Il 20 luglio 1968 entra nella classifica degli album più venduti negli Stati Uniti In a gadda da vida degli Iron Butterfly. Il titolo è preso in prestito dal brano principale che, con i suoi diciassette minuti, occupa un intero lato del disco. Il successo commerciale arriva decisamente a sorpresa per gli Iron Butterfly, formati un paio d'anni prima a San Diego dal tastierista Doug Ingle e fino a quel momento considerati una band di culto della ristretta cerchia del movimento hippie. La formazione del gruppo in quel momento comprende, oltre a Ingle, il chitarrista Erik Braunn, il bassista Lee Dorman e il batterista Ronald Bushy, anche se i cambiamenti sono all'ordine del giorno. Il brano che dà il titolo al disco è una suite psichedelica che nei diciassette minuti di svolgimento, raccoglie un numero impressionante di citazioni. Il riff d'attacco guarda alla lezione dei Cream, ma si sviluppa lungo una sorta improvvisazione collettiva a tema guidata dalla chitarra, in cui ciascuno degli strumentisti gioca a differenziarsi dagli altri. C'è un assolo di batteria geometrico in cui qualcuno ha visto addirittura un'anticipazione delle strutture della disco dance, ci sono distorsioni blues, ma il collante di tutto finisce per essere la psichedelica e solenne esecuzione all'organo di Doug Ingle, che stranisce, stravolge, rivolta ogni variazione fino a ricondurre tutti al tema principale. Il testo suscita più di un sospetto. Per i più smaliziati In a gadda da vida non sarebbe altro che la versione corrotta dagli effetti degli allucinogeni della frase «In a garden of Eden». Sollecitati a una risposta sull'argomento i musicisti tacciono. Il loro silenzio durerà anni. Il successo commerciale dell'album è straordinario: più di tre milioni di copie vendute e disco di platino. Meno bene andrà agli Iron Butterfly. Inadatti a rivestire il ruolo delle rockstar finiranno per perdersi anche se verranno considerati i più influenti precursori dell'heavy metal.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
20 luglio, 2023
19 luglio, 2023
19 luglio 1934 – Bobby Lee Bradford, un trombettista che meritava di più
Il 19 luglio 1934 nasce a Cleveland, nel Mississippi, il trombettista Bobby Lee Bradford. A dieci anni è costretto a lasciare i suoi compagni di giochi e la città dove è nato per seguire la famiglia a Los Angeles. Non è che la prima tappa di una continua migrazione che in un paio d'anni lo porta a cambiare altre due volte ambiente: prima a Detroit e poi a Dallas nel Texas. Proprio in questa città nel 1949 scopre la tromba. Ha quindici anni, se ne innamora e inizia a suonare quasi subito. Non ha un maestro, è un autodidatta e la sua tecnica è fondamentalmente imitativa. Nello stesso anno entra a far parte della banda della scuola Lincoln, dove studia anche il pianista Cedar Walton. Ci resta fino al 1952, quando cambia scuola e se ne va ad Austin. Alla fine del 1953 presta il servizio militare nell'aviazione preferendo la banda musicale del suo contingente all'esercitazione nell'uso delle armi. In quel periodo conosce Ornette Coleman. È proprio quest'ultimo che nel 1961 lo chiama a New York, per coprire nel suo quartetto il buco lasciato dalla partenza di Don Cherry. Con questa formazione resta fino al 1963, a parte una breve parentesi nel 1962 con l'orchestra di Quincy Jones. Quando lascia Coleman torna nel Texas. A qualche amico confessa di non aver più voglia di muoversi da lì, ma è soltanto l'impressione di un momento. Nel 1966 è a Los Angeles con il sassofonista John Carter. Il sodalizio tra i due dura fino al 1971, anno in cui s'imbarca per l'Europa dove suona, tra gli altri, anche con i musicisti britannici dello Spontaneous Music Ensemble. Il vecchio continente gli piace. Si sente amato e apprezzato. Ci tornerà più volte e terrà un'infinita serie di concerti con una band che, nonostante le numerose variazioni di formazione, potrà contare su due perni fissi nel sassofonista Trevor Watts e nel contrabbassista Kent Carter. Nonostante tutto la sua popolarità non riuscirà mai a raggiungere le vette dei grandi musicisti suoi contemporanei.
18 luglio, 2023
18 luglio 1938 – Roby Crispiano, dal twist a Dylan
Il 18 luglio 1938 nasce a Roma il cantautore Roby Crispiano. Alla fine degli anni Cinquanta si esibisce nei locali della capitale con il nome di Roberto Castiglione, che poi è il suo vero nome. Fa un genere che in quel periodo si chiama “melodico moderno”. È pulitino e preciso come tutti i ragazzi che temono da un momento all’altro di perdere il posto. Pian piano si fa conoscere anche fuori dalle mura della sua città e dopo aver ottenuto il primo contratto discografico, nel 1962 partecipa al Cantagiro nel girone B, riservato ai giovani di belle speranze. Canta un brano a tempo di twist intitolato I nuovi angeli che sembra costruito apposta per fare da sottofondo alle calde sere estive. I tempi, però, stanno cambiando velocemente. Dagli Stati Uniti arriva l’eco della nuova generazione di folk singers che sta tentando di dare la scalata al cielo con le sue canzoni. Il buon Roberto resta affascinato da quella strana musica e decide di cambiare radicalmente genere. Molla la compagnia beata delle orchestrine da locali notturni e, con un paio di sandali, una chitarra e un armonica ricomincia tutto da capo o quasi. Per cancellare il passato cambia nome in Roby Crispiano. La metamorfosi è impressionante. La voce pulita ed educata di Roberto Castiglione diventa ruvida come la carta vetrata. All’inizio fatica un po’ a trovare qualcuno disposto a dargli spazio, anche per il clima inquietante e aggressivo che traspare dalle sue canzoni. I tempi però, come dice Bob Dylan, stanno cambiando e finisce che ai discografici va bene anche uno come lui. Nel 1966 pubblica il folk blues Solo io e te che spodesta un mito come Caterina Caselli nella settimanale classifica della trasmissione radiofonica “Bandiera gialla”. Nello stesso anno arrivano i grattacapi. Al Festival delle Rose di Roma dovrebbe presentare, in coppia con i Pooh, un suo brano intitolato Brennero 66 dedicato ai ragazzi di leva costretti a rischiare la vita per far la guardia ai tralicci in Alto Adige contro gli attentati degli autonomisti. Nei suoi confronti scatta, però, la censura televisiva che prima cambia il titolo della canzone in Le campane del silenzio e poi sostituisce la frase «Tu sei morto inutilmente» con «Tu sei morto in silenzio». L’anno dopo centra un paio di successi con A piedi scalzi e Uomini uomini, ma la canzone italiana sta correndo velocemente e l'esaurirsi della fiammata del beat chiude anche il suo momento migliore. Muore a Roma il 16 giugno 2000.
