporadica partecipazione televisiva.
Alone again (naturally), un vero e proprio inno alla semplicità che viene vissuto, a dispetto delle parole, come una sfida anticonformista agli eccessi del music business. Si ripete l'anno dopo con Get down, ma la decisione del suo produttore Gordon Mills di insistere su brani eccessivamente semplici lo fa scadere ben presto nella banalità. Il cantautore cerca di ribellarsi alle imposizioni con l'unico risultato di bloccare per un lungo periodo la sua attività discografica. La separazione da Mills, in possesso di diritti esclusivi su di lui gli impedisce, infatti, di tornare in sala di registrazione. Gilbert, però, piuttosto di restare sotto la tutela del suo manager, accusato dallo stesso cantante di averlo eccessivamente sfruttato negli anni precedenti, preferisce il silenzio. Si libera dell'opprimente cappa soltanto nel 1980 quando torna al successo con l'album Off centre e con il singolo What's in a kiss?. Nel 1982 la causa con Mills si conclude con la condanna di quest'ultimo. O'Sullivan recupera così i diritti sulle sue canzoni e ottiene due milioni di sterline di risarcimento, ma non riuscirà più a ripetersi ai livelli del suo periodo d'oro. Circondato dall'atteggiamento ostile dell'ambiente discografico che non gli perdonerà mai la ribellione alle regole, si accontenterà di suonare dal vivo nei locali e di qualche sporadica partecipazione televisiva.
28 settembre, 2022
28 settembre 1968 – Il primo contratto degli Stooges
Il 28 settembre 1968 gli Stooges di Iggy Pop sono impegnati in concerto a Detroit insieme agli MC5. L'ambiente nel quale si esibiscono è surriscaldato dalla presenza di centinaia di militanti delle White Panthers che scandiscono slogan contro la guerra, i padroni e il sistema. Nonostante la minor politicizzazione la band di Iggy Pop è accolta con simpatia dal pubblico che accompagna con boati le improvvise e devastanti accelerazioni di Ron Asheton alla chitarra, strumento di cui è titolare da pochi mesi, da quando, cioè la formazione è aumentata di un elemento. Meno di un anno prima, infatti, Iggy e i suoi compagni si chiamano ancora Psychedelic Stooges e sono un trio in cui Ron si arrangia con il basso e suo fratello Scott suona la batteria. La formazione si assesta quando arriva un bassista vero, Dave Alexander. Ron Asheton passa alla chitarra e libera Iggy Pop dalla necessità di inventarsi chitarrista. Nel passaggio da trio a quartetto il gruppo perde parte del nome. Rinuncia a Psychedelic e mantiene il più semplice Stooges. Quando, il 28 settembre 1968, devono affiancare gli MC5 suppliscono con l'energia e la grinta alle inevitabili mancanze dal punto di vista strumentale. Nonostante tutto la loro esibizione colpisce Danny Fields, un talent scout dell'Elektra, l'etichetta che ha sotto contratto i Doors e che sta valutando l'ipotesi di scritturare gli MC5. Al termine del concerto avvicina Iggy Pop e gli dà un appuntamento per i giorni successivi. Non c'è trattativa. Gli Stooges di fronte a un anticipo di 25.000 dollari accettano senza fiatare tutto quanto viene loro proposto. Pochi mesi dopo pubblicano The Stooges, un album prodotto da John Cale che comprende anche il brano 1969, No fun, che verrà ripreso, molti anni dopo, dai Sex Pistols. Le mutate condizioni economiche e la maggior popolarità incideranno negativamente sul difficile equilibrio della band che, dopo la registrazione del secondo album Fun house, arriverà sull'orlo dello scioglimento. Più per esigenze contrattuali che per reale convinzione gli Stooges tireranno avanti perdendo per strada Dave Alexander e risistemando la formazione a quattro con l'arrivo di James Williamson ex chitarrista degli Chosen Few. Alla rottura definitiva si arriverà nel 1974, dopo un concerto al Michigan Palace di Detroit che verrà registrato e fornirà il materiale per la realizzazione nel 1976 dell'album live postumo Metallic KO.
