Il 15 novembre 1982 Julian Cope scioglie, a quattro anni dalla loro formazione, i Teardrop Explodes. Si chiude così la storia del gruppo più significativo dei tre nati dalle ceneri dei Crucial Three. Formati a Liverpool dal geniale e poliedrico Julian Cope, cantante, bassista e autore di tutti i loro brani, con il tastierista David Balfe, il chitarrista Alan Gill e il batterista Gary Owyer, i Teardrop Explodes sono stati uno dei gruppi di frontiera del periodo punk regalando album di grande fascino come Kilimanjaro e Wilder. La forte personalità di Julian, però, non accetta di restare rinchiusa negli angusti limiti di una band e, nonostante il successo, ha bisogno di nuovi spazi. Negli anni successivi Cope diventerà più di un semplice cantante solista. La sua attività spazierà dai concerti e dai dischi alla poesia e, soprattutto, all'attività politica. Esponente di quell'importante area di musicisti di sinistra organizzatasi nella battaglia d'opposizione alle politiche liberiste della Thatcher, non baratterà mai la ricerca del successo con la rinuncia alla sua autonomia. Su questa strada perderà parte dei fans dei Teardrop Explodes, ma costruirà nuovi rapporti con un pubblico più disposto a seguirlo nelle sue evoluzioni. La sua produzione discografica sarà torrenziale e costellata, oltre che da album "ufficiali", da una polverizzata presenza su una lunga serie di produzioni indipendenti. A dispetto della sua indifferenza nei confronti del mercato centrerà ancora nel 1991 il grande successo internazionale con Peggy suicide, una sorta di inquietante viaggio attraverso i mali del mondo.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
15 novembre, 2022
14 novembre, 2022
14 novembre 1963 – La leggenda del bracciante Stovepipe Daddy
Il 14 novembre 1963 muore a Chicago, nell’Illinois, Stovepipe Daddy, una delle grandi leggende del blues rurale. È vicino ai novant'anni, ma nessuno sa davvero quanti anni abbia. Di lui si conosce il vero nome, Johnny Watson, e la città di nascita, Mobile, in Alabama. Di più non è dato di sapere anche se sostiene di essere nato nel 1870. Bracciante agricolo, Stovepipe, che deve il suo nomignolo al caratteristico cappello a cilindro da cui non si separa mai, inizia a cantare accompagnandosi con la chitarra e l'armonica per le strade dell'Alabama. Negli anni Venti mette insieme anche una piccola band, i Rabbit Foot Minstrels, destinata, però, a chiudere i battenti per mancanza di fondi. Nel 1930, dopo aver sposato un'altra vagabonda cantante di blues, Mississippi Sarah, unisce il proprio destino artistico a quello della sua compagna. Il duo diventa molto popolare nelle campagne degli Stati del Sud con le sue canzoni che narrano storie dolorose e malinconiche di vita contadina e d'amore. Dopo la morte di Sarah Stovepipe Daddy se ne va a Chicago e l'orizzonte delle sue esibizioni si riduce al quartiere di Maxwell Street. I locali lo ospitano volentieri e i musicisti sono tra i più assidui frequentatori delle sue esibizioni. Adotta anche, saltuariamente, un nuovo nome d'arte: Reverend Alfred Pitts. Di lui probabilmente non sarebbe rimasto nulla se il musicologo Paul Oliver, uno dei maggiori studiosi statunitensi di blues, non si fosse messo sulle sua tracce. Dopo un lungo peregrinare lo rintraccia a Chicago, lo intervista e tenta di convincerlo a lasciare una traccia registrata delle sue canzoni. Stovepipe Daddy resta affascinato dall'incontro con Oliver, ma non è disposto a lasciare che qualcuno "catturi" la sua voce su un nastro magnetico. Il musicologo non demorde. Lo aiuta a sopravvivere e, pian piano, riesce a incrinare la sua diffidenza. Alla fine Stovepipe cede e si lascia condurre in una sala di registrazione dopo aver ottenuto la garanzia di potersene andare in qualunque momento. È una leggenda vivente quella che, sottobraccio a Paul Oliver, entra con un po' di timore negli studi dell'Heritage Records. I tecnici guardano tra il rispettoso e il divertito quel vecchio con il cappello a cilindro, la chitarra e l'armonica che fatica a tenere la distanza giusta dal microfono. Le tracce registrate finiranno per restare una delle più preziose testimonianze della leggenda di Stovepipe Daddy, l'ex bracciante che da solo valeva un'orchestra.
13 novembre, 2022
13 novembre 1981 – La foto di Mao sulla copertina dell'album
Il 13 novembre 1981 arriva nei negozi britannici l’album Tin drum dei Japan. È un disco che suscita curiosità fin dal titolo, preso in prestito da un romanzo di Gunther Grass, lo scrittore tedesco del Gruppo 47. Le maggiori discussioni riguardano, però, l’immagine di copertina, nella quale il leader della band, David Sylvian, è fotografato con un grande poster di Mao alle spalle. La foto è in bianco e nero, con la luce che, nonostante una lampadina al centro della scena, arriva di taglio da sinistra e dà ancor più risalto all’immagine del “grande timoniere”. Sylvian, famoso per i suoi make up e per l’ostentata ambiguità sessuale, è vestito in modo sobrio e con un paio d’occhiali da vista che ne rafforzano l’atteggiamento serioso. Il messaggio implicito è quello di un grande rispetto. Uno dei personaggi-simbolo della trasgressione non solo musicale si avvicina con un’insolita sobrietà all’immagine del Presidente Mao, che all’inizio degli anni Ottanta non ha più la carica simbolica che aveva dieci anni prima nell’immaginario collettivo delle giovani generazioni. La scelta dei Japan suscita sorpresa e, inevitabilmente, più di una polemica. Non mancano reazioni indignate, appelli alla sostituzione della copertina e inviti a boicottare la band. Sylvian non commenta, non risponde. Parlano per lui i brani dell’album, dallo splendido Ghost a Vision of China, a Cantonese boy elementi di un successo commerciale che non ha precedenti nella storia della band. Tin drum vola alto nelle classifiche di vendita, ma rappresenta l’apoteosi e, insieme, l’inizio della fine per i Japan. Al termine del tour che segue l’uscita del disco il gruppo annuncerà, infatti, il suo scioglimento. Le polemiche contribuiscono ad allargare le incomprensioni tra Sylvian e i suoi compagni. Il leader, accusato di imporre le sue scelte al resto del gruppo, non si difende. Prende semplicemente atto della situazione. I Japan pubblicheranno ancora un album, Oil on canvas, registrato dal vivo nel corso della loro ultima tournée, che arriverà nei negozi a separazione avvenuta. Finisce così la storia di quella che è stata considerata per lungo tempo una delle più interessanti bands della new wave britannica.
