13 ottobre, 2023

13 ottobre 1947 – Sammy Hagar, the Red rocker

Il 13 ottobre 1947 nasce a Monterey, in California, Sammy Hagar, uno dei personaggi più emblematici dell’hard rock, detto “Red rocker” per la sua capigliatura rossa e cespugliosa. Suo padre è un pugile professionista, ma lui alle palestre preferisce i fumosi locali dove si ritrovano a suonare i suoi amici. Irrequieto e restìo a lasciarsi catturare da una sola esperienza suona la chitarra e canta a San Bernardino in gruppi come i Fabulous Castillas, gli Skinny, i Dust Cloud e i Justine Brothers. Ben presto la sua fama di duro e aggressivo interprete si allarga al di fuori dei confini della California. Nel 1973 registra il suo primo disco con i Montrose, band che lascia l’anno successivo dopo la pubblicazione dell’album Paper money, intenzionato a dar vita a un proprio gruppo insieme al bassista Billy Church, al batterista Denny Carmassi e al tastierista Alan Fitzgerald. L’esperienza non entusiasma i discografici che lo costringono ad attendere due anni prima di pubblicare il suo primo album in proprio intitolato Red che comprende anche una sua personale versione di Free money di Patti Smith. È la prima di una lunga serie di esperienze discografiche che fanno di lui uno dei protagonisti dell’evoluzione del movimento hard e della nascita dell’heavy metal. In questo periodo è difficile seguire i cambiamenti interni alla band che l’accompagna, caratterizzata anche da frequenti litigi con relative scazzottature. Una delle formazioni più stabili è quella del 1979 che schiera, oltre al solito Billy Church, il chitarrista Gary Phil, il batterista Chuck Ruff e il tastierista Geof Workman. L’inizio degli anni Ottanta lo vede sempre impegnato a mantenere in vita la corrente più dura del rock. Nel 1983 partecipa alla realizzazione dello splendido Through the fire, un album considerato una sorta di manifesto generazionale della “vecchia guardia” del rock duro. Sono con lui Neal Schon, l’ex batterista dei Santana Mike Shrieve e Kenny Aaronson, ex bassista dei Dust. Il progetto, firmato semplicemente con la sigla H.S.A.S. non avrà seguito. Incuriosito come sempre dalle novità Sammy, nonostante il buon momento, accetta la proposta di sostituire nei Van Halen il cantante David Lee Roth che se n’è andato. Non sarà l’ultima esperienza del vagabondo rocker rosso che ben presto recupererà la sua autonomia in nuovi progetti solistici.

12 ottobre, 2023

12 ottobre 1968 - In Messico un pugno nero levato al cielo

Mentre il vento della contestazione soffia forte su tutto l'occidente il 12 ottobre 1968 a Città del Messico si aprono i Giochi Olimpici. C'è già chi li chiama le "Olimpiadi di sangue" perché la polizia e l’esercito hanno sparato sugli studenti disarmati che manifestavano in Piazza delle Tre Culture provocando decine di morti. Nonostante le richieste di annullamento o di spostamento dei giochi, alla fine non se n'è fatto niente. Con l’inizio della gare si pensa che la fase più critica sia ormai superata, ma non è così. Nel campus che ospita la squadra statunitense si possono ascoltare canzoni che non troppo in sintonia con l'ufficialità del momento, a partire dalla ormai famosa reinterpretazione acida dell'inno statunitense di Jimi Hendrix. Il bello deve ancora venire. Durante la premiazione dei 200 metri piani, infatti, Tommy "Jet" Smith e John Carlos, entrambi statunitensi ed entrambi neri, occupano il primo e terzo scalino del podio. Smith ha appena demolito il primato mondiale. Entrambi sono senza scarpe ed indossano calze nere, considerate "calze da ruffiano" nei ghetti. Quando gli altoparlanti dello stadio iniziano a diffondere le note dell'inno nazionale degli Stati Uniti Smith e Carlos reclinano la testa e alzano una mano chiusa a pugno e guantata di nero. Restano così per tutta la durata dell'inno. Spiegano poi che il loro gesto è un segno di ribellione. Dice Smith che «Nella vita ci sono cose più grandi dei record e delle medaglie» e Carlos aggiunge «Siamo stufi di essere cavalli da parata alle Olimpiadi e carne da cannone in Vietnam». I dirigenti statunitensi non apprezzano il gesto e li cacciano, ma il loro non resta un gesto isolato. Molti altri atleti di colore si schierano al loro fianco. Jim Hines, che nei 100 metri va sotto il limite dei 10'', non accetta di essere premiato dal Presidente del Comitato Olimpico Internazionale, mentre il nuovo recordman nel salto in lungo, Bob Beamon, si presenta sul podio scalzo e senza tuta.