17 luglio, 2023
17 luglio 1968 - La prima volta del sottomarino giallo sullo schermo
Il 17 luglio 1968 al Pavillion di Londra viene presentato per la prima volta il film d’animazione "Yellow submarine", una surreale favola musicale diretta da George Dunning che ha come interpreti le effigi disegnate dei Beatles. Il lungometraggio, il primo a disegni animati prodotto in Inghilterra dopo “La fattoria degli animali” di Halas e Batchelor del 1957, racconta la storia della lotta di Old Fred, direttore della Sergeant Pepper’s Lonely Heart Club Band, e di quattro ragazzi di Liverpool, John, Paul, George e Ringo, contro i Biechi Blu, che hanno conquistato Pepperland e sono intenzionati a far scomparire per sempre la musica e i colori dal mondo. La sera della prima c’è molta curiosità attorno al nuovo film targato Beatles, dopo il clamoroso fiasco del confusionario - psichedelico “Magical Mistery Tour”, stroncato dalla critica e accolto tiepidamente dal pubblico. In più il gruppo attraversa una fase contraddittoria e incerta sia nei rapporti interni che sul piano musicale, caratterizzata da un lungo periodo di meditazione in India. Al Pavillion la band si presenta senza Ringo Starr, ufficialmente impegnato altrove, ma in realtà polemicamente incline a marcare le distanze nei confronti delle suggestionii spiritualistiche dei compagni. Ispirato all’omonima canzone, “Yellow Submarine” si conclude con un appello dei quattro ragazzi di Liverpool alla pace universale e, come rileva la critica dell’epoca, «propone una morale edificante, ma non tediosa, moderna e piacevole», in sintonia con un periodo di speranze e di cambiamenti annunciati. Nei disegni di Heinz Edelman, John Cramer e Gordon Harrison, ricchi di citazioni si possono ritrovare fuse insieme con fantasia e originalità le espressioni figurative di moltissime correnti di questo secolo. Non si tratta di un capolavoro, ma di una geniale fusione tra colori, musica, immagini e idee, proposta con garbo e ironia e destinata a ottenere un buon successo di pubblico.
16 luglio, 2023
16 luglio 1982 - Peter Gabriel: l'Occidente non è il centro della musica
«Contrariamente a quello che pensiamo, noi musicisti occidentali non siamo il centro del mondo. Le nostre sonorità sono debitrici nei confronti delle tradizioni culturali di popoli diversi. Ci sono al mondo esperienze, musiche e suoni alle quali attingiamo quotidianamente senza dare niente in cambio. Io, per quel che posso, vorrei poter modificare questa situazione». Con queste parole il 16 luglio 1982 Peter Gabriel, l’ex cantante e leader dei Genesis, apre al Royal Bath & West Showground di Shepton Mallet, in Gran Bretagna, il WOMAD, World Of Music Arts and Dance, una tre giorni di musica etnica, teatro e danza popolare cui partecipano artisti provenienti da tutto il mondo, in particolare dall’Asia e dall’Africa. È un’impresa che va di pari passo con il suo impegno a favore dei diritti umani. Smessi da tempo i panni della rockstar e abbandonati al loro destino i Genesis da qualche anno il cantante è alla ricerca di nuovi orizzonti musicali. Profondamente convinto della necessità di integrare senza prevaricazioni le mille culture del mondo, nella sua produzione solistica ha attinto a piene mani alla musica etnica, campionandone suoni, modi e ritmi. L’esperienza lo riempie di entusiasmo tanto da farlo decidere di impegnarsi in prima persona nella valorizzazione e nella diffusione delle varie culture musicali. La tre giorni del WOMAD, nelle sue intenzioni, dovrebbe essere il primo grande appuntamento pubblico in questa direzione. Investe nell’operazione tutte le sue risorse finanziarie e utilizza abilmente la sua popolarità per promuoverla. I risultati economici però non saranno pari a quelli artistici e il cantante dovrà ricorrere all’aiuto dei suoi ex compagni per pagare i debiti organizzando una storica riunione dei Genesis al Milton Keynes Bowl di fronte a migliaia di fans in delirio. Non abbandonerà comunque le sue convinzioni e cocciutamente riuscirà a trasformare il WOMAD in uno dei più importanti appuntamenti annuali di quella che verrà chiamata World Music.