12 novembre, 2022
12 novembre 1966 – La battaglia di Sunset Strip
Nel 1966 il Sunset Boulevard di Los Angeles, su cui s’affacciano due locali dove si suona musica rock come il Whisky a Go-Go e il Pandora’s Box, è il ritrovo preferito dai giovani. La via, che attraversa il quartiere di Sunset Strip è ormai divenuta un grande laboratorio all’aperto di colori, idee, parole e musica. Come sempre accade in questi casi non tutti sono contenti. C’è chi mugugna, chi pensa che la situazione danneggi il mercato immobiliare e chi non apprezza perché non gli piacciono le novità. Annusata l’aria, i giornali conservatori, sostenuti dalla parte più perbenista della città, iniziano una massiccia campagna contro queste ragazze e questi ragazzi dai capelli lunghi che «bloccano i marciapiedi, strabordano in strada rallentando il traffico, si lasciano andare a effusioni che offendono il pudore e fumano marijuana in pubblico». Ripetono che lo scandalo deve finire e che le autorità non possono far finta di niente. Infatti non fanno finta di niente. La notte del 12 novembre 1966 la polizia entra nel quartiere e inizia la sua opera di bonifica a colpi di manganello e lacrimogeni. In breve Sunset Strip diventa un campo di battaglia. I giovani fronteggiano per ore le forze dell’ordine prima dell’inevitabile capitolazione e fuga. Gli incidenti, divenuti famosi come “La battaglia del Sunset Strip”, ispirano al chitarrista Stephen Stills la canzone For what it's worth che, incisa dalla band in cui milita in quel periodo, i Buffalo Springfield, diventerà un grande successo. Anni dopo Stills così descriverà l’accaduto: «Ero appena tornato dal Nicaragua e mi sono trovato di fronte a una scena allucinante. C’erano centinaia, forse migliaia di ragazzi su un lato della strada e altrettanti, se non di più, poliziotti, sull’altro. In America Latina quando si verificava una scena del genere era in corso un colpo di stato. Mi ricordo che ho pensato che forse stavo assistendo alla caduta del governo statunitense per mano dei militari. Quando è finito sono corso a casa e ho scritto la canzone di getto. L’ho fatta ascoltare agli altri del gruppo e loro, entusiasti, l’hanno voluta incidere subito. Ancora oggi, se ripenso a quella sera, mi vengono i brividi».
11 novembre, 2022
11 novembre 1991 – Un concerto per curare Mary Wells
Sono molti gli artisti che l’11 novembre 1991, si esibiscono sul palco del Celebrity Theatre di Los Angeles, in California per dare una mano alla cantante Mary Wells, ammalata di cancro. Ci sono personaggi di fresca fama, come Natalie Cole, e grandi voci ormai entrate nella leggenda, come Dionne Warwick. Il gruppo più nutrito è, però, costituito dai suoi compagni d'avventura d'un tempo, i protagonisti del periodo d’oro del Detroit Sound, guidati da Stevie Wonder e Isaac Hayes. Sono loro che per primi hanno voluto il concerto per raccogliere fondi destinati ad aiutare la cantante, che nella lunga lotta contro il cancro ha consumato tutte le sue risorse. In un sistema sanitario come quello statunitense i soldi sono l’unica possibilità per continuare a combattere contro la sua malattia. Per questo è stato organizzato il concerto. Da tempo Mary Wells ha lasciato le scene. Nata il 13 maggio 1943 a Detroit, inizia a cantare all’età di dieci anni e a diciotto firma il suo primo contratto con Berry Gordy jr. il fondatore della Motown. In brevissimo tempo diventa una delle prime star del Detroit Sound insieme ai Miracles, Marvin Gaye, i Temptations, le Supremes, le Marvelettes e il piccolo Stevie Wonder. Già nel 1961 centra il suo primo successo con Bye bye baby. La lista si allunga a dismisura con una serie di dischi fortunati fino a Two lovers, il suo primo disco d'oro. Verso la metà degli anni Sessanta Mary lascia la Motown per passare all'Atlantic ma la scelta non si rivela una delle più felici. Il cambiamento d’ambiente e una serie di produzioni sbagliate finiscono per comprometterne la carriera. Un nuovo cambiamento di casa discografica non serve a farle recuperare la popolarità dei suoi momenti migliori. Decide allora di ritirarsi a vita privata senza però uscire completamente dall'ambiente. Sposa il compositore Cecil Womack e continua a frequentare i suoi vecchi compagni d’avventura. Quando s’accorge di essere ammalata tira fuori la sua grinta migliore e s’impegna in una lunga battaglia destinata a consumarla sia fisicamente che economicamente. I soldi raccolti nel concerto del Celebrity Theatre di Los Angeles le daranno la possibilità di tirare avanti, ma la sua battaglia contro la malattia è destinata alla sconfitta. Morirà pochi mesi dopo, il 26 luglio 1992.
10 novembre, 2022
10 novembre 1987 – Terence Trent D'Arby: non canto per un paese senza memoria
Il 10 novembre 1987, Terence Trent D’Arby, uno degli idoli degli adolescenti della fine degli anni Ottanta deve esibirsi a Vienna, in Austria. I biglietti per il suo concerto, che fa parte di un lungo tour europeo, sono esauriti da tempo. Da giorni, però, circolano voci su una sua possibile rinuncia all’esibizione nella capitale austriaca, anche se gli organizzatori smentiscono. In effetti sarebbero difficili da capire le ragioni di un improvviso forfait del cantante. È giovane, sulla cresta dell’onda, deve promuovere il suo nuovo disco e, soprattutto, ha un impegno contrattuale rigido ed estremamente oneroso: perché mai dovrebbe mettersi nei guai per un capriccio? Man mano che la data dell’esibizione si avvicina, però, le voci si fanno più insistenti e diventano una certezza il 10 novembre quando gli organizzatori annunciano in tutta fretta che il concerto è rinviato. Non ci sono altre notizie o, meglio, ce ne sono troppe. Si parla di un’improvvisa indisposizione, di eccessivo affaticamento, e si ipotizzano nuove date per l’esibizione. L’incertezza dura poco. Già nella tarda mattinata il cantante fa sapere che sta benissimo e che il concerto in programma a Vienna non è rinviato, ma annullato. A chi gli chiede il motivo della clamorosa decisione Terence Trent D’Arby spiega di aver voluto protestare contro la rielezione a Presidente della Repubblica austriaca di Kurt Waldheim, un uomo che nel passato si è compromesso con il nazismo. «Mi è stato fatto presente che in democrazia ognuno sceglie chi gli pare e che io non devo condizionare le scelte politiche di chi mi viene ad ascoltare. Sono d’accordo. Anch’io, però, ho il diritto di avere opinioni e di scegliere quello che mi piace e quello che non mi piace. Gli austriaci hanno voluto confermare a presidente della repubblica un collaborazionista dei nazisti, l’hanno fatto liberamente e io rispetto la loro scelta. Sono però altrettanto libero di non cantare per un popolo senza memoria. Non vado a Vienna. Il concerto è annullato». E a chi gli fa presente il rischio di dover pagare una salatissima penale risponde: «Non è detto. Vedremo… comunque c’è chi ha dato ben più di qualche soldo per combattere contro il nazismo… ».
