Il 7 febbraio 1948 a New York la passione per l'alcool e un'inesorabile cirrosi epatica si portano via il quarantottenne Red McKenzie, all’anagrafe William McKenzie, uno dei cantanti più dotati e originali della scena jazzistica degli anni Venti e Trenta. Nato a St. Louis, nel Missouri, si trasferisce successivamente a Washington al seguito dei genitori. La capitale non gli piace e quando, adolescente, resta orfano torna nella sua città dove conosce tutti e trova sempre un modo per arrangiarsi. Si adatta a fare vari mestieri, dal lustrascarpe al fantino, fino a quando scopre che la musica, il suo hobby più amato, può diventare un lavoro. Dopo qualche esperienza minore, nel 1923 dà vita alla formazione dei Mound City Blue Blowers con i quali gira per qualche anno scavalcando anche l'oceano per esibirsi a Londra. Chiusa quell'esperienza lavora con vari artisti prima di partecipare, tra il 1927 e il 1928, a una lunga serie di registrazioni pubblicate con il nome di Red McKenzie & Condon’s Chicagoans o Chicago Rhythm Kings destinate a restare nella storia del jazz "stile Chicago". Dal 1929 al 1931 recupera il nome di Mound City Blue Blowers per pubblicare una serie di dischi a cui partecipano molti jazzisti di primo piano come Coleman Hawkins e Jack Teagarden. Dal 1932 al 1935 diventa il cantante della band di Paul Whiteman senza rinunciare, però, a realizzare progetti diversi e vari dischi, sempre circondato dai migliori musicisti. Deciso a dare un po' di tranquillità alla sua vita, nel 1935 prende la gestione di un locale a New York nella 52a Strada. La morte della moglie, cui è molto legato, lo annichilisce. Cerca rifugio nell'alcol, torna nella "sua" St. Louis e dimentica quasi del tutto la musica. Periodicamente cede alle insistenze di qualche vecchio amico tornando a esibirsi, ma le sempre più precarie condizioni di salute e l'amicizia con la bottiglia gli impediscono di mantenere gli impegni. Per guadagnare qualche spicciolo si accontenta di lavorare in una fabbrica di birra dove lavora "a giornata" quando è lucido e ha bisogno di soldi. Nel 1944 fa la sua ultima apparizione in pubblico come cantante. Ripulito e tirato a lucido si esibisce in uno dei concerti della band del suo amico Eddie Condon alla Town Hall di New York. Gli ultimi anni della sua vita sono dolorosi e disperati per il costante aggravamento delle condizioni di salute. Con lui scompare, oltre che una figura di grande rilievo della scena jazzistica, un generoso scopritore di talenti.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
07 febbraio, 2023
06 febbraio, 2023
6 febbraio 1982 – La svolta politica dei Kraftwerk
Il 6 febbraio 1982 il gruppo techno-pop tedesco dei Kraftwerk arriva al primo posto della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna con il singolo contenente i brani The model e Computer love estratti dal concept-album Computerworld. La struttura della band affonda le sue radici creative e musicali nel duo formato dai tedeschi Ralf Hütter e Florian Shneider Esleben, due strumentisti con una solida formazione classica, cui si sono aggiunti i percussionisti Wolfgang Flur e Karl Bartos. Dopo un periodo di silenzio di tre anni, dedicato alla ristrutturazione della loro fucina creativa, il Kling Klang Studio, i Kraftwerk riappaiono così sulla scena musicale con l'album più politico della loro storia musicale. Anticipando i tempi della futura globalizzazione denunciano esplicitamente l'utilizzo del computer a scopi di controllo da parte di organizzazioni come l'Interpol, la Deutsche Bank, l'FBI e Scotland Yard. È evidente nell'impostazione complessiva dei brani l'influsso della lezione di Orwell e del suo "grande fratello". Ciò che più stupisce gli ascoltatori distratti è, però, l'improvvisa politicizzazione di un genere, come il techno pop, nato all'insegna di una sperimentalità astratta, talvolta danzereccia, quasi sempre indifferente ai ragionamenti politico-sociali. La scelta non stupisce, invece, chi conosce da tempo il lavoro di Ralf Hütter e Florian Shneider Esleben, iniziato nei primi anni Settanta quando molti gruppi arricchiscono le loro potenzialità sonore con l'uso dei sintetizzatori. In quel periodo i due strumentisti, affascinati dalle sperimentazioni dei Pink Floyd e dei Tangerine Dream formano, con i percussionisti Basil Hammoudi, Butch Haufe e Fred Monicks, gli Organisation, una band dalla vita breve che cerca di trasferire su vinile le atmosfere cupe e grigie della città di Düsseldorf, dove vivono. La sperimentazione si sposa già allora con la critica sociale e con un'ironia glaciale e caustica. In questa prospettiva Computerworld diventa il frutto di un'elaborazione progressiva che non ha mai sposato l'idea di una sperimentalità fine a se stessa. A riprova di ciò, nel 1983 i Kraftwerk saranno protagonisti di un'altra operazione demistificatoria, questa volta nei confronti del music business. Annunceranno la pubblicazione di un album intitolato Tecno pop, anticipandone i contenuti e le linee fondamentali e provocando un dibattito sul niente destinato a chiudersi soltanto quando si scoprirà che… l'anticipazione era falsa.
05 febbraio, 2023
5 febbraio 1966 – State attenti, perché sono un Berretto Verde!
