Il 6 dicembre 1948 in una strada di Newark, nel New Jersey, cade e muore per la frattura del cranio il quarantenne batterista Dave "Davey" Tough. Fino a poche settimane prima era ricoverato al New Jersey Veterans' Hospital di Lyon e al momento dell'incidente era in cura ambulatoriale. Verrà seppellito a Oak Park, nell'Illinois, sua città natale. Anche se da tempo la sua malferma salute e l'abuso di alcool gli consentivano solo sporadiche apparizioni, continua a essere considerato dai critici uno dei migliori batteristi di tutti i tempi. Musicista di grande versatilità dotato di un ricco e per molti aspetti unico gioco strumentale attraversa per intero gran parte dell'evoluzione del jazz del primo Novecento: dal dixieland allo swing fino al progressive. Quando, giovanissimo, inizia a suonare ha come modello il grande batterista nero Warren "Bady" Dodds, ma ben presto inizia a evolvere il suo drumming. Ostinato sperimentatore diventa uno dei rari batteristi in grado di esibirsi in ogni stile, dal tradizionale al moderno. Da "Baby" Dodds impara la lezione di non trattare mai la batteria come uno strumento solista (rarissimi sono i suoi assoli), ma come un elemento propulsivo del gioco orchestrale in relazione ai diversi solisti. Tough non è soltanto un musicista, ma anche un raffinatissimo intellettuale che sogna di diventare uno scrittore di successo. Prima l'alcool e poi la morte gli impediscono, però di dare continuità al lavoro iniziato nel 1937 con una rubrica di breve durata sulla rivista Down Beat nella quale si fa notare per il suo stile ricco di notazioni acute e brillanti.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
06 dicembre, 2022
05 dicembre, 2022
5 dicembre 1968 – Il banchetto degli Stones
Cinque mesi dopo la data annunciata, il 5 dicembre 1968 viene finalmente pubblicato l'album Beggar's banquet dei Rolling Stones. Molte sono le ragioni di questo ritardo, la prima è che il 1968 è un anno speciale per i giovani di tutto il mondo e gli Stones sono profondamente immersi nella grande fiammata che tenta di incendiare le vecchie istituzioni della società borghese. I cinque ragazzi, che hanno visto la loro Jumpin' Jack flash volare sulle barricate del maggio francese, sono affascinati dalla voglia della loro generazione di prendere in mano il proprio destino. La loro attività musicale si mescola in modo non occasionale con l'impegno politico e sociale come dimostra il fatto che le sedute di registrazione del brano Simpathy for the devil vengano riprese da Jean-Luc Godard e montate, con vari commenti politici, nel lungometraggio "One plus one". L'album non può che attingere a piene mani la sua ispirazione da questo clima. Il brano più significativo, Street fighting man, sembra un omaggio esplicito ai giovani scesi in piazza e alle barricate del maggio francese e suscita più di una perplessità nei distributori britannici che ne temono il sequestro per incitamento alla violenza. C'è poi una seconda ragione per il ritardo nell'uscita ufficiale del disco: il lungo braccio di ferro tra la band, i responsabili commerciali e i distributori del disco per l'immagine di copertina. Gli Stones hanno tentato fino all'ultimo di pubblicare l'immagine del muro di una latrina e si sono arresi soltanto dopo una lunga serie di diffide legali. Superati tutti gli scogli il 5 dicembre viene dunque presentato ufficialmente il disco. La società di distribuzione ha imposto ai Rolling Stones una conferenza stampa tradizionale, seguita da un rinfresco. Mick Jagger e compagni, però, non si fanno scappare l'occasione. Durante il rinfresco polemizzano con alcuni giornalisti. Dalle polemiche verbali si passa ai fatti fino a degenerare in una vera e propria battaglia con lancio di cibi sugli invitati. La vivacità del momento è resa in modo perfetto dall'album che verrà considerato negli anni successivi da quasi tutti i critici come il migliore degli Stones negli anni Sessanta e uno dei dischi più belli in assoluto tra i tanti prodotti dalla band. Ancora oggi Beggar's banquet mantiene una sorprendente freschezza e raccoglie gli umori e i fermenti creativi di un anno che ha lasciato segni profondi nella società e nella cultura dei paesi dell'occidente.
04 dicembre, 2022
4 dicembre 1993 – Frank Zappa, il giullare della rivolta anti-borghese
Il 4 dicembre 1993 dopo aver registrato il suo ultimo album Civilisation, phase 3, muore Frank Zappa. Dal 1990 gli è stato diagnosticato un cancro alla prostata, ma la lotta contro questo terribile nemico non ha frenato la sua incontenibile e frenetica attività, tanto che ha continuato a lavorare fino all’ultimo giorno. Con lui scompare uno dei primi artisti che hanno tentato di gettare un ponte tra pop, rock, jazz, musica sinfonica e operistica, riuscendo a combinare ironia e intelligenza e affascinando, oltre al pubblico del rock, anche gli studiosi della musica e i cultori dei vari fenomeni musicali. Giullare della rivolta anti-borghese è stato la bandiera di una generazione di musicisti che hanno tentato di guardare alle lotte e alle aspirazioni dei giovani degli anni Sessanta in modo non filtrato, evitando di astrarre con la descrizione artistica la poesia delle situazioni reali. Non ama parlare di se stesso e quando lo fa adotta i toni dimessi di chi si considera un privilegiato che è riuscito a trasformare un hobby in lavoro: «La ragione per cui io scrivo musica è che mi piace ascoltarla. Il resto sono balle inventate dai discografici e dagli impresari». Dissacratore al punto da aprire i suoi concerti con il brano We’re only in it for the money (Siamo qui solo perché ci pagano) non mette limiti alla provocazione. Nel periodo della guerra del Vietnam, accortosi che tra il pubblico sono presenti alcuni marines in divisa, fa portare delle bambole in palcoscenico e li costringe a salire sul palco per mostrare agli spettatori come i loro compagni sparino ai bambini vietnamiti. Quando la mobilitazione della società si affievolisce continua da solo la battaglia contro gli stereotipi del sistema. In una delle sue ultime interviste, parlando di Los Angeles, delle difficoltà della città, della droga diffusa e della difficile convivenza tra i bianchi ed i neri, dice che gli Stati Uniti non sanno rinnovarsi e che nulla è cambiato dagli anni Sessanta: «C’erano ragazzi che erano talmente fatti che vedevano Dio a colori o sotto forma di fiocchi di neve. C’era tanta tensione, a volte, che ti pareva di toccarla e tutte le sere la polizia, che aveva imposto con la violenza una specie di coprifuoco, lasciava sui marciapiedi un bel numero di teste insanguinate».