09 novembre, 2022
9 novembre 1985 – Il tradimento di Jan Hammer
Visto il successo della serie televisiva, in pochi si meravigliano quando, il 9 novembre 1985, il brano Miami Vice theme del tastierista Jan Hammer balza in vetta alla classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti. Più difficile da digerire per chi lo conosce da tempo è il deciso scivolamento commerciale di un musicista divenuto negli anni Settanta uno dei monumenti del rock progressivo più aperto alle contaminazioni jazz. Nato a Praga, tastierista con un passato da buon batterista e solidi studi musicali, lavora a lungo negli ambienti jazzistici conquistandosi la stima e l'amicizia di molti protagonisti della scena musicale di quel periodo. Tra le sue esperienze più importanti ci sono incisioni e concerti al fianco di Sarah Vaughan, Elvin Jones e Jeremy Steig. All'inizio degli anni Settanta è uno dei riferimenti più importanti dell'evoluzione jazzistica del progressive. Fa parte della prima storica formazione della Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin con la quale resta fino al 1974. Chiusa l'esperienza forma il Jan Hammer Group, una band decisamente instabile, costruita per essere, più che altro, il supporto della sua attività solistica e soggetta a frequenti variazioni di componenti in funzione delle diverse necessità. L'esperienza produce una lunga serie di album interessanti tra cui uno splendido live insieme a Jeff Beck. Alla fine degli anni Settanta un lungo periodo di silenzio discografico precede un nuovo contratto con la CBS, due album con Neal Shon dei Journey e, infine, la scelta di dedicarsi quasi esclusivamente alla realizzazione di colonne sonore per il cinema e la televisione. La sua prima esperienza è, nel 1983, la composizione della musica per il modesto "Nudi in paradiso" di John Avildsen. Miami Vice theme resterà il suo più grande successo in questo campo. Trascinato dal singolo anche l'album con le musiche dei telefilm della serie volerà alto mantenendosi al primo posto della classifica statunitense per ben undici settimane e battendo così il record di permanenza in classifica per colonne sonore, stabilito da Henry Mancini con The Music from Peter Gunnel nel 1959. Si ripeterà nel 1987 con Escape from TV e nel 1989 con Snapshots, inframmezzati dalla pubblicazione dei brani migliori della sua produzione precedente nell'album The early years. Negli anni Novanta, con una nuova inversione di rotta, Jan Hammer finirà per percorrere le strade della new age music.
08 novembre, 2022
8 novembre 1971 – Sly alza la voce
L'8 novembre 1971 al vertice della classifica degli album più venduti negli Stati Uniti arriva There’s a riot goin’ un crudo e violento atto d’accusa sulla situazione degli afroamericani negli Stati Uniti realizzato da Sly & The Family Stone. La band multirazziale di Sylvester Stewart (questo è il vero nome di Sly) a sorpresa butta alle ortiche la sua immagine felice, danzereccia ed energetica per imboccare la strada dell'impegno. Si tratta di una violenta e imprevista svolta a sinistra che cancella d'un colpo le "buone vibrazioni" e quello spirito di festa continua che ha caratterizzato, fino a quel momento, la produzione discografica del gruppo. Con l'appoggio convinto dei suoi compagni Sly decide di fare musica solo per la sua gente. La spensierata leggerezza dei testi che l'hanno portato al successo lascia posto a storie che raccontano la discriminazione e la povertà dei neri d'America e parlano del crimine e della droga come di una via di fuga per cambiare la propria vita. Denunciano gli arruolamenti forzati per andare a combattere nel Vietnam ma, soprattutto, parlano della crescita di una borghesia nera che, invece di affrontare la questione dei diritti civili e della pari dignità per tutti, contribuisce a mantenere inalterati i vecchi privilegi. È evidente in questa scelta il peso delle idee del Black Panthers Party, la cui influenza tra gli artisti neri è stata esponenziale. Da tempo Sly è sospettato di finanziare i gruppi dell'area più radicale. Alcuni giornali conservatori lo descrivono come un tossicodipendente "ricattato" dalle Pantere Nere che godrebbero di una sorta di "pizzo" sugli spettacoli e sulle vendite dei dischi. In realtà, a differenza di altri non nasconde le sue simpatie politiche. Viene dal ghetto e quando il ghetto lo chiama risponde. La sua scelta, lungi dall'essere superficiale, è consapevole e dettata dalla voglia di non mescolarsi con quella borghesia nera che è diventata il bersaglio delle sue canzoni. Artisticamente è l'anello di congiunzione fra il soul degli anni Sessanta, che con lui cessa di essere in stato di soggezione di fronte al rock bianco, e il funk dei gruppi che troveranno la loro consacrazione negli anni Settanta. Alla sua genialità artistica saranno debitori artisti come i Funkadelic, i Parliament e Prince. La svolta a sinistra, però, non sarà indolore. Gli eccessi e la sua esuberanza, fino a quel momento considerati elementi di colore del personaggio, gli si ritorceranno contro. Infine, puntuale, arriverà anche l'arresto per droga e il carcere.