All’inizio del 1966 negli Stati Uniti inizia a crescere l’ondata della contestazione giovanile, soprattutto studentesca, nei confronti del sistema, contro il razzismo e per i diritti civili. Da qualche tempo si sta facendo più corposa anche la protesta contro la guerra nel Vietnam e si moltiplicano le voci di chi vorrebbe un immediato ritiro delle truppe impegnate nel paese asiatico. Quasi a smentire il dissenso, il 5 febbraio 1966 arriva al primo posto della classifica dei singoli più venduti la canzone The ballad of the Green Berets, (La ballata dei Berretti Verdi) una canzone di stampo militarista interpretata da un ex marine con all’attivo una lunga permanenza in Vietnam, il Sergente Barry Sadler. Il brano è destinato a restare al vertice per oltre tre mesi. Il suo successo viene vissuto come una sorta di rassicurante rivincita da parte dell’opinione pubblica più conservatrice e alcuni giornali sottolineano come l’exploit del Sergente Sadler sia la risposta dell'America più sana e patriottica contro la disgregazione delle tradizioni e della struttura sociale. Non manca chi parla anche di “sano recupero dei valori della musica tradizionale” e di “ingloriosa conclusione della parabola discendente del rock, un genere che ha fatto, fortunatamente, il suo tempo”. L’euforia dura poco, anche perché la risposta dei settori più progressisti del mondo musicale non si fa attendere. Un mese dopo, a marzo, Bob Seger e gli Omens pubblicano, con lo pseudonimo di Beach Bums, un singolo satirico intitolato The ballad of Yellow Berets (La ballata dei Berretti Gialli) che mette in ridicolo l’impostazione patriottico-militarista del brano di Sadler. Cantata in coro nelle manifestazioni e trasmessa dalle radio più progressiste, la canzone diventa popolarissima. L’ironia colpisce duro e sull’ex marine canterino si stenderà il velo dell’oblio, almeno dal punto di vista artistico, perché la cronaca tornerà a occuparsi di lui in un paio d’occasioni. La prima sarà nel dicembre 1978 quando la polizia di Nashville lo coinvolgerà nelle indagini relative a una misteriosa sparatoria nella quale trova la morte il cantautore Lee Bellamy. Nel 1981, invece, verrà accusato da un suo socio di affari di aver chiuso una discussione a colpi di pistola. In giudizio protesterà la propria innocenza davanti al giudice dichiarando «È ovvio che le sue accuse sono false. È vivo! Sono un berretto verde e se gli avessi sparato ora sarebbe morto».
04 febbraio, 2023
4 febbraio 1956 - Il primo disco dei Famous Flame
Il 4 febbraio 1956 i Famous Flame registrano il loro primo disco. Il gruppo, scoperto per caso da Clint Bradley, il manager di Little Richard, da tempo tenta senza successo di trovare spazio sulla scena musicale statunitense. Bradley è impressionato dalla forza e dall'impatto scenico del cantante della band che si chiama James Brown. Dopo una lunga serie di delusioni riesce finamente a ottenere una scrittura dall'etichetta King/Federal Records. Così, il 4 febbraio 1956, a Cincinnati, la band registra Please, please, please il suo singolo d'esordio. Il 45 giri riesce ad arrivare nella Top ten della classifica di rhythm and blues e contribuisce ad accrescere la popolarità di James Brown. Dopo l'esplosivo successo di Please, please, please nessuno può immaginare che Brown e i suoi compagni d'avventura possano fallire i colpi successivi. Eppure i nove dischi che dal giugno 1956 al maggio 1958 seguono il fortunato singolo d'esordio si rivelano dei fiaschi. Scoraggiata dall'insuccesso la prima formazione dei Famous Flames si scioglie all'inizio del 1957 e prima della fine dell'anno Syd Nathan della King/Federal Records annulla il contratto discografico. Il caparbio James Brown però non si arrende e comincerà a ricostruire pezzo dopo pezzo tutta la formazione.
03 febbraio, 2023
3 febbraio 1947 – Melanie, la voce femminile dei grandi raduni
Il 3 febbraio 1947 nasce a New York Melanie Safka, destinata a diventare con il semplice nome di Melanie, una delle protagoniste della stagione dei grandi raduni musicali nei primi anni Settanta. Figlia di un cantante jazz impara fin da piccola a suonare il piano e muove poi i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo in un piccolo teatro del suo quartiere. È ancora adolescente quando decide di dedicarsi esclusivamente alla musica. Determinante, sotto molti aspetti, è l'incontro con Peter Schekeryk, che diviene prima suo manager, quindi produttore e, infine, suo compagno nella vita. Dopo aver pubblicato un paio d’album, nel 1970 diventa, per caso, una delle protagoniste del grande raduno di Woodstock. Il suo nome non figura tra quelli degli artisti in programma, ma lei non vuole mancare a un appuntamento così importante. Confusa tra il pubblico mentre calano le prime ombre della sera sta attendendo la più volte annunciata esibizione di Joan Baez, ma la folksinger è bloccata dal colossale ingorgo di traffico provocato dalla marea umana che sta affluendo sul luogo del raduno. Melanie non è una sconosciuta. La sua versione di Ruby tuesday qualche mese prima ha ottenuto un discreto successo di vendite e le sue canzoni sono molto popolari tra i giovani del Greenwich Village. Quando gli organizzatori la vedono pensano a lei come riempitivo in attesa della Baez e le chiedono di salire sul palco. Da spettatrice si ritrova così protagonista di un evento destinato a entrare nella leggenda. Memorabile è la scena del documentario girato durante la manifestazione nel quale la Baez, arrivata in ritardo, se ne sta seduta in un angolo ad assistere all’esibizione di Melanie. Sull’onda di Woodstock partecipa a quasi tutti i grandi raduni musicali di quel periodo e centra una buona serie di successi. Nel 1971 realizza anche la colonna sonora del film “Il ribelle” di Michael Chapman. L’anno dopo, insofferente alle pressioni dei discografici, fonda la Neighborhood, un’etichetta di cui è comproprietaria insieme al suo compagno. L’avventura discografica è destinata però a finire male e Melanie, visti inutili i tentativi di ritrovare spazio ridurrà la sua attività a qualche saltuario album destinato a fare la gioia di un ristretto manipolo di irriducibili quanto nostalgici ammiratori.