11 ottobre, 2023

11 ottobre 1963 – L’usignolo di Francia vola via

L'11 ottobre 1963, Edith Piaf, l’usignolo di Francia, apre le ali e vola via. La notizia non arriva al mondo inaspettata. Da tempo il suo fragile corpo faceva fatica a contenere la sua corsa vitale e tutti se n'erano accorti quattro anni prima quando, sul palcoscenico del Waldorf Astoria di New York, era crollata priva di sensi prima della fine del concerto. Quel segnale non aveva trovato risposte. Lei non aveva mollato e, ancora all'inizio di quel tragico 1963, nonostante le precarie condizioni di salute, aveva voluto tenere un concerto all’Olympia programmato da tempo. L’ultimo. Sul palco tutti l’avevano vista curva, minuta, rinsecchita, con le dita rovinate dall’artrite. Solo il suo volto risaltava sotto le luci di scena bianco, pallido e segnato dal tempo e dai colpi del destino. Una madonnina dei dolori che era però scomparsa non appena la musica aveva cominciato a diffondersi per la sala. Quando aveva liberato la voce, la grottesca figurina si era dissolta lasciando il posto alla solita, grande, cantante. Poco tempo dopo era arrivato il ricovero in ospedale, l’inizio della fine. La sua voce si spegne ed Edith entra in uno strano mito fatto di leggende, memorie, testimonianze, tutte importanti, ma incapaci, da sole di spiegare un fascino che, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua scomparsa, colpisce ancora l'immaginario dei popoli d'Europa. E la risposta è forse in quella voce che riesce ancora ad accarezzare, ferire, accompagnare e far sognare. Lì c'è l'elemento centrale della sua grandezza artistica. La sua voce, infatti, è uno strumento di comunicazione. Nessuno prima di lei l'ha utilizzata così, con quella forza, con quella capacità di comunicare se stessa all'indistinto pubblico che ascolta. È unica nella sua capacità di trasmettere a così tante persone l’angoscia, la tristezza e la carica drammatica di un'esistenza vissuta come una corsa a ostacoli, ciascuno dei quali superato cedendo in cambio un pezzo di vita. Per questa ragione il concetto di versatilità vocale in Edith Piaf cambia significato. In lei non definisce la capacità di interpretare una pluralità di stili e generi o quella di reinventare e filtrare attraverso la sua personalità brani molto diversi fra loro. Per Edith la versatilità vocale è un concetto complesso, è la capacità di fare della voce uno strumento espressivo quasi teatrale. Si alimenta direttamente alla sfera dei sentimenti, a un aggrovigliato incrociarsi di pensieri, aspirazioni e tragedie personali. La duttilità della sua voce non è mai al servizio esclusivo degli autori delle canzoni, ma mette davanti a tutto la necessità di comunicare con il pubblico fino a travalicare, se necessario, anche il significato stesso delle parole, anche quando è lei stessa a scriverle. Fin dal suo primo apparire la critica, nel continuo e spesso eccessivo sforzo di catalogare tutto, inventa il termine di chanson intime per definire il genere da lei interpretato. La definizione è troppo riduttiva e parziale. Non riesce, infatti, a rendere efficacemente la capacità della voce di Edith di dare voce e musicalità diretta a quella gamma di sentimenti e sensazioni che fino a quel momento aveva trovato solo nella poesia la sua principale espressione. La voce, infatti, cambia in funzione delle emozioni che deve esprimere e talvolta anche all’interno dello stesso brano. Non a caso Jean Cocteau disse di lei: «Senza la voce di questa piccola cantante Parigi cesserebbe di essere Parigi. Sono proprio voci come questa che ne interpretano l’anima poetica». La forza principale di Edith è tutta nella sua voce profonda e capace di sfumature di grande drammaticità. A dispetto di tutte le sue imitatrici postume non tenta mai di catturare l’attenzione degli ascoltatori spingendo la potenza al limite delle sue capacità vocali, né cerca l’acuto da applauso. È più interessata all’aspetto espressivo, a comunicare direttamente con il cuore del pubblico. L’intensità per lei è più importante del vocalizzo. Non a caso irride i critici quando dice: «Il mio conservatorio è stato la strada. La strada è una buona scuola. È lì che ti danno il diploma di cantante. Il pubblico lo vedi. Ti sta davanti. Faccia a faccia. Senti il suo cuore battere, dice quello che pensa. Sai quello che gli piace e quello che non gli piace. E se per caso si commuove e piange è fatta. Puoi essere sicuro che la questua andrà bene». Non è una provocazione. Le sue radici sono dentro di lei e fanno parte della sua arte. Senza quelle radici non sarebbe quello che è. In più Edith era dotata di una buona tecnica vocale, appresa un po' sulle strade e un po' dai mille maestri che hanno attraversato la sua di strada. Nelle sue canzoni, nella sua stessa vita si ritrova, poi, un pezzo della cultura di quest'Europa che, a dispetto di chi ha come punto di riferimento il capitale e i banchieri, ha avuto momenti altissimi di cultura. La voce di Edith porta con sé gli echi della storia novecentesca, tormentata e drammatica di un continente ricco di conflitti, di slanci, di tragedie e segnato da due guerre devastanti. La sua stessa vicenda personale l'attraversa con rabbia e gioca, talvolta inconsciamente, a sfidare il potere. Dopo la promulgazione delle leggi razziali unisce la sua vita a quella del pianista ebreo Norbert Glanzberg e quando Broadway il pubblico la fischia apre le porte della sua camera d’albergo soltanto a Longuet, l’inviato di “Ce soir”, un quotidiano dell’area comunista. Il ricordo della Piaf appartiene alla strada, ai popoli della notte, a quella sterminata umanità che non la tradisce e non l'abbandona neppure di fronte all'ineluttabilità della morte. È questo il segreto di un'immortalità che non si alimenta di certezze, ma neppure di rimpianti o, peggio, di tardive abiure e pentimenti. Ciò che è stato e stato ed è importante proprio perché è parte di quello che si è oggi. Per questo, oggi come allora, la sua voce ci ricorda che: «Je ne regrette rien…».


10 ottobre, 2023

10 ottobre 1979 – La prima di “The Rose”, un film moralista

Il 10 ottobre 1979 a Los Angeles viene presentato in prima visione mondiale “The Rose”, un film diretto da Mark Rydell destinato a suscitare più di una perplessità. Annunciato da una colossale campagna promozionale il lungometraggio racconta gli ultimi cinque giorni di vita di una rockstar che muore per overdose nella quale è facilmente riconoscibile il personaggio di Janis Joplin. L’evento è tra i più attesi della stagione non solo per l’argomento ma anche perché segna il debutto cinematografico da protagonista della cantante Bette Midler. La affiancano il navigato Alan Bates nel ruolo del manager e un sorprendente Frederic Forrest. Nelle dichiarazioni che precedono la proiezione il regista ha parlato di un’opera impegnativa nella quale il personaggio principale viene visto con grande rispetto. Le schede diffuse dalla casa produttrice descrivono l’opera come “un grande affresco del mondo del rock negli anni Sessanta”. Le anticipazioni hanno contribuito a creare l’attesa giusta per cui alla prima proiezione pubblica del film sono presenti oltre che i principali critici cinematografici anche gran parte degli inviati delle maggiori testate musicali. Mentre sullo schermo scorrono le splendide immagini curate dal direttore della fotografia Vilmos Zsigmond in sala si percepiscono due atteggiamenti decisamente diversi. Se i critici cinematografici sembrano esprimere una soddisfazione di massima, più perplessi appaiono i giornalisti musicali. Un grande applauso accoglie la fine della proiezione e il regista rinvia ogni commento alla successiva conferenza stampa che si apre con i ringraziamenti e le impressioni di una emozionata Bette Midler. La serata sembra scorrere via liscia con i critici cinematografici che danno un giudizio sostanzialmente positivo del film riservando qualche appunto soltanto alla interpretazione di Alan Bates, ritenuta leggermente al di sotto del suo standard abituale. Improvvisamente, però, dal settore riservato ai giornalisti musicali si alza, chiara e forte, una voce: «Questo film è ambiguo e fastidioso. Fin dall’inizio traspare un solo obiettivo: la condanna moralistica del rock e degli anni Sessanta». La guerra è dichiarata. Gran parte della stampa musicale considererà per sempre “The Rose” un tentativo di rileggere in senso reazionario un pezzo di storia del rock degli anni Sessanta.