15 luglio, 2023
15 luglio 1935 – Gianni Garko, dall’Oscar a Sartana
Il 15 luglio 1935 a Zara in Croazia nasce Giovanni Garcovich destinato a diventare un attore popolarissimo con il nome d’arte di Gianni Garko. Nel 1948 si trasferisce con la famiglia a Trieste dove negli anni successivi si avvicina al teatro frequentando i corsi del locale Teatro Nuovo. Dopo essere stato ammesso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” si trasferisce a Roma dove nel 1958 debutta in teatro in “Veglia la mia casa, angelo” diretto da Luchino Visconti. Nello stesso anno partecipa allo sceneggiato televisivo “L’isola del tesoro” diretto da Anton Giulio Majano ed esordisce anche nel cinema in “Pezzo, capopezzo e capitano”. È il primo di una lunga serie di pellicole dirette da moltissimi registi tra i quali Franco Rossi, Pier Paolo Pasolini e Gillo Pontecorvo. Proprio quest’ultimo lo sceglie tra i protagonisti di “Kapo”, il lungometraggio che entra nelle nomination per l’Oscar nel 1962. È anche uno dei pochi attori italiani che partecipano alla mitica serie televisiva “Spazio 1999”. Per gli appassionati del western all’italiana Gianni Garko è, soprattutto, Sartana. Lo è naturalmente, come Franco Nero è naturalmente Django e Giuliano Gemma è Ringo. Pur essendo personaggi fortunati e protagonisti di decine di film con interpreti spesso diversi sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo con un volto preciso che ha fatto inevitabilmente diventare gli altri semplici imitazioni. Nel caso del rapporto tra Garko e Sartana ha i contorni della leggenda. L’attore veste i panni di Sartana fin dal suo debutto nel western all’italiana, addirittura due anni prima del primo fortunato film della serie, nato nel 1968 dalla geniale creatività di Frank Kramer, alias Gianfranco Parolini. Garko, infatti, in “1.000 dollari sul nero” è il “vilain” cattivo e infido che dopo averne combinate di tutti i colori viene ucciso dal fratello “buono” Anthony Steffen. Il nome di quel malvagio personaggio è proprio Sartana, anche se è ben diverso dal sanguinario giustiziere con lo stesso nome che gli regalerà un’incredibile popolarità. Il suo approccio con western all’italiana non si ferma lì. Tra i personaggi cui presta il volto e la recitazione sciolta e disinvolta, ci sono anche Camposanto e Spirito Santo, altre due creature di Giuliano Carnimeo, alias Anthony Ascott, instancabile creatore di “tipi da western”. Il grande successo popolare ottenuto con il western all’italiana non ne attenua l’impegno che lo vede lavorare a progetti teatrali per i diritti umani e civili. A partire dagli anni Novanta dirada le presenze sul grande schermo privilegiando la televisione e il teatro. In Tv presta il suo volto a Pierfrancesco Moretti, uno dei più amati personaggi della serie “Vivere”, mentre in teatro spicca la sua presenza nella versione di “Tre sorelle” di Anton Checov messa in scena da Luca Ronconi.
14 luglio, 2023
14 luglio 1970 - Aiuto! i Guevaristi!
Martedì 14 luglio 1970, la Brave New World Productions, società organizzatrice del Randall’s Island Rock Festival, convoca una conferenza stampa a New York nella quale denuncia che i “guevaristi” del White Panthers Party vogliono disturbare i concerti per protestare contro la mercificazione della musica. Da qualche giorno, per la verità, sull’area destinata a ospitare la manifestazione, sono accampati alcune centinaia di giovani, in gran parte membri di varie Comuni del “Movement”, il variegato arcipelago delle organizzazioni d’estrema sinistra nate dopo la grande fiammata del 1967 e del 1968. Di per sé non è, però, un fatto strano. Tutte le manifestazioni musicali di quel periodo vedono molti giovani affluire in zona con largo anticipo. Qualche giornalista sospetta che la denuncia sia una trovata pubblicitaria, ma le autorità, accusate di inerzia, intervengono. L’area del Festival viene sgomberata. I giovani si accampano fuori dal perimetro della manifestazione, mentre gli organizzatori rafforzano la recinzione. Lo sgombero si conclude rapidamente senza tensioni e non succede nulla nemmeno nei giorni successivi, quando i ragazzi delle Comuni ricevono la solidarietà di due gruppi in cartellone: gli Elephant’s Memory e gli Steppenwolf. Sembra tutto finito, ma la calma è apparente. La resa dei conti arriva il 18 luglio, giorno d’inizio della manifstazione. Fin dalle prime ore dell’alba piccoli gruppi di militanti del White Panthers Party fingono vari tentativi di sfondamento degli ingressi ufficiali per impegnare e distrarre il servizio d’ordine. Contemporaneamente il grosso dei giovani delle Comuni rimuove parti intere di recinzione in punti precisi e indicati su volantini passati di mano in mano nei giorni precedenti. Il Festival ha un grande successo di pubblico, ma è un fiasco sul piano economico: si calcola che solo uno spettatore su cinque abbia pagato regolarmente il biglietto. I cronisti riferiscono una frase colta al volo tra i giovani delle Comuni: «L’idea del piano per far fallire la manifestazione era una balla da paranoici. Noi siamo arrivati qui per divertirci e basta, ma dopo le accuse della conferenza stampa ci siamo detti: perché non farlo davvero?»