07 novembre, 2022
7 novembre 1967 – Fairport Convention, i menestrelli elettrici del folk-revival
Il 7 novembre 1967 un gruppo sconosciuto pubblica il suo primo singolo che, pur non suscitando grandi entusiasmi tra il pubblico, è destinato ad attirare l’attenzione del critica. Il disco in questione è If I had a ribbon bow dei Fairport Convention, una band che sembra voler riproporre gli antichi suoni della tradizione britannica pur utilizzando una modernissima strumentazione elettrica. I ragazzi non sono ancora al meglio, la ricerca musicale appare ancora grezza e un po’ forzata, ma nelle sonorità proposte dalla sua prima fatica discografica sono già presenti gli elementi che di lì a qualche anno faranno di loro i più autorevoli protagonisti del momento magico del folk-revival britannico. La formazione, instabile e più tesa a trovare una propria identità stilistica che a curare la produzione, è composta dai cantanti Judy Dyble e Ian Matthews, dai chitarristi Richard Thompson e Simon Nicol, dal bassista Ashley Hutchings e dal batterista Martin Lamble. L’anno dopo la Dyble se ne va e viene sostituita da Sandy Denny, una cantante dalla voce cristallina, ancora oggi considerata una delle più grandi interpreti britanniche di quel periodo. La ricerca del gruppo si orienta decisamente verso il passato. Il più convinto assertore della necessità di attingere direttamente e senza mediazioni al patrimonio popolare è il bassista Hutchings, ma decisivo per la definizione più compiuta della linea stilistica è l’arrivo del violinista e mandolinista Dave Swarbrick. Soprannominato Swarb quest’ultimo è un musicista solido che sa cosa vuole e si è fatto le ossa suonando con lo Ian Campbell Group e con altre formazioni attive nel campo della ricerca sul folclore tradizionale. Il suo apporto si rivela fondamentale nella realizzazione di Liege and lief, l’album pubblicato nel 1969 che viene universalmente considerato come l’atto di nascita del folk-revival britannico. La voce di Sandy Denny e il violino di Swarb la fanno da padroni. Quest’ultimo, soprattutto, guida con il suo violino un fiammeggiante medley di danze irlandesi e, insieme a Thompson lega in modo incantevoli i tappeti sonori destinati a sostenere la straordinaria vocalità della Denny. Il grande successo commerciale arriva inaspettato e rischia di compromettere la stabilità della band. I concerti, i dischi, le pubbliche relazioni e tutti gli obblighi che derivano dalla popolarità vanno stretti a un gruppo come i Fairport Convention, composto da musicisti di forte individualità e con la passione della ricerca. Non si sottopongono volentieri alle interviste e spesso non sanno cosa dire. In più l’industria discografica, intenzionata a investire sul folk revival, tende a smembrare la band per moltiplicare i possibili guadagni. Quasi tutti i componenti, a partire da Sandy Denny, formano dei gruppi paralleli, ma senza abbandonare per sempre la famiglia dei Fairport Convention. Proprio l’intelligenza dei suoi componenti, infatti, salva l’esistenza del gruppo che, lungi dal diventare una gabbia chiusa in se stessa, si dà una struttura aperta lasciando libero ciascun musicista di andarsene e tornare quando vuole. «La nostra è la fedeltà a un’idea, a un ponte lanciato da un gruppo di musicisti di oggi a chi nel passato anche molto lontano ha suonato e cantato musiche meravigliose» dice Swarb con il piglio di chi sa di aver dato vita a un nuovo genere. Sulla strada tracciata dai Fairport Convention si muoveranno bands come i Pentangle, gli Steeleye Span, la Albion Band, gli Amazing Blondel, i Lindisfarne, gli Strawbs, i Renaissance e tanti altri. Le canzoni si popolano di personaggi leggendari e figure mitologiche, mentre il linguaggio non rifiuta espressioni arcaiche prese direttamente dalla tradizione. I giovani, stanchi della ripetitività del beat e dei suoi interpreti dalle foto patinate, scoprono la musica dei loro avi. Il folk-revival non durerà a lungo, ma dalla sua breve stagione nasceranno i primi germogli del rock progressivo.
06 novembre, 2022
6 novembre 1968 - Joe, il leone di Sheffied
Il 6 novembre 1968 Joe Cocker arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna con With a little help from my friends una versione "sporca" in chiave blues di un famoso brano dei Beatles. Il ventiquattrenne "leone di Sheffield" smentisce così in un colpo solo la Decca, la sua prima casa discografica che non aveva creduto in lui, e i suoi molti detrattori, convinti che il ragazzo fosse più bravo a scolar bottiglie che a cantare. Due elementi ne aiutano l'exploit. Il primo è l'aria differente che si respira sulla scena rock britannica ormai decisamente orientata verso un blues "pesante" e "psichedelico", dopo la sbornia delle allegre ballate rockeggianti. L'altro si chiama Chris Stainton, un eclettico musicista e arrangiatore che è riuscito a ricostruire il morale del buon Joe, la cui natura operaia era stata ferita a morte quando la Decca l'aveva licenziato. Che la strada fosse quella giusta lo si era capito qualche mese prima quando il singolo Marjorine, il primo per la Cube, la sua nuova casa discografica aveva fatto una breve e timida apparizione nelle ultime posizioni delle classifiche di vendita. Con With a little help from my friends inizia la lunga avventura di Cocker sulla scena rock internazionale. La sua vocalità è dichiaratamente antagonista dei generi alla moda. Lui stesso dichiarerà successivamente di essere stato «attratto dal blues perché mi sembrava fosse una musica onesta, incontaminata, la cui purezza contrastava enormemente con il pop inglese allora in voga». In questa ricerca si ispira al genio musicale di Ray Charles, cui ruba la capacità di legare il modo di cantare dei bluesmen a melodie conosciute, trasfigurandole. Come accade proprio nella sua versione di With a little help from my friends cui danno nerbo i ruggiti ispirati alle urla roche degli shouters del Delta del Mississippi. La sua strada è appena all'inizio. L'anno dopo la partecipazione al Festival di Woodstock lo farà entrare per sempre nella leggenda.