09 ottobre, 2023

9 ottobre 1982 - I Bauhaus, ovvero quando il successo fa male

Il 9 ottobre 1982 i Bauhaus entrano nella classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna con la loro versione di Ziggy Stardust, un successo di David Bowie inserito nell’album The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. La band formata a Northampton dai fratelli Kevin e David Jay Haskins, rispettivamente batterista e bassista, con il chitarrista Daniel Ash e il cantante Peter Murphy, che sembrava destinata a restare un gruppo di culto per una fedele ma ristretta nicchia di appassionati del dark, inizia a conquistare una popolarità ogni giorno più vasta. Quasi contemporaneamente alla pubblicazione del singolo la loro etichetta Beggars Banquet mette sul mercato anche l'album The sky's gone out. Il buon momento del gruppo è dovuto anche a una serie di coincidenze fortunate quali la partecipazione del magnetico cantante Peter Murphy ad alcuni spot pubblicitari della Maxell nei quali è disteso in poltrona mentre, impassibile, fra vento e lampi, ascolta le note diffuse da un potente impianto hi-fi. In più nello stesso periodo arriva sugli schermi anche il film "Miriam si sveglia a mezzanotte", una storia di vampiri ambientata a New York e interpretata da Catherine Deneuve e David Bowie, che vede tutta la band comparire sullo schermo negli agghiaccianti minuti iniziali per interpretare il tenebroso brano Bela Lugosi's dead. I quattro arrivano così al successo, ma paradossalmente iniziano anche a coltivare i germi della crisi. Il loro pubblico più fedele e quella parte di critica che li aveva seguiti con simpatia li attacca spietatamente per le eccessive concessioni commerciali. Inizia così per la band un periodo burrascoso e teso che culminerà un anno dopo nella sua dissoluzione. Lo stesso Peter Murphy qualche tempo dopo tenterà di dare una personale rilettura di quel periodo «Stavamo andando verso una edonistica ricerca di celebrità e l'energia che riuscivamo a sprigionare ha finito per abbattersi su noi stessi»

08 ottobre, 2023

8 ottobre 1969 – Kokomo Arnold, l’uomo che lasciò il blues per fare l’operaio

L’8 ottobre 1969 muore Kokomo Arnold uno dei personaggi leggendari del blues. Nato a Lovejoys Station, in Georgia, il 15 febbraio 1901 James Arnold, questo è il suo vero nome, è considerato il maestro del knife style. Che cos’è? È una specie di suono molto vibrato, come una lama di coltello, che si adegua alle caratteristiche della voce del cantante, spesso utilizzato come un mormorio che si unisce allo strumento. Kokomo impara a suonare la chitarra da suo cugino James Wiggs e nel 1919, quando ha diciotto anni, fa il manovale in un'acciaieria di Buffalo, nello stato di New York, poiché il lavoro di bluesman non gli consente di sopravvivere. Nel 1924 lascia la fabbrica e comincia a girare per gli Stati Uniti da Pittsburgh a Gary poi più giù verso il delta del Mississippi, una regione che respira blues nella quale si trova da Dio. Segnalato da Joe McCoy, Kokomo nel 1934 viene scritturato dalla Decca e ottiene un notevole successo con un brano, Milk cow blues, in cui ha la possibilità di evidenziare il suo stile molto personale alla chitarra. Nel suo vagabondaggio raggiunge più di una volta Chicago, punto di riferimento d’obbligo dei bluesmen e si esibisce al anche al famoso 33rd Street Club. Di punto in bianco si stanca di questa vita, molla tutta e torna a lavorare nelle acciaierie. Rintracciato nel 1959 dai ricercatori Jacques Demetre e Marcel Chauvard viene sollecitato a riprendere la sua attività di cantante ma lui non se la sente più. L’ostinato rifiuto a tornare sulla strada del blues ha contribuito a ingigantirne la leggenda.

07 ottobre, 2023

7 ottobre 1951 – John Mellencamp, il giaguaro del rock proletario

Il 7 ottobre 1951 nasce a Seymour nell’Indiana John “Cougar” Mellencamp considerato, insieme a Bruce Springsteen, una delle bandiere di quel rock proletario che nasce nella provincia degli States lontano dalle grandi città. Ancora adolescente suona con varie band e colleziona anche un clamoroso "esonero" da parte dei Banana Barn, che l'accusano di non saper cantare. Per tirare avanti si accontenta dei lavori che riesce a trovare, dal tecnico telefonico, all'impiegato in una stazione radio, per citare soltanto quelli meno faticosi. Nel 1973 con l'amico Larry Crane forma i Trash e scrive le prime canzoni. Decide, quindi, di tentare la fortuna andando a New York accompagnato da un nastrino con i suoi brani. Qui incontra Tony DeFries, in quel periodo manager di David Bowie. È lui che colpito da quel tipetto tosto gli inventa il nome d’arte di “Cougar” (giaguaro) e vuole farne un nuovo idolo per le adolescenti tutta immagine e niente sostanza. L’idea si rivela fiacca come l’album Chesnut street incident, pubblicato nel 1976 e subito dimenticato. Chiusa la parentesi newyorchese il ragazzo pensa di tornare a suonare nei club della sua provincia. Il suo personaggio però non è passato inosservato. Trova un aiuto inaspettato in Billy Gaff, allora manager di Rod Stewart che, senza fretta, lo guida nella scalata al successo. Dopo un disco interlocutorio centra il primo importante risultato nel 1979 con John Cougar un album che contiene il brano I need a lover, che diventa un successo mondiale nella versione di Pat Benatar. La consacrazione definitiva arriverà un paio d’anni dopo con American fool che oltre a diventare il disco più venduto dell'anno gli varrà anche la conquista del suo primo Grammy Award. A partire dal 1983 butterà alle ortiche quel nome d’arte che non gli è mai piaciuto e si firmerà semplicemente John Mellencamp. Nonostante il successo non dimenticherà mai le sue origini proletarie, né riuscirà mai a integrarsi perfettamente nelle convulsa vita delle grandi città. Nel 1985 sarà tra gli organizzatori, con Neil Young e Willie Nelson, del “Farm Aid” un megaconcerto per aiutare le popolazioni rurali degli Stati Uniti, colpite da una grave crisi e alla fine del 1988 parteciperà con altri personaggi del rock, al Concerto in memoria di Woody Guthrie e Leadbelly.

