23 ottobre, 2023

23 ottobre 1940 – Edson Arantes Do Nascimento, in arte Pelè

Il 23 ottobre 1940 a Tres Corações in Brasile nasce un bambino che viene registrato all’anagrafe con il nome di Edson Arantes Do Nascimento e che tutto il mondo conoscerà con il nome di Pelé. Lui stesso racconta di chiamarsi Edson in onore di Thomas Alva Edison e di non aver mai apprezzato particolarmente il nomignolo di Pelé. Nonostante le sue personali preferenze resta nella storia dello sport e del costume proprio con questo appellativo di due sole sillabe regalatogli da un compagno di scuola e di giochi quando era ancora un ragazzino e rimastogli appiccicato per tutta la vita. Talento naturale viene scoperto all'età di 11 anni dall'ex giocatore della nazionale brasiliana Waldemar de Brito che lo segue e si incarica di trovargli una collocazione. Quando entra a far parte della prestigiosa formazione del Santos ha soltanto quindici anni e non ne ha ancora compiuti sedici quando, nel mese di settembre del 1956, debutta contro il Corinthians segnando un gol. Due anni dopo i mondiali di Svezia lo consacrano tra gli dei del calcio mondiale. La fortuna non l’assiste quattro anni dopo, ai Mondiali del Cile del 1962. Attesissimo e in gran forma si fa male nel primo incontro e chiude lì la sua avventura. I suoi compagni vincono di nuovo il titolo ma lui deve accontentarsi di entrare nell’albo d’oro della manifestazione senza mai alzarsi dalla panchina. Il destino sembra prendersi gioco di lui anche nei mondiali del 1966 quando, colpito a uno stinco nel corso della terza partita contro il Portogallo deve uscire dal campo in barella e assistere al resto degli incontri dalla panchina. Questa volta, però, il tormento dura poco perché il Brasile viene rapidamente eliminato. Per rivedere il suo genio calcistico all’opera nella più grande e importante competizione internazionale di calcio si dovrà attendere Messico 1970 quando ormai trentenne, assistito dalla giovanile esuberanza di Jairzinho, Tostao, Rivelino e Carlos Alberto darà al mondo una serie di prove delle sue straordinarie qualità In quello che passerà alla storia come il primo Mondiale di calcio trasmesso a colori (anche se in Italia lo si vedrà ancora in bianco e nero) Pelé regala almeno tre perle rimaste negli annuari del calcio spettacolo. La prima è il tentativo di colpire la Cecoslovacchi con un pallonetto da metà campo, la seconda il colpo di testa contro l’Inghilterra impossibile per posizione e per dinamica cui risponde con una parata-capolavoro il portiere inglese Gordon Banks. Terza, ma soltanto in ordine di tempo, è la finta con la quale lascia scorrere il pallone oltre il portiere dell'Uruguay uscito fuori area, per poi recuperarlo e tirare verso la porta mancandola di un soffio. Nella finale contro l’Italia realizza il centesimo gol del Brasile in un Mondiale con un colpo di testa dopo essere stato sospeso in aria per un’eternità. Tarcisio Burgnich, il difensore italiano che ha l’ingrato compito di marcarlo, non si dimenticherà più quella giornata: «Prima della partita mi ripetevo che era un uomo di carne e ossa come me e come tutti gli altri, ma sbagliavo». Il Brasile vince il titolo e Pelé entra definitivamente nella leggenda. Il giorno dopo la finale sulla prima pagina del Sunday Times c’è scritto: «Come si scrive Pelé? D-I-O». Nel 1974 Pelé annuncia il suo abbandono del campo da gioco, ma non è vero. Un anno dopo accetta di andare a giocare nei Cosmos di New York «per portare il gioco più diffuso al mondo al pubblico nordamericano». L’esperienza si rivela molto remunerativa ma non ottiene i risultati sperati sul piano sportivo per cui appende definitivamente le scarpe al chiodo nel 1977 dopo aver realizzato 1.281 gol, un record insuperato che fa di lui il più grande cannoniere della storia del calcio. Muore il 29 dicembre 2022.




22 ottobre, 2023

22 ottobre 1958 - La prima volta di "Canzonissima"


Il 22 ottobre 1958 va in onda la prima puntata di “Canzonissima”, una sfida musicale collegata alla Lotteria di Capodanno, che qualche anno più tardi cambierà nome in Lotteria Italia. Il ruolo di presentatore-conduttore è affidato a Renato Tagliani, mentre l’ospite fisso è Ugo Tognazzi, che verrà sostituito successivamente da Walter Chiari. La prima edizione si concluderà il 4 gennaio con la vittoria di Nilla Pizzi, che canta L’edera, davanti a Claudio Villa con Arrivederci Roma. Verranno venduti 2.246.763 biglietti della lotteria e il possessore del biglietto accoppiato alla canzone vincitrice riceverà un premio di 100 milioni.


21 ottobre, 2023

21 ottobre 1996 - I cantautori non sono il diavolo!