03 dicembre, 2022
3 dicembre 1976 – Dieci spari per Bob Marley
La sera del 3 dicembre 1976 Bob Marley è nella cucina della sua casa di Kingston, in Giamaica e sta chiacchierando con il suo amico e manager Don Taylor. Improvvisamente cinque colpi d’arma da fuoco frantumano il vetro della finestra. Quattro proiettili colpiscono all’inguine Taylor, capitato per caso sulla linea di fuoco, uno picchia sul muro e rimbalza nel braccio sinistro di Marley. Nello stesso istante altri cinque colpi d’arma da fuoco fracassano il cristallo posteriore dell’auto di sua moglie Rita, che resta ferita di striscio alla testa. Gli sparatori si dileguano nella notte. L’improvvisa esplosione di violenza non è casuale. Bob Marley e gli Wailers sono nel loro paese d’origine su invito del Governo Giamaicano per esibirsi in “Smile Jamaica”, un concerto che deve svolgersi un paio di giorni dopo al National Heroes Park di Kingston. Il cantante, da tempo lontano dalla sua terra natale e poco informato sugli avvenimenti interni, non si è accorto della strana atmosfera che lo circonda fin dall’arrivo all’aeroporto di Kingston. Convinto di essere sempre padrone degli eventi che lo riguardano dichiara di voler cantare in segno di ringraziamento e di solidarietà con l’intero popolo della sua nazione. C’è, però, un problema. I manifesti che annunciano l’esibizione riportano la scritta “Concerto presentato da Bob Marley in associazione con il Dipartimento Culturale del Governo della Giamaica”. L’evento cade nel pieno di una vigilia elettorale per il rinnovo del parlamento, ricca di tensioni e costellata da veri e propri scontri armati tra i sostenitori dei due principali partiti. Bob Marley, che nel passato ha suonato per il PNP, il partito di governo, viene accusato dall’opposizione di prestarsi a un gioco propagandistico pagato con i soldi dello stato e fuori da qualunque regola. In questo clima va letto l’attentato, che ha lo scopo essenziale di intimidirlo più che di ucciderlo. Entrambi i principali partiti si dissociano e condannano l’aggressione offrendo i servizi dei rispettivi servizi d’ordine per proteggere la vita del cantante. Bob, impaurito e turbato dall’accaduto, non vuole saperne. Non rinuncia al concerto, ma subito dopo decide di non tornare più in Giamaica e trasferisce la sua residenza a Nassau, nelle Bahamas. Non sarà per sempre.
02 dicembre, 2022
2 dicembre 1971 – Taj Mahal, un blues nel braccio della morte
Il 2 dicembre 1971 nel "braccio della morte" del carcere di Wilmington, nello stato del Delaware risuonano le note di brani come Statesboro blues e Give your woman what she wants. Nelle anguste celle dove ogni giorno disperazione e angoscia vanno a braccetto si insinuano i suoni di una chitarra e di una voce potente, roca e carezzevole al tempo stesso. La chitarra e la voce sono quelle di Taj Mahal, il poliedrico musicista blues d’origine caraibica che in quel periodo è uno dei principali animatori della scena statunitense. Nonostante la sua popolarità, quando ha chiesto di poter suonare nel carcere non è stato facile neppure per lui ottenere l’autorizzazione necessaria per esibirsi in un concerto di solidarietà con i condannati a morte. A onor del vero la parola “solidarietà” non è stata mai citata in nessuno dei documenti ufficiali che hanno costellato la lunga trafila burocratica prima dell’esibizione. Sarebbe stata sospetta. Le autorità carcerarie hanno a lungo osteggiato l’iniziativa, considerata «inopportuna, intempestiva e foriera di inutili tensioni tra i carcerati dei vari settori del penitenziario». Per questo nella richiesta ufficiale, come nelle anticipazioni alla stampa si è preferito descrivere il concerto come un momento di “svago”, “distrazione” o “consolazione” dei condannati. La lunga serie di ipocrite dissimulazioni e mezze verità alla fine ottiene il risultato voluto: oltrepassare le mura del carcere. Taj Mahal, convertitosi alla Chiesa Ortodossa d’Etiopia, è un convinto assertore della non violenza e all’uscita dal carcere si rivolge serio alla folla di giornalisti che lo sta aspettando: «Non parlo del concerto. Non sono fatti vostri. La musica di oggi è un regalo per un gruppo di persone, gente di carne e sangue come me, come voi, che passa le giornate aspettando il momento di essere messa a morte. Di loro vorrei parlarvi, della loro quotidiana passione. La pena di morte è un vero e proprio assassinio legalizzato. Nessun essere umano può disporre della vita degli altri e nessuno Stato può autorizzarlo. E poi, vi chiedo, è forse un caso se quasi tutti i condannati a morte hanno la pelle nera? Nera, amici, nera come il blues che vi piace tanto…».