06 ottobre, 2023

6 ottobre 1913 – C'è Carmen alla chitarra

Il 6 ottobre 1913 nasce a Cohoes, New York, il chitarrista Carmen Nicholas Mastren. I suoi fratelli Al, John, Frank ed Eddie sono musicisti e anche per lui si prospetta la strada degli studi musicali. Spinto più dalle esigenze dell'orchestra famigliare che da una vera e propria inclinazione per lo strumento inizia a studiare il violino, ma ben presto passa ad altri strumenti a corde che gli piacciono di più: il banjo e la chitarra. Nel 1935 quando ha ventidue anni decide che non può restare per sempre prigioniero delle scelte musicali dei fratelli. Affrontando l'inevitabile indignazione famigliare se ne va ed entra a far parte come chitarrista acustico del quartetto di Wingy Manone con cui resta fino al mese di gennaio del 1936. Di quel periodo resta testimonianza nelle famose registrazioni in studio effettuate dal gruppo per la casa discografica Vocalion. Passa poi con la big band di Tommy Dorsey, che sta attraversando un momento di grande popolarità. Con l'ensemble di Dorsey gira in lungo e in largo gli Stati Uniti suonando nei più importanti locali dell'epoca e divenendo famosissimo. Non estranee alla sua popolarità sono anche le numerose registrazioni effettuate con la big band per la Victor. All'apice del successo nell’estate del 1940 lascia Dorsey ed entra a far parte dei Delta Four di Joe Marsala. La sua perenne voglia di cambiare non gli dà tregua. Dopo poco meno di un anno se ne va e nell’autunno del 1941 suona per un breve periodo con l’orchestra di Ernie Holst, che lascia per entrare in quella dell'NBC. Qui sembra finalmente aver trovato terra ferma, ma il destino ha in serbo nuove sorprese. C'è la guerra. Nel 1943 viene richiamato sotto le armi e utilizzato da Glenn Miller nella sua Air Force Band. Alla fine del 1945 rientra a New York, ma la sua attenzione sembra essere più orientata alla direzione d'orchestra e alla composizione. Scopre anche che la musica leggera può dargli maggior soddisfazioni economiche e trascura progressivamente il jazz. A partire dal 1953 accetta l'incarico di compositore e arrangiatore al servizio dell’orchestra dell'NBC. Non si muoverà più di lì fino al 1970 quando, a cinquantasette anni, cambierà di nuovo impostazione alla sua vita mettendosi in proprio. Nella storia del jazz il suo apporto resta, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta, quello di uno dei maggiori e più significativi chitarristi acustici, ideale continuatore della strada tracciata da Eddie Lang e Dick McDonough. Muore il 31 marzo 1981.


05 ottobre, 2023

5 ottobre 1973 – La sorprendente vitalità di Alvin Stardust

Il 5 ottobre 1973 viene pubblicato in Gran Bretagna il singolo My coo ca choo, un brano scatenato e divertente in linea con il glam rock che in quel periodo fa impazzire i giovanissimi consumatori di musica di quel paese. I teen-ager britannici lo accolgono entusiasticamente e in breve tempo lo portano ai vertici della classifica dei dischi più venduti. C’è, però, un giallo legato all’identità dell’interprete. La copertina del disco attribuisce l’esecuzione a un certo Alvin Stardust, un nome che nessuno ha mai sentito e di cui nessuno sa nulla. Per un po’ i giornali si divertono a ipotizzarne l’identità immaginando che si tratti dell’avventura solistica del cantante di uno dei tanti gruppi glam del periodo, finché la verità viene a galla. In realtà dietro allo pseudonimo si cela il ritorno sulle scene di un adolescente di… trentun anni. È Bernard Jewry, che, con il nome di Shane Fenton era stato, insieme al suo gruppo, i Fentones, uno dei principali esponenti del rock and roll britannico prima del ciclone Beatles. La rivelazione preoccupa non poco i dirigenti della sua casa discografica, perché temono che l’età di Alvin Stardust possa comprometterne l’immagine e la popolarità presso il pubblico dei più giovani. I timori non sono infondati. La moda del glam, fatta di brani dalla grande cantabilità e dai testi disimpegnati, è soprattutto una scelta generazionale che contrappone i gusti degli adolescenti al rock più impegnato e concettuale dei loro fratelli maggiori. Il meno preoccupato è lui. «Perché dovrei? A parte l’età, cosa mi divide da gruppi come gli Slade o gli Sweet? Il glam segna il ritorno del rock al divertimento puro, senza ideologie e senza tante complicazioni. Io sono così». Non ha torto. Per un paio d’anni quell’adolescente un po’ stagionato dominerà le classifiche di vendita, ma poi i suoi giovani fans cresceranno e con la crisi del glam dovrà rassegnarsi a tornare nell'ombra. La sua storia, però, non finirà lì. Nel 1981 l’etichetta alternativa Stiff, incuriosita dalla storia di questo strano dinosauro del rock britannico, lo richiamerà in servizio. Per la terza volta in vent'anni Bernard Jewry, ancora con il nome di Alvin Stardust, tornerà al successo con una serie di brani come Pretend, I feel like Buddy Holly e I wan't run away ispirati al rock and roll delle origini.