Il 21 ottobre 1996 il programma televisivo “Roxy Bar” condotto da Red Ronnie ha un ospite d’eccezione e inusuale. Si tratta del cardinale Ersilio Tonini. Il prelato dovrebbe confrontarsi con il cantautore Francesco De Gregori dopo le polemiche scatenate dal L’Osservatore Romano, il giornale del Vaticano, nei confronti dei cantautori italiani per l’utilizzazione di Dio nei loro testi. Il confronto, annunciato dalla stampa come una sorta di resa dei conti tra la musica dei giovani e la Chiesa, attira l’attenzione di milioni di spettatori. Contrariamente alle previsioni non c’è battaglia, ma un gesto ufficiale di conciliazione da parte dell’autorevole esponente della Chiesa Cattolica. Al termine del faccia a faccia con Francesco De Gregori, infatti, il cardinale Ersilio Tonini, si alza e abbraccia il cantautore esclamando «Posso ringraziare Dio di avere fatto uno come te».



20 ottobre, 2023

20 ottobre 1920 – Dino D'Alba il cantante perseguitato dal fascismo

Il 20 ottobre 1920 a Olgiate Olona, in provincia di Varese, nasce Edoardo Segatto, destinato a diventare un cantante di successo con il nome di Dino D’Alba. È figlio d'arte. Suo padre infatti è il tenore Dante Segatto, già primo violino del Teatro alla Scala, e la madre, la soprano Maria Tosi, deve interrompere la rappresentazione della "Tosca" per darlo alla luce. I suoi genitori, insofferenti alle regole dei grandi teatri, lavorano in proprio spostandosi di paese in paese con il loro spettacolo ambulante. La loro ambizione è quella di possedere un teatro, anche piccolo. Proprio sulle assi malferme di un teatrino di paese il futuro Dino D'alba debutta a sette anni cantando Spazzacamino e a quindici anni è già un veterano del teatro di rivista. La sua però non è una vita facile. L'impegno antifascista della sua famiglia deve fare in conti con la sempre più opprimente repressione del regime. Il piccolo cinema di cui sono proprietari viene dato alle fiamme, i suoi due fratelli finiscono confinati a Lipari. Va ancora peggio a sua sorella che viene uccisa. Pur tra mille difficoltà nel 1940 nascosto dietro il nome d'arte di Dino D'Alba e con la complice solidarietà del maestro Glauco Masetti, riesce a superare un concorso per voci nuove a Radio Trieste. Lo scoppio della guerra vanifica, però, il suo tentativo di risolvere così il problema della sopravvivenza. Dopo la Liberazione non riesce a riconciliarsi con quell'Italia che gli ha distrutto gli affetti, che ha perseguitato la sua famiglia e gli ha reso la vita impossibile. Se ne va a cantare in giro per il mondo e diventa molto popolare nelle comunità degli emigrati italiani in Canada, in Sudamerica e negli Stati Uniti. Torna quasi vent'anni dopo nel 1964. Ricomincia da capo. Nel 1967 ritrova la sua vecchia amica Silvana Fioresi, con la quale compie varie tournée in Europa e nel 1971 registra Senza tempo, una preziosa antologia della canzone italiana in cinque album. Inquieto e perennemente alla ricerca di nuove esperienze decide di andarsene all'Est. Dopo un lungo giro che tocca quasi tutti i paesi dell'Europa Orientale si ferma in Jugoslavia dove può contare anche sull’amicizia personale del maresciallo Tito. Per dieci anni partecipa a moltissime trasmissioni radiofoniche e televisive. Negli anni Ottanta chiude con la canzone e si ritira a vita privata. Nel suo vastissimo repertorio, composto da oltre quattrocento canzoni, spicca la famosa Tu musica divina scritta proprio per lui da Giovanni D'Anzi.