13 luglio, 2023
13 luglio 1947 – Jimmie Lunceford non lascia eredi
Il 13 luglio 1947 muore a Seadise, nell’Oregon, il sassofonista, clarinettista, direttore d'orchestra e compositore Jimmie Lunceford, all’anagrafe James Melvin Lunceford. All'età di quarantacinque anni se ne va così un personaggio di primo piano nella storia del jazz del periodo compreso fra gli anni Venti e Quaranta. I critici sono pressoché concordi nel ritenerlo uno fra i più validi e importanti leader orchestrali dell'era dello swing, di quel periodo, cioè, nel quale il jazz viveva uno dei momenti di maggior espansione. Proprio in negli anni in cui le grandi orchestre iniziano a sostituire i piccoli gruppi su cui si era costruito il jazz delle origini emergono le sue capacità di organizzatore e leader. Le sue fortune nascono certamente dalla sua non comune sensibilità musicale, ma anche dal fiuto notevole nella scelta dei collaboratori. Le sue orchestre, infatti, si avvalgono del lavoro di alcuni arrangiatori fra i migliori che il jazz abbia avuto come Sy Oliver, Willie Smith ed Edwin Wilcox. In ogni caso Lunceford ha il merito di aver inventato dal nulla un impasto sonoro morbido e soffice di forte suggestione formale, destinato a esaltare la validità tecnica dei solisti. La sua lezione resta unica e non è un caso che la "sonorità luncefordiana" riesca a farsi strada e ad affermarsi in anni in cui la concorrenza ha i nomi di Duke Ellington, Count Basie e Benny Goodman. Il destino di Jimmie è diverso da altri leader orchestrali dell'epoca perché riesce a non farsi schiavizzare dalle tendenze, ma conserva sempre un notevole margine di originalità e di autonomia. Resta proverbiale e, per molti versi, insuperata la sua perfetta calibratura delle diverse sezioni della formazione, realizzata attraverso una sapiente alternanza fra unisono e blocchi separati. Dopo la sua morte vari musicisti, tra cui i suoi amici Joe Thomas ed Edwin Wilcox, tenteranno più volte senza fortuna di recuperarne il sound e di rilanciarne l'orchestra. La "sonorità luncefordiana" muore con lui.
12 luglio, 2023
12 luglio 1975 – La prima volta di K.C. & The Sunshine Band
Il 12 luglio 1975 con il brano Get down tonight fa la sua prima comparsa nelle classifiche di vendita una band destinata a lasciare il segno più importante in quella corrente che verrà chiamata "Miami Sound". Si chiamano K. C. & The Sunshine Band e sono un gruppo multirazziale. La band è la protagonista del maggior successo commerciale del "Miami sound", una via di mezzo tra il soul e la dance nata negli studi della TK Productions e della TK Record. La storia del gruppo in cui il colore della pelle non è un problema inizia con l'incontro tra Harry Wayne Casey, un commerciante all'ingrosso di dischi con l'hobby delle tastiere, e Rick Finch, un anonimo bassista di Miami. Sono loro gli autori dei primi brani di successo della K.C & The Sunshine Band. Quando, nel luglio del 1975, il gruppo entra per la prima volta nelle classifiche il duo Casey - Finch ha già all'attivo, tra gli altri, un brano come Rock your baby arrivato l'anno prima al vertice delle classifiche statunitensi e britanniche nell'interpretazione di George McCrae. Il successo di Get down tonight fa da apripista per i successivi Queen of clubs e That's the way (I like it) che porteranno i K. C. & The Sunshine Band a dominare le classifiche di vendita. In quel periodo oltre a Casey e Finch fanno parte della band il chitarrista Jerome Smith, il batterista Bob Johnson, il percussionista Oliver Brown, i trombettisti Ron Smith e James Weaver, il sassofonista Denvil Liptrot e il trombonista Charles Williams. In realtà i K. C. & The Sunshine Band hanno una formazione variabile con un nucleo fisso composto da Casey, Finch, Johnson e Smith attorno al quale ruotano strumentisti diversi alle percussioni e alla sezione fiati. Il gruppo, dopo il grande successo del 1975, saprà mantenersi a buoni livelli per qualche anno fino a quando, nel 1981, la TK Records verrà sconquassata da gravi problemi economici che finiranno per travolgere anche i musicisti a lei legati. Di fatto la Sunshine Band finirà lì.
11 luglio, 2023
11 luglio 1981 - Gli Specials primi tra le barricate
Nel secondo fine settimana del luglio 1981, le notizie di gravi disordini a sfondo razziale in due tra le maggiori città inglesi oscurano per qualche giorno i mielosi reportages sulle nozze tra l’erede al trono d’Inghilterra Carlo e Diana. Dopo la guerriglia della notte gli elicotteri della polizia che sorvolano i quartieri popolari di Liverpool e Manchester all’alba di sabato 11 luglio 1981 segnalano alla centrale che la partita non è ancora chiusa. In entrambe le città i giovani immigrati, sostenuti da varie formazioni giovanili progressiste, hanno deciso di reagire alle continue aggressioni e violenze dei fascisti del National Front, che avevano fatto della “caccia allo straniero” il passatempo preferito dei week-end. Nella notte, alla prima aggressione è scattata la risposta. L’intervento della polizia, particolarmente violento, ha complicato ancora di più la situazione e ben presto la situazione è sfuggita a qualunque controllo. Mentre il fumo delle barricate incendiate si alza nel cielo illuminato dalle prime luci dell’alba, le radio diffondono le note della canzone al vertice delle classifiche dei dischi più venduti in Gran Bretagna. Si tratta di Ghost town, un brano degli Specials che parla della vita, delle ingiustizie e delle contraddizioni sociali nelle grandi città industrializzate colpite dalla depressione economica, inserito anche nella colonna sonora di “Dance craze”, il film cult degli amanti dello ska. È quasi un fatto simbolico che proprio in quell’11 luglio di tensione il gruppo simbolo dello ska, multirazziale e impegnato da sempre sui temi sociali, conquisti la vetta del successo commerciale con un brano che appare premonitore. D’altronde gli Specials non sono un gruppo qualunque. Detestati dagli impresari per la loro capacità di attirare guai, sono divenuti uno dei principali bersagli degli estremisti di