05 novembre, 2022
5 novembre 1988 – Una serata tra amici del blues per Johnny Winter
«È una serata tra amici del blues, per cui cercherò di non sprecare le parole!», così il 5 novembre 1988 il quarantaquattrenne chitarrista albino Johnny Winter saluta il pubblico dal palco della Riverwalk Blues Fest di Fort Lauderdale, in Florida. Il concerto conclude il tour promozionale dell’album Winter of ‘88, che segna il ritorno dell’artista dalla chioma bianca dopo dieci anni passati a sbarcare il lunario in piccoli club per qualche decina di amanti del blues. Nato a Leland, nel Mississippi, ma cresciuto nel Texas, inizia a suonare il clarinetto e l'ukulele, due strumenti che lascerà perché, confessa nelle note di copertina di uno dei suoi primi album, «nessuna bluesband voleva in formazione un bianco che suonava l’ukulele». Nei primi anni Sessanta va a Chicago dove suona con musicisti come B.B. King, Muddy Waters, Barry Goldberg e Mike Bloomfield. La sua grande occasione arriva nel 1968 quando un articolo sulla neonata rivista Rolling Stone lo fa conoscere a livello nazionale. Nel 1969 registra a Nashville il suo primo album ufficiale Johnny Winter al quale collaborano, oltre al fratello Edgar, vari bluesmen come Willie Dixon e Charley Horton. Da quel momento il suo nome diventa popolarissimo anche fuori dall’ambiente del blues e il suo successo sembra destinato a durare per sempre, scandito da dischi che scalano le classifiche di vendita. Dopo la pubblicazione dello splendido album Johnny Winter and live, registrato al Fillmore East di New York e in alcuni concerti in Florida, la fortuna gli presenta il conto. All’inizio degli anni Settanta gli eccessi e la droga lo costringono a ritirarsi dalle scene per quasi due anni. Quando riprende pubblica ancora vari dischi, ma il periodo migliore sembra passato e all’inizio degli anni Ottanta si ritrova a suonare il suo blues in piccoli locali, per un pubblico di appassionati. Rifiutato dalle major firma un contratto con l'etichetta indipendente Alligator e torna al suono delle origini. Carriera finita? Neanche per sogno. C’è la Warner che, sull’onda del rinnovato interesse per il blues lo rilancia in grande stile con l’album Winter of '88. Per questo il 5 novembre 1988 i fans lo salutano come ai vecchi tempi. Non smetterà più fino al 16 luglio 2014 quando viene trovato privo di vita nella sua stanza d'albergo
vicino a Zurigo. Due giorni prima ha partecipato al Cahors Blues Festival in Francia. Le cause della morte non
sono mai state rivelate.
04 novembre, 2022
4 novembre 1931 - Buddy Bolden, una leggenda seppellita in manicomio
Il 4 novembre 1931 tra il disinteresse generale e il silenzio dei media muore nel manicomio di Jackson, in Louisiana, il trombettista Buddy Bolden. Ha cinquantaquattro anni e da ventiquattro è, di fatto, seppellito vivo in un centro per malati mentali che assomiglia più a una prigione che a un ospedale. Muore così, solo come un cane, un personaggio di primissimo piano nella storia della musica di quel periodo che fra il 1900 e il 1906 ha goduto a New Orleans di grande popolarità. La stessa che negli anni successivi avranno musicisti come Louis Armstrong e pochi altri. Il suo fascino di uomo e di musicista nei primi anni del Novecento supera i confini ristretti del circuito del Garden District di New Orleans e la sua tromba inizia a sgretolare le regole del “ragtime” per creare i nuovi suoni da cui nascerà il jazz moderno. Ha, però, un problema: è nero e alcolizzato. Ecco perché la sua popolarità non impedisce alle autorità costituite di rinchiuderlo dopo un violento accesso d’ira provocato dall’etilismo acuto di cui soffre. È il mese d’aprile del 1907. Passano quasi due mesi prima che qualcuno stili un documento di ricovero del musicista in cui viene definito «pericoloso per gli altri». Nello stesso documento si rileva che «non ha tendenze suicide… non ha distrutto cose o altri oggetti… è quieto.., non ha familiari malati di mente… non ha avuto altri sintomi come epilessia o malattie ereditarie...». Nonostante tutto non uscirà più dal manicomio. Per ventiquattro lunghi anni vive (si fa per dire) separato dalla realtà e dalla musica delle grandi orchestre che, anche grazie al suo lavoro, stanno trovando nuove forme espressive. La reclusione forzata finisce il 4 novembre 1931 quando muore. Le cronache dell’epoca non parlano né della sua morte, né dei suoi funerali. Di quel periodo resta solo la memoria dei musicisti e gran parte delle notizie su di lui sono dovute al paziente lavoro di raccolta delle testimonianze da parte di Alan Lomax negli anni Quaranta e Cinquanta. Con la stessa velocità con cui è stato seppellito, però, nascerà la leggenda. Il 22 aprile 1933, un anno e mezzo dopo la morte di Buddy Bolden, il giornalista E. Belfield Spriggins scriverà di lui sul Louisiana Weekly. In un lungo servizio intitolato “Excavating Local Jazz” rileva l’importanza del suo apporto nel superamento del ragtime e lo ribattezza per la prima volta “King” Bolden, Re Bolden, un titolo postumo da parte di una società che l'ha rinchiuso per metà della sua vita in manicomio.
03 novembre, 2022
3 novembre 1979 – The Jam: punk a chi?
Il 3 novembre 1979 entra nella classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna il singolo The Eton rifles dei Jam, un brano che segna anche dal punto di vista musicale la rottura definitiva del gruppo con il movimento punk. I suoni sono più morbidi del passato e la struttura del brano lascia intuire che la band sta attraversando un momento d’evoluzione. Il suo leader Paul Weller da tempo va ripetendo ai suoi interlocutori di non aver niente a che spartire con il punk e il suo nichilismo disperato: «Anche a me non piace questa società, ma credo che il mio impegno sia di cambiarla, non di lasciarmi distruggere…» Simpatizzante della sinistra laburista e attivamente impegnato sul piano sociale ha formato il gruppo nel 1972, quando era ancora quattordicenne, con il suo amico chitarrista Steve Brooks, il batterista Rick Buckler e il bassista Dave Wakler. Dopo qualche anno di apprendistato nei piccoli clubs del circuito del folk rock britannico, Wakler se ne va e viene sostituito da Bruce Foxton. Verso la metà degli anni Settanta Weller modifica profondamente l’impostazione della band che passa a un rock asciutto ed essenziale, sulla falsariga dei gruppi Mod degli anni Sessanta. Steve Brooks non è d’accordo e lascia i Jam. Il gruppo, divenuto un trio, in piena esplosione del punk si impone all’attenzione di critica e pubblico per i suoi a canoni stilistici, molto simili a quelli dei gruppi punk più evoluti. «Non siamo punk. Se proprio dovete fare riferimento a qualche genere, potete scrivere che ci ispiriamo agli Who e ai Kinks degli anni Sessanta…». L’equivoco, nonostante le dichiarazioni e le prese di distanza di Weller, è destinato a durare a lungo, anche per la furba campagna promozionale delle loro casa discografica, la Polydor, alla ricerca di un gruppo da contrapporre ai Sex Pistols ed ai Clash. Punk o no, i Jam conquistano il pubblico e la critica più attenta con brani come In the city, brano copiato poi dai Sex Pistols in Holidays in the sun. Il loro successo è destinato a durare oltre e nonostante la fine del punk. The Eton rifles è un passo importante di un’evoluzione che li porterà, nel 1980, a fare incetta di premi della critica: miglior gruppo dell'anno, miglior album (Setting songs), miglior autore (Weller), miglior chitarrista (Weller), miglior batterista (Buckler) e miglior bassista (Foxton).