19 ottobre, 2023

19 ottobre 1967 – Per Henderson il trombone da hobby diventa mestiere

Il 19 ottobre 1967 muore New York il cinquantottenne trombonista Henderson Charles Chambers. Nato ad Alexandria, in Georgia, nel 1908 inizia a coltivare la passione per uno strumento inusuale come il trombone negli anni Venti, quando è ancora studente e suona con la banda del Morehouse College di Atlanta. Con il passare del tempo quello che sembrava un hobby diventa sempre più coinvolgente fino a quando, nel 1931, si trasforma definitivamente in un lavoro. Il primo direttore d'orchestra che gli offre un ingaggio professionale è Neil Montgomery. Per tutti gli anni Trenta la sua popolarità non va oltre i confini della Georgia dove suona con quasi tutte le orchestre impegnate nei locali jazz dello stato in cui è nato. Sono le cosiddette "territory bands", le orchestre territoriali che traggono vita e sostanza dal luogo dove sono nate e qui esauriscono il loro ciclo. La limitazione spaziale non ne diminuisce il valore, anzi. Alcune sono destinate a entrare nella storia del jazz e molte di queste schierano in vari periodi il trombone di Chambers. È il caso delle band di Doc Banks, Jack Jackson, Speed Weeb e Zack Whyte, solo per citare quelle più conosciute. Verso la fine degli anni Trenta Chambers è con l’orchestra del sassofonista Al Sears che lascia successivamente per passare a quella di Tiny Bradshaw. All’inizio degli anni Quaranta lascia la sua Georgia e se ne va a New York per suonare al Savoy Ballroom con Chris Columbus. Qui ha modo di farsi notare dalla critica e dal pubblico, suscitando consensi e stupore per il suo stile ricco di abbellimenti e sostenuto da una tecnica sopraffina. L’anno successivo viene ingaggiato da Louis Armstrong, con la cui orchestra entra per la prima volta in sala di registrazione nel 1941. Nel 1943 suona insieme a Don Redman e poi al clarinettista Edmond Hall, con il quale lavora per diversi anni. Proprio con l'orchestra di Hall accompagna il suo vecchio amico Louis Armstrong nel concerto alla Carnegie Hall dell’8 febbraio 1947, considerato uno dei migliori tra i tanti registrati dal trombettista nel corso degli anni Quaranta. Negli anni Cinquanta suona con Lucky Millinder, Count Basie, Buck Clayton, Cab Calloway, Duke Ellington e Mercer Ellington. Considerato ormai uno dei migliori trombonisti di scuola swing, rinuncia alla tentazione di dar vita a una propria orchestra e nel decennio successivo darà il suo contributo strumentale alla costruzione del mito di Ray Charles.




18 ottobre, 2023

18 ottobre 1973 - Addio Virgilio Crocco


«È morto Virgilio». Il 18 ottobre 1973 a La Crosse, nel Wisconsin, mentre sta attraversando la strada per rientrare in albergo insieme al suo amico Eugenio Malgieri, Virgilio Crocco viene travolto da un’auto e muore. Per Mina è un colpo terribile. Un altro pezzo della sua vita se ne va per sempre. Nonostante il fallimento del matrimonio era rimasta in ottimi rapporti con un uomo che stimava profondamente e dal quale aveva tratto la forza di rinnovarsi, di capire meglio quale strada prendere, come comportarsi e, soprattutto, come difendersi dall'aggressività dei “media”. La lenta consunzione della loro storia d’amore non aveva intaccato l’amicizia e la confidenza che, anzi, sembravano uscire rafforzati dalla fine di un ingombrante e ambiguo legame come quello matrimoniale. Il dolore è fortissimo e contribuisce a farla chiudere ancor di più in se stessa. Per qualche tempo neppure gli amici più fedeli possono nulla contro il muro impenetrabile di silenzio che si è costruita intorno. Pian piano ritrova se stessa, insieme alla consapevolezza che non ce la fa più a reggere gli obblighi di un mondo falso e artificiale come quello dello spettacolo.