27 settembre, 2022
27 settembre 1948 – Meat Loaf, il polpettone del rock
Il 27 settembre 1948 nasce a Dallas, nel Texas, Marvin Lee Aday, destinato a diventare uno dei più pittoreschi personaggi del rock mondiale con il nome di Meat Loaf. Dal corpo imponente deve proprio alla sua ingombrante mole fisica il nome d'arte, che tradotto in italiano equivale a "polpettone", preso a prestito dal soprannome di un famoso allenatore di football americano. Non ha ancora vent'anni quando forma a Los Angeles la sua prima band, la Meat Loaf Soul che successivamente cambia nome in Popcorn Blizzard. Pur non andando al di là dei confini californiani, la sua popolarità si allarga a macchia d'olio grazie all'esuberanza scenica e a una voce dotata di notevole estensione e con un timbro inusuale per i cantanti rock. Insieme alla sua band si esibisce anche come supporter nei concerti californiani di artisti come gli Who, Johnny & Edgar Winter, Ted Nugent e Iggy Pop. Nel 1971 pubblica alcuni singoli per la Rare Earth Records, l'etichetta "bianca" della Motown, e l'album Stoney & Meat Loaf, con la cantante Stoney, conosciuto dai collezionisti anche con il titolo di Rock on. L'album verrà ripubblicato nel 1979 con il titolo Meat Loaf & Stoney. Nei primi anni Settanta partecipa a musical come "Rainbow in New York" o "Rocky Horror Picture Show", nel quale è un indimenticabile Eddie. Nel 1974 incontra Jim Steinman autore di vere e proprie storie in musica che consentono a Meat Loaf di utilizzare al meglio le sue qualità vocali e la sua capacità teatrale. Da quel momento, smentendo gli esperti d'immagine, il ciccione sudato inizia una straordinaria scalata al successo. Nel 1977 il suo album Bat out of hell frantuma tutti i record di vendita con ottantadue settimane di permanenza in classifica negli Stati Uniti e oltre tre anni in Gran Bretagna, superando i sette milioni di copie vendute in tutto il mondo. L'ormai trentenne Meat Loaf diventa così un idolo dei giovanissimi grazie alla sua carica dal vivo e al fascino delle storie un po' wagneriane di Jim Steinman. La popolarità si mantiene intatta anche negli anni successivi nonostante una produzione non sempre all'altezza della sua fama e un delicato intervento chirurgico alla gola che lo obbliga a star fermo per molto tempo. Nel 1993 festeggia il suo cinquantacinquesimo compleanno pubblicando, con la produzione di Todd Rundgren, l'esplosivo album Bat out of hell II, back into hell, una sorta di seconda parte dell'epopea che l'ha portato al successo. Muore a Nashville il 20 gennaio 2022 per complicazioni insorte dopo aver contratto il Covid - 19.
26 settembre, 2022
26 settembre 1991 – Addio a Billy Vaughn, un geniale costruttore di successi
Il 26 settembre 1991 muore di cancro il settantaduenne Billy Vaughn, uno dei pochi direttori d’orchestra della vecchia scuola americana capaci di interpretare e, talvolta, anticipare le nuove correnti musicali e i mutamenti di gusto del pubblico dagli anni Trenta agli anni Ottanta. Nato nel 1919 a Glasgow, nel Kentucky, nel corso della sua lunga carriera ricopre l’incarico di direttore musicale della Dot Records, ma soprattutto affronta da protagonista le innovazioni. Come arrangiatore e direttore artistico può essere considerato il vero artefice dei successi di personaggi molto diversi tra di loro come Pat Boone, Fontane Sisters o Gale Storm. Alla sua geniale capacità d’intuire i mutamenti si deve la formazione, nel 1952 del gruppo vocale degli Hiltoppers con Jimmy Sacca, Don McGuire e Seymour Spiegelman. Curioso e disposto a lasciarsi affascinare dalle novità, contrariamente a quanto succede a molti suoi colleghi, nel periodo d'oro del rock & roll non si chiude in una sorta di isolamento sdegnato. Affronta invece con entusiasmo il problema di dare un respiro orchestrale alla freschezza delle nuove soluzioni ritmiche. Dalla fine degli anni Cinquanta ai primi Settanta, l’epoca in cui la musica sembra essere stata investita da un ciclone giovanilistico destinato a cancellare tutto i protagonisti del passato, lui contraddice chi sostiene si tratti semplicemente di un fatto generazionale. Lo fa a modo suo, piazzando ben trentasei album nella classifica statunitense dei dischi più venduti. La sua apertura mentale deriva dalla grande lezione del jazz orchestrale, capace di fusioni e contaminazioni tra generi estremamente diversi. Lo stile caratteristico della sua orchestra è sostenuto da un lavoro di ricerca infaticabile e da una produzione discografica a ritmo continuo decisamente inusuale per un artista del suo livello. Album come Sail along silvery moon, Blue Hawaii, Theme from a Summer Place, Look for a star, Theme from The Sundowners e A swing' Safari vendono milioni di copie e gli regalano un grandissima popolarità. Negli anni Ottanta la sua produzione diminuisce quasi a manifestare il disagio per le nuove mode musicali che lui ritiene più d’immagine che di sostanza. All’inizio degli anni Novanta, quando è già ammalato, viene premiato come uno dei venticinque artisti di maggior successo della storia della musica degli Stati Uniti.
25 settembre, 2022
25 settembre 2005 - 50 Cent: voglio che gli altri si tolgano dalle palle...