02 febbraio, 2023
2 febbraio 1984 – I metalmeccanici vincono il Festival di Sanremo
Giovedì 2 febbraio 1984 inizia la Trentaquattresima edizione del Festival di Sanremo. I giornali hanno descritto minutamente le scenografie del fiorentino Enzo Somigli e hanno dato largo spazio agli ospiti annunciati, primi fra tutti i leggendari, anche se un po’ bolsi, Queen di Freddy Mercury. Sono gli anni Ottanta, sono gli anni del disimpegno “obbligato” e delle luci accecanti e colorate che sembrano cancellare le differenze. Si è parlato a lungo degli interpreti, dei loro vestiti, e delle loro canzoni, in un’edizione che pare segnare il ritorno al melodico e alla tradizione. Nessuno ha previsto, invece, l’arrivo in massa di un soggetto sociale periodicamente dato per spacciato: gli operai. Fin dal pomeriggio tre vagoni speciali aggiunti in coda al treno Roma-Ventimiglia e sette pullman, oltre a numerose auto, hanno portato nella “città dei fiori” i lavoratori dell’Italsider intenzionati a denunciare la grave situazione dell’economia ligure e la pesante situazione che si è determinata nella loro azienda, con licenziamenti e cassa integrazione. Man mano che s’avvicina l’ora d’inizio del Festival il gruppo cresce di numero. Alle 20.30 sono oltre milletrecento gli elmetti gialli che scandiscono slogan di fronte al Teatro Ariston fronteggiati da un robusto cordone di polizia. La manifestazione è stata preceduta, nel pomeriggio da una febbrile trattativa tra sindacato, organizzazione del Festival e RAI che si è conclusa con un accordo nel quale si prevede che Pippo Baudo, il presentatore della rassegna canora di quell’anno, legga all’inizio della diretta televisiva un breve comunicato approvato dai lavoratori. A parte un vago accenno alla protesta, però, l’accordo non viene rispettato. Nessuno legge niente e lo spettacolo continua. I lavoratori non ci stanno e iniziano a premere verso l’entrata del Teatro Ariston in modo sempre più insistente. Mentre la tensione sale si aprono nuove, febbrili, trattative. Sono passate da poco le 21 quando una piccola delegazione ottiene di poter entrare in sala e parlare direttamente, senza intermediari, ai telespettatori che assistono al Festival da casa. Gli operai salgono sul palco dell’Ariston e, visibilmente emozionati, leggono il documento ignorato da Pippo Baudo. Poi si rivolgono al pubblico in sala: «Vi ringraziamo per l’ospitalità e vi chiediamo scusa per il disturbo. Crediamo che sia chiara a tutti la gravità della nostra situazione». Saranno loro la più importante novità di un Festival senza particolari emozioni dal punto di vista musicale.
01 febbraio, 2023
1° febbraio 1948 – Rick James, il disertore del funk 'n' roll
Il 1° febbraio 1948 nasce a Buffalo, negli Stati Uniti, Rick James, all'anagrafe Ricky Matthews, l'inventore del funk 'n' roll o, meglio, il protagonista dell'ultima colossale campagna promozionale della Motown, la macchina da successi creata da Berry Gordy jr. Il ragazzo fa le sue prime esperienze musicali, ancora giovanissimo, alla metà degli anni Sessanta, nei Minah Byrds, una band nella quale è affiancato nientemeno che da Neil Young, da Bruce Palmer, un altro futuro componente dei Buffalo Springfield, e da Goldie McJohn, poi protagonista dell'avventura degli Steppenwolf. L'allegra compagnia si scioglie rapidamente. Gli altri vanno per la loro strada e Rick continua da solo come interprete con scarsi risultati. Gli va meglio come autore. Il suo lavoro è molto apprezzato e utilizzato da artisti come gli Spinners o le Marvelettes. Per evitare di finire in Vietnam se ne va a Londra dove forma i Main Line. Quando torna negli States pensa che l'esercito l'abbia ormai dimenticato, ma non è così. Arrestato per renitenza alla leva si trova coinvolto in una lunga serie di guai giudiziari che gli impediscono di pensare seriamente alla musica. Risolti i problemi nel 1977 riesce a ottenere il primo contratto discografico con la Motown. Dopo qualche album d'assaggio il suo funk 'n' roll, un felice incontro tra il ritmo del funky nero e la scansione armonica del rock bianco, conquista il pubblico e fa volare alti i suoi dischi come Street songs del 1981 che resta per oltre un anno nella classifica dei dischi più venduti degli Stati Uniti. Eclettico e curioso sperimentatore percorre anche le strade della produzione curando, tra gli altri, Wild and peaceful l'album del debutto di Teena Marie, In 'n' out della Stone City Band e partecipando, nel 1982, all'operazione di rilancio dei Temptations. Le sue fortune discografiche e il successo come interprete sopravvivono nel 1988 anche alla brusca separazione dalla Motown con il passaggio alla Reprise. All'inizio degli anni Novanta, però, una lunga serie di brutte vicende giudiziarie lo porta progressivamente ai margini del music business. Non ci resta per molto, perché il nascente movimento rap lo riscopre e gli offre la possibilità di tornare a produrre. Nonostante i guai la sua genialità si mantiene bene, vista la rapidità con la quale porta al vertice delle classifiche di tutto il mondo un personaggio considerato decisamente scomodo come il rapper M.C. Hammer! La vita vissuta sempre al limite lascia profondi segni sulla sua salute. Rick James muore per un’improvvisa crisi cardiaca il 6 agosto 2004.
31 gennaio, 2023
31 gennaio 1933 – Carlo Sola, da tamburino a batterista
Il 31 gennaio 1933 nasce a Torino il batterista jazz Carlo Sola. Figlio d'arte a nove anni è già impegnato negli studi musicali che culmineranno con l'iscrizione ai corsi di contrabbasso nel conservatorio della sua città natale. Basta una breve esperienza come tamburino nella fanfara della scuola per farlo innamorare della batteria. Dopo la Liberazione trova la sua prima scrittura come batterista in un'orchestra da ballo e nel 1946 se ne va a zonzo per l'Europa intenzionato a fare esperienza. Quando rientra in Italia viene scritturato dall'orchestra di Gaetano Gimelli. Proprio in occasione di una breve tournée del gruppo in Germania assiste a Garmisch all'esibizione di Louis Armstrong con i suoi All Stars e diventa amico di Cozy Cole, uno dei più importanti batteristi di quel periodo. Deciso a seguirne le orme, Carlo Sola decide di mollare tutto e andarsene a New York dove frequenta la scuola gestita dallo stesso Cole. Gli è tutor e maestro, in quel periodo, un altro personaggio di spicco del jazz statunitense come Stan Levey. Quando torna a Torino riprende a suonare con i Jazz at Kansas City cui segue, nel 1954, un'intensa esperienza con OKB di Nini Rosso. La sua costante crescita tecnica e artistica trova molti estimatori soprattutto tra i personaggi che più di altri stanno tentando di rinnovare il jazz italiano. C'è però il problema che in quel periodo non si può vivere di solo jazz. Il genere non è ricco e non può garantire la sopravvivenza economica. Per questa ragione la sua attività si sviluppa su due binari: da un lato ingaggi sicuri e remunerati con orchestre stabili e dall'altro una lunga serie di collaborazioni importanti. Per quel che riguarda la soluzione dei problemi economici, dopo aver fatto parte dell’orchestra jazz di Armando Trovajoli, nel 1962 entra stabilmente nell’Orchestra della Rai di Milano. Proprio negli anni Sessanta la sua attività jazzistica si fa intensa e a partire dal 1969 le sue collaborazioni si fanno più stabili. Non rinuncia, però, a qualche esperienza free lance con vari musicisti stranieri di prestigio come Slide Hampton, Dexter Gordon, Don Byas, Bud Freeman, Art Farmer, Teddy Wilson, Dizzy Reece, Charlie Mariano, Lionel Hampton, Joe Venuti, Chet Baker e John Lewis, solo per citare i più importanti. Il suo impegno musicale si unisce talvolta a quello politico e sociale, come quando registra con Enrico Intra i brani Nuova civiltà e To the victims of Vietnam, due tra le sue migliori incisioni.