04 ottobre, 2023

4 ottobre 1987 – Ian Anderson, professione musicista

Il 4 ottobre 1987 inizia a Edimburgo, in Scozia, un nuovo tour mondiale dei Jethro Tull. A dispetto di chi periodicamente la relega nel museo dei dinosauri del rock progressivo, la band sta vivendo l'ennesima nuova primavera della sua carriera. Il nuovo punto di svolta è segnato dalla pubblicazione dell’album Crest of a knave, accolto con entusiasmo dal pubblico e con una certa stupita meraviglia da parte della critica. L'unico a mantenere un ironico distacco è il flautista Ian Anderson, leader storico, l'anima e il simbolo dei Jethro Tull. L'occasione della partenza del tour fa convergere su Edimburgo un gran numero di giornalisti musicali interessati ad approfondire l'analisi di una band che pare avere sette vite come i gatti. Proprio Ian Anderson si accolla il compito di fare gli onori di casa. La conferenza stampa dopo i preliminari di rito assume ben presto i toni della chiacchierata tra amici. Il flautista non pare eccessivamente stupito dal "miracolo" del rinnovato successo del suo gruppo, anzi spiega di averlo ampiamente previsto: «Le mode sono una delle cose più precarie che conosco, vanno e vengono in un ciclo continuo, si alternano e quelle passate prima o poi finiscono per tornare. Così se tu sei un musicista e hai la costanza di non smettere di suonare e di continuare a comporre, vedrai che è solo questione di pazienza e di tempo. Non hai bisogno né di cambiare il tuo modo di vestire, né di tagliare la barba, e nemmeno di modificare la tua musica perché arriverà un giorno in cui tu sarai di nuovo di moda». Il vecchio leone si sente un po' a disagio nell'affrontare le solite domande banali che si fanno in occasioni simili. Alterna risposte serie a battute ironiche con l'aria di chi ne ha già viste di tutti i colori. Sa per esperienza che l'ambiente è quello, con le sue regole un po' rituali e un po' sciocche. Al termine si alza e si avvia verso l'uscita della sala dove si è svolta l'improvvisata conferenza stampa. Proprio sulla porta viene raggiunto da una giornalista giovanissima. La ragazza gli confessa di non sapere niente di lui, ma di essere stata affascinata dalla sua storia. Gli domanda poi come abbia potuto resistere per tanti anni all'indifferenza dell'ambiente e alla fine del progressive. Ian Anderson risponde: «Ho deciso che era il caso di continuare un po’ per passione e un po’ perché avevo il dovere di giustificare i miei documenti d'identità che, sotto la voce "Professione" riportano la scritta "Musicista"».

03 ottobre, 2023

3 ottobre 1976 - Victoria Spivey, la Regina del blues

Il 3 ottobre 1976 muore a settant’anni in un ospedale di Brooklyn la cantante blues Victoria Spivey, da tutti soprannominata "Queen" (regina). Nata a Houston, nel Texas per più di cinquant'anni ha attraversato da protagonista la scena blues statunitense. È ancora bambina quando comincia a girare cantando e a recitando negli spettacoli ambulanti che percorrono il classico circuito dei teatri neri del Sud degli Stati Uniti in città come St. Louis, Memphis e la natìa Houston. Nel 1926, a soli sedici anni, compone un brano che le dà la popolarità. È Black Snake Moan, oggi divenuto un classico del blues di tutti i tempi. Quando la crisi del 1929 e la conseguente depressione colpiscono pesantemente la popolazione nera del suo paese lei, che in quel periodo ha diciannove anni, cerca di interpretarne i sentimenti, la rabbia e la voglia di riscatto. Il suo stile fa più aggressivo e si libera delle influenze gioiose del vaudeville, che fino a quel momento l'avevano caratterizzato. Il risultato è sorprendente e al suo fianco si schierano alcuni dei migliori jazzisti di quel periodo, da Louis Armstrong, a Henry Allen, a Lonnie Johnson, a Tampa Red. Scrive e interpreta canzoni che parlano al cuore della sua gente. I suoi testi sono crudi e immediati. La voce acida, tagliente, sarcastica, amara e disincantata narra storie di suicidi, di malattie, d'emarginazione, di sesso disperato, di violenze razziali, di stanze umide e sottoscala in cui vive un'umanità consolata soltanto dall'alcol e dalla droga. A partire dagli anni Cinquanta riduce la sua attività musicale per dedicarsi quasi a tempo pieno a una delle tante strutture di assistenza per i poveri e gli emarginati messe in piedi da una comunità ecclesiale. Saltuariamente torna in concerto o in sala d'incisione per regalare gli ultimi gioielli di una carriera intensa e ricca di tensione. Negli ultimi anni di vita le sue capacità vocali si riducono con l'affievolirsi della limpidezza sui toni alti.