destra, che tentano frequentemente di interrompere i loro concerti. Non accade per caso. Gli Specials, infatti, sotto la guida del tastierista Jerry Dammers, non si sono mai limitati a comporre e a suonare musica, ma hanno dedicato, fin dal primo momento della loro esistenza, un’attenzione nuova verso i problemi sociali, soprattutto quelli a sfondo razziale. Per non rinunciare alla loro libertà hanno fondato la casa discografica 2-Tone, divenuta in breve tempo un laboratorio dello ska, quella strana musica nata dalla mistura tra la secca essenzialità del punk e la ritmica armoniosa delle musiche giamaicane. Nel lavoro di Dammers e dei suoi compagni affondano le radici anche gruppi come i Madness, i Beat, i Selecter, gli Swingin’ Cats e le Bodysnatchers, interamente femminile. Per qualche tempo il movimento ska diviene così il simbolo di un rinnovamento musicale e di un impegno sociale diretto, innestato nei processi reali della società e lontano dalla visione disperata e nichilista del punk. Con il successo commerciale di “Ghost town” la band tocca l’apice della sua popolarità , ma inizia a dare segni di stanchezza nei rapporti interni. Tra Dammers e gli altri membri del gruppo nascono tensioni destinate a provocare in breve tempo la dissoluzione della formazione storica degli Specials. Nell’autunno il cantante Terry Hall, il percussionista Neville Staples e il chitarrista Lynval Golding saranno i primi a lasciare i compagni per dare vita ai Fun Boy Three. Poche settimane dopo sarà il turno dell’altro chitarrista, Roddy “Radiation” Byers che formerà, senza grande fortuna, i Tearjerkers, seguito a ruota da Horace “Gentleman” Parker. Il leader della band Jerry Dammers, con nuovi musicisti, recuperata l’antica denominazione del gruppo, Specials Aka, diventerà uno dei protagonisti della scena musicale antifascista e antirazzista inglese e sarà uno dei fondatori dell’associazione Artist Against Apartheid.
10 luglio, 2023
10 luglio 1966 - Incazzati neri al concerto di James Brown
«Ehi man, guardami bene. Vedi come sono nero? Nero come lui, come James Brown. Capisci? Eppure l’arena è piena di fottuti bianchi. Sai perchè? Perchè loro possono comprare i biglietti e noi no! Non è una questione di soldi. Io i soldi ce li ho, ma sono venuto qui e mi hanno detto che è tutto esaurito. E sai perchè è esaurito? Perchè i biglietti sono stati venduti tutti in prevendita. E dove si fa la prevendita? Dappertutto ma non nei nostri quartieri! Io sono nero, James Brown è nero, mi piacciono le sue canzoni ma non posso ascoltarlo!» Il 10 luglio 1966 sono migliaia i ragazzi dei quartieri neri di Los Angeles che affollano i dintorni della stracolma Sports Arena nella speranza di poter assistere al concerto dell’ex rapinatore, bracciante, lustrascarpe e pugile James Brown che da almeno quattro anni è il loro idolo indiscusso. La rabbia per l’esclusione, che ai loro occhi appare come l’ennesima ingiustizia di un sistema che tende a emarginarli, sembra destinata a esaurirsi dopo qualche intemperanza verbale, magari ritmata in coro, e alcuni bidoni della spazzatura presi a calci e rovesciati. I pochi agenti di polizia che presidiano all’esterno la Sports Arena vengono rinforzati da colleghi muniti di scudi, caschi e manganelli, più a scopo preventivo contro eventuali tentativi di sfondamento agli ingressi che per reale necessità. Almeno così pare ai cronisti che seguono l’evolversi della situazione. Man mano che il tempo passa la protesta tende ad affievolirsi e la folla lentamente si scioglie in piccoli gruppi che si rilanciano le note delle canzoni di James Brown e qualche slogan ironico. Improvvisamente, forse per sgomberare le uscite, agli agenti di polizia viene dato l’ordine di avanzare. È il panico. La folla si ricompatta, qualcuno corre, qualcun altro cade, i più decisi reagiscono. Vola qualche bottiglia, partono i primi lacrimogeni. In breve tempo è l’inferno. Le radio e le televisioni presenti diffondono la notizia e dai quartieri neri arrivano altri giovani, mentre la polizia fa affluire rinforzi. Per ore le strade che circondano lo Sports Arena sono teatro di scontri feroci. All’alba del giorno dopo il bilancio è di centinaia di arrestati e di altrettanti feriti.
09 luglio, 2023
9 luglio 1971 - Jim Morrison al Père Lachaise
Venerdì 9 luglio 1971 al cimitero Père Lachaise di Parigi non sono molti i testimoni dell’ultimo atto della breve storia di Jim Morrison, il cantante dei Doors. Dopo sei giorni di varie peripezie legali la moglie e un gruppo di amici decidono di tumulare la salma nel cimitero parigino che ospita i resti mortali di altri personaggi illustri come Oscar Wilde, Edith Piaf, Fryderyk Chopin e Honorè de Balzac. Si chiude così a ventotto anni non ancora compiuti la storia di Re Lucertola, come si autodefiniva nelle sue liriche, stroncato da un attacco cardiaco nella vasca da bagno. Con la sua band, i Doors, aveva interpretato, almeno fino al 1969, l’ansia di ribellione della sua generazione, ma negli anni successivi era entrato in una fase calante, frutto della divaricazione tra il suo delirio visionario, un po’ aristocratico e concettuale, e la realtà dell’esplodere di “dieci, cento, mille Vietnam” nelle coscienze dei giovani di tutto il mondo. Altri erano ormai gli interpreti musicali della grande ventata che annunciava gli anni Settanta e lui aveva deciso di ritirarsi a Parigi, in un appartamento sulla Rive Droite, per cercare nuove strade alla sua creatività. Aveva rotto i ponti con i suoi compagni e pensava di lasciare la musica per passare decisamente alla letteratura. La sua scomparsa aggiunge un anello alla tragica catena di morti illustri del rock, dopo quella di Jimi Hendrix e di Janis Joplin. Già in questo fatto ci sono i presupposti della trasfigurazione in mito. Le sue liriche e le sue interpretazioni negli anni Settanta verranno riscoperte prima dalle correnti del rock decadente e dall’underground barocco e metafisico, poi dal punk, che vedrà in Morrison e nei Doors degli anarchici capaci di esprimere un profondo disgusto per la società.