30 gennaio, 2023
30 gennaio 1959 – Jody Watley, dagli Shalamar al Grammy
Il 30 gennaio 1959 nasce a Chicago Jody Watley. Fin da quando inizia a respirare la musica è nella sua vita. La madre è cantante e pianista mentre il padre alterna il mestiere di disk jockey alle cerimonie religiose come pastore della chiesa del suo quartiere. Se non bastasse il suo padrino di battesimo è il famoso Jackie Wilson. A quindici anni, trasferitasi a Los Angeles con la madre dopo la separazione dei suoi genitori, debutta come ballerina nel programma televisivo "Soul train". Tre anni dopo entra a far parte come ballerina e cantante degli Shalamar, uno dei gruppi di punta della disco music, con cui resta fino al 1984. Quando lascia il gruppo la sua intenzione è quella di debuttare come solista sfruttando la notevole popolarità acquisita negli Shalamar, ma nonostante gli sforzi non riesce a trovare nessuna casa discografica immediatamente disponibile a seguirla nell'avventura. In molti le dicono che lasciare un gruppo di successo è stato un errore e che la sua carriera è praticamente finita. Questa storia va avanti per tre anni, ma Jody non si arrende. Molla il music business statunitense e se ne va in Gran Bretagna a esibirsi nei club. L’accoglienza del pubblico la spinge a continuare. Torna negli Stati Uniti e finalmente nel 1987 pubblica Jody Watley, un buon album che le vale il Grammy come miglior nuova interprete femminile e dal quale vengono estratti tre singoli di successo come Don't you want me, Looking for a new love e Some kind of lover. Le sue notevoli potenzialità vengono confermate due anni dopo dall'album Larger than life e dai singoli Real love, Friends ed Everything. Per meglio sfruttare il suo successo sempre nel 1989 viene anche pubblicato You wanna dance with me?, un album che contiene la versione dance dei suoi brani più popolari. Nel 1990 Jody registra la canzone After you, who? di Cole Porter per l'album benefico Red, Hot & Blue e l'anno dopo pubblica Affairs of the heart, un album deludente che non riesce ad andare oltre le posizioni basse della classifica. L’insuccesso non la ferma. Caparbia come sempre dopo quasi due anni di silenzio discografico ricomincia da capo con Intimacy, un disco che la riporta in alto. Più attenta a non lasciarsi consumare dall’industria discografica aspetta cinque anni per pubblicare Flowers nel 1998, l’album che le apre le porte del nuovo millennio
29 gennaio, 2023
29 gennaio 1951 – L’Italia dei Festival nasce di lunedì
Nel 1951 il 29 gennaio cade di lunedì. Per gran parte degli italiani non è che una dura giornata di lavoro che precede il secondo giorno lavorativo della settimana. Per questa ragione chi deve alzarsi presto per andare a lavorare è probabilmente già a letto alle 22 quando, diffusa in tutta Italia dal Programma Nazionale della RAI, la voce di Nunzio Filogamo, proveniente dalla Sala delle Feste del Casinò di Sanremo, annuncia per la prima volta il Festival della Canzone Italiana: «Signori e signore, benvenuti al Casinò di Sanremo per un'eccezionale serata organizzata dalla RAI, una serata della canzone con l'orchestra di Cinico Angelini. Premieremo, tra duecentoquaranta composizioni inviate da altrettanti autori italiani, la più bella canzone dell'anno. Le venti canzoni prescelte vi saranno presentate in due serate e saranno cantate da Nilla Pizzi e da Achille Togliani con il duo vocale Fasano». Neppure in sala c’è la percezione del grande evento. Il pubblico seduto ai tavolini, infatti, presta una modesta e distratta attenzione ai brani preferendo dedicarsi con maggior impegno alla cena e alla conversazione. Se ne accorge anche chi ascolta la radio. Le esibizioni dei cantanti arrivano nelle case con il sottofondo di un brusio diffuso e del tintinnare delle stoviglie. La presenza è scarsa, non soltanto perché è lunedì, ma anche perché il prezzo d’ingresso di ciascuna serata è di 500 lire, una cifra all’epoca non certo alla portata di tutte le tasche. Al termine delle due serate il primo premio verrà assegnato alla canzone Grazie dei fiori di Saverio Seracini, Mario Panzeri e Giancarlo Testoni, interpretata da Nilla Pizzi. Sette sono i giurati: il vicesindaco di Sanremo, il presidente della società concessionaria del Casinò, il maestro Giulio Razzi, il capo dell’ufficio stampa del Festival, l’avvocato Nino Bobba, Nunzio Filogamo e una signora scelta tra il pubblico. La premiazione sarà anche l’occasione per la prima gaffe della storia del Festival. Ne è artefice il presentatore Nunzio Filogamo, il quale, ignorando che Seracini, cieco, diserta qualunque cerimonia mondana ne reclamerà la presenza sul palco per ritirare il premio. Sarà Cinico Angelini a togliere tutti dall’imbarazzo annunciando: “il maestro Seracini non c’è e non verrà. Ha composto questa canzone poco dopo essere improvvisamente diventato cieco...”.