02 ottobre, 2023

2 ottobre 1982 - I Musical Youth anticipano l'era delle boyband


Il 2 ottobre 1982 il brano Pass the dutchie arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna. Ne sono interpreti i Musical Youth, una band formata nel 1980 da Freddie Waite, un cantante giamaicano protagonista negli anni Sessanta di una breve stagione di popolarità. I Musical Youth degli inizi sono composti da lui stesso, dai suoi due giovani figli, il tredicenne Junior e il dodicenne Patrick, con l'aggiunta di un altro paio di musicisti-bambini: i due fratelli Kelvin e Michael Grant (il primo ha nove anni e il secondo undici). È difficile dire se l'intenzione di Freddie Waite fosse davvero quella di mettere in piedi quella che oggi si chiamerebbe "boyband" o se, invece, egli pensasse soltanto di divertirsi con i suoi figli e un paio di loro amici. Indipendentemente dalla volontà iniziale, però, la carriera dei Musical Youth prende ben presto a correre velocemente. Dalle feste tra amici la band passa rapidamente ai concerti veri e propri mentre le case discografiche iniziano a proporre contratti. Rendendosi conto che il gioco sta diventando serio, Freddie si tira da parte e lascia il suo posto al tredicenne Dennis Michael Seaton. Per sé riserva il ruolo di manager, produttore, autore e consigliere, mettendo a frutto l'esperienza nel settore. Da vecchia volpe qual è resiste per oltre un anno alle sirene dei discografici e accetta di lasciar entrare in sala di registrazione i suoi ragazzi soltanto quando ha sistemato in modo accettabile il loro repertorio. Nasce così il successo dell'album Musical Youth da cui viene estratto il singolo Pass the dutchie, campione di vendite per un lungo periodo. La loro buona stella sembra destinata a non spegnersi più. Come tutti i gruppi adolescenziali hanno però un difetto: i componenti crescono. Una boyband invecchiata non interessa più. Accade così anche ai Musical Youth la cui avventura si concluderà poco dopo la pubblicazione nel 1983 dell'album Different style.

01 ottobre, 2023

1° ottobre 1950 – In Italia la radio si fa in tre

Il 1° ottobre 1950 nasce il terzo programma radiofonico della Rai. Da tempo una lunga serie di intellettuali e uomini di cultura premevano perché il servizio pubblico radiofonico qualificasse maggiormente i contenuti della sua programmazione. L’obiezione degli esperti delle comunicazioni di massa è però stata a lungo quella di far presente che la radio si rivolge a un pubblico estremamente eterogeneo e costituisce spesso l’unica fonte di informazioni e il principale elemento di svago per gran parte della popolazione italiana. Per questa ragione sia nel linguaggio che nelle scelte di programmazione in teoria si dovrebbero fare scelte che si rivolgano a tutta la popolazione. Il succo delle obiezioni era: «Non si può fare una radio per pochi eletti». In parte era vero ma i sostenitori di una decisa riqualificazione della programmazione radiofonica ritenevano che non si potesse nemmeno pensare di relegare cultura e musica “colta” in orari impossibili e in spazi angusti per sempre. La “querelle” trova, infine, una soluzione con un nuovo canale. Il 1° ottobre 1950, quindi, iniziano le trasmissioni del Terzo programma radiofonico della RAI, caratterizzato da un deciso indirizzo culturale e dalla programmazione di musiche diverse da quella cosiddetta “leggera”. Gli unici scontenti restano gli appassionati di jazz che lamentano come il loro genere preferito, che già trovava poco spazio nei due programmi tradizionali, finisca per essere trascurato anche dal Terzo a favore della musica classica e di quella da camera.

30 settembre, 2023

30 settembre 1978 – Per Beryl Booker il cuore vale di più del rigo musicale

Il 30 settembre 1978 muore d’infarto a Berkeley, in California, la pianista Beryl Booker. Ha cinquantasei anni ed è nata a Philadelphia, in Pennsylvania. Personaggio di spicco dell'ambiente jazzistico statunitense non ha mai imparato né a leggere, né tantomeno a scrivere la musica. Di questa sua "ignoranza" musicale ha fatto quasi una bandiera e a chi gli domandava perché non si fosse mai applicata a studiare rispondeva: «Per suonare ci vuole il cuore, non il rigo musicale. Vale di più e il pubblico se ne accorge». Quando inizia le donne strumentiste che suonino al di fuori dalla musica classica sono una rarità negli Stati Uniti, figurarsi quelle che si dedicano al jazz. Con il suo piglio deciso suona a lungo nelle varie band della sua città fino a quando decide che per poter suonare quello che le piace è necessario liberarsi dei capi-orchestra maschi. Detto e fatto, un bel giorno forma una band tutta sua recuperando vari musicisti rimasti disoccupati. La Beryl Booker Band resiste fino al 1946 quando, lusingata dall'offerta, accetta di trasferirsi a New York per entrare a far parte del trio di Slam Stewart. Nonostante il suo caratteraccio rimane fedele a Stewart, sia pur con qualche parentesi solista, fino al 1951 quando può eliminare del tutto gli uomini dalla sua vita artistica diventando la pianista della grande Dinah Washington che segue fino nella lontana Europa. Nel 1953, consapevole di dover più dimostrare niente a nessuno, lascia anche la sua amica Dinah e realizza il sogno di formare un trio jazz interamente composto da donne con la batterista Elaine Leighton e la contrabbassista Bonnie Wetzel. L'anno dopo le tre jazziste lasciano gli Stati Uniti e si trasferiscono in Europa al seguito del Jazz Club USA, una compagnia d musicisti che si esibisce in quasi tutte le principali piazze del Vecchio Continente. Quando il trio si scioglie Beryl rallenta l'attività senza rinunciare a qualche concerto e a registrare alcuni dischi. Sostiene che l'ambiente non la stimola più e rifiuta interessanti proposte da alcuni tra i migliori jazzisti di quel periodo. Recede da questo suo atteggiamento soltanto quando a chiamarla è il suo vecchio amico Don Byas, con il quale negli anni Sessanta registra molte pagine interessanti, dimostrando che il suo talento non si è appannato con il passare del tempo. La morte la sorprende in California dove s'è trasferita all'inizio degli anni Settanta quando proprio il cuore ha cominciato a darle i primi problemi.