16 giugno, 2023
16 giugno 1967 – A Monterey si suona gratis
Il 16 giugno 1967 con il brano Enter the young gli Association aprono il Monterey Pop Festival, destinato a restare nella storia, oltre che come l'antesignano dei grandi raduni di massa della generazione hippy, come un primo segnale evidente di un'epoca di grandi cambiamenti. Organizzato da un singolare trio composto da John Philips dei Mamas & Papas, Paul Simon e Lou Adler per un pubblico stimato, alla vigilia, intorno alle settemila persone, attirerà, invece, oltre cinquantamila giovani e con la sua svolta musicale progressista contribuirà, nonostante i dubbi degli esperti di mercato, a far uscire il rock dai ristretti recinti delle musiche di culto. Farà conoscere al mondo, anche grazie al film realizzato nei tre giorni della manifestazione dal regista D.A. Pennebaker, la chitarra lancinante di Jimi Hendrix, la carica devastante degli Who e gli innovativi suoni delle band nate nel movimento hippy di San Francisco, prima fra tutte Janis Joplin con i suoi Big Brother & The Holding Company. Segnerà anche la consacrazione di Otis Redding, profeta di un soul che, senza rompere con le sue radici nere, abbatte le barriere razziali per parlare ai giovani di tutti i colori. A Monterey la generazione hippy sceglie poi i suoi nuovi eroi e li acclama sul campo, come accade ai Buffalo Springfield, a Simon & Garfunkel e alla Paul Butterfield Band, arrivati in punta di piedi e ripartiti con l'investitura ufficiale. La kermesse inizia nel primo pomeriggio del 16 giugno. Dopo gli Association salgono sul palco Lou Rawls e Johnny Rivers, cui seguono gli Animals di Eric Burdon riformatisi quasi per l'occasione. La chiusura della giornata celebra la santificazione di Simon & Garfunkel. Tra le curiosità del secondo giorno di Festival, dedicata al blues, ci sarà l'improvvisa defezione di vari artisti neri, sostituiti in tutta fretta dai bianchissimi Canned Heat e Janis Joplin, ma a rimettere la cose a posto ci penserà, a notte inoltrata, l'esplosivo Otis Redding. Nel terzo e ultimo giorno le note di Jimi Hendrix infiammeranno la platea a tal punto che i Buffalo Springfield, incaricati della chiusura, faticheranno non poco a convincere tutti della necessità di sgombrare l'area prima dell'alba. Alla fine, tirate le somme, gli organizzatori potranno contare su un utile di duecentomila dollari che verranno immediatamente devolute in beneficenza, come annunciato da tempo. Agli artisti, invece, non toccherà un soldo, perché i patti erano chiari fin dall'inizio: « A Monterey si suona gratis».
15 giugno, 2023
15 giugno 1937 – Waylon Jennings il fortunato
Il 15 giugno 1937 a Littlefield, nel Texas, nasce il bassista e cantante Waylon Jennings. Protagonista dell'esplosione del rock and roll diventa famosissimo per la fortuna che lo assiste quando nella notte tra il 2 e il 3 febbraio 1959 rinuncia a salire sull'aereo noleggiato da Buddy Holly e sopravvive così all'incidente che costa la vita allo stesso Buddy, a Big Bopper e a Ritchie Valens. Miracolato dalla sorte continua nella carriera da solista, non disdegnando di collaborare con altri strumentisti e gruppi. Negli anni Sessanta quando il rock and roll delle origini entra in crisi sotto i colpi del vento nuovo che arriva dalla Gran Bretagna, lui non si scompone. Si sposta sulla linea più tradizionale del country e si diverte a introdurre qua e là venature di rock sui brani più conosciuti della tradizione. Visto che la formula funziona ci prende gusto. Nel 1965 entra nella classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti con tre brani, Green river, MacArthur Park e Only daddy that'll walk the line. Nel 1966 anche Hollywood si accorge di lui e lo chiama a interpretare il film "Nashville rebel". Ormai il country è il suo territorio preferito, nonostante qualche rimpatriata nostalgica nel rock and roll delle origini come quella negli anni Settanta al fianco dei Crickets, l'ex band di Buddy Holly. Nel 1978 in coppia con Willie Nelson vince il premio della critica per il miglior duo country dell'anno. Pur essendo uno dei simboli tipici di quel country che fatica a evolversi perché diffidente nei confronti delle innovazioni, non verrà mai considerato un reazionario dai nuovi e più incendiari interpreti delle giovani generazioni. Anzi, le sue vicende di vita, il suo passato da rockabilly e la sua disponibilità gli garantiranno un notevole rispetto. Lui, riconoscente e un po' marpione, presterà volentieri la sua esperienza a tutti quelli che glielo chiederanno da Los Lobos a Emmylou Harris, da Hank Williams a Jessi Colter, a molti altri.