28 gennaio, 2023
28 gennaio 1985 – In tanti a Hollywood per l’Etiopia
L’idea è di Harry Belafonte, uno degli artisti statunitensi più impegnati nel campo dei diritti civili. Dopo l’iniziativa dei musicisti britannici raccolti sotto la sigla di Band Aid esprime ai colleghi il proprio disagio per la mancanza di sensibilità sul problema della carestia in Etiopia. «È vergognoso che l’ambiente musicale nero statunitense non senta il dovere di far qualcosa per i nostri fratelli africani». Nasce così la decisione di rispondere all’esperienza britannica. In breve tempo è pronto We are the world, un brano composto da Lionel Richie e Michael Jackson, i cui spartiti vengono inviati in tutta fretta ai cantanti e ai musicisti interessati. Il 28 gennaio 1985, approfittando della cerimonia di consegna degli annuali American Music Awards, una vera folla di artisti si presenta negli studi di Hollywood della A&M per registrare la canzone sulla base preparata tre giorni prima da un gruppo di musicisti che comprende personaggi come Paulinho da Costa, Michael Boddicker, Louis Johnson, David Paich, Steve Porcaro, Greg Phillinganes, Ian Underwood e Michael Omartian.. La registrazione della parte vocale dura due ore e mezza, un tempo incredibilmente breve per la produzione di un brano di sette minuti e due secondi destinato a invadere il mercato mondiale. Ben ventuno sono i solisti che si alternano davanti ai sei microfoni allestiti nello studio in un ordine miracolosamente rispettato fino all’ultimo: Lionel Richie, Stevie Wonder, Paul Simon, Kenny Rogers, James Ingram, Tina Turner, Billy Joel, Michael Jackson, Diana Ross, Dionne Warwick, Willie Nelson, Al Jarreau, Bruce Springsteen, Kenny Loggins, Steve Perry, Daryl Hall, Huey Lewis, Cindy Lauper, Kim Carnes, Bob Dylan e Ray Charles. Alla registrazione partecipa poi un fantastico coro composto da attori, componenti di bands e solisti come Dan Aykroyd, Sheila E, Bob Geldof, Lindsey Buckingham, John Oates, Jackie Jackson, LaToya Jackson, Marlon Jackson, Randy Jackson, Tito Jackson, Waylon Jennings, Bette Midler, Jeffrey Osborne, le Pointer Sisters, Smokey Robinson e tutti i componenti dei News di Huey Lewis. Pubblicato due mesi dopo con la sigla USA for Africa, We are the world arriverà al vertice delle classifiche di tutto il mondo.
27 gennaio, 2023
27 gennaio 1967 – Luigi Tenco, una morte inutile
Alle 2:30 del 27 gennaio 1967 sul pavimento della camera n° 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo viene ritrovato il corpo senza vita del cantautore Luigi Tenco. Indossa ancora i vestiti con i quali si è esibito qualche ora prima sul palcoscenico del Festival cantando il suo brano Ciao amore ciao dedicato alla problematica dell'emigrazione interna italiana ed è immerso in un lago di sangue. La prima ad accorgersi di quanto accaduto è la cantante italofrancese Dalida, sua compagna nell’avventura festivaliera che, in preda al panico, chiede aiuto. Il più lesto ad arrivare è Lucio Dalla, che alloggia alla camera 215 dello stesso albergo. Arriva anche un medico, il dottor Franco Borelli, ma non c’è più niente da fare. Secondo la ricostruzione effettuata dalla polizia Tenco si sarebbe sparato un colpo di pistola alla tempia destra con una Walker PPK calibro 7.65 di sua proprietà. Poche ore prima la giuria del Festival di Sanremo aveva escluso dalla finale la sua canzone. Viene anche diffuso il testo di una lettera trovata accanto al corpo nel quale sarebbero spiegate le ragioni del gesto: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi». Il suo sarebbe, quindi, un gesto di protesta contro l'esclusione dalle finali e di delusione per non essere stato compreso dal pubblico italiano. Tutto chiaro? Tutt’altro. L'episodio, ricco di lati oscuri, non sarà mai interamente chiarito e molti metteranno in dubbio la versione del suicidio. Tra questi uno dei più appassionati sostenitori della necessità di rivedere un’inchiesta che appare affrettata e in alcuni passaggi poco credibile è il cronista radiotelevisivo Sandro Ciotti, grande amico di Tenco. Il Festival, però, ha fretta di seppellire l’ingombrante cantautore. Anche a nome di altri colleghi Tata Giacobetti del Quartetto Cetra chiede con un telegramma al ministro del Turismo e dello Spettacolo la sospensione del Festival di Sanremo perché la morte di Tenco sarebbe «...un’evidente conseguenza della drammatizzazione di un ambiente contagiato da fini esclusivamente commerciali». Il ministro non risponde. Non succederà niente. Il Festival continuerà come se nulla fosse accaduto.
26 gennaio, 2023
26 gennaio 1978 – Niente Buzzcocks, non stampiamo dischi immorali!
Il 26 gennaio del 1978 la ditta che dovrebbe stampare il secondo singolo dei Buzzcocks What do I get comunica alla casa discografica del gruppo di non poter rispettare l’accordo perché la legge vieta di produrre “materiale offensivo per la morale comune". La querelle riguarda il brano che dovrebbe occupare il lato B del disco, intitolato Oh, shit (Oh, merda). Immediatamente consultati, i componenti di quello che viene considerato un po’ il gruppo caposcuola del punk “morbido” si rifiutano di cambiare il testo del brano incriminato e comunicano di essere anche indisponibili a sostituirlo con un altro. Non ci sono vie d’uscita. Tra la casa discografica e la ditta incaricata di stampare i dischi inizia una controversia legale tanto rapida quanto violenta e costellata da diffide, ultimatum, appelli all’opinione pubblica e dichiarazioni d’irresponsabilità. Alla fine il disco verrà pubblicato e diventerà il primo grande successo commerciale dei Buzzcocks, la band formata un paio d’anni prima da uno studente di elettronica al Bolton Institute of Technology che si fa chiamare Pete Shelley, anche se il suo vero nome è Peter McNeish e da uno studente di filosofia che risponde al nome di Howard Devoto. I due decidono di formare un gruppo dopo aver assistito a un concerto dei Sex Pistols. Quando nasce la polemica sulla canzone offensiva per la morale Devoto ha già lasciato i compagni per seguire nuove strade (formerà i Magazine) e la band è composta, oltre che da Shelley, dal batterista John Maher, dal bassista Steve Diggle e dal chitarrista Steve Garvey. Polemiche a parte i Buzzcocks sono destinati a lasciare un segno nella fulminante e breve epopea del punk, per il loro suono brillante e cristallino, in netto contrasto con le note cupe e lancinanti di quel periodo. Anche la polemica per il brano è, in fondo, un po’ forzata, viste le canzoni del gruppo. Nonostante la crudezza del linguaggio, infatti, il loro repertorio è composto, in larga parte, da canzoni d’amore lontane anni luce dal nichilismo esasperato che sembra caratterizzare la maggioranza dei gruppi punk. Lo stesso Shelley così descriverà quel periodo qualche anno più tardi: «I Buzzcocks erano un gruppo punk con un'ambizione in più: quella di scrivere canzoni che tutti potessero sentire proprie senza filtri o forzature. Per questo non c’era nei nostri brani quella rabbia, spesso finta, che piaceva tanto ai produttori».