29 settembre, 2023

29 settembre 1947 - Chano Pozo incanta Dizzy

Il 29 settembre 1947 l'orchestra di Dizzy Gillespie suona alla Carnegie Hall di New York. Per l'occasione schiera in formazione un nuovo percussionista. È il cubano Chano Pozo, un tipo di cui si dice un gran bene, da poco arrivato a New York. Il grande Gillespie ha scelto proprio la serata alla Carnegie Hall per provarlo e Pozo non delude le attese: quando l'orchestra lancia l'assolo di percussioni la sua conga diventa una magica macchina da ritmo capace di incollare gli spettatori alle sedie per ben trenta minuti. Un applauso scrosciante festeggia la nascita di un nuovo idolo del difficile pubblico newyorkese. Al termine del concerto lo stesso Dizzy, uno che se ne intende e non si lascia facilmente entusiasmare non può trattenersi dal dichiarare che Chano Pozo «È il più grande batterista che abbia mai ascoltato». Chi è in realtà questo strano personaggio e da dove arriva? Chano Pozo, all'anagrafe Luciano Pozo y Gonzales, nasce all'Avana, Cuba, nel 1915. Di lui non si sa molto, a parte la sua passione per la ritmica di derivazione africana. Animatore sulla sua isola dei lunghi e fantastici festeggiamenti del "mardi gras", non nasconde la sua appartenenza alla corrente religiosa Abakwa in cui l'animismo africano si mescola alle suggestioni magiche di un cristianesimo nero. In più studia a fondo la musica africana e i suoi ritmi trasferendo le esperienze nel jazz e nella musica orchestrale in genere. Sregolato protagonista delle notti cubane diventa ricco componendo due brani di successo, El pin pin e Nague, ma non cambia stile di vita. Quando, proprio nel 1947, lascia l'Avana per New York, è reduce da una lunga degenza in ospedale dopo una misteriosa aggressione a colpi di pistola. Se ne va per paura, ma anche perché lo attraggono le influenze afro-cubane che stanno dando nuovi colori al bop. New York non gli salverà la vita. Cinque mesi dopo il concerto alla Carnegie Hall verrà ferito mortalmente a revolverate nel Rio Cafè di Harlem.

28 settembre, 2023

28 settembre 1953 - L'eclettico Jim Diamond

Il 28 settembre 1953 nasce a Glasgow, in Scozia, Jim Diamond, uno dei più eclettici e sorprendenti personaggi del rock degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta. Scopre la musica grazie al fratello maggiore, Lawrence, batterista e a sedici anni è già musicista a tempo pieno. Nel 1975 entra per la prima volta in uno studio di registrazione con i Bradley e due anni dopo pubblica l'album Bandit con la band omonima, in quel periodo composta, oltre che da lui, dal chitarrista James Litherland, dal bassista Cliff Williams e dal batterista Graham Bond. Successivamente canta nella band di Alexis Korner, con cui realizza nel 1978 l'album Just easy poi cambia paese e stile. Se ne va a Los Angeles, dall'altra parte dell'oceano, per formare un gruppo heavy con Carmine Appice, ex batterista dei Vanilla Fudge e di Rod Stewart, e con Earl Slick, ex chitarrista di David Bowie. All'inizio degli anni Ottanta torna in Gran Bretagna deciso a impegnarsi solo nella composizione e nella produzione. Se ne sta tranquillo per poco. Nel 1982, infatti, forma il duo dei PhD con il tastierista Tony Hymas, pubblicando un album e un paio di singoli di successo. La sua proverbiale irrequietezza non gli consente di godere a lungo dei risultati raggiunti. Colpito da un'epatite che lo costringe a cancellare il tour promozionale dell'album Is it safe? scioglie i PhD e decide di continuare da solo. In due anni raggiunge i migliori risultati di tutta la sua carriera. Nel 1984 pubblica l'album Double crossed e arriva al vertice della classifica britannica con il singolo I should have know better, confermandosi l'anno dopo con Hi-ho silver. Sempre nel 1986 partecipa al progetto dei Crowd, un gruppo di cinquanta popolari musicisti riunitisi per incidere il brano You'll never walk alone il cui ricavato va alle famiglie degli spettatori morti nel 1985 nello stadio di Bradford. È l'ultimo vero sussulto. Da quel momento preferisce continuare come autore e produttore con qualche ritorno senza troppe ambizioni. Muore a Londra l'8 ottobre 2015.





27 settembre, 2023

27 settembre 1965 - Harry Reser, protagonista del Novelty

Il 27 settembre 1965 muore a sessantacinque anni Harry Reser. Da tempo il suo nome non compare più neppure nelle note minori delle riviste dedicate al jazz. Dagli anni Quaranta si è ritirato abbandonando una scena musicale che l'aveva visto spesso protagonista. Per lui i generi musicali non hanno mai avuto senso. Gli interessa soltanto poter suonare, sempre e comunque. Virtuoso di banjo e chitarra finisce per diventare popolarissimo in quello stile della musica popolare e da ballo affermatosi negli anni Venti e passato alla storia con il nome di "novelty ragtime". Sono brani allegri, spesso caotici e volutamente comici la cui struttura deriva dal ragtime classico. I loro accordi bizzarri e dissonanti sono scanditi su tempi che spesso diventano rapidissimi nel corso dell'esecuzione. Hanno un solo scopo dichiarato: quello di divertire il pubblico e farlo ballare senza pensieri. Scritti per band piccolissime prevedono a volte l'utilizzo di suoni "spuri" come clacson, spari, ecc. È facile immaginarsi perché Reser con le sue mani che corrono velocissime sulle corde degli strumenti finisca per diventarne un esponente-simbolo. La leggerezza resta una caratteristica delle sue esecuzioni anche quando si trova a dirigere il Clicquot Club Eskimos, una band di stile semi-hot che ottiene uno strepitoso successo con i suoi concerti radiofonici. Negli anni Trenta proprio come direttore d'orchestra alleva amorosamente il talento di un gran numero di musicisti destinati a lasciare un segno nella storia del jazz come Joe Venuti, Earl Oliver, Red Nichols e Joe Tarto. Nel 1935 ha anche il privilegio di poter disporre di uno show radiofonico che porta il suo nome. Nel dopoguerra i primi acciacchi e i mutamenti veloci nella scena musicale lo convincono a gettare la spugna e ritirarsi. Di lui resta un'imponente discografia composta, oltre che dai dischi a suo nome, anche da un numero impressionante di lavori pubblicati sotto pseudonimi come The Bostonians, The Jazz Pilots, Okeh Syncopators, Seven Little Polar Bears, ecc.