14 giugno, 2023
14 giugno 1947 – Brubeck, un cognome ingombrante
Il 14 giugno 1947 nasce a San Francisco in California il tastierista e polistrumentista Darius Brubeck, il primo figlio del pianista Dave Brubeck, uno dei pilastri della storia del jazz. Per la verità lui si chiama David Darius Brubeck, ma per non essere confuso con un ingombrante monumento come suo padre decide di utilizzare quasi esclusivamente il proprio secondo nome. Già in questo particolare è evidente come per molto tempo abbia avuto il problema di "smarcarsi" dal padre e costruirsi una carriera in proprio. Nel 1961, a cinque anni, inizia a prendere lezioni di pianoforte. Più tardi studia tecnica strumentale, armonia e composizione con maestri come Darius Milhaud, Gordon Smith e Donald Martino. Eclettico e interessato ad allargare le sue conoscenze frequenta anche i corsi di etnomusicologia e storia delle religioni. In quel periodo viene attratto particolarmente dalla cultura indiana. Non avendo a disposizione cattedre specifiche chiede e ottiene di poter studiare privatamente, gli strumenti, le forme e le strutture musicali dell'India. Verso la fine degli anni Sessanta, quando ormai ha terminato gli studi e le varie specializzazioni, decide di dare vita al Darius Brubeck Ensemble, una band che schiera in formazione anche i suoi fratellini Chris e Daniel. Ottiene un buon successo, ma è infastidito dal costante paragone con il padre. Pian piano, però, con il crescere della sicurezza nei propri mezzi, finisce per affrancarsi dall'ingombrante genitore. Non lo vede più come un pericoloso concorrente e si fa solleticare dall'idea di farne un partner. Nel 1972 il suo Darius Brubeck Ensemble si unifica con il Dave Brubeck Trio. Nascono così i Two Generations of Brubeck, un gruppo a base famigliare nel quale Darius suona spesso il sintetizzatore dialogando con il pianoforte del padre. Paradossalmente l'esperienza gli toglie per sempre di dosso l'ombra delle virtù paterne. Ospite fisso di vari Festival di Newport vince anche una lunga serie di importanti premi come compositore.
13 giugno, 2023
13 giugno 1970 – In the summertime
Il 13 giugno 1970 schizza al vertice della classifica britannica dei singoli più venduti In the summertime, una canzoncina senza pretese destinata a lasciare un segno indelebile nella storia del pop per i suoi suoni sporchi e per l'utilizzo di strumenti inusuali, compreso il soffio cadenzato nel collo di una damigiana e lo sfregamento di una grattugia. Il disco venderà sei milioni di copie e arriverà al primo posto nelle classifiche di ben ventisei paesi, Italia compresa. Ne sono interpreti i Mungo Jerry, una band formata l'anno precedente dal cantante e chitarrista Ray Dorset insieme a Paul King, anche lui esperto di strumenti a corde, al tastierista Colin Earl e al bassista Mike Cole. Manca un batterista ma la scelta non è casuale. I Mungo Jerry, infatti, nascono nella mente di Dorsey come una sorta di band povera, sulla falsariga delle jug band statunitensi, a strumentazione variabile e arricchita dall'uso musicale di oggetti d'uso comune. Il successo così rapido e inatteso finirà per mettere in crisi la stessa band. Mentre i discografici tentano di sfruttare la formula con un altro paio di singoli, il gruppo non regge la pressione. Pochi mesi dopo il successo di In the summertime Mike Cole se ne va, sostituito rapidamente dal bassista John Godfrey. Non è finita, perché nel 1972 il primo calo di vendite allarma la casa discografica che chiede loro di "elettrizzare" maggiormente i suoni. Colin Earl e Paul King non ci stanno e salutano la compagnia. Dorset "normalizzare" la formazione con il batterista Tim Reeves e il tastierista Jon Pope. È l'inizio della crisi definitiva. A partire dal 1974 i Mungo Jerry sono praticamente una sigla che nasconde il solo Ray Dorset con il supporto di musicisti di studio. Nel 1977 Dorset convincerà Colin Earl a seguirlo nel tentativo di ridare vita alla band con il bassista Chris Warnes e il batterista Pete Sullivan, ma ormai lo spazio loro riservato è soltanto quello della nostalgia e del revival.
12 giugno, 2023
12 giugno 1963 – Muore la tromba della Yerba Buena
Il 12 giugno 1963 muore di cancro a Montreal, in Canada, il quarantaseienne trombettista Bob Scobey. Registrato all'anagrafe con il nome di Robert Alexander Scobey nasce a Tucumcari, nel New Mexico, nel 1916. Due anni dopo con la famiglia si trasferisce a Stockton, in California, dove inizia a soffiare in una cornetta quando non ha ancora compiuto nove anni. A quattordici passa alla tromba e perfeziona gli studi musicali al Berklee College. Se si escludono varie esibizioni con gruppi improvvisati la sua vera attività professionale inizia nel 1936 quando ottiene la prima scrittura da un orchestra da ballo di San Francisco. Due anni dopo conosce il jazz e ne resta affascinato al punto da diventare uno dei principali esponenti di quello che verrà chiamato "San Francisco style". L'artefice principale della conversione è Lu Watters, che diviene un suo inseparabile compagno d'avventure musicali. Proprio con Watters e Turk Murphy partecipa alla costituzione della Yerba Buena Jazz Band, tra i gruppi più originali di San Francisco e di tutto il movimento revivalistico del dopoguerra. Il successo, anche discografico, della Yerba Buena, nasce dalla capacità di riproporre con arrangiamenti spettacolari i classici di Oliver e di Morton rispettandone lo spirito e, per quanto possibile, i suoni originali. L'esperienza, però, non dura. Nel 1947 forma una propria jazz band destinata a ospitare una lunga serie di musicisti di qualità come, tra gli altri, Jack Buck, Wally Rose, Burt Bales, Clancy Hayes, Bob Mielke, Bill Napier, Bob Short, Ralph Sutton, Abe Lincoln e Warren Smith. Nel 1962 si avventura con la sua band in un lungo tour che tocca vari paesi Europei e fa storcere il naso ai puristi del jazz per il contesto in cui si esibisce: lo show sportivo degli Harlem Globetrotters, i funamboli del basket. Il cancro non lo spaventa. Suona fino alla morte. Nel 1976 la sua compagna pubblicherà una biografia intitolata "He rambled' till cancer cut him down".