17 ottobre, 2023

17 ottobre 1931 – Lucio Capobianco, il trombone innamorato di Genova

Diciamo la verità, quando si parla di jazz è difficile pensare a Genova. In genere sono altri i nomi di città che vengono in mente, New Orleans, Chicago, Detroit o se si vuol essere più nazionalisti Milano, Bologna o Roma. La città della lanterna, famosa per la sua “scuola di cantautori” non è istintivamente accostata al jazz. Eppure proprio a Genova nasce, il 17 ottobre 1931, Lucio Capobianco, destinato a diventare con il suo trombone uno dei personaggi di primo piano della scena jazzistica europea. Il suo incontro con quella strana musica definita dal regime fascista “negroide e degenerata” avviene solo dopo la Liberazione, quando ha già quasi quattordici anni. Prima era impossibile. Un po’ perché per un ragazzino non è facile frequentare i locali notturni e poi perché le proibizioni del regime fascista rendevano pressoché impossibile per chiunque pubblicizzare un concerto jazz. Quando Lucio ascolta per la prima volta quella strana musica porta ancora i calzoni corti e pur non potendo ancora dirsi un adulto non è più un bambino. Non ha alle spalle alcuna preparazione musicale di base, non conosce molto di ciò che sta ascoltando, ma è attratto dal trombone. Lo incuriosisce quella specie di stantuffo che viene spinto avanti e indietro per modulare il suono. Riesce a procurarsene uno e inizia a soffiare senza troppe pretese. Progressivamente lo strumento diventa la sua unica occupazione. Incurante delle critiche degli scettici e delle chiacchiere di chi cerca di dissuaderlo, tira avanti diritto per la sua strada. Sospinto da una feroce determinazione e da una volontà di ferro quando non soffia nel trombone va nei piccoli circoli jazz della sua città e cerca di “rubare il mestiere” a chi ne sa più di lui. Non ha ancora diciotto anni quando, con una ristretta cerchia di appassionati, inizia a suonare negli scantinati della sua città. Nel 1954, a ventitré anni, fonda il suo primo gruppo, la Riverside Syncopators Jazz Band con il trombettista Bruno Martinoli, il clarinettista Lello Mango, il pianista Donato Bianco, il banjoista Claudio Malcapi e il batterista Bruno Chinea. La band, che si ispira all’esperienza della Creole di King Oliver, diventa rapidamente popolare tra gli appassionati di tutta Italia e, pian piano si fa conoscere anche all’estero ottenendo prestigiosi riconoscimenti i festival importanti come quello di Sopot in Polonia nel 1957 e di Lugano nel 1959. Nel 1960 la Riverside Syncopators Jazz Band viene proclamata “miglior formazione italiana di stile tradizionale” da un referendum indetto da un programma radiofonico specializzato della Rai. Vari problemi, soprattutto finanziari, lo portano un paio d’anni dopo a sciogliere la sua band. Inizia così un rapporto di collaborazione con Carletto Loffredo destinato a durare per molto tempo. Nonostante le tournée, gli impegni internazionali e la popolarità che lo circonda non chiude il rapporto con la sua città natale che lui ama molto anche se non è New Orleans. Quando ne ha la possibilità torna a Genova e non è raro ascoltarlo mentre si lancia con altri strumentisti in qualche esibizione improvvisata nel locale che considera ormai la sua “vera casa”: il Louisiana Jazz Club. Agli amici confessa che il suo più grande desiderio è quello di tornare a lavorare a tempo pieno in una formazione della sua città. Il sogno si realizza nel 1970 quando nasce la Genova Dixieland All Stars, con, oltre a lui, il trombettista Fausto Rossi, il clarinettista Lello Mango, il pianista Armando Corso e altri strumentisti della città. La band fa conoscere il nome della città della lanterna in tutto il mondo accompagnando varie stelle di prima grandezza del firmamento jazzistico come Albert Nicholas, Bill Coleman, Bud Freeman, Wild Bill Davison, Kenny Davern, Dick Wellstood, Yank Lawson e Ralph Sutton, tutti rigorosamente invitati a passare qualche ora al Louisiana Jazz Club di Genova. Un omaggio dovuto, ci mancherebbe altro! Lucio muore l'8 luglio 2012.





16 ottobre, 2023

16 ottobre 1965 - Sulla RAI sventola bandiera gialla

Alle ore 17.40 del 16 ottobre 1965 la voce di Rocky Robert sulle note di T-Bird fa da sigla alla prima puntata di un programma radiofonico destinato a restare nella storia musicale del nostro paese. Il suo titolo, "Bandiera Gialla", fa riferimento ai drappi che segnalano le zone soggette a quarantena perché interessate da epidemie. È esplicitamente di parte. Una voce ricorda che l'ascolto è «severamente proibito ai maggiori degli anni diciotto». Ideato da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e presentato da quest'ultimo, è interamente dedicato al rock e al rhythm and blues. Per la prima volta entrano così di prepotenza nella programmazione radiofonica italiana interpreti, autori, ritmi e sonorità inusuali. La struttura prevede una sorta di concorso "autogestito". In ogni puntata vengono presentati dodici brani italiani e stranieri, divisi in quattro gruppi e votati dai ragazzi presenti in studio. Il brano che ottiene maggiori consensi diventa "disco giallo". Il titolo onorifico non dà diritto a premi particolari, salvo quello di partecipare alla trasmissione successiva. Il programma diventa rapidamente un "cult" per decine di migliaia di giovani che ascoltano brani esclusi dalla programmazione normale. A riprova del fatto che si tratta di un fenomeno collettivo, nascono numerosi i gruppi di ascolto spontanei in varie città. Il programma è destinato a rivoluzionare la produzione e il mercato discografico italiano. La presenza di brani in versione originale contribuirà a rompere il lungo isolamento della nostra musica leggera e nulla sarà come prima, come sottolineeranno di lì a qualche mese Piero Vivarelli, Sergio Bardotti e Lucio Dalla sottoscrivendo il "Manifesto per la nuova musica" che, tra l'altro, affermerà: «Noi attingiamo alla tradizione, ma non la rispettiamo. Una tradizione è valida solo in quanto si evolve, altrimenti interessa i musei… il nazionalismo musicale è un nonsenso, sia dal punto di vista storicistico che dello stile…»