01 dicembre, 2022
1° dicembre 1936 – Lou Rawls, il soulman che aprì Monterey
Il 1 dicembre 1936 nasce a Chicago, nell'Illinois, Lou Rawls, uno dei più importanti protagonisti dell'esplosione soul degli anni Sessanta. Il suo incontro con la musica è simile a quello di molti altri cantanti soul della sua generazione. Avviene un po' per caso e un po' per obbligo sui banchi odorosi di legno della chiesa del suo quartiere in un coro che canta gospel a Dio. Prima della maggiore età si unisce ai Pilgrim Travellers, un gruppo gospel che gira per gli Stati Uniti. Non lo fa per scelta professionale, ma perché è affascinato dall'idea di andarsene a zonzo per l'America. Nonostante le sue intenzioni, la decisione finisce per essere una vera e propria svolta nella sua vita. Quando lascia il gruppo lo fa per esigenze di leva, ma appena congedato, torna al suo posto. Nel 1958 mentre viaggia con il suo amico Sam Cooke viene coinvolto in un terribile incidente stradale che gli costa cinque giorni di come e un lunghissimo periodo in ospedale. L'anno dopo il gruppo di cui fa parte si scioglie, ma Lou non abbandona le scene. Si adatta a cantare nei piccoli club e nelle feste private, finché, dopo una serie di passaggi televisivi nel "Dick Clark Show", ottiene la sua prima scrittura discografica come solista. Il suo debutto discografico avviene nel 1962 con il singolo Love is a hurtin' e con l'album Stormy monday. La sua voce e la sua notevole presenza scenica conquistano il pubblico. Anche il cinema si accorge di lui e lo vuole per una serie di pellicole giustamente ignorate dalla critica, con la sola eccezione di "Believe in me" diretto da Stuart Hagmann, il regista di "Fragole e sangue" e distribuito in Italia con l'incredibile titolo di "Jackie, la ragazza del Greenwich Village". Una data resta, però, fondamentale nella sua carriera, il 16 giugno 1967, quando, insieme a Johnny Rivers, si assume il compito di aprire il Monterey Pop Festival, passato alla storia come il primo, grande, raduno di massa della generazione hippie. Verso la metà degli anni Settanta, quando c'è chi lo considera ormai finito, ritorna improvvisamente alla ribalta con il singolo You'll never find another live like mine e con l'album When you hear Lou, you've heard it all che lo segnalano come uno dei principali esponenti del Philadelphia Sound. Sarà l'ultima grande fiammata della sua carriera anche se non abbandonerà mai le scene e continuerà a esibirsi pubblicando, di tanto in tanto, un album per la soddisfazione dei suoi vecchi fans. Muore a Los Angeles il 6 gennaio 2006.
30 novembre, 2022
30 novembre 1943 – Straighten up and fly right
Il 30 novembre 1943 il King Cole Trio, composto dal pianista e cantante Nat King Cole con Wesley Prince al contrabbasso e Oscar Moore alla chitarra, registra il brano Straighten up and fly right negli studi della neonata Capitol Records. Non è la prima esperienza discografica per il gruppo che ha già all’attivo alcune collaborazioni in sala di registrazione con Lionel Hampton e qualche brano pubblicato su disco dalla Decca. Come tanti altri nell’ambiente del jazz i tre sembrano destinati a una tranquilla carriera senza particolari scosse. Non la pensano così due dirigenti della Capitol, Glenn Wallachis e Johnny Mercer, che fanno firmare a Nat King Cole un contratto in esclusiva. Hanno ragione. Il brano registrato il 30 novembre, pubblicato su disco, attira l’attenzione del pubblico e, soprattutto, della critica che parla dell’abilità pianistica di Nat come di «una sintesi degli stili di Earl Hines, Fats Waller e Teddy Wilson, ma con maggiore semplicità e immediatezza». La formula stilistica proposta dal trio è destinata ad avere numerosi imitatori anche se nessuno riuscirà mai a eguagliarne l’efficacia. Importante è anche l’apporto di Oscar Moore, considerato, insieme a Charlie Christian, uno dei pionieri della chitarra elettrica, anticipatore di soluzioni che più tardi verranno applicate dai boppers. Il personaggio più singolare resta però Nat King Cole, l’artefice e leader del gruppo. Nonostante i giudizi lusinghieri della critica non passerà alla storia per le sue doti di pianista, ma per la sua voce. I virtuosismi al piano in campo jazzistico sono destinati a essere oscurati dallo straordinario successo ottenuto come cantante confidenziale negli anni Cinquanta. Per quasi quindici anni la sua voce farà impazzire gli americani rendendolo ricco e famoso. I soldi e gli onori della musica di consumo non gli faranno, però, dimenticare il jazz, cui torna periodicamente a dedicare parte del suo tempo, come nel 1956 quando la Capitol gli propone di aprire una nuova, importante, parentesi jazzistica nella sua carriera. Il cantante accetta e registra After midnight, un album che ancora una volta stupisce tutti, realizzato in quartetto con il chitarrista John Collins, il contrabbassista Charlie Harris e il batterista Lee Young.
29 novembre, 2022
29 novembre 1975 – Fly, Robin fly
Il 29 novembre 1975 arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti il brano Fly, Robin fly. Lo interpretano le Silver Convention, un trio di ragazze dalla bella voce e dalla notevole prestanza fisica che rispondono al nome di Ramona Wolf, Penny McLean e Linda Thompson. In fondo, però, il loro nome non interessa a nessuno, visto che l'offerta è da acquistare così com'è: un pacchetto di musica per ballare pronta per essere consumata e poi buttata. Pur essendo tutte e tre statunitensi, le Silver Convention rappresentano, infatti, il primo grande successo prodotto da un laboratorio tedesco. Fly, Robin fly anticipa di un paio d'anni la grande esplosione della discomusic come fenomeno di massa e consente ai pragmatici produttori teutonici di rodare una macchina destinata a sfornare una quantità impressionante di successi e, soprattutto, di personaggi spesso inventati. Le tre ragazze, a ben guardare non c'entrano niente con l'operazione. Gli artefici veri delle Silver Convention sono il compositore Silvester Leavy e, soprattutto, il produttore Michael Kunze che, come un novello dottor Frankenstein, ne modifica assetto, impostazione e anche composizione quando serve. Non è un caso che proprio dopo il successo di Fly, Robin fly ben due terzi della formazione vengano cambiati. Penny McLean e Linda Thompson si ritroveranno sostituite da Sandra Jackson e da un certa Rhonda quasi unicamente per esigenze d'immagine. Nel 1975 in pochi colgono la novità. L'operazione delle Silver Convention è uno dei primi segnali che i tempi stanno cambiando. Non basterà l'effimera fiammata del punk a interrompere quello che illustri sociologi chiameranno "riflusso". L'industria discografica sta fornendo un formidabile supporto a un vero e proprio lavaggio del cervello delle giovani generazioni che si butteranno dietro alle spalle l'impegno dei fratelli maggiori. Il loro nuovo orizzonte sarà la sala di una discoteca e la loro musica verrà prodotta in serie. Le Silver Convention? La sigla verrà di fatto congelata in attesa di tempi migliori. Si pubblicherà qualche disco di scarso interesse e di rapido consumo, giusto per mantenerla sul mercato, ma non le si rivedrà più ai vertici delle classifiche fino al 1977 quando, sull'onda dell'exploit della discomusic la loro Get up and boogie (that's right) le riporterà all'attenzione dei media. Le ragazze non sono più le stesse di Fly, Robin fly ma chi se ne accorge?