Il 25 settembre 2005 il rapper 50 Cent, uno dei monumenti dell’hip hop, si esibisce al Palalottomatica di Roma. È il primo concerto di un breve tour italiano di tre tappe. La seconda tappa sarà al Vox Club di Bologna e la terza e ultima al Forum di Assago. Sbarca così, attesissimo, nel nostro paese uno dei fenomeni della scena musicale di quel periodo. 50 Cent, che all’anagrafe si chiama Curtis Jackson, è un raro esemplare di tenacia, furbizia da strada e capacità di comunicare senza tante mediazioni di comodo. Qui da noi i suoi dischi sono arrivati relativamente tardi, visto che il grande pubblico ha potuto conoscerlo soltanto a partire dal 2003 con l’album Get Rich or Die Tryin e il singolo In Da Club, ma è stato amore a prima vista come testimoniano le settantamila copie vendute dell’album e le dodicimila presenze all’unica data live in quel di Milano. Nel 2005 ritorna mentre il suo nuovo lavoro in studio, The Massacre, sta volando alto. Egocentrico, violento, aggressivo, maschilista, bandito, gangster, da tempo si sprecano le definizioni, prevalentemente negative, di questo fenomeno di massa che ha conquistato prima le strade dei ghetti neri statunitensi e poi il pubblico di tutto il mondo. La critica musicale fa oggettivamente fatica a capirlo completamente. Curtis, il futuro 50 Cents apre gli occhi sul mondo in seno a una dinastia legata al mondo dello spaccio nella circoscrizione del Queens, a New York e nel breve volgere di pochi anni deve imparare a cavarsela da solo. Orfano giovanissimo si guadagna i gradi del ghetto agli angoli del quartiere, sul marciapiede del Guy R. Brewer Boulevard dove inizia a darsi da fare per riempire tasche e stomaco senza guardare troppo per il sottile. Sulla strada vive e sulla strada incontra il rap, una forma espressiva che gli sta addosso come un vestito comodo. Il suo primo contratto discografico lo lega alla JMJ, l’etichetta del DJ dei Run DMC, Jam Master Jay, che morirà assassinato nel suo studio di registrazione. Proprio da lui 50 Cents impara come gestire un brano, i ritornelli e la costruzione delle strofe. Nel 1999, i Trackmasters, produttori di successo, riescono a farlo scritturare dalla Columbia Records. Per vincere la sua indolenza lo chiudono per due settimane e mezzo in uno studio di registrazione di New York e mettono le basi per l’ormai leggendario album Power Of A Dollar, mai pubblicato, ma diffuso ugualmente dalle radio di strada e dai mixtape. Il giocoso inno alla rapina How to Rob (Come rubare) in cui immagina di intaccare le fortune dei rapper più popolari gli fa il vuoto intorno. Mentre lui si affanna a spiegare che «si tratta di una farsa basata sulla realtà che la gente trova divertente, ma non c’è nulla di personale…», in molti, da Jay-Z a Big Pun, a Sticky Fingaz e Ghostface Killah gli rispondono con canzoni minacciose. Non sono soltanto parole. Nell’aprile del 2000, 50 Cent viene colpito da nove pallottole, una delle quali, da nove millimetri, lo centra in volto. Sopravvive, ma deve ricominciare da capo perché la Columbia Records lo scarica. L’uomo non si deprime e decide di continuare senza major tra i piedi con l’aiuto di un nuovo socio e amico, Sha Money XL. Insieme producono decine di brani contando sul responso della strada, spesso in grado di far la differenza nel mondo del rap. Nella tarda primavera del 2001, pubblica un album intitolato Guess Who’s Back? (Indovina chi è tornato?) e dà vita a una sua crew, la G Unit. Pochi mesi dopo mette in circolazione un bootleg intitolato 50 Cent Is the Future (50 Cent è il futuro) nel quale rivisita brani di artisti come Jay-Z e Raphael Saadiq. La svolta arriva quando Eminem annuncia ai quattro venti che «è 50 Cent il mio rapper preferito» e decide di prenderlo sotto la sua ala. Da simpatico gaglioffo 50 Cent prima di adeguarsi alle regole del suo nuovo protettore approfitta della pubblicità per mettere in giro un altro bootleg destinato alla strada dal titolo No Mercy, No Fear (Nessuna pietà, niente paura) che contiene anche Wanksta il brano inserito nella colonna sonora del film di Emanem “8 Mile”. È l’inizio del successo planetario scandito dal già citato Get Rich or Die Trying che vende quasi un milione di copie nei primi cinque giorni e dal successivo The Massacre. Di sé dice: «A 12 anni mi è stato dato il passaporto per il ghetto, anche se ero ancora un bambino. Poiché ero solo, erano i miei compari più grandi della mia zona a prendersi cura di me. Qualcuno che occupava una posizione di potere un giorno mi ha detto: da questo momento non ti darò più il tuo pesce quotidiano... Ecco qui la tua canna da pesca. Non era una cattiveria perché lui conosceva solo quello stile di vita, quello del trafficante. Ma devo dire che è stato Eminem a salvarmi dalla strada. Se ti ci fermi troppo a lungo, la sua legge dice che alla fine ammazzerai qualcuno e allora verrai ammazzato a tua volta oppure finirai in galera. La musica per me è stata una via di fuga, una fuga dalla merda». Il 50 Cents che arriva in Italia è il solito spavaldo bullo di strada sicuro di sé che presentava così il suo ultimo album «Quando questo disco uscirà, sarà dura per gli altri andare in giro per il paese…» facendo capire che le regole della giungla del music business non sono diverse da quelle del marciapiede: «…sto ancora cercando di spazzare via la concorrenza dalla mia zona. Il titolo dell'album parla da sé: voglio che gli altri rapper si tolgano dalle palle...».