25 gennaio, 2023
25 gennaio 1982 – Un gruppo fuori moda?
Il Marquee Club di Londra, uno dei templi del rock britannico, ospita il 25 gennaio 1982 il primo concerto da protagonisti di una band insolita e snobbata dalla critica. Sono i Marillion, un gruppo di appassionati cultori di un genere come il rock progressivo, considerato irrimediabilmente datato nei primi anni Ottanta, un periodo in cui, a parte la new wave, l’intera produzione discografica sembra privilegiare musiche fatte per non pensare e di rapido consumo. La band, nata ad Aylesbury, è formata dal batterista Mick Pointer, dal chitarrista Steve Rothery, dal tastierista Mark Kelly, dal bassista Peter Trawavas e dal carismatico cantante Fish, all’anagrafe Derek William Dick. Proprio a quest’ultimo, in possesso di una solida formazione classica e profondamente innamorato del rock progressivo inglese della prima metà degli anni Settanta, si deve l’ispirazione e la linea musicale dei Marillion. Quando il gruppo, considerato da gran parte della critica come una sorta di “scherzo della natura” nostalgico e velleitario, arriva al Marquee non ha ancora un contratto discografico, né un manager. Può contare soltanto su una solida nicchia di appassionati che non intendono arrendersi alle mode. Nonostante le pessimistiche previsioni il locale è affollato da un gran numero di spettatori e il concerto assume i toni di una rivincita contro tutti i detrattori. Il successo dell’esibizione frutta alla band il primo, sospirato, contratto discografico con una major. È la EMI l’etichetta che decide di correre qualche rischio con un gruppo “fuori moda”. La scommessa si rivelerà vincente. Nel 1983 l'album Script for a jester's tears segnerà l’inizio di un sorprendente successo destinato a spiazzare critici e detrattori e che toccherà l’apice nel 1985 con la pubblicazione di Misplaced childhood che arriva addirittura al primo posto della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna. Nel frattempo anche la formazione si irrobustisce con l’arrivo di Ian Mosley, l’ex batterista dei Curved Air, al posto di Mick Pointer. Nonostante tutto la maggior parte dei critici britannici non cambierà opinione e continuerà a considerare “incomprensibile” l’exploit di Fish e compagni. Da parte sua il leader della band continuerà a provocare e sorprendere i suoi detrattori con continue incursioni nel passato fino a registrare nel 1988, in The thieving magpie una personalissima versione della Gazza ladra di Gioacchino Rossini.
24 gennaio, 2023
24 gennaio 1941 – Nasce quel geniaccio di Neil Diamond
Il 24 gennaio 1941 nasce a Brooklyn, New York, Neil Diamond, uno dei più eclettici e prolifici autori della scena pop internazionale. All'età di dieci anni fa le sue prime esperienze musicali in un gruppo di bambini canterini che si chiama Memphis Blackstreet Boys e tre anni dopo si avvicina al folk entrando a far parte dei Roadrunners. Quando smette di indossare i calzoni corti ha già un'esperienza da far invidia a un veterano con frequentazioni musicali che vanno dal folk ai gospel, al country e al rock and roll. Inizia scrivere canzoni a quindici anni e non smette più. La prima ad accorgersi delle sue qualità è la casa editrice Sunbeam Music che lo scrittura e gli consente di dedicarsi a tempo pieno alla composizione. Nel 1966 pubblica anche il suo primo disco come interprete, Solitary man per una piccola etichetta e, nello stesso anno, firma I'm a believer, un brano destinato a vendere, nell'interpretazione dei Monkees, più di dieci milioni di copie. Gli stessi Monkees si rivelano una vera gallina dalle uova d'oro per il giovane autore che scrive per loro anche un'altra canzone milionaria: A little bit me, a little bit you. I soldi e il successo come autore, però, non gli bastano. Vorrebbe affermarsi anche come cantante, ma i produttori sono scettici. Fatica non poco a trovare qualcuno disposto a dargli spazio. Pubblica vari dischi con risultati modesti prima di convincere definitivamente pubblico e critica nel 1969 con l'album Brother love's travelling salvation show. Da quel momento le carriere d'autore e d'interprete viaggiano in parallelo. Nel 1972 dà corpo a un progetto ambizioso che teneva nel cassetto da tanto tempo sperimentando forme di espressione concettuale di ampio respiro. Nasce così l'opera musicale African trilogy che descrive l'uomo nelle sue tre fasi, crescita, maturità e vecchiaia su un tessuto ritmico africano ricco di contaminazioni gospel. La critica, spiazzata, reagisce malamente accusando African trilogy di essere un lavoro eccessivamente pretenzioso e freddo. L'episodio non interromperà il rapporto tra Neil e il pubblico che ne farà uno dei personaggi più amati degli anni Settanta. I discografici si adegueranno e la CBS, pur di averlo, non esiterà a sborsare nel 1973 ben cinque milioni di dollari, la cifra più alta mai pagata a un artista fino a quel momento. Anche negli anni Ottanta e Novanta la sua stella continuerà a brillare, mentre la produzione si farà via via più rarefatta nel tempo.
23 gennaio, 2023
23 gennaio 1973 – Neil Young: good bye Vietnam!