14 ottobre, 2023

14 ottobre 1958 – Thomas Dolby, il meteorologo mancato

Il 14 ottobre 1958 nasce al Cairo in Egitto da genitori britannici uno dei personaggi più importanti per l’evoluzione tecnologica della musica e delle moderne tecniche di registrazione. All’anagrafe viene registrato con il nome di Thomas Morgan Robertson, anche se la sua popolarità resta legata al nome d’arte di Thomas Dolby. Tornato in Gran Bretagna, cedendo alle insistenze dei genitori studia meteorologia, ma fin dall’adolescenza il suo interesse è completamente attratto dal mondo della tecnologia applicata si suoni. A diciotto anni padroneggia con disinvoltura tutte le innovazioni applicabili alle tastiere. Il suo è un mondo fantastico popolato da sintetizzatori e campionatori di suoni. Lo affascinano le possibilità che si aprono nella creazione di nuovi suoni con il progressivo affermarsi delle tecnologie informatiche. Appena può tralascia la meteorologia per inventarsi tecnico del suono nei tour di qualche band. Tra i gruppi che godono della sua geniale e intuitiva creatività ci sono i Members e i Fall. Nel 1979 si mette in proprio fondando i Camera Club, una band di cui è l’indiscusso leader senza però rinunciare alle collaborazioni come quella che lo lega per un lungo periodo alla cantante Lene Lovich. Nel 1981 realizza per la prima volta un disco da solo pubblicando il brano Urges, seguito dall’eccentrico Europa and The Pirate. I discografici premono perché lui abbandoni le faticose collaborazioni con gli altri artisti e si dedichi maggiormente alla sua carriera, ma Dolby fa orecchie da mercante. Anzi, si può dire che proprio in questi anni arrivi alla decisione di considerare entrambi i suoi interessi degni della stessa attenzione. A partire da quel momento la sua carriera alternerà due centri d'interesse: da un lato le sue incisioni, piene d'inventiva e sempre all'avanguardia nelle nuove tecnologie e dall'altro i suoi lavori per artisti come Stevie Wonder, Grace Jones, Foreigner, Joan Armatrading, Herbie Hancock, Dusty Springfield, Prefab Sprout, Joni Mitchell e molti ancora, cui vanno aggiunte anche varie colonne sonore di film. Tra i successi in proprio un ruolo particolare spetta a Hyperactive, accompagnato da un video decisamente innovativo per la capacità di legare strettamente musica e immagini. Emblematici del suo percorso sonoro saranno anche The flat earth, Gothic e Astronauts & heretics.



13 ottobre, 2023

13 ottobre 1947 – Sammy Hagar, the Red rocker

Il 13 ottobre 1947 nasce a Monterey, in California, Sammy Hagar, uno dei personaggi più emblematici dell’hard rock, detto “Red rocker” per la sua capigliatura rossa e cespugliosa. Suo padre è un pugile professionista, ma lui alle palestre preferisce i fumosi locali dove si ritrovano a suonare i suoi amici. Irrequieto e restìo a lasciarsi catturare da una sola esperienza suona la chitarra e canta a San Bernardino in gruppi come i Fabulous Castillas, gli Skinny, i Dust Cloud e i Justine Brothers. Ben presto la sua fama di duro e aggressivo interprete si allarga al di fuori dei confini della California. Nel 1973 registra il suo primo disco con i Montrose, band che lascia l’anno successivo dopo la pubblicazione dell’album Paper money, intenzionato a dar vita a un proprio gruppo insieme al bassista Billy Church, al batterista Denny Carmassi e al tastierista Alan Fitzgerald. L’esperienza non entusiasma i discografici che lo costringono ad attendere due anni prima di pubblicare il suo primo album in proprio intitolato Red che comprende anche una sua personale versione di Free money di Patti Smith. È la prima di una lunga serie di esperienze discografiche che fanno di lui uno dei protagonisti dell’evoluzione del movimento hard e della nascita dell’heavy metal. In questo periodo è difficile seguire i cambiamenti interni alla band che l’accompagna, caratterizzata anche da frequenti litigi con relative scazzottature. Una delle formazioni più stabili è quella del 1979 che schiera, oltre al solito Billy Church, il chitarrista Gary Phil, il batterista Chuck Ruff e il tastierista Geof Workman. L’inizio degli anni Ottanta lo vede sempre impegnato a mantenere in vita la corrente più dura del rock. Nel 1983 partecipa alla realizzazione dello splendido Through the fire, un album considerato una sorta di manifesto generazionale della “vecchia guardia” del rock duro. Sono con lui Neal Schon, l’ex batterista dei Santana Mike Shrieve e Kenny Aaronson, ex bassista dei Dust. Il progetto, firmato semplicemente con la sigla H.S.A.S. non avrà seguito. Incuriosito come sempre dalle novità Sammy, nonostante il buon momento, accetta la proposta di sostituire nei Van Halen il cantante David Lee Roth che se n’è andato. Non sarà l’ultima esperienza del vagabondo rocker rosso che ben presto recupererà la sua autonomia in nuovi progetti solistici.