24 settembre, 2022
24 settembre 1986 – Zucchero in blues
Il 24 settembre 1986 Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero, inizia a comporre le canzoni che sono destinate a far parte del suo nuovo disco. È un passaggio importante nella sua carriera perché può rappresentare la definitiva conferma dopo il buon successo di Rispetto, un album che ha venduto nel 1986 oltre duecentocinquantamila copie. Il lavoro durerà cinque mesi, fino al 5 febbraio dell’anno dopo. Nelle dichiarazioni e nelle interviste il cantautore ha spiegato che vuole scavare ancor di più nelle radici della black music. Pian piano, un’anticipazione dopo l’altra, cresce l’attesa per il lavoro che dovrebbe segnare la definitiva consacrazione di Zucchero. Si parla di ospiti prestigiosi quali Clarence Clemons, il sassofonista di Bruce Springsteen, e i Memphis Horn, la leggendaria sezione fiati di Otis Redding. È tutto vero. Il successo commerciale dell’album, intitolato semplicemente Blue’s, andrà al di là delle più rosee previsioni con un milione e duecentomila copie vendute. A differenza dei precedenti lavori di Zucchero, spesso giudicati in modo contrastante, anche la critica apprezzerà il tentativo di proporre con brani cantati in italiano le due anime del blues: quella ritmica e trasgressiva, come la provocatoria Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall’Azione Cattolica e quella melodica e malinconica, cui appartiene tra gli altri Hey man, una canzone che deve gran parte dell’efficacia del testo alla geniale penna di Gino Paoli. Pervaso di soffusa malinconia riprende il tema della solitudine in un'originale rielaborazione dei modelli tradizionali dei brani blues.
23 settembre, 2022
23 settembre 1989 – Milli Vanilli, la breve stagione del duo fantasma
Il 23 settembre 1989 il singolo I'm gonna miss you dei Milli Vanilli arriva al vertice della classifica negli Stati Uniti. È il terzo successo consecutivo di quell’anno per il duo formato da Rob Pilatus e Fabrice Morvan che hanno già venduto più di sei milioni di copie dell’album All or nothing. Belli da vedere, atletici e perfetti sul palcoscenico, i due fanno man bassa di riconoscimenti e conquistano il Grammy Award come gruppo rivelazione dell'anno. Nel tripudio generale scompaiono anche le poche voci di dissenso, che sottolineano un po’ polemicamente come dal vivo il duo si affidi al playback, cioè finga di cantare su una base registrata. Il loro produttore Frank Farian, già artefice del successo dei Boney M, respinge sdegnato le accuse «Non sempre accade e quando accade è per offrire al pubblico lo stesso livello qualitativo delle incisioni». Nel 1990, però, qualcosa si inceppa. Il giornalista di un settimanale musicale solleva il dubbio che i Milli Vanilli siano in realtà un “gruppo fantasma”, vale a dire un paio di ragazzi bellocci che fingono di cantare brani interpretati da altri. In una polemica conferenza stampa Pilatus e Morvan minacciano querele, ma non spaventano la critica meno compiacente nei confronti delle major discografiche. Nel mese di novembre del 1990 scoppia lo scandalo. I veri cantanti escono dall’anonimato. Si chiamano Brad Howell e John Davies, sono due attempati coristi di studio scelti per la voce, ma inadatti ad apparire perchè la loro immagine «non è in linea con i gusti del pubblico giovanile» (uno dei due ha quarantacinque anni!). Di fronte all’evidenza lo show businnes reagisce scaricando tutte le responsabilità sul produttore Farian. Ai due interpreti originali vengono riconosciuti i diritti d’autore e i Milli Vanilli sono costretti a restituire il Grammy Award tra la riprovazione degli stessi che li avevano osannati e sostenuti. La vicenda è destinata a travolgere tutti i protagonisti. Invano Rob Pilatus e Fabrice Morvan sostengono di essere anche loro vittime e chiedono di poter registrare un disco con le loro vere voci. Riusciranno a tornare in sala di registrazione solo nel 1993, dopo un tentativo di suicidio e vari ricoveri per droga. Non andrà meglio neppure a Brad Howell e John Davies, le vere voci dei Milli Vanilli, che tenteranno, senza fortuna, di approfittare della improvvisa popolarità pubblicando un album. Il Grammy restituito resterà inassegnato, nonostante le proteste degli esclusi Soul II Soul, Tone Loc, Indingo Girls e Neneh Cherry.
22 settembre, 2022
22 settembre 1994 – Maria Carta, la folksinger che divenne deputata
Il 22 settembre 1994 dopo una lunga e dolorosa agonia muore a Roma Maria Carta. Conosciuta in tutto il mondo come una grandissima folksinger, termine che altro non è se non la traduzione inglese di “cantante popolare”, non sempre è stata apprezzata in Italia, dove l’ambiente musicale è spesso oscillante tra consumismo e provincialismo culturale. Straordinaria interprete della cultura musicale sarda nasce a Siligo, in provincia di Sassari nel 1940 in una famiglia contadina e nei primi anni Sessanta inizia a raccogliere e a studiare la cultura musicale della sua terra d’origine. Successivamente va a Roma dove alterna le esibizioni con il lavoro di ricerca presso il Centro studi di musica popolare dell’Accademia S. Cecilia. Ben presto diventa una presenza abituale e conosciuta nel circuito alternativo della città. Il grande pubblico si accorge di lei nel 1972, quando Ennio Morricone la chiama a interpretare la sigla dello sceneggiato televisivo “Mosè”. Nello stesso anno pubblica anche il suo primo album Paradiso in re per la RCA, seguito nel 1973 da Delirio. Complice anche il ritrovato interesse di quel periodo per la musica popolare e il folk, la voce di Maria, passionale e dal timbro drammatico, conquista il pubblico di tutto il mondo, in particolare quello degli Stati Uniti e, soprattutto, della Francia, dove viene soprannominata “la Piaf sarda”. Cantante istintiva, trasferisce nelle sue canzoni il lungo lavoro di ricerca sui canti della sua regione svolto soprattutto in Logudoro, Barbagia, Gallura e Campidano. In lei la cultura della tradizione, che corre spesso sul filo della memoria, si mescola alla curiosità per le nuove sonorità. Oggi il suo lavoro è considerato una preziosa anticipazione di quel genere che, dopo Peter Gabriel, verrà universalmente chiamato World Music. Il suo impegno non è, però, solo musicale. Quando il Partito Comunista Italiano le offre una candidatura lei accetta e viene eletta alla Camera dei Deputati. Non rinuncia però alla musica e continua a percorrere i teatri e le piazze d’Italia e del mondo con i suoi canti nei quali la cultura del popolo sardo si fonde con le universali aspirazioni di libertà e democrazia. Lei, la sua voce e la sua chitarra. Nient’altro.