Il 23 gennaio 1973 a New York Neil Young si sta esibendo in concerto davanti a una platea nutrita. Il cantautore ripercorre la propria storia musicale centrando l'attenzione sui brani dell'album Harvest, ricchi di richiami sociali. Una dopo l'altra scorrono le sue canzoni: Old man, Alabama, Heart of gold, The needle and the damage e molte altre, compresi alcuni inediti destinati a finire nell'album Time fades away. C'è, però, una strana atmosfera. Neil Young appare teso, distratto, meno disposto del solito a interagire con il pubblico. Limita all'essenziale le parole e si perde in lunghi assoli di chitarra come se stesse inseguendo i suoi pensieri lontano da lì. Fedele alla scaletta l'esibizione scorre via in modo meccanico. Mentre sta eseguendo l'ennesimo brano guarda verso la sua sinistra, annuisce, sorride e si ferma. Posa per terra la chitarra e s'avvicina di più al microfono con l'aria visibilmente emozionata. Sul concerto è sceso il silenzio. Neil Young annuncia: «È finita! Mi hanno detto ora che il signor Kissinger e il signor Le Duc Tho hanno siglato un accordo per il "cessate il fuoco". Ce ne andiamo dal Vietnam!» Il silenzio si trasforma in un boato. Una gigantesca esplosione di gioia accoglie le sue parole. C'è chi canta, chi balla, chi si abbraccia per festeggiare un accordo che segna la fine dell’impegno statunitense nel Vietnam. Qualcuno sventola una grande bandiera rossa e blu con la stella gialla del Fronte di Liberazione del Vietnam del Sud, molti applaudono. Neil Young alza le mani per chiedere nuovamente silenzio. Con gli occhi lucidi ricorda che l'accordo è frutto anche dell'impegno del gigantesco movimento giovanile per la pace che si è sviluppato in tutti gli Stati Uniti. Chiede ai presenti di rivolgere un pensiero a tutte le vittime della "sporca" guerra e ai ragazzi che hanno perso la vita nelle manifestazioni pacifiste. Poi riprende a suonare. Il pubblico si accalca sotto il palco per fare posto ai ragazzi che arrivano da ogni parte della città. La festa non si ferma a New York. In tutti gli Stati Uniti esplodono grandi manifestazioni di gioia che hanno il loro epicentro nei campus universitari, dove la notizia viene accolta come una vittoria del movimento pacifista. Ci sono cortei improvvisati, preghiere di ringraziamento, ma non mancano iniziative diverse come a Philadelphia, dove una stazione radio saluta la notizia trasmettendo per dodici minuti consecutivi un suono di campane: un minuto per ogni anno di guerra.
22 gennaio, 2023
22 gennaio 1963 – Gerry & The Pacemakers, il successo con uno scarto dei Beatles
How do you do it? è un brano scritto da Mitch Murray che nelle intenzioni del produttore George Martin avrebbe dovuto segnare il debutto discografico dei Beatles. I quattro pazzerelloni di Liverpool, però, l’avevano cestinato perché lo sentivano fiacco e non adatto alla loro personalità. La notizia, diffusasi rapidamente nell’ambiente musicale britannico, rischiava di essere una pietra tombale per il brano, divenuto ormai “uno scarto dei Beatles”. Nonostante tutto l’ostinato produttore, amico dell’autore, non ha intenzione di cestinare la canzone e si ripromette di dimostrare agli “scarafaggi” che avevano torto. Il 22 gennaio 1963 impone a un'altra band di Liverpool di registrare How do you do it?. Le vittime dell’imposizione sono Gerry & The Pacemakers, un gruppo formato dal cantante e chitarrista Gerry Marsden, dal pianista Les Maguire, dal bassista John Chadwick e dal batterista Fred Marsden. Tutti i componenti sono nati a Liverpool con la sola eccezione di Maguire. La band, pur legata alla scuderia di Brian Epstein, il manager dei Beatles, non gode delle stesse prerogative dei suoi più famosi concittadini e non può scegliere i brani da incidere. Un po’ controvoglia, quindi, iniziano a registrare lo “scarto dei Beatles”. George Martin, che non ha mai digerito il rifiuto di John Lennon e compagni, assiste in silenzio. È quasi un fatto personale. Costringe Gerry & The Pacemakers a una lunghissima seduta di registrazione fino a spremere come limoni i componenti della band. La sera del 22 gennaio Gerry Marsden e i suoi compagni sono sfiniti. Hanno ormai perso il conto delle esecuzioni. Non è finita, perché Martin passa gran parte dei giorni successivi a riascoltare e ad aggiustare un brano che si è trasformato in una sorta di sfida personale alla cocciutaggine dei Beatles. Quando tutti pensano che il disco sia ormai pronto, non completamente soddisfatto, convoca ancora Gerry & The Pacemakers e chiede loro di rifare alcuni passaggi. «Coraggio, ragazzi, non è tempo perso». Ha ragione. How do you it?, pubblicato alcune settimane dopo, scalerà rapidamente la classifica di vendita arrivando fino al primo posto. Sarà lo stesso George Martin a telefonare la notizia ai Beatles: «Mai uno scarto è arrivato così in alto».
21 gennaio, 2023
21 gennaio 1941 – Richie Havens, un folk singer dalla pelle nera
Il 21 gennaio 1941 nasce a Brooklyn Richie Havens, considerato uno dei migliori folk singer del periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Figlio di un pianista del ghetto nero di New York, ultimo di nove fratelli impara ben presto le regole della sopravvivenza e per aiutare la famiglia inizia a cantare in pubblico quando ha da poco compiuto i sei anni. A quattordici forma un gruppo gospel, i McCrea Gospel Singers, insieme ai quali comincia ad allargare i suoi orizzonti al di fuori dei vicoli e dei locali della zona in cui è vissuto fino in quel momento. Chiusa la parentesi gospel, non ancora diciassettenne, saluta famiglia e amici e se ne va. Non lascia la musica, ma si adatta a qualunque lavoro pur di sopravvivere: il ritrattista per turisti nel Greenwich Village, il fattorino della Western Union e l'operaio. Nei primi anni Sessanta inizia a frequentare i circoli folk del Greenwich Village e resta affascinato dalla lezione politica e musicale dei vecchi folk singer bianchi come l’onnipresente Pete Seeger. Da quel momento la sua storia artistica si lega con quella degli emergenti profeti della nuova canzone di protesta. Nella sua voce calda e profonda, arricchita dall’emotività interpretativa di derivazione gospel, sembrano saldarsi le tradizioni musicali bianche e quelle nere. Nel 1968 è tra i protagonisti del commosso tributo alla memoria di Woody Guthrie che si svolge alla Carnegie Hall di New York e l’anno dopo entra nella leggenda aprendo con la sua Freedom il Festival di Woodstock. Gli anni Settanta lo vedono ancora sulla cresta dell’onda con una serie di album di qualità e con canzoni come l’indimenticabile Going back to my roots o la curiosa versione della beatlesiana Here comes the sun. Parallelamente all’attività discografica e concertistica sperimenta altre forme espressive, dedicandosi in particolare al teatro. Nel 1972 partecipa alla messa in scena sui palcoscenici statunitensi dell’opera rock Tommy e due anni dopo indossa i panni d’Otello nel musical Catch my soul. Con l’arrivo degli anni Ottanta inizia la sua parabola discendente anche se non sparirà mai del tutto dalla scena. Pubblica qualche album e spesso si ritrova a dare una mano in sala di registrazione ai suoi vecchi compagni del Greenwich Village, in particolare a Bob Dylan, ma gli anni d’oro e gli ideali di rivolta sono ormai lontani. Muore a Jersey City il 22 aprile 2013.