12 ottobre, 2023

12 ottobre 1968 - In Messico un pugno nero levato al cielo

Mentre il vento della contestazione soffia forte su tutto l'occidente il 12 ottobre 1968 a Città del Messico si aprono i Giochi Olimpici. C'è già chi li chiama le "Olimpiadi di sangue" perché la polizia e l’esercito hanno sparato sugli studenti disarmati che manifestavano in Piazza delle Tre Culture provocando decine di morti. Nonostante le richieste di annullamento o di spostamento dei giochi, alla fine non se n'è fatto niente. Con l’inizio della gare si pensa che la fase più critica sia ormai superata, ma non è così. Nel campus che ospita la squadra statunitense si possono ascoltare canzoni che non troppo in sintonia con l'ufficialità del momento, a partire dalla ormai famosa reinterpretazione acida dell'inno statunitense di Jimi Hendrix. Il bello deve ancora venire. Durante la premiazione dei 200 metri piani, infatti, Tommy "Jet" Smith e John Carlos, entrambi statunitensi ed entrambi neri, occupano il primo e terzo scalino del podio. Smith ha appena demolito il primato mondiale. Entrambi sono senza scarpe ed indossano calze nere, considerate "calze da ruffiano" nei ghetti. Quando gli altoparlanti dello stadio iniziano a diffondere le note dell'inno nazionale degli Stati Uniti Smith e Carlos reclinano la testa e alzano una mano chiusa a pugno e guantata di nero. Restano così per tutta la durata dell'inno. Spiegano poi che il loro gesto è un segno di ribellione. Dice Smith che «Nella vita ci sono cose più grandi dei record e delle medaglie» e Carlos aggiunge «Siamo stufi di essere cavalli da parata alle Olimpiadi e carne da cannone in Vietnam». I dirigenti statunitensi non apprezzano il gesto e li cacciano, ma il loro non resta un gesto isolato. Molti altri atleti di colore si schierano al loro fianco. Jim Hines, che nei 100 metri va sotto il limite dei 10'', non accetta di essere premiato dal Presidente del Comitato Olimpico Internazionale, mentre il nuovo recordman nel salto in lungo, Bob Beamon, si presenta sul podio scalzo e senza tuta.

11 ottobre, 2023

11 ottobre 1963 – L’usignolo di Francia vola via

L'11 ottobre 1963, Edith Piaf, l’usignolo di Francia, apre le ali e vola via. La notizia non arriva al mondo inaspettata. Da tempo il suo fragile corpo faceva fatica a contenere la sua corsa vitale e tutti se n'erano accorti quattro anni prima quando, sul palcoscenico del Waldorf Astoria di New York, era crollata priva di sensi prima della fine del concerto. Quel segnale non aveva trovato risposte. Lei non aveva mollato e, ancora all'inizio di quel tragico 1963, nonostante le precarie condizioni di salute, aveva voluto tenere un concerto all’Olympia programmato da tempo. L’ultimo. Sul palco tutti l’avevano vista curva, minuta, rinsecchita, con le dita rovinate dall’artrite. Solo il suo volto risaltava sotto le luci di scena bianco, pallido e segnato dal tempo e dai colpi del destino. Una madonnina dei dolori che era però scomparsa non appena la musica aveva cominciato a diffondersi per la sala. Quando aveva liberato la voce, la grottesca figurina si era dissolta lasciando il posto alla solita, grande, cantante. Poco tempo dopo era arrivato il ricovero in ospedale, l’inizio della fine. La sua voce si spegne ed Edith entra in uno strano mito fatto di leggende, memorie, testimonianze, tutte importanti, ma incapaci, da sole di spiegare un fascino che, a distanza di quasi mezzo secolo dalla sua scomparsa, colpisce ancora l'immaginario dei popoli d'Europa. E la risposta è forse in quella voce che riesce ancora ad accarezzare, ferire, accompagnare e far sognare. Lì c'è l'elemento centrale della sua grandezza artistica. La sua voce, infatti, è uno strumento di comunicazione. Nessuno prima di lei l'ha utilizzata così, con quella forza, con quella capacità di comunicare se stessa all'indistinto pubblico che ascolta. È unica nella sua capacità di trasmettere a così tante persone l’angoscia, la tristezza e la carica drammatica di un'esistenza vissuta come una corsa a ostacoli, ciascuno dei quali superato cedendo in cambio un pezzo di vita. Per questa ragione il concetto di versatilità vocale in Edith Piaf cambia significato. In lei non definisce la capacità di interpretare una pluralità di stili e generi o quella di reinventare e filtrare attraverso la sua personalità brani molto diversi fra loro. Per Edith la versatilità vocale è un concetto complesso, è la capacità di fare della voce uno strumento espressivo quasi teatrale. Si alimenta direttamente alla sfera dei sentimenti, a un aggrovigliato incrociarsi di pensieri, aspirazioni e tragedie personali. La duttilità della sua voce non è mai al servizio esclusivo degli autori delle canzoni, ma mette davanti a tutto la necessità di comunicare con il pubblico fino a travalicare, se necessario, anche il significato stesso delle parole, anche quando è lei stessa a scriverle. Fin dal suo primo apparire la critica, nel continuo e spesso eccessivo sforzo di catalogare tutto, inventa il termine di chanson intime per definire il genere da lei interpretato. La definizione è troppo riduttiva e parziale. Non riesce, infatti, a rendere efficacemente la capacità della voce di Edith di dare voce e musicalità diretta a quella gamma di sentimenti e sensazioni che fino a quel momento aveva trovato solo nella poesia la sua principale espressione. La voce, infatti, cambia in funzione delle emozioni che deve esprimere e talvolta anche all’interno dello stesso brano. Non a caso Jean Cocteau disse di lei: «Senza la voce di questa piccola cantante Parigi cesserebbe di essere Parigi. Sono proprio voci come questa che ne interpretano l’anima poetica». La forza principale di Edith è tutta nella sua voce profonda e capace di sfumature di grande drammaticità. A dispetto di tutte le sue imitatrici postume non tenta mai di catturare l’attenzione degli ascoltatori spingendo la potenza al limite delle sue capacità vocali, né cerca l’acuto da applauso. È più interessata all’aspetto espressivo, a comunicare direttamente con il cuore del pubblico. L’intensità per lei è più importante del vocalizzo. Non a caso irride i critici quando dice: «Il mio conservatorio è stato la strada. La strada è una buona scuola. È lì che ti danno il diploma di cantante. Il pubblico lo vedi. Ti sta davanti. Faccia a faccia. Senti il suo cuore battere, dice quello che pensa. Sai quello che gli piace e quello che non gli piace. E se per caso si commuove e piange è fatta. Puoi essere sicuro che la questua andrà bene». Non è una provocazione. Le sue radici sono dentro di lei e fanno parte della sua arte. Senza quelle radici non sarebbe quello che è. In più Edith era dotata di una buona tecnica vocale, appresa un po' sulle strade e un po' dai mille maestri che hanno attraversato la sua di strada. Nelle sue canzoni, nella sua stessa vita si ritrova, poi, un pezzo della cultura di quest'Europa che, a dispetto di chi ha come punto di riferimento il capitale e i banchieri, ha avuto momenti altissimi di cultura. La voce di Edith porta con sé gli echi della storia novecentesca, tormentata e drammatica di un continente ricco di conflitti, di slanci, di tragedie e segnato da due guerre devastanti. La sua stessa vicenda personale l'attraversa con rabbia e gioca, talvolta inconsciamente, a sfidare il potere. Dopo la promulgazione delle leggi razziali unisce la sua vita a quella del pianista ebreo Norbert Glanzberg e quando Broadway il pubblico la fischia apre le porte della sua camera d’albergo soltanto a Longuet, l’inviato di “Ce soir”, un quotidiano dell’area comunista. Il ricordo della Piaf appartiene alla strada, ai popoli della notte, a quella sterminata umanità che non la tradisce e non l'abbandona neppure di fronte all'ineluttabilità della morte. È questo il segreto di un'immortalità che non si alimenta di certezze, ma neppure di rimpianti o, peggio, di tardive abiure e pentimenti. Ciò che è stato e stato ed è importante proprio perché è parte di quello che si è oggi. Per questo, oggi come allora, la sua voce ci ricorda che: «Je ne regrette rien…».