21 settembre, 2022
21 settembre 1983 – Tutti sul palco per aiutare Ronnie
Alla fine degli anni Settanta il bassista Ronnie Lane, fondatore e componente storico degli Small Faces, una delle band più significative del movimento Mod, viene immobilizzato su una sedia a rotelle dalla sclerosi multipla. L’insorgere della malattia ha un effetto devastante sulla sua vita e il musicista si chiude in se stesso rifiutando qualsiasi contatto con il mondo. A nulla valgono gli sforzi dei suoi ex compagni d’avventure, soprattutto Ian McLagan e Kenny Jones, che cercano di scuoterlo. «In fondo puoi continuare a suonare. Non abbandonare la musica…», ma lo shock è stato troppo grande perché Ronnie possa uscirne in breve tempo. In un primo momento rifiuta anche le cure, non vuole imparare a muoversi con la sedia a rotelle e passa le sue giornate senza mai abbandonare il letto della sua casa. Chiuso nel suo universo di dolore, però, pian piano prende coscienza del suo stato e si accorge di non essere l’unico al mondo colpito dalla malattia. Incontra altri come lui, scopre un mondo che non conosceva e inizia a reagire. I suoi amici lo incoraggiano a riprendere in mano il suo strumento e, quasi senza accorgersene, torna alla vita attiva. Nei primi anni Ottanta la sua sedia a rotelle diventa una presenza abituale negli studi di registrazione e nei luoghi dove si fa musica. La ritrovata voglia di vivere lo spinge a darsi da fare per aiutare altri, meno ricchi e famosi, che si trovano nella sua condizione. Decide così di fondare l’ARMS, un’associazione di artisti contro la sclerosi multipla, e di programmare un grande concerto a Londra per raccogliere fondi da destinare alla ricerca. Chiede e ottiene la Royal Albert Hall di Londra e chiama a raccolta i suoi amici musicisti. Il 21 settembre 1983, sul palco della prestigiosa sala da concerti londinese, dopo le esibizioni di artisti come Eric Clapton, Jeff Beck, Jimmy Page, Steve Winwood, Charlie Watts, Bill Wyman, Kenny Jones e tanti altri, arriva lui, Ronnie Lane, con la sedia a rotelle e il suo basso elettrico. Ha gli occhi lucidi e ringrazia tutti. Uno dopo l’altro salgono sul palco tutti gli altri protagonisti del concerto. Tra gli applausi del pubblico Ronnie imbraccia il suo strumento e inizia a suonare. Gli altri musicisti lo seguono. Una straordinaria versione di “Layla” è l’ultimo regalo delle rockstar presenti all’amico ritrovato e al pubblico.
20 settembre, 2022
20 settembre 1976 - La prima volta della dark lady
Il 20 settembre 1976 a Londra nel Club 100, considerato il tempio del punk, è in programma una lunga kermesse chiamata, con un po' d'azzardo, "Punk Festival", che vede sul palco due band affermate, i Sex Pistols e i Clash, affiancate da due gruppi alla loro prima esperienza di fronte al pubblico: i Subway Set di Vic Godard e i Siouxsie & The Banshees. Proprio questi ultimi, pur suonando non più di venti minuti per… carenza di brani attirano l'attenzione del pubblico. Sono una band raccogliticcia e improvvisata, ma la loro leader, Siouxsie Sioux, all'anagrafe Susan Janet Dallion, affascina il pubblico con la sua personalità carismatica e inquietante. Per l'occasione le sono accanto due chitarristi, Steve "Bailey" Severin e Marc Pirroni, che diventerà uno dei pilastri degli Adam & The Ant, nonché un improbabile batterista che risponde al nome di John Beverly, ma da tutti è chiamato Sid Vicious. Anche lui diventerà famoso qualche tempo dopo cambiando strumento e diventando il bassista dei Sex Pistols. Dopo una partecipazione, insieme ai Sex Pistols, al programma televisivo "Today" sul canale Thames TV, la formazione subisce alcune sostanziali variazioni. Marc Pirroni se ne va e viene sostituito prima da Peter T. Fenton e poi da John McKay, mentre Kenny Morris prende il posto di Sid Vicious alla batteria. Non sarà l'unico cambiamento in un gruppo in cui la popolarità di Siouxsie, da tutti considerata ormai la dark lady del punk, oscurerà sempre quella dei suoi compagni. Per l'esordio discografico la band dovrà attendere ancora più di un anno. Nell'estate del 1978, scritturati dalla Polydor pubblicheranno il loro primo singolo Hong Kong garden seguito, nel dicembre dello stesso anno dall'album The scream. Non si fermeranno più. Dopo la fine del punk la voce di Siouxsie percorrerà sempre nuove strade senza conoscere declino mentre i suoi compagni, a parte il fedele Severin, cambieranno spesso con il mutare dell'umore della dark lady e delle stagioni.