02 novembre, 2022
2 novembre 1975 - Dylan e Ginsberg ricordano Kerouac
Il 2 novembre 1975 Bob Dylan è a Lowell, una cittadina del Massachusetts nella quale deve esibirsi con la Rolling Thunder Revue, il grande circo messo in piedi richiamando accanto a lui una lunga serie di vecchi amici come l’ex Byrds Roger McGuinn, Joan Baez, Mick Ronson, Scarlet Rivera, Joni Mitchell e altri. Il folksinger sta attraversando un periodo di intensa creatività e voglia di fare. In più sembra aver ritrovato il coraggio dei primi tempi della sua vicenda umana e artistica. Pochi mesi prima ha anche riscoperto l'impegno sociale pubblicando Hurricane, un'accorata e militante difesa del pugile Hurricane Carter accusato di omicidio. Insomma, il "nuovo" Dylan ha i tratti del vecchio combattente che aveva affascinato e trascinato i giovani degli anni Sessanta. Questo nuovo spirito è apparso evidente fin dal concerto d'avvio della Rolling Thunder Revue, avvenuto qualche giorno al Memorial Auditorium di Plymouth, sempre nel Massachusetts. La tappa di Lowell del suo tour gli da' la possibilità di compiere un gesto di grande valore simbolico nella riscoperta delle sue antiche ragioni. In un cimitero nei pressi della città, infatti, riposano i resti di Jack Kerouac, uno dei profeti della beat generation. Il buon Bob ha dato appuntamento a un altro vecchio amico che risponde al nome di Allen Ginsberg. I due si avviano insieme verso il luogo dove è sepolto Kerouac. Dylan ha con sé una chitarra chiusa nella custodia e Ginsberg un pacco di fogli di carta. Arrivati nei pressi della tomba si fermano un attimo in silenzio, poi il folksinger estrae la chitarra dalla custodia e inizia ad accordarla, mentre il suo compagno rilegge quanto scritto sui fogli. Quindi, come in una sorta di rispettoso show Bob suona alcuni brani con la chitarra e mentre Ginsberg improvvisa alcune poesie. Non sono soli. Con loro c'è anche un operatore che riprende tutto. L’omaggio dei due artisti al padre della "beat generation" verrà poi inserito nel film “Renaldo e Clara”.
01 novembre, 2022
1 novembre 1970 - Peck Curtis, cuore e percussione
Il 1° novembre 1970 muore d'infarto a Helena, nell’Arkansas, il cinquantottenne James “Peck” Curtis. Originario di Benoit nel Mississippi, fin da giovane è attratto dalla carica ritmica del blues. I suoi primi concerti, se così li si può chiamare, avvengono agli angoli delle strade dove il ragazzo urla a squarciagola i motivi imparati dai bluesmen viaggianti accompagnandosi con il battito delle mani o con un pezzo di legno. Quando le vicissitudini della vita lo portano a Helena, in Arkansas, cerca di inserirsi nelle varie bluesband del posto. Non sa suonare alcuno strumento, ma sa battere il ritmo che è un piacere. Scopre quindi il "washboard" (asse per lavare i panni), una tavola ricoperta da una lamiera ondulata da percuotere o strisciare in funzione del suono che si vuole ottenere. Trova così lo strumento per lui. Cantando e battendo fa carriera. Dai locali passa agli spettacoli viaggianti e per qualche tempo entra anche a far parte dei Rabbit Foot Minstrels, uno dei più conosciuti gruppi di vagabondi del blues. Nel frattempo ha trovato un altro strumento da suonare: il "jug", una sorta di bottiglione che, quando si soffia, fa un suono simile (si fa per dire) al contrabbasso. Padrone di due strumenti riesce a trovare un posto da titolare nella South Memphis Jug Band. È il 1933, anno in cui, invitato a definire il blues, avrebbe risposto così: «Il blues? È la somma di cuore e percussione!» Fedele a quella definizione si applica nello studio di uno strumento più avanzato di quelli che ha suonato fino a quel momento e diventa batterista. Non rinuncia a cantare, ma dietro a grancassa, piatti, tamburi e rullanti si fa notare. Alla fine degli anni Trenta suona con Howlin' Wolf e Robert Johnson e negli anni successivi accompagna le avventure di una lunga serie di giganti del blues, come Sonny Boy Williamson e Little Walter. Nel 1969, pochi mesi prima di morire, si era ritirato dalle scene perché il suo cuore gli aveva dato il primo brutto segnale.