10 ottobre, 2023

10 ottobre 1979 – La prima di “The Rose”, un film moralista

Il 10 ottobre 1979 a Los Angeles viene presentato in prima visione mondiale “The Rose”, un film diretto da Mark Rydell destinato a suscitare più di una perplessità. Annunciato da una colossale campagna promozionale il lungometraggio racconta gli ultimi cinque giorni di vita di una rockstar che muore per overdose nella quale è facilmente riconoscibile il personaggio di Janis Joplin. L’evento è tra i più attesi della stagione non solo per l’argomento ma anche perché segna il debutto cinematografico da protagonista della cantante Bette Midler. La affiancano il navigato Alan Bates nel ruolo del manager e un sorprendente Frederic Forrest. Nelle dichiarazioni che precedono la proiezione il regista ha parlato di un’opera impegnativa nella quale il personaggio principale viene visto con grande rispetto. Le schede diffuse dalla casa produttrice descrivono l’opera come “un grande affresco del mondo del rock negli anni Sessanta”. Le anticipazioni hanno contribuito a creare l’attesa giusta per cui alla prima proiezione pubblica del film sono presenti oltre che i principali critici cinematografici anche gran parte degli inviati delle maggiori testate musicali. Mentre sullo schermo scorrono le splendide immagini curate dal direttore della fotografia Vilmos Zsigmond in sala si percepiscono due atteggiamenti decisamente diversi. Se i critici cinematografici sembrano esprimere una soddisfazione di massima, più perplessi appaiono i giornalisti musicali. Un grande applauso accoglie la fine della proiezione e il regista rinvia ogni commento alla successiva conferenza stampa che si apre con i ringraziamenti e le impressioni di una emozionata Bette Midler. La serata sembra scorrere via liscia con i critici cinematografici che danno un giudizio sostanzialmente positivo del film riservando qualche appunto soltanto alla interpretazione di Alan Bates, ritenuta leggermente al di sotto del suo standard abituale. Improvvisamente, però, dal settore riservato ai giornalisti musicali si alza, chiara e forte, una voce: «Questo film è ambiguo e fastidioso. Fin dall’inizio traspare un solo obiettivo: la condanna moralistica del rock e degli anni Sessanta». La guerra è dichiarata. Gran parte della stampa musicale considererà per sempre “The Rose” un tentativo di rileggere in senso reazionario un pezzo di storia del rock degli anni Sessanta.