28 novembre, 2022
28 novembre 1978 – Federico dei Libra
Il 28 novembre 1978 a Roma un'auto travolge e uccide il trentenne cantante, polistrumentista e autore Federico D'Andrea, uno dei personaggi più interessanti del rock progressivo italiano degli anni Settanta. La sua esperienza artistica inizia quando, diciottenne di belle speranze lascia la Toscana e se ne va nella capitale. Qui, dopo aver fatto parte degli Ancients di Manuel De Sica, forma il duo dei Myosotis con Stefano Marcucci. Nel 1972 diventa il cantante e chitarrista dei Logan Dwight, una band che, nonostante la sua breve vita, verrà ricordata negli anni successivi come uno snodo importante nello sviluppo della scuola romana di rock progressivo. Dopo lo scioglimento del gruppo inizia a prendere forma l'esperienza, per molti versi straordinaria, dei Libra. Ne sono protagonisti, oltre a lui, il tastierista Sandro Centofanti, già suo fedele compagno nei Logan Dwight, il chitarrista Nicola Di Staso, il bassista Dino Cappa e il batterista David Walter. L'esordio discografico del gruppo avviene nel 1975 con Musica e parole un album particolare perché, in un periodo in cui quasi tutti i gruppi del progressive italiano si rifanno al pop sinfonico inglese, guarda al funky nero d'oltreoceano e al jazz. La band, che poco dopo l'uscita del suo primo disco ha sostituito David Walter con l'ex batterista dei Goblin Walter Martino, ottiene consensi dalla critica e, soprattutto, attira l'attenzione del mercato statunitense. Federico D'Andrea e i suoi compagni partono, quindi, per una lunga e fortunata tournée negli Stati Uniti al fianco di monumenti del rock di quel periodo come gli Steppenwolf, i Tubes e Frank Zappa. Il momento felice è sottolineato anche da un contratto discografico con la leggendaria etichetta nera Tamla Motown che pubblica, nel 1976, il secondo album del gruppo Winter day's nightmare. L'esperienza statunitense non porta fortuna ai Libra che, quando tornano in Italia, sono già attraversati dalla crisi che sfocerà nello scioglimento. Federico D'Andrea si dedica sempre più intensamente a progetti solistici che mettono in evidenza, oltre alla sua voce duttile, un gusto particolare per le armonizzazioni di taglio jazzistico. La sua morte interrompe una ricerca appena iniziata. È difficile capire quale sarebbe stata la sua evoluzione negli anni Ottanta, quel che è certo, però, è che con lui il rock italiano perde uno dei suoi migliori, anche se meno appariscenti, protagonisti.
27 novembre, 2022
27 novembre 1942 – Buon compleanno Jimi Hendrix
Il 27 novembre 1942 nasce a Seattle Jimi Hendrix registrato all'anagrafe con il nome di James Marshall Hendrix. La chitarra diventa la sua compagna di vita a undici anni quando, persa la madre, trova in quelle corde sottili uno sfogo per il dolore e la rabbia che sente dentro. La musica pian piano prende il posto degli affetti fino a divenire la sua unica ragione di vita tanto che decide di farne la sua sposa iniziando un vagabondaggio musicale al servizio di chiunque sia disponibile a pagarlo per suonare, anche soltanto per una sera. Ha sedici anni quando sceglie di non andare più a scuola e di iniziare a camminare sulle strade della vita. La rottura con l'ambiente scolastico non è indolore. La ferita della separazione traumatica, frutto della scelta radicale di un sedicenne, gli peserà dentro per tanto tempo, almeno fino a quando, il 12 febbraio 1968, torna da trionfatore nella sua città natale e si toglie lo sfizio di esibirsi in concerto proprio nei locali della Garfield High School, la scuola abbandonata. Niente nella sua vita è indolore, neppure il lungo periodo passato a prestare il suo genio ad altri per qualche dollaro e molte pacche sulle spalle. Probabilmente il suo talento sarebbe rimasto nascosto e inespresso negli Stati Uniti, se la sua strada non avesse incrociato un giorno quella dell'ex Animals Chas Chandler, un tipo rude dal grande fiuto, che lo convince a lasciare la sua terra per seguirlo nella lontana Gran Bretagna. Il resto è storia conosciuta, dai deliri del pubblico britannico all'apoteosi di Woodstock, alle incomprensioni, alla scoperta della politica, alla consapevolezza lucida di un destino che sta per concludersi. «È strano come la gente finisca per essere affascinata dai morti. Chissà, forse devi morire perché gli altri si convincano che valevi qualcosa…». Oggi c'è chi ne esalta l'intuito e l'istintività, più che la tecnica, quasi per ridimensionarne la figura e la portata. È un'operazione che comincia quando ancora è in vita, per depotenziarne la carica eversiva. Si badi bene, non è la sua carica sensuale il pericolo («tenete a casa le vostre sorelline»), ma il suo essere un nero di successo, con saldissime radici nella musica nera, in uno showbusinnes dominato da bianchi. È la sua simpatia per il Black Panthers Party, unita alla decisione di formare il primo complesso rock di soli neri, la Band Of Gypsys, con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso a creare "disordine" in un ambiente in cui si incoraggia il ribellismo, ma la presa di coscienza fa paura. Non è un segreto che, a partire dal 1969, il suo management dedica gli sforzi maggiori a smussare gli angoli più "neri" del personaggio, piuttosto che a valorizzarne l'estro creativo e le potenzialità. Un episodio su tutti è quello di Mark Jeffrey che "consiglia" i percussionisti di colore ingaggiati per l'esibizione a Woodstock di rimanere sullo sfondo del palcoscenico per non caratterizzare in senso "razziale" l'esibizione. Il risultato è che, ancora oggi, le percussioni sono quasi inascoltabili nella registrazione dal vivo del concerto. Le sue simpatie per il Black Panthers vengono "censurate" fino a quando è possibile per