11 giugno, 2023
11 giugno 2004 – Nasce l’Emu, la prima etichetta pubblica italiana dopo anni di privatizzazioni
L’11 giugno 2004 dopo anni, anzi decenni, un Ente pubblico ha deciso di diventare editore musicale e discografico. L’Ente è l’Università di Siena che pubblica Foglie in ira dei Dedalo, il primo album prodotto dalla EMU, la neonata etichetta musicale universitaria. C’era una volta in Italia una delle industrie discografiche pubbliche più importanti del mondo. Nata nei primi anni del Novecento aveva accompagnato la diffusione della musica popolare, ne aveva guidato le innovazioni tecniche, anticipando e qualche volta determinando i gusti del pubblico. La sua esistenza era stata anche un punto di riferimento importante per lo sviluppo delle iniziative private. C’era una volta, perché adesso non c’è più. La sbornia privatizzatrice e liberista degli ultimi vent’anni ne ha fatto strame. Tutto è stato messo in vendita e pezzi interi di un catalogo che era, prima di tutto, una parte importante della storia e della cultura del nostro paese, sono scomparsi, volatilizzati nel mercato dei collezionisti e, in qualche caso, perduti in qualche magazzino polveroso. Quasi a dimostrare come ci fosse un nesso inscindibile tra il polo pubblico e l’iniziativa privata, pochi anni dopo l’avvio della furia privatizzatrice, anche la grande industria discografica privata collassa e diventa preda delle major multinazionali. In breve tempo il nostro si trasforma in un paese musicalmente periferico e colonizzato. Sopravvive a stento un arcipelago di medie, piccole e piccolissime strutture di produzione, spesso alimentate dalla passione e da poco altro. Nella calura della desolazione è improvvisamente arrivato un refolo fresco e frizzante. Il primo album prodotto dalla EMU non è una sperimentazione, ma la conclusione di un lungo percorso dell’Ateneo nel campo della comunicazione e dello spettacolo. «EMU nasce proprio dalla volontà di incidere sulla produzione musicale immettendo sul mercato prodotti di qualità che prescindano dalla loro immediata commerciabilità, coerentemente con le nostre finalità istituzionali che sono appunto culturali e non di lucro» dice Monica Granchi, curatrice del progetto. Questa storia del pubblico che ridiventa editore ha colto di sorpresa un po’ tutti, compresa la SIAE che non aveva neppure i moduli adeguati a raccogliere la richiesta di licenza da parte di un’Università, cioè di un “soggetto non iscrivibile alla Camera di Commercio”. L’Ateneo senese rivendica con orgoglio e consapevolezza la decisione di avviarsi «in un cammino imprenditoriale che è la manifestazione tangibile di un progetto culturale che ha le sue radici in una storia lunga otto secoli, in una comunità che apprende, insegna, fa ricerca, pronta ad accogliere le innovazioni, a trarre ispirazione in modelli avanzati, senza paura di perdere la propria identità».
10 giugno, 2023
10 giugno 2004 – Quando la Bardot venne condannata per odio razziale
Il 10 giugno 2004 Brigitte Bardot viene condannata da un tribunale francese. Non è la prima volta che la sex symbol fonte di turbamento per il sonno e la moralità dei benpensanti degli anni Cinquanta e Sessanta si ritrova in tribunale. Questa volta però l’accusa non è simpatica né allude alla sfera delle libertà sessuali o civili. La Bardot, infatti, viene processata e condannata per "incitamento all'odio razziale". La condanna è relativa a un libro nel quale l’ex attrice sostiene posizioni molto vicine a quelle che in Italia negli stessi anni caratterizzano gli scritti di Oriana Fallaci. La sentenza di condanna si sofferma, in modo particolare, su alcuni passaggi relativi all'"Islamizzazione della Francia" e a quella che lei definisce «sotterranea e pericolosa penetrazione dell'Islam» nel paese d’oltralpe dove vive la comunità musulmana più grande d'Europa con oltre cinque milioni di persone. Nello stesso libro gli omosessuali sono definiti "fenomeni da baraccone" e si condanna la presenza delle donne nel governo. In precedenza Brigitte Bardot è già stata anche condannata per opinioni che sembravano giustificare i massacri di civili in Algeria.
09 giugno, 2023
9 maggio 1919 - James Reese Europe, ucciso dal batterista
Il 9 maggio 1910 muore assassinato James Reese Europe, uno dei personaggi leggendari del jazz delle origini. Nato a Mobile, in Alabama il 22 febbraio 1881 a dieci anni si trasferisce a Washington DC con la famiglia. Qui inizia a studiare musica. Nel 1904, è a New York, dove comincia la sua attività artistica organizzando nel 1906 la New Amsterdam Musical Association e successivamente dirigendo prima la Clef Club Orchestra e dal 1910 la Society Orchestra , popolarissima per aver accompagnato la celebre coppia di ballerini Irene e Vernon Castle nel musical “Watch You Step”del 1912. Durante la prima guerra mondiale James veste la divisa di tenente dell'esercito degli Stati Uniti e dirige la 369a Infantry Regiment Band che si esibisce con grande successo in molte città d'Europa. Dopo la fine del conflitto nel febbraio del 1919 ritorna negli Stati Uniti. Qui l'attende un trionfale tour. Il 9 maggio 1919 durante una esibizione a Boston, viene ucciso per motivi sconosciuti nel camerino del teatro da Private Herbert Wright il suo batterista.
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