09 ottobre, 2023

9 ottobre 1982 - I Bauhaus, ovvero quando il successo fa male

Il 9 ottobre 1982 i Bauhaus entrano nella classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna con la loro versione di Ziggy Stardust, un successo di David Bowie inserito nell’album The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. La band formata a Northampton dai fratelli Kevin e David Jay Haskins, rispettivamente batterista e bassista, con il chitarrista Daniel Ash e il cantante Peter Murphy, che sembrava destinata a restare un gruppo di culto per una fedele ma ristretta nicchia di appassionati del dark, inizia a conquistare una popolarità ogni giorno più vasta. Quasi contemporaneamente alla pubblicazione del singolo la loro etichetta Beggars Banquet mette sul mercato anche l'album The sky's gone out. Il buon momento del gruppo è dovuto anche a una serie di coincidenze fortunate quali la partecipazione del magnetico cantante Peter Murphy ad alcuni spot pubblicitari della Maxell nei quali è disteso in poltrona mentre, impassibile, fra vento e lampi, ascolta le note diffuse da un potente impianto hi-fi. In più nello stesso periodo arriva sugli schermi anche il film "Miriam si sveglia a mezzanotte", una storia di vampiri ambientata a New York e interpretata da Catherine Deneuve e David Bowie, che vede tutta la band comparire sullo schermo negli agghiaccianti minuti iniziali per interpretare il tenebroso brano Bela Lugosi's dead. I quattro arrivano così al successo, ma paradossalmente iniziano anche a coltivare i germi della crisi. Il loro pubblico più fedele e quella parte di critica che li aveva seguiti con simpatia li attacca spietatamente per le eccessive concessioni commerciali. Inizia così per la band un periodo burrascoso e teso che culminerà un anno dopo nella sua dissoluzione. Lo stesso Peter Murphy qualche tempo dopo tenterà di dare una personale rilettura di quel periodo «Stavamo andando verso una edonistica ricerca di celebrità e l'energia che riuscivamo a sprigionare ha finito per abbattersi su noi stessi»

08 ottobre, 2023

8 ottobre 1969 – Kokomo Arnold, l’uomo che lasciò il blues per fare l’operaio

L’8 ottobre 1969 muore Kokomo Arnold uno dei personaggi leggendari del blues. Nato a Lovejoys Station, in Georgia, il 15 febbraio 1901 James Arnold, questo è il suo vero nome, è considerato il maestro del knife style. Che cos’è? È una specie di suono molto vibrato, come una lama di coltello, che si adegua alle caratteristiche della voce del cantante, spesso utilizzato come un mormorio che si unisce allo strumento. Kokomo impara a suonare la chitarra da suo cugino James Wiggs e nel 1919, quando ha diciotto anni, fa il manovale in un'acciaieria di Buffalo, nello stato di New York, poiché il lavoro di bluesman non gli consente di sopravvivere. Nel 1924 lascia la fabbrica e comincia a girare per gli Stati Uniti da Pittsburgh a Gary poi più giù verso il delta del Mississippi, una regione che respira blues nella quale si trova da Dio. Segnalato da Joe McCoy, Kokomo nel 1934 viene scritturato dalla Decca e ottiene un notevole successo con un brano, Milk cow blues, in cui ha la possibilità di evidenziare il suo stile molto personale alla chitarra. Nel suo vagabondaggio raggiunge più di una volta Chicago, punto di riferimento d’obbligo dei bluesmen e si esibisce al anche al famoso 33rd Street Club. Di punto in bianco si stanca di questa vita, molla tutta e torna a lavorare nelle acciaierie. Rintracciato nel 1959 dai ricercatori Jacques Demetre e Marcel Chauvard viene sollecitato a riprendere la sua attività di cantante ma lui non se la sente più. L’ostinato rifiuto a tornare sulla strada del blues ha contribuito a ingigantirne la leggenda.

07 ottobre, 2023

7 ottobre 1951 – John Mellencamp, il giaguaro del rock proletario

Il 7 ottobre 1951 nasce a Seymour nell’Indiana John “Cougar” Mellencamp considerato, insieme a Bruce Springsteen, una delle bandiere di quel rock proletario che nasce nella provincia degli States lontano dalle grandi città. Ancora adolescente suona con varie band e colleziona anche un clamoroso "esonero" da parte dei Banana Barn, che l'accusano di non saper cantare. Per tirare avanti si accontenta dei lavori che riesce a trovare, dal tecnico telefonico, all'impiegato in una stazione radio, per citare soltanto quelli meno faticosi. Nel 1973 con l'amico Larry Crane forma i Trash e scrive le prime canzoni. Decide, quindi, di tentare la fortuna andando a New York accompagnato da un nastrino con i suoi brani. Qui incontra Tony DeFries, in quel periodo