non "alienargli la simpatia del pubblico bianco". Una tale compressione finisce per diventare insopportabile e tutti abbiamo ancora fisso in mente Jimi che, tre mesi prima di morire, abbandona il palco del festival dell'Isola di Wight stanco e deluso da un pubblico che vuole da lui solo la ripetizione dei vecchi successi. Hendrix è stato un genio d'oro zecchino capace di aprire nuovi orizzonti alla chitarra elettrica nel rock proprio partendo dalle radici nere di questa musica. La sua vena creativa sperimenta oltre i limiti conosciuti fino a quel momento le possibilità dell'elettrificazione e dell'amplificazione, rimescolando blues, jazz e rock. La sua tecnica sfrutta tutti gli effetti sonori possibili portando il suono a percorrere strade inesplorate e suggestive, mentre anche il corpo si mette al servizio della chitarra nella ricerca di nuove sonorità (suona con il palmo della mano, con il gomito e con i denti). La critica dell'epoca (con qualche eccezione) prende una cantonata storica quando snobba e definisce "eccessi da gigione" quella che è l'essenza stessa delle sue innovazioni: l'eccesso come arte o l'arte dell'eccesso come dir si voglia. In questo senso si può dire che Jimi Hendrix regala una nuova dimensione alla chitarra elettrica che, con lui, cessa di essere un semplice strumento per diventare una macchina da suoni, simbolo di una generazione.
26 novembre, 2022
26 novembre 1968 – God save the Cream, Dio salvi i Cream!
Il 26 novembre 1968 alla Royal Albert Hall di Londra sono migliaia i ragazzi che con le lacrime agli occhi violano la sacralità dell’inno nazionale britannico per salutare l’ultimo concerto del loro gruppo preferito. I destinatari di tanto affetto sono i Cream, una band formata dal chitarrista Eric Clapton, dal bassista Jack Bruce e dal batterista Ginger Baker che fin dall’inizio si mette in evidenza per la sua carica rinnovatrice. Il gruppo scardina le regole di un codice non scritto che costringe i brani a non superare la durata di tre, quattro minuti, con brevi improvvisazioni confinate all’interno di rapidi break solistici. Il limite è dettato dalle leggi dell’industria discografica, scettica nei confronti degli album di lunga durata e più incline a privilegiare il disco a 45 giri di rapido consumo e di minor costo. I Cream rovesciano completamente la struttura, dilatando all’infinito i brani e lasciando ciascun componente libero di esprimere, senza cronometro, creatività e abilità strumentale. Con Jimi Hendrix e pochi altri diventano una sorta di pilastro musicale della controcultura psichedelica tanto che per la copertina del loro secondo album Disraeli gears scomodano Martin Sharp, uno degli illustratori della rivista underground “Oz”. Quando si accorgono che la loro carica innovativa si sta esaurendo rifiutano di diventare delle “icone viventi” e di ripetersi all’infinito. Annunciano con molto anticipo il loro scioglimento e organizzano un concerto d’addio per salutare il pubblico. Il 26 novembre 1968 la sala della Royal Albert Hall è testimone di un commosso e appassionato atto d’amore del pubblico nei confronti del gruppo. Al termine dell’esibizione le ragazze e i ragazzi presenti si alzano in piedi e intonano con le gole strette dal magone l’inno nazionale inglese God save the Queen, (Dio salvi la Regina), trasformato in God save the Cream. L’intero concerto viene filmato da Tony Palmer nel suo film "Goodbye Cream". Pur commossi, i soli a non prendersi sul serio restano i tre musicisti tanto che Jack Bruce qualche anno dopo così descriverà l’epopea del gruppo: «I Cream? Abbiamo fatto qualche bella suonata insieme, abbiamo guadagnato un po’ di soldi e poi… abbiamo chiuso. Tutto qui».
25 novembre, 2022
25 novembre 1970 - Chi ha ucciso Albert Ayler?
Il 25 novembre 1970 le acque newyorkesi dell’East River restituiscono il corpo del sassofonista Albert Ayler. La fine di uno degli artisti neri più popolari di quel periodo non è dovuta alla casualità né a un suicidio. Ayler è stato ucciso e poi gettato nelle acque del fiume. I suoi assassini non avranno mai né un nome né un volto. Con lui scompare uno dei più geniali e contraddittori interpreti della riscossa dei neri d'America non soltanto nel jazz. La sua musica, sia nel percorso interno al free jazz che nella successiva e contrastata evoluzione, è pervasa dalla preoccupazione di non perdere le radici popolari e di farsi comprendere dalla "sua" gente. Per questo quando nei quartieri neri delle metropoli statunitensi si diffonde il seme fecondo della politicizzazione Ayler è uno dei primi artisti free a mettersi in discussione. Alla fine degli anni Sessanta la sua musica segna una svolta. Le sue improvvisazioni prendono sempre più in prestito gli accompagnamenti dal rhythm and blues e dal rock and roll. Non è un'apertura commerciale e nemmeno una presa di distanza dal free jazz, ma un tentativo di mettere in discussione l'asettica evoluzione staccata dal contesto sociale di riferimento. Lo fa e lo dice. «Mi piacerebbe suonare qualcosa che tutti possano canticchiare. Voglio suonare i motivi che cantavo quando ero piccolo e melodie popolari che tutto il mondo possa comprendere. Vorrei utilizzare quelle melodie come punto di partenza e lasciarle fluttuare all'interno dei miei brani. Da una semplice melodia vorrei passare a trame più complesse per tornare nuovamente nella semplicità andare poi oltre, verso suoni sempre più complessi e più densi». C'è una critica esplicita allo schema elitario in cui tende a rinchiudersi il free jazz e l'altrettanto esplicito tentativo di costruire una sorta di linguaggio musicale capace di connettere la tradizione con le nuove aspirazioni degli afroamericani. La sua morte chiude anticipatamente il discorso.