31 ottobre, 2022
31 ottobre 1968 – MC5, i cinque della città dei motori
Il 31 ottobre 1968 gli MC5, uno dei gruppi più politicizzati ed eversivi del rock statunitense, tengono un concerto a Detroit che segna per sempre la loro storia. Il materiale registrato nel corso dell’esibizione verrà pubblicato nel loro primo, splendido e insuperato album Kick out the jams, destinato a farli uscire dall’anonimato, ma anche a rappresentare l’avvio di un lungo calvario costellato da prevaricazioni e aperte persecuzioni politiche. La loro storia inizia nel 1967 quando nella città industriale di Detroit, dove c’è un movimento operaio organizzato e strutturato, la protesta giovanile tende a superare il semplice pacifismo e l’avversione alla guerra del Vietnam per mettere in discussione la società in cui vive. Gli obiettivi e il quadro di riferimento portano i giovani politicizzati della “città dei motori” a muoversi in una dimensione molto diversa da quella degli ingenui e folcloristici hippies della California. In quel periodo, infatti, il movimento studentesco di Chicago tenta di saldarsi a pezzi di classe operaia e di proletariato urbano bianco e nero su parole d’ordine che vanno oltre il semplice rifiuto della guerra e la resistenza passiva. In questo laboratorio nasce il White Panthers Party, un’organizzazione politica d’estrema sinistra che si dichiara guevariana e, nonostante le inevitabili ingenuità, marxista e apertamente anticapitalista. Uno dei suoi dirigenti, John Sinclair, intuisce che il rock è il mezzo di comunicazione più immediato per parlare alle nuove generazioni e affida il compito di diffondere il messaggio politico del movimento a un gruppo musicale: gli MC5, una sigla che significa Motor City Five (i cinque della città dei motori). La band è formata dal cantante Rob Tyner, dal bassista Michael Davis, dal batterista Dennis Thompson e dai chitarristi Fred “Sonic” Smith e Wayne Kramer. Sulle ali di un rock violentissimo i cinque portano in tutti gli Stati Uniti il messaggio antagonista delle “pantere bianche”. Il successo è tale che, all’inizio del 1969, la Elektra Records pubblica il loro primo album, Kick out the jams, registrato dal vivo, appunto, nel concerto di Detroit del 31 ottobre 1968. All’apice della popolarità diffondono idee di rivolta e fanno a pezzi sul palco la bandiera a stelle e strisce, ma la loro azione non finisce lì. Ogni concerto diventa un’occasione per reclutare nuovi aderenti al movimento che nato come un’esperienza locale, rischia di espandersi a macchia d’olio in tutti gli States. La reazione non si fa attendere. Contro il gruppo parte una campagna di stampa senza paragoni, mentre l’FBI mette sotto stretto controllo i cinque musicisti. Vengono diffuse foto che li riprendono in atteggiamenti intimi con le loro compagne, si raccolgono petizioni e, soprattutto, si chiede all’Elektra di ritirare dal mercato l’album, ritenuto indecente e offensivo. La casa discografica per qualche tempo tiene duro, anche perché il disco vende bene, ma poi è costretta a cedere alle pressioni. Il 16 aprile 1969 licenzia il gruppo e ritira l’album. È la fine. Mentre il White Panthers Party è bersagliato da più parti, la polizia “trova” addosso a Sinclair due sigarette di marijuana che gli costano una condanna a ben cinque anni di carcere. Due anni dopo John Lennon scriverà sulla vicenda il brano John Sinclair. Nel 1970 gli MC5 tentano invano di continuare “ammorbidendo i toni” con un paio di album di scarso significato. Di loro non si parla più fino al 17 settembre 1991, quando l’ex cantante Rob Tyner muore d’infarto a Detroit e un gruppo imponente di vecchi militanti delle Pantere Bianche lo accompagna nell’ultimo viaggio. I giornali riparlano della storia del gruppo. Nel suo testamento chiede che la T-shirt indossata nei concerti degli MC5 venga seppellita con lui. L’emozione per le vicende della band si trasforma in un’occasione d’oro per il music business. Un mese dopo la sua morte l’album maledetto, Kick out the jams, viene ripubblicato in CD con la stessa copertina di quello ritirato dal mercato. Son passati vent’anni e, cessata la pericolosità sociale del loro messaggio, gli MC5 diventano un business per gli stessi che avevano deciso di condannarli all’oblio. Tre anni dopo ci sarà una nuova ondata d’affari sulla loro pelle quando, il 4 novembre 1994, morirà anche il chitarrista Fred “Sonic” Smith, divenuto collaboratore, consigliere e marito di Patti Smith. All’alba del duemila i sopravvissuti tenteranno di rimettere insieme la band per una serie di concerti sull’onda della nostalgia.
30 ottobre, 2022
30 ottobre 1984 – Linda e la Bohème
Molta curiosità circonda “La Bohème” in programma il 30 ottobre 1984 al Public Theatre di New York. I biglietti sono esauriti da giorni per quello che, con un po’ di esagerazione, è stato definito “l’avvenimento musicale dell’anno”. La ragione di tanto interesse è il debutto lirico, nel ruolo di Mimì, di Linda Ronstadt, uno dei più emblematici personaggi della scena musicale statunitense degli anni Settanta. Nata nel 1946 a Tucson, in Arizona, a diciott’anni se ne va a Los Angeles in cerca di fortuna con una chitarra, una voce dal timbro caldo e una bellezza intrigante. Il primo successo discografico è Different drum, un brano scritto dall'ex Monkees Mike Nesmith e interpretato insieme alla sua band di quel periodo, gli Stone Poneys e nel 1973 riceve il suo primo disco d’oro per le vendite dell’album Don't cry now. Da quel momento la sua carriera prende il volo. Coccolata dai migliori autori californiani che le costruiscono addosso una lunga serie di brani di successo, rischia di farsi travolgere dalla popolarità. A partire dalla fine del 1977 il suo nome scivola dalle rubriche musicali dei giornali alle pagine di cronaca e per tre anni non pubblica alcun disco, se si eccettua l’album dal vivo Living in the USA. In una sorta di gioco al massacro i media statunitensi la descrivono o come una paranoica in preda a frequenti crisi psichiche o come una tossicodipendente obbligata a periodici interventi di chirurgia plastica per suturarsi le narici bucate dalla cocaina. Si parla a lungo anche di un suo il suo flirt con il governatore della California Jerry Brown, candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, e pian piano la sua attività musicale diventa uno sbiadito ricordo del passato. In realtà Linda sta meditando scelte diverse. È alla ricerca di nuove strade e nel 1980, tra la sorpresa generale, fa il suo debutto teatrale nel musical "The pirates of Penzance". Il ritorno sulle scene segna anche la ripresa della produzione discografica con album diversi dal passato, più maturi e strutturati in modo da consentire alla sua voce di sperimentarsi in generi e stili diversi. Liberatasi dalla prigionia di un genere decide di misurarsi anche con il melodramma. La critica le è al fianco e il pubblico la segue con simpatia. Per questo la sera del 30 ottobre 1984 sono in molti ad applaudire la sua nuova sfida.