19 settembre, 2022
19 settembre 1887 – Cora "Lovie" Austin, una donna tra i pionieri del jazz
Il 19 settembre 1887 vede la luce a Chattanooga, nel Tennessee, Cora Calhoun, una donna destinata lasciare un segno profondo nella storia del jazz. Con il nome d’arte di Cora "Lovie" Austin saprà, infatti, imporsi in un ambiente quasi esclusivamente maschile fino a diventare, insieme a Lil Hardin, una delle prime donne capo-orchestra del Novecento. Fin da piccola dimostra di possedere un innato talento musicale che i suoi genitori non ostacolano e indirizzano verso il pianoforte, strumento educativo e adatto a una ragazza. Diplomatasi in pianoforte e composizione alla Roger Williams University di Nashville, si trasferisce a Chicago dove inizia a suonare come professionista nelle orchestre dei più celebri teatri della città. Quando scopre il jazz ne resta affascinata. All’inizio suona per divertimento in qualche session improvvisata, ma ben presto decide di lasciare le orchestre e i teatri per dedicarsi interamente a questo tipo di musica. Gli amici la consigliano di lasciar perdere. Per una donna non è facile trovare spazio nel jazz di quei tempi, quasi interamente maschile per quel che riguarda le parti strumentali. Sono rarissime le donne strumentiste, mentre non mancano le cantanti. Sembra quasi che alle donne sia consentito giocare con la voce solo perché le caratteristiche della voce femminile sono insostituibili, ma non si discute sugli altri ruoli: il jazz è un gioco per i maschi. Cora non si lascia intimidire dalle difficoltà. Cerca e trova la solidarietà delle cantanti che la scelgono come accompagnatrice al piano dei loro concerti. Ben presto diventa la pianista preferita di molte signore del blues come Ida Cox, Ma Rainey, Alberta Hunter, Ethel Waters, Edmonia Enderson e Priscilla Stewart. Il ruolo di semplice “accompagnatrice al piano” in perenne difficoltà a trovare l’intesa con le orchestre dei vari locali finisce per diventarle stretto. È stanca della sufficienza con cui la guarda il maestro di turno, non vuole più avere un ruolo marginale. Pian piano si lascia conquistare dall’idea di formare una sua orchestra. Le signore del blues la sostengono e l’aiutano nella difficile ricerca di un gruppo di strumentisti maschi disposti a sottomettersi all’autorità di una donna capo-orchestra. Alla fine la cocciuta Cora riesce nel suo intento e nel 1923 debutta alla guida dei suoi Blues Serenaders, un gruppo destinato a durare a lungo e del quale faranno parte, in vari momenti, personaggi importanti del jazz come i cornettisti Tommy Ladnier, Bob Shoffner, Natty Dominique, il trombonista Kid Ory e i clarinettisti Jimmy O’Bryant e Johnny Dodds. Energica e determinata, mai gelosa delle fortune dei suoi strumentisti, guida al successo e sa valorizzare al meglio i talenti del gruppo. Non è un caso, per esempio, che proprio nei Blues Serenaders trova la sua prima valorizzazione il cornettista Tommy Ladnier, che diventerà il più suggestivo interprete di blues con il soprannome di “Tommy The Talking Cornettist”, ovvero “il cornettista parlante”. Cora Austin crede in lui quando non è ancora nessuno, lo inserisce nel gruppo e lo lascia libero di utilizzare le sordine dello strumento in modo da creare un suono simile a quello della voce umana: da qui il soprannome. Fa poi lavorare la band in funzione del suo talento, lo valorizza, ne tira fuori le migliori qualità tanto che quando se ne va è ormai un musicista affermato. Altruista e generosa vede nell’insieme dell’orchestra la miglior valorizzazione delle sue capacità e una rivincita contro chi pensava che le donne potessero emergere solo come cantanti o, qualche volta e per gentile concessione, come strumentiste. Forse per reazione diminuisce progressivamente il suo apporto strumentale al pianoforte fino a riservarsi un ruolo di mero sostegno ritmico. Le sue capacità organizzative e il suo talento non passano inosservati. Le viene offerto di assumere la direzione musicale del Monogram Theatre di Chicago. Lei accetta l’incarico che manterrà per più di vent’anni, ma non rinuncia all’orchestra. Continuerà a richiamare in servizio i suoi Blues Serenaders tutte le volte che potrà e nel 1961, a settantatré anni, entrerà per l’ultima volta in sala di registrazione con una formazione comprendente il trombonista Jimmy Archey, il clarinettista Darnell Howard, il bassista Pops Foster, il batterista Jasper Taylor e la cantante Alberta Hunter. Non registrerà altri dischi, ma continuerà a lavorare fino alla morte che la sorprenderà, quasi ottantacinquenne, a Chicago nel 1972. La sua amica e cantante Alberta Hunter farà ancora meglio, visto che nel 1980, a ottantatré anni, accetterà un contratto per un’intera stagione nei locali del Greenwich Village di New York.