24 novembre, 2022
24 novembre 1979 - Barbra Streisand e Donna Summer battezzano lo stile Faltermayer
Il 24 novembre 1979 la "strana coppia" formata da Barbra Streisand e Donna Summer arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti con il brano No more tears (Enough is enough). Il produttore e l'artefice del successo è Harold Faltemeyer, un tedesco. La sua storia inizia quando è fattorino in uno studio di registrazione in Germania, ma passa le ore libere con l'équipe di Giorgio Moroder, uno dei protagonisti della rivoluzione tecnologico-musicale di quegli anni. Quando Moroder gli propone di lavorare con lui Harold non ci pensa due volte. Lascia l'impiego fisso e accetta. Nel 1978 segue il maestro a Los Angeles e collabora con lui alla realizzazione di varie colonne sonore. Vivere all'ombra di Moroder, però, non lo soddisfa. Si stacca dal maestro e inizia a camminare da solo producendo l'album Bad girls di Donna Summer, per il quale scrive anche alcune canzoni. Visti i buoni risultati decide di continuare. Geniale e intuitivo si fida più del suo istinto che dei consigli degli esperti. Quando inizia a lavorare alla produzione di Enough is enough lo guardano con scetticismo. In pochi credono alla possibilità di unire due personaggi così diversi come Donna Summer, la regina nera del lato più sexy della discomusic, e Barbra Streisand, la lady della canzone. Il successo gli dà ragione. Nel 1985 comporrà la colonna sonora del film "Beverly Hills Cop" e il suo nome entrerà per la prima volta nelle classifiche di vendita sia con l'album che con il singolo Axel F, un brano strumentale che segnerà la nascita ufficiale dello "stile Faltermayer".
23 novembre, 2022
23 novembre 1976 – Jerry Lee Lewis, una Derringer per Elvis
Mentre le prime luci dell'alba del 23 novembre 1976 cominciano a spazzare via il nero dell'orizzonte al centralino della polizia di Memphis l'agente di turno fatica a tenere gli occhi aperti. Si appresta a concludere l'ennesima nottata di lavoro quando una telefonata interrompe la sua sonnacchiosa routine. Un anonimo cittadino segnala la presenza di uno strano tipo lungo la recinzione che difende il giardino di Graceland, la estesa tenuta nella quale vive il suo esilio dorato Elvis Presley. Prima ancora di verificare la veridicità della telefonata le trasmittenti della polizia di Memphis lanciano l'allarme «Sembra che ci sia un pazzo nei pressi della villa di Elvis». L'ordine è quello di fare una verifica senza dare troppo nell'occhio e, soprattutto, senza disturbare l'illustre concittadino. Quando i primi agenti arrivano nelle vicinanze della recinzione della villa è giorno pieno. Non ci sono dubbi: un uomo visibilmente alterato sta chiamando Elvis Presley ad alta voce con in mano una Derringer, una pistola di ridotte dimensioni ma sufficiente a colpire e a uccidere. La situazione è decisamente critica. Quasi tutte le pattuglie in servizio nelle strade di Memphis convergono sul luogo e circondano lo sconosciuto che, visibilmente alterato, si guarda attorno, ride, piange, urla e brandendo la pistola continua a chiamare ad alta voce “The king”, il re. Chi è? Che cosa vuole? Mentre iniziano febbrili trattative perché getti la pistola e si lasci accompagnare a casa un agente appassionato di rock and roll lo riconosce: è Jerry Lee Lewis, The Killer, l'alfiere bianco del rock and roll più trasgressivo e meno rassicurante degli anni Cinquanta. Il giorno prima è finito in un fossato con la sua Rolls Royce e, dopo essere stato arrestato per guida in stato di ubriachezza, è stato rilasciato da non più di dieci ore. Sostiene di avere un paio di cosette da chiarire con “il re del rock and roll”, ma quando gli agenti gli si avvicinano non oppone resistenza e si lascia portare via. L'episodio provocherà l'ennesima campagna di stampa contro Jerry Lee Lewis, un artista inviso al music business per la sua incapacità di sottostare alle regole del mercato. Come sempre verrà dato per finito e qualche anno dopo dovrà sottostare a una difficilissima operazione allo stomaco, ma non sarà così. Negli anni Ottanta "Great balls of fire", un film su di lui interpretato da Dennis Quaid lo riporterà alla ribalta. Per il vecchio "Killer" sarà la terza resurrezione della carriera.
22 novembre, 2022
22 novembre 1971 – Fred Guy, le corde di Harlem
Il 22 novembre 1971 muore suicida il settantaduenne banjoista e chitarrista Fred Guy, l'uomo che, come ricorda Duke Ellington, «…conosceva Harlem palmo a palmo, era un tipo piuttosto serio, e aveva la tendenza di dar consigli al prossimo, ma la sua chitarra era un metronomo e il suo "beat" era sempre al posto giusto…». Pur essendo nato a Burkesville in Georgia, Fred vive ad Harlem fin dall'infanzia. Le corde dei suoi due strumenti sono le corde di Harlem, perché danno voce agli abitanti del suo quartiere. Impara da solo a suonare uno strumento apparentemente povero come il banjo e suona dove può. Il suo primo contratto professionale porta la firma del direttore d'orchestra Joseph C. Smith e rappresenta una svolta fondamentale: quelle poche righe gli fanno capire che di musica si può anche vivere. Guy ci prende gusto e, appena può, cerca di recuperare autonomia e indipendenza formando una propria orchestra cui attribuisce il nome di The Oriental. L'avventura non dura a lungo, anche perché nella primavera del 1925 se ne va con Duke Ellington. Nella band del Duke suona il banjo fino al 1934, poi passa alla chitarra. Negli anni del banjo la pennata che caratterizza il suo stile è preziosa per la pulsazione sonora e i suoi glissati contribuiscono a costruire la leggenda della big band. Quando passa alla chitarra la sua presenza si fonde nel resto della ritmica e diventa meno caratteristica. Verso la fine degli anni Quaranta, quando le grandi orchestre stanno terminando il loro ciclo, si ritira. Se ne va a Chicago e si adatta a fare per vent'anni il direttore di una sala da ballo poi la crisi e la voglia di dire basta.