28 ottobre, 2022
28 ottobre 1965 – My generation
Il 28 ottobre 1965 gli Who terminano la registrazione di My generation, il loro terzo singolo dell'anno. Il gruppo composto da Pete Townshend, Roger Daltrey, John Entwistle e Keith Moon è ormai divenuta il simbolo dei giovani delle grandi periferie industriali. Rissosi e provocatori interpretano fino in fondo il ruolo di alfieri del movimento Mod. Osteggiati dalla grande stampa che non nasconde la sua antipatia per questo gruppetto di violenti e oltraggiosi strumentisti, i quattro non perdono occasione per fornire nuovi argomenti di scandalo. Litigiosi come pochi non mascherano i momenti di tensione interna e, a volte, finiscono per insultarsi e scazzottarsi sul palco nel corso dei concerti. I loro manager, Kit Lambert e Chris Stamp, faticano le proverbiali sette camicie per tenere insieme una band che quasi ogni giorno annuncia il suo scioglimento. Come se non bastasse, poche settimane prima di iniziare a lavorare al nuovo disco, stanchi di essere considerati come una sorta di "animali da esposizione", a un malcapitato giornalista che chiedeva se si fossero mai drogati con le "pasticche blu", le amfetamine, prima di salire sul palco, Pete Townshend ha risposto con aria strafottente: «Prima di salire su un palco no, perché noi siamo sempre drogati». Con queste premesse la realizzazione del terzo singolo appariva, a dir poco, ardua. Invece in quel 28 ottobre 1965 i quattro realizzano un brano destinato a entrare nella storia del rock. Più della musica è il testo che determina il suo successo. Versi come «La gente cerca di buttarci giù solo perché siamo in giro/le cose che fanno sono spaventosamente fredde/spero di morire prima di diventare vecchio/sto parlando della mia generazione» interpretano più di tanti trattati sociologici il malessere diffuso e la voglia di cambiare di una generazione che si sta affacciando alla storia. Non tutti i critici, prevenuti nei confronti della band, si accorgono del valore del brano. C'è chi ne predice il rapido oblio e c'è anche qualche "esperto" che scambia l'effetto feedback della chitarra elettrica di Townshend per un difetto d'incisione. Nonostante il successo del brano il gruppo sembra arrivato al capolinea. Dopo una lite più violenta del solito Pete Townshend caccia il cantante Roger Daltrey. Tutto tornerà a posto anche perché il futuro King Crimson Boz Burrell, contattato per la sostituzione, risponde che non intende far parte di una «band di pagliacci». Un altro che ha capito tutto.
27 ottobre, 2022
27 ottobre 1973 - Tina lascia Ike
Il 27 ottobre 1973 con il brano Nutbush city limits il duo formato da Ike & Tina Turner entra per l'ultima volta nella classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti. È l’ultimo successo commerciale del duo, cui seguiranno solo successi di Tina come solista. Il brano, un omaggio a Nutbush, nel Tennessee, città natale della cantante, viene pubblicato quando i rapporti tra i due stanno rapidamente deteriorandosi fino al punto di non ritorno. In un'intervista concessa a Kurt Loder dieci anni dopo Tina ricorderà quel periodo come uno dei peggiori della sua vita: «Da una parte le cose andavano bene, vendevamo dischi, eravamo molto richiesti e ai concerti c'era sempre un sacco di gente; nella vita privata, invece, tutto andava a rotoli. Ike mi trattava malissimo e aveva iniziato a drogarsi pesantemente». La crisi finisce con la decisione della cantante di andarsene, incapace di reggere il calvario in cui si è trasformato il loro matrimonio: litigi, periodi di depressione e botte, tante botte. Il giorno che se ne va da casa ha con sé la cifra di trentasei centesimi e una borsa con qualche vestito. Per un po' Ike si vendicherà telefonandole nel cuore della notte, incendiando la sua auto e sparando contro la sua nuova casa, poi i suoi problemi personali conditi con alcol e cocaina finiranno per travolgerlo e chiudere definitivamente la vicenda. Tina dovrà ricominciare da capo la sua carriera accettando di esibirsi in locali di quart'ordine o nelle feste d'inaugurazione dei centri commerciali. In quel periodo nessuno sembra disposto a scommettere sulla sua ripresa. Uno solo, il giovane manager australiano Roger Davies tenterà l'impresa di riportarla agli antichi fasti. Ci riuscirà e dieci anni dopo con Nutbush city limits il suo nome tornerà in classifica.
26 ottobre, 2022
26 ottobre 1965 – Quattro baronetti imbarazzanti
Il 26 ottobre 1965 i Beatles vengono ufficialmente insigniti del titolo di Baronetti dalla regina Elisabetta nella Sala del Trono di Buckingham Palace. Fin dal primo annuncio, avvenuto il 12 luglio, la loro investitura ha suscitato un putiferio. A complicare la vicenda contribuiscono anche le dichiarazioni dei quattro, in particolare di John Lennon e di Ringo Starr. Il primo manifesta la sua incredulità ai giornalisti mettendo in dubbio la notizia: «Baronetti? Non ci credo. Credevo fosse indispensabile guidare carri armati e vincere guerre». Il secondo commenta con sarcasmo «C'è una vera medaglia, no? Me la terrò per metterla quando sarò vecchio». Le polemiche sono, quindi, inevitabili. In prima fila nel tentativo di impedire la "profanazione" c'è la nobiltà, ma non mancano reduci di guerra, eroi della RAF e indignati vari che si sono dichiarati disposti a riconsegnare le loro onorificenze per protesta. Tutto è stato inutile. Il 26 ottobre i Beatles diventano Baronetti. Nel corso della cerimonia ufficiale i quattro ragazzi di Liverpool appaiono un po' alterati. Sono eccitati e confusi e per tutta la durata del lungo cerimoniale si comportano in modo decisamente fuori dalle regole. Scambiano battute e sottolineano con commenti divertiti i vari passaggi dell'investitura. Sembra un quadro irreale. Da una parte quattro ragazzi dall'aria stralunata e dall'altra una lunga fila di parrucconi in alta uniforme. Si arriva al culmine del paradosso quando la regina Elisabetta si rivolge direttamente ai Beatles con una domanda banale: «Da quanto tempo siete insieme?». I quattro si guardano per qualche secondo l'un l'altro senza spiaccicare parola, mentre la regina, con un sorriso educato stampato in volto attende paziente la risposta. Alla fine l'imbarazzante silenzio viene rotto dalla voce di Ringo Starr che, con voce impastata, risponde «Da quarant'anni!» mentre i suoi compagni sghignazzano divertiti. Per evitare ulteriori incidenti la cerimonia si avvia rapidamente alla fine. I Beatles escono dal palazzo reale esibendosi per i fotografi in una serie di divertenti gags. La loro eccitazione appare un po' troppo sopra le righe e qualche giornalista avanza il dubbio che non sia "naturale", ma nessuno lancia aperte accuse. A togliere ogni dubbio ci penseranno gli stessi Beatles che, qualche tempo dopo, riveleranno di aver fumato marijuana «per rilassarsi e vincere l'emozione prima della cerimonia» nei gabinetti di Buckingham Palace.
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