26 settembre, 2023

26 settembre 1938 - Gianni Siviero, un cantautore senza schemi

Il 26 settembre 1938 nasce a Torino il cantautore Gianni Siviero, registrato all'anagrafe con il nome di Mario. All'inizio degli anni Sessanta si esibisce in pubblico cantando le sue canzoni dai testi fortemente politicizzati. Non è l'unico cantautore politico di quel periodo, ma certamente è uno dei più singolari. Insofferente, poco disposto alla mediazione, percorre l'intero decennio senza trovare nessuno disposto a pubblicare su disco le sue canzoni. L'assenza di produzione discografica non ne pregiudica la popolarità in anni in cui le feste politiche fioriscono come i "cento fiori" di tsedonghiana memoria. Di lui approfittano a piene mani tutti gli organizzatori di manifestazioni musicali "alternative". Non c'è festa, festival o raduno di lotta improvvisato cui non venga invitato a esibirsi "a prezzo politico". Lui accetta per una scelta di militanza e perché deve anche sopravvivere. Quando le logiche organizzative migliorano e i criteri si fanno più razionali, cioè quando finalmente si possono pagare un po' di più gli artisti, lui viene scartato. È una trappola implacabile che, per la verità, non colpisce solo Siviero ma moltissimi artisti militanti: se ci sono soldi si pagano gli altri non i compagni. Lui abbozza e tira avanti. Diventa uno dei primi soci del Club Tenco e nel 1970 pubblica un singolo che anticipa di due anni il suo primo, vero, album Gianni Siviero volume primo, insignito del Premio dalla critica discografica. Le sue storie di vita aspre e dure sono arrivate finalmente su disco. Nel 1974 anche il suo secondo lavoro Son sempre io la donna riceverà il Premio della critica discografica. Altri due album segneranno negli anni Settanta la sua presenza, tutt'altro che marginale, nella canzone politica italiana. All'alba del decennio seguente la situazione tornerà al punto di partenza: basta dischi perché la canzone politica non interessa più. Questa volta Siviero pur abituato alle ripartenze preferirà lasciar perdere. Pubblica vari libri e sceglie come unico punto di riferimento il suo sito ufficiale.

25 settembre, 2023

25 settembre 1955 – Buon compleanno Zucchero!

Il 25 settembre 1955 a Roncocesi, in provincia di Reggio Emilia, nasce Adelmo Fornaciari, destinato a grandi fortune artistiche con il nome di Zucchero. Quando, nel 1981, vince il Concorso per voci nuove di Castrocaro, Zucchero ha già alle spalle anni di oscuro lavoro in vari gruppi di musica da ballo. Partecipa poi alle edizioni del 1982 e del 1983 del Festival di Sanremo con due brani di stucchevole pop melodico come Una notte che vola via e Nuvola, non particolarmente brillanti né originali. L’inizio della sua metamorfosi artistica avviene nel 1985 con la presentazione proprio sul palcoscenico sanremese del brano Donne, accompagnato dalla Randy Jackson Band. Pur non particolarmente fortunata con le giurie, la canzone attira l’interesse di pubblico e critica sul lavoro del cantautore e sul suo album Zucchero & the Randy Jackson Band. L’anno dopo arriva anche il successo commerciale con Rispetto che prelude alla definitiva esplosione nel 1987 dell’album Blue's, che vende oltre un milione di copie e lo fa conoscere in tutto il mondo. Si apre così un periodo ricco di collaborazioni di prestigio con artisti di valore internazionale come Joe Cocker, Eric Clapton, Al Di Meola, Miles Davis, Rufus Thomas, Solomon Burke, Paul Young, Sting, i Queen e Luciano Pavarotti. Vari album milionari lo consacrano come uno dei più importanti interpreti della scena musicale internazionale, tanto da essere invitato nel 1992 al mega show in memoria di Freddy Mercury a Londra e, nel 1994, al remake del Festival di Woodstock.

24 settembre, 2023

24 settembre 1989 – Il battesimo del vento per i Groovers

La sera di mercoledì 24 settembre 1989 a Samarate, in provincia di Varese, sull’area dove si sta svolgendo l’annuale festa di Democrazia Proletaria tira un vento teso e freddo che spazza via l’odore dei cibi e non incoraggia l’afflusso della gente. L’aria crea problemi anche al gruppo che dovrebbe suonare, provocando strane vibrazioni nei microfoni e un fastidioso rumore di fondo. Sono quattro ragazzi al primo concerto, non hanno tecnici al loro servizio e devono arrangiarsi da soli. Il vento non li aiuta a trovare le giuste sonorità e ne ritarda il debutto. Poco importa, tanto non ci sono code di auto, né prevendite e nemmeno venditori di gadget per la giovane band formata dall’ex Stolen Cars Michele Anelli alla chitarra e alla voce dal chitarrista Leandro Spennacchi, dal bassista Francesco Bordin e dal batterista Marino Piombi. Sono stati invitati un po’ perché hanno insistito un po’ perché sono compagni ma soprattutto perché non costano quasi niente. Quando finalmente iniziano a suonare, in ritardo sull’orario previsto, davanti al palco ci sono un centinaio di spettatori infreddoliti, in gran parte amici, che applaudono con calore le note ispirate al classico blue-collar rock americano. «Sono bravini», è il commento dei più esperti. Nessuno dei presenti, né i ragazzi del gruppo, né gli spettatori ha l’impressione di vivere un evento particolare. Eppure proprio in quella fredda serata di Samarate inizia la storia dei Groovers, la band che otto anni dopo, nel 1997, verrà indicata da vari giornalisti come il miglior gruppo italiano in assoluto. Ai quattro strumentisti del debutto si aggiunge di lì a poco il tastierista Paolo “Dom” Montanari, che insieme a Michele Anelli sopravviverà ai numerosi cambiamenti di formazione del gruppo salvo far finta di andarsene (almeno negli spettacoli dal vivo) con il nuovo millennio. I testi dei loro brani, in inglese, contribuiscono ad allargarne la popolarità anche al di fuori dell’Italia, in Spagna, in Belgio e, soprattutto, negli Stati Uniti, dove nel 1995 mixano Soul street, il loro secondo album. Realizzato in gran parte ad Austin, in Texas, il disco contiene anche la cruda Another song for America, una poesia di Lance Henderson musicata da Anelli che compare in copertina indossando una t-shirt con i colori della bandiera del Vietnam. La band continua con numerosi cambi di formazione fino al 2009, anno in cui chiude (per sempre?) la sua storia.