21 novembre, 2022
21 novembre 1992 - Patty Smyth con la y
Il 21 novembre 1992 qualcuno pensa che ci sia un errore di stampa nella classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti. Al primo posto, infatti c'è il nome di Patty Smyth con il brano Sometime love just ain't enough, ma non ci sono errori. Non si tratta di Patti Smith, la poetessa del punk, ma proprio di Patty Smyth, la trentacinquenne ex cantante degli Scandal, nonché figlia di una delle poche donne manager della scena musicale degli anni Sessanta. Patty non è una novellina. Il suo debutto risale alla fine degli anni Settanta quando forma il gruppo new wave degli Smyth (altro nome che si presta a qualche equivoco!) che la fa conoscere e apprezzare dagli addetti ai lavori, ma non dal grande pubblico. Nel 1981 è la front woman degli Scandal, una band che ha in lei e nel suo amico Zack Smith (un altro!) gli elementi di punta. In questo periodo la ragazza riesce a costruirsi una propria immagine indipendentemente dalla band, che viene così schiacciata dalla sua crescente popolarità. Già sulla copertina del secondo album Warrior c'è scritto anche il suo nome oltre a quello del gruppo. Nonostante a Patty non dispiaccia l'idea di continuare con gli Scandal, il suo amico Zack decide di chiudere l'esperienza per dedicarsi alla composizione di jingles per spot pubblicitari. La scelta solistica diventa così inevitabile. Dopo l'album del debutto, Never enough del 1987, aspetta ben cinque anni prima di pubblicarne un altro. Vuol fare le cose per bene e ci riesce. Proprio dal secondo album Patty Smyth viene estratto il singolo che le regala il successo commerciale.
20 novembre, 2022
20 novembre 1973 – Ho suonato con gli Who, adesso posso anche morire…
Il 20 novembre 1973 la tournée statunitense degli Who fa tappa a San Francisco. Il quartetto sale sul palco accolto da un boato, ma fin dalle prime note si capisce che c’è qualche problema. Il batterista Keith Moon è visibilmente ubriaco. Prima di iniziare a suonare si è imbottito di tranquillanti e alcool e anche sul palco, tra un brano e l’altro, continua a bere. I compagni lo guardano preoccupati perché, pur abituati alle sue pazzie, temono il tracollo da un momento all’altro. Nonostante tutto, per un’ora la band dà il meglio di sé proponendo numerosi brani di Quadrophenia la nuova, monumentale, opera che, nelle intenzioni del chitarrista Pete Townshend, dovrebbe dare continuità al lavoro iniziato con Tommy. La scaletta del concerto prevede che, terminata l’esecuzione dei nuovi brani, gli Who regalino poi al pubblico una lunga carrellata dei loro brani più famosi. Proprio mentre il gruppo è impegnato in quest’ultima parte, Keith Moon sviene in scena. Inebetito dalla mistura di alcool e tranquillanti scivola a terra dal suo seggiolino privo di sensi e gli infermieri di servizio non possono far altro che portarlo via dal palco. La scena si svolge sotto gli occhi del pubblico ammutolito. Nel silenzio generale Pete Townshend si avvicina al microfono. «Hey, qualcuno tra voi se la sente di sostituire Keith alla batteria?». All’appello risponde un ragazzo che, aiutato dal servizio d’ordine, si fa largo fino al palco. Si chiama Scott Halpin, ha diciannove anni ed è arrivato a San Francisco da Muscatine, nello Iowa. È batterista per hobby e conosce a memoria tutti i brani degli Who, il suo gruppo preferito. Si sistema sul seggiolino mentre il bassista John Entwistle lo rassicura: «Vai via regolare, al resto ci penso io!» Emozionato e incosciente il giovane Halpin suona con gli Who gli ultimi tre brani del concerto e partecipa con il gruppo all’apoteosi finale tra i flash dei fotografi che lo immortalano abbracciato ai suoi musicisti preferiti. I cronisti presenti lo prendono d’assalto nell’intento di catturare le sue sensazioni. Lui, sudato, li guarda con gli occhi stralunati e risponde con un filo di voce: «È stata un’esperienza fantastica, adesso posso anche morire…».
19 novembre, 2022
19 novembre 1968 – Diana Ross e la regina d’Inghilterra
Negli anni Sessanta il Royal Variety Show è uno dei più importanti appuntamenti per la nobiltà britannica. Si tratta di uno spettacolo musicale di beneficenza che si svolge a Londra, cui prende parte l’intera famiglia reale, con la regina in prima fila. Il programma è, ogni anno, arricchito dalla presenza di ospiti illustri e di fama internazionale. Si privilegiano, ovviamente, gli interpreti britannici, ma non si disdegna di invitare qualche star straniera di successo. Nell’edizione del 1968, che si svolge il 19 novembre, il ruolo di ospite speciale spetta alle Supremes, il trio di punta della Motown, guidato da una Diana Ross che molti danno ormai sul piede di partenza, pronta a debuttare come solista. Il gruppo ha alle spalle un quadriennio di successi con oltre quaranta milioni di dischi venduti in tutto il mondo e non si fa certo mettere in soggezione dall’idea di cantare davanti alla regina d’Inghilterra. Diana Ross, Mary Wilson e l’ultima arrivata Cindy Birdsong, che da un anno ha preso il posto di Florence Ballard, sono “vecchie volpi” (non in senso anagrafico) del palcoscenico. Il concerto procede quindi su binari tranquilli di fronte a un pubblico ordinato come si conviene quando è presente la famiglia reale al gran completo. Verso la fine, però, le due compagne fanno un passo indietro e lasciano Diana Ross sola davanti al microfono, mentre la musica si ferma. La cantante inizia a parlare: «Non ho molte occasioni di parlare a persone potenti come chi mi sta davanti oggi. Io, come vedete, sono nera, mentre voi siete bianchi. Io canto e voi mi ascoltate, poi quando tutto è finito ce ne andiamo insieme dalla sala. Questo non succede sempre. Ci sono posti nel mondo, compreso alcuni stati del mio paese, gli Stati Uniti, dove neri e bianchi non hanno gli stessi diritti, non possono neanche uscire dalla stessa porta. Vorrei che ci pensaste quando tornate nelle vostre case». Mentre la Ross si allinea alle sue compagne nella sala cala un silenzio imbarazzato. Qualcuno, dalle ultime file batte timidamente le mani, altri lo seguono. In breve tutta la platea, compresi i membri della famiglia reale, si alza in piedi e prolunga per due minuti l’applauso. Diana Ross ringrazia e annuncia il brano seguente.