20 gennaio, 2023
20 gennaio 1889 – Leadbelly, un rissoso, irascibile e violento cantastorie
Il 20 gennaio 1889 nasce a Mooringsport, in Louisiana Huddie William Leadbetter, più conosciuto con il nomignolo di Leadbelly, uno dei grandi interpreti del blues rurale. Negli anni dell’adolescenza racconta storie e saghe popolari agli angoli delle strade accompagnandosi con il windjammer, una sorta di rudimentale fisarmonica. Passa poi alla chitarra suonando con Bud Coleman e Jim Fagin nelle feste e nelle cerimonie delle varie città del Sud degli Stati Uniti. A differenza degli altri cantastorie blues da strada, lui non si sente una vittima predestinata delle violenze di chi considera i musicisti itineranti come straccioni da insultare e qualche volta picchiare per divertimento. Non porge mai l’altra guancia e risponde a qualunque tipo di provocazione. Rissoso, irascibile e violento per tre volte viene condannato a scontare pene detentive di varia lunghezza. La prima condanna arriva nel 1917 quando uccide un uomo che l’aveva aggredito a New Boston, nel Texas, la seconda nel 1930 ad Angola per aver lasciato malconcio un suo interlocutore e l’ultima nel 1940 all'isola di Riker per aver dato il suo fattivo contributo a una sanguinosa rissa. Ogni volta, però, riesce a non scontare interamente la pena grazie a varie provvidenziali amnistie e riprende a girovagare suonando da solo o in compagnia di altre figure leggendarie del blues come Blind Lemon Jefferson, Sonny Terry o Brownie McGhee. Nel 1934, dopo un’amnistia che lo libera dalla necessità di scontare la sua seconda condanna viene letteralmente sequestrato da John Lomax, un ricercatore dell’archivio delle tradizioni popolari della Biblioteca del Congresso, che lo porta a New York e lo convince a registrare più di cento brani. Nella seconda metà degli anni Quaranta, dopo aver lasciato per la terza e ultima volta il carcere sembra trovare finalmente una sua dimensione grazie a un altro ricercatore, Frederic Ramsey, che gli procura un contratto con la Capitol. Nel 1949 l’università di Austin, in Texas, gli offre la conduzione di un seminario di studi riconoscendo la serietà della sua ricerca poetica e musicale, ma Leadbelly non potrà portare a termine l’incarico. Il 6 dicembre dello stesso anno, infatti, muore a New York. Il suo fisico, minato dalla poliomielite, non ce la fa a superare l’ennesima sfida. Pochi mesi dopo gli Weavers del “comunista” Pete Seeger porteranno al successo la sua Good night Irene.
19 gennaio, 2023
19 gennaio 1980 – Piero Ciampi, cantautore
Il 19 gennaio 1980 in un clinica romana un cancro alla gola chiude la vita e la carriera di Piero Ciampi, uno dei più grandi cantautori italiani. Livornese, anticonformista, innamorato dell’alcol più che di se stesso ha compiuto da quattro mesi quarantacinque anni. Amato dagli artisti, ma per lungo tempo sconosciuto al grande pubblico, deve alla sua indolenza e alla sua incapacità a gestire un rapporto normale con l’ambiente musicale gran parte dei suoi guai. Alla fine degli anni Cinquanta va a Parigi per cantare nei locali del Quartiere Latino, dove si fa chiamare Piero Litaliano (senza apostrofo), nome con il quale firma poi anche il primo singolo pubblicato in Italia nel 1963, Lungo treno del sud. Dalla Francia se ne va in Spagna, poi in Inghilterra e quindi in Irlanda, sempre alla ricerca di qualcosa che non troverà mai: il gusto della vita. Autore fecondo, ma incostante, scrive brani dalle atmosfere jazzate in cui la voce, che anno dopo anno si fa più roca, recita più che cantare canzoni evocatrici d’immagini ricche di emozione che sembrano però non piacere al pubblico della musica leggera di quegli anni. In più le case discografiche faticano a comprendere la sua incapacità di tenere fede agli impegni. Per questa ragione occorre aspettare fino al 1970 per vedere pubblicato il suo secondo singolo Tu no, destinato a vendere pochissime copie ma capace di entusiasmare un navigato chansonnier come Charles Aznavour che vuole al suo fianco il cantautore livornese in uno special televisivo. L’anno dopo la critica premia una raccolta di brani pubblicata con il titolo Piero Ciampi come miglior album dell’anno, ma ancora una volta rimane un fatto elitario, isolato ed episodico. Nel 1975, dopo il successo della canzone Andare camminare lavorare sembra che il grande pubblico riconosca finalmente la qualità del suo lavoro ma è troppo tardi. Ciampi, ormai completamente schiavo dell'alcool, non è più in grado di esibirsi in pubblico senza perdere il controllo di se stesso. Dopo la sua morte l’aria “maudit” che circonda il suo personaggio ne farà un artista di culto e, un po’ tardivamente, la sua casa discografica pubblicherà un’intera raccolta delle sue canzoni, compresi alcuni inediti a suo tempo rifiutati perché “improponibili”. Meno interessata sarà l’iniziativa di un gruppo di artisti che gli hanno voluto bene quand’era in vita, come Lucio Dalla, Gino Paoli e Nada. Saranno loro a riproporre gran parte delle sue canzoni in un lungo concerto al Teatro Argentina di Roma.
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