18 settembre, 2022
18 settembre 1976 - Il funk dei Wild Cherry
Il 18 settembre 1976 al vertice della classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti svetta il brano Play that funky music. Ne sono interpreti i Wild Cherry, una band formata a Steubenville, nell'Ohio, nella prima metà degli anni Settanta dal cantante e chitarrista Bob Parissi, dal chitarrista Bryan Bassett, dal bassista Allen Wentz, dal batterista Ron Beitie e dal tastierista Marc Avsec. Dietro alle spalle hanno una lunga gavetta in locali da ballo cercando di imporre il loro funk, pulito e preciso come un metronomo senza perdere in allegria. Il successo di Play that funky music accompagna quello del loro primo album, pubblicato con il solo nome della band in copertina. La critica, pur apprezzando il loro buon taglio stilistico, dà l'impressione di non credere molto nel futuro di un gruppo che tende un po' a confondersi nel panorama generale della dance. Questa sorta di sospensione del giudizio non piace ai componenti dei Wild Cherry che rivendicano nervosi di non essere un'invenzione del momento ma un gruppo dalla solida storia. Eppure la critica non ha torto perché le successive evoluzioni finiranno per evidenziare un ripetitività senza costrutto e, purtroppo per la band, anche senza grandi risultati. Play that funky music invece di essere il primo passo della definitiva affermazioni di una funky band dalle grandi possibilità, finisce per essere l'isolato exploit di un gruppo che si perde per strada. Pur pubblicando ancora gli album Electric funk e I love my music i Wild Cherry non trovano più la fortunata ed esplosiva mescola del debutto discografico. La loro storia si concluderà nel mese di febbraio del 1979 con una separazione consensuale. Il loro nome finirà ingiustamente per confondersi tra quelli dei protagonisti di una sola breve stagione di successo, accanto a band inventate in studio e a gruppi modesti. Dopo lo scioglimento Mark Avsec inizierà a occuparsi di produzione e Bob Parissi lavorerà come disc jockey.
17 settembre, 2022
17 settembre 1988 – Scusa, ma quello non è Mick Jagger?
Nel settembre del 1988 in Australia la notizia dell’imminente tournée da solista di Mick Jagger, il cantante dei Rolling Stones, occupa le prime pagine di tutti i giornali. La macchina della campagna promozionale viaggia a pieno ritmo, soprattutto nelle città destinate a ospitare i concerti. Manifesti, vetrine, gadget, tutto concorre a creare quello che viene presentato come l’evento musicale dell’anno. Nessuno si stupisce quando il gestore del Cardomah Cafe di Sidney, in Australia, annuncia al microfono «Domani, eccezionalmente, la band del nostro locale sostituirà il suo cantante con quello dei Rolling Stones». Il pubblico del locale lo conosce e sa che è un burlone che ispira i suoi lunghi sermoni pubblicitari ai fatti dell’attualità. L’elenco delle persone famose annunciate per scherzo è lunghissimo: attori, sportivi, cantanti, personaggi dei cartoni animati e celebri criminali, tutti sono diventati, nel corso degli anni, ospiti virtuali del locale. La frase, pronunciata con tono solenne e accompagnata dalla sigla musicale del locale viene salutata, come al solito, da un assordante boato di lazzi e risate quindi dimenticata. Nessuno può, del resto, ragionevolmente pensare che un locale come il Cardomah Cafe, che al massimo della sua capienza arriva a contenere non più di quattrocento persone, si possa permettere un personaggio come Jagger, capace di attrarre decine di migliaia di persone. Quasi a confermare le previsioni l’indomani, sabato 17 settembre 1988, il Cardomah, gremito di gente come ogni vigilia di festa, ha l’aspetto di sempre. I ragazzi del gruppo ci danno dentro con foga, qualcuno balla e davanti al bancone del bar c’è la solita ressa. Improvvisamente, però, il clima cambia. Le note che provengono dal palco si fanno più dure e si alza il suono lancinante di un’armonica. L’attenzione di tutti va sul gruppo. C’è un nuovo cantante. È Mick Jagger che, senza dire una parola, attacca una serie di classici del blues. Il pubblico si alza in piedi e comincia ad accompagnarlo con il battito delle mani. Il leader degli Stones canta per poco più di mezz’ora poi si inchina, ringrazia il pubblico e se ne va, protetto dai buttafuori del locale. Il gestore annuncia per il giorno dopo la presenza di Paperon De’ Paperoni. Tutti ridono, ma dopo l’esperienza vissuta nessuno se la sente di escludere niente.