18 novembre, 2022
18 novembre 1986 – Londra in piedi per Suzanne
Il 18 novembre 1986 il lungo tour europeo di Suzanne Vega fa tappa alla Royal Albert Hall di Londra. La cantante si esibisce nel primo di due concerti ripresi dalle telecamere della BBC i cui passaggi migliori vengono raccolti in un video che fa il giro del mondo. Quando appare sul palco è tesa. La band che l’accompagna è composta da Sue Evans alle percussioni, Marc Shulman alla chitarra, Mike Visceglie al basso, Anton Sanko alle tastiere e Stephen Ferrera alla batteria. Sono i cinque musicisti di cui si fida di più e che non la tradiscono mai. Sono loro che l’aiutano a superare la paura e l’emozione per l’atteso debutto londinese. Al termine del concerto il pubblico balza in piedi e saluta con un’ovazione la minuta folk singer arrivata dagli Stati Uniti. Nata a Santa Monica, in California, nel 1960 Suzanne si trasferisce poi con la famiglia a New York dove si iscrive all'High School of Performing Arts, frequentando i corsi di danza e di musica. Sognatrice e vagabonda, impara a suonare la chitarra e cerca di guadagnare i primi soldi cantando nei locali del Greenwich Village. All’inizio degli anni Ottanta il suo nome comincia a circolare con sempre maggior frequenza nel mondo del folk newyorkese, anche se i produttori, la guardano con diffidenza. La voce particolare e i testi poetici delle sue canzoni sono considerate un po’ fuori moda in un periodo in cui l’immagine e la superficialità sembrano essere divenuti i principali, se non gli unici, punti di riferimento della produzione discografica. Quando riesce a pubblicare il suo primo disco ha già venticinque anni e una serie lunghissima di concerti alle spalle. Tra i pochi che credono in lei c’è Lenny Kaye, l’ex chitarrista del gruppo di Patti Smith. È lui che, più di tutti, ne intuisce le potenzialità ed è disposto a rischiare in proprio diventando co-produttore di Suzanne Vega, il suo album d’esordio. A dispetto degli scettici, il successo è immediato e la timida ragazza diventa popolarissima in tutto il mondo. Il 18 novembre 1986 il pubblico britannico saluta in lei una delle più promettenti interpreti di un genere, il folk, capace di rinnovarsi e di continuare anche contro gli “esperti del mercato”.
17 novembre, 2022
17 novembre 1985 – Bianca Star, la figlia dell'anarchico Ceccarelli
Il 17 novembre 1985 muore a Roma Bianca Star. Ha ottantasette anni ed è stata una della più importanti soubrette, attrici e cantanti del teatro di varietà italiano. Il pubblico televisivo l'ha scoperta un anno prima quando ha cantato in diretta il brano Sinnò me moro nella trasmissione "Italia sera". Quello che il pubblico non sa è che suo vero nome è Bianca Ceccarelli e che suo padre era Aristide Ceccarelli, un anarchico coinvolto nel processo contro Pietro Acciarito, l'uomo che nel 1897 tentò di accoltellare Umberto I e successivamente assolto. La vita avventurosa del padre non può non coinvolgere la piccola Bianca che a cinque anni se ne va a Buenos Aires, in Argentina, dove resta per alcuni anni. Quando torna a Roma con la madre inizia a frequentare un laboratorio per imparare il mestiere di sarta. La ragazza, però, è incuriosita dalla nascente industria cinematografica. Dopo molti tentativi ottiene un contratto con la Caesar Film e, alla fine degli anni Dieci debutta su grande schermo con il nome di Bianca Renieri, ma all'ambiente della celluloide preferisce il teatro. Debutta come soubrette all’Eden di Napoli in una rivista di Diana Mac Gill, che le appioppa il nome di Bianca Star, e diventa una delle beniamine del pubblico napoletano. Nel 1925 è la primadonna della compagnia di Odoardo Spadaro a Firenze, dove colpisce la fantasia del pittore futurista Primo Conti, che le chiede di posare per due grandi tele. Tornata a Napoli si innamora perdutamente e lascia le scene. Anche quando la sua storia sentimentale finisce non torna più sulla sua decisione. Negli anni Cinquanta accetta di registrare alcuni brani, ma senza grande entusiasmo. Sfuggente e schiva preferisce chiudersi nel suo alloggio, in un angolo di palazzo Brancaccio a Roma dimenticata da tutti. Per anni non si parla più di lei fino a quando il suo nome torna improvvisamente alla ribalta nel 1981 dopo la pubblicazione di un intrigante libro autobiografico intitolato "I miei anni Venti". Due anni dopo la casa discografica Belmusic ripubblica in singolo due vecchi brani da lei interpretati in gioventù, Borgo antico e Desiderio ‘e sole che ottengono un insperato successo di critica. Da quel momento l'ultraottantenne Bianca Star accetta di uscire, sia pur saltuariamente, dalla sua prigione dorata. Dopo la già citata partecipazione televisiva, nel 1984, un anno prima di morire, pubblica l’album Le canzoni d’amore di Bianca Star, con sei canzoni registrate negli anni Cinquanta e sei brani incisi per l’occasione.
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