16 settembre, 2022
16 settembre 1925 - B.B. King, il bluesman dei carcerati
Il 16 settembre 1925 nasce a Itta Bena, nel Mississippi Riley Ben King, destinato a diventare, con il nome di B.B. King, uno più grandi musicisti di tutti i tempi. Le sue scuole di musica sono la strada e la chiesa. A nove anni strimpella già con sufficiente autonomia le corde della sua chitarra e a quindici è il leader di un gruppo gospel. Nel 1947 si trasferisce a Memphis dove di giorno lavora all'emittente radiofonica WDIA e la sera suona blues nei locali della Beale Street. In questo periodo viene anche coniato il nomignolo con il quale è famoso in tutto il mondo. Tutto nasce quando Don Ferguson inizia a chiamare il ragazzo che suona alla Beale Street con il soprannome di "Beale Street Blues Boy", divenuto poi "Blues Boy" e, quindi, "B.B.". Nel 1949 ottiene il suo primo contratto discografico dai fratelli Bishari, proprietari della RPM Records, cui è stato segnalato da Ike Turner. L'impatto con le asettiche sale di registrazione è, però, deludente. Il suo primo singolo, Miss Martha King, non aggiunge niente alla sua popolarità e non hanno miglior fortuna neppure le successive registrazioni. Il grande successo discografico arriva l'anno dopo con Three o' clock blues, registrato con Ike Turner al pianoforte, che conquista il vertice della classifica dei dischi di rhythm and blues più venduti negli Stati Uniti. Una lunga serie di successi costella la sua carriera fino all'inizio degli anni Sessanta quando, sotto l'incalzare del beat, la sua musica sembra avere un posto soltanto nel circuito del revival per vecchi nostalgici. Per lui e per gli altri grandi del blues il destino ha in serbo, però, una sorpresa. I rockers britannici non rinnegano le radici nere della loro musica e aiutano gran parte di quelli che considerano i loro "padri musicali" a riemergere dall'anonimato e, in molti casi, dall'isolamento artistico. I Rolling Stones impongono la presenza di B.B. King nel loro tour statunitense del 1969 e il vecchio leone nero torna così a ruggire. Il successo, però, non gli fa dimenticare chi è meno fortunato. Dopo la pubblicazione di Live in Cook County Jail, un album dal vivo registrato in un carcere, nel 1972, insieme all'avvocato Lee Bailey, fonda la FAIRR, un'associazione a favore dei detenuti di cui assume la carica di vicepresidente. Nel 1979 accetta, primo fra i grandi bluesman, la proposta di una tournée in Unione Sovietica e nel 1982 dona all'Università del Mississippi la sua collezione di oltre ventimila dischi, tra cui spiccano settemila introvabili raccolte di blues a 78 giri.
15 settembre, 2022
15 settembre 1983 - Sempre Nomadi
Il 15 settembre 1983 il cantante Augusto Daolio e il tastierista Beppe Carletti dei Nomadi festeggiano a Reggio Emilia il ventennale dei Nomadi, periodicamente dati per spacciati, ma capaci ogni volta di risorgere. La storia del gruppo inizia nel 1961 quando a Novi di Modena Carletti e Daolio danno vita ai Monelli con il sassofonista Gualberto Gelmini, il batterista Leonardo Manfredini, il bassista Antonio Campani e il chitarrista Franco Midili. Due anni dopo alcuni cambiamenti nella formazione precedono il cambio di nome in Nomadi. Nel 1965 il gruppo con Carletti, Daolio, Midili, il batterista Gabriele "Bila" Copellini e il bassista Gianni Coron realizzano il loro primo singolo Donna la prima donna, oggi considerato uno dei pezzi più rari dai collezionisti italiani. Il successo arriva l'anno dopo con Come potete giudicar, la versione italiana di Revolution kind, che spopola al Cantagiro. Alla fine degli anni Sessanta la band è una delle più amate dai giovani italiani con decine di brani destinati a restare nella memoria collettiva di più di una generazione. All'inizio degli anni Settanta, sostituiti Copellini e Coron con il batterista Gianpaolo Lancellotti e il bassista Umberto Maggi, il gruppo si orienta verso un genere più commerciale, partecipa al Festival di Sanremo e segna una profonda frattura con il pubblico della prima ora con brani come Un pugno di sabbia o Io vagabondo. Alla metà degli anni Settanta entra in formazione anche l'irlandese Christopher Patrick Dennis, ma l'insuccesso dell'album Gordon sembra preludere alla fine del gruppo. Nonostante le fosche previsioni, la band recupera l'antico spirito e ritorna prepotentemente alla ribalta nel 1981 con Sempre Nomadi e il 15 settembre 1983 a Reggio Emilia ci sono anche i vecchi fans a celebrare il ventennale. Negli anni successivi la band vive un lungo periodo di tensioni interne che si fanno via via più gravi fino a sfociare in un causa giudiziaria sulla titolarità del nome. La spuntano nel 1990 Daolio e Carletti che riprendono il cammino risistemando l'organico e pubblicando l'album Solo Nomadi che segna il ritorno a brani d'impegno politico e sociale. La tormentata storia dei Nomadi non è ancora al capolinea, anche se il destino non sembra guardare con occhio benevolo la band. Nel 1992 il chitarrista Dante Pergreffi morirà in un incidente stradale e pochi mesi più tardi anche Augusto Daolio si arrenderà a un male incurabile. Gli altri guidati da Carletti tireranno avanti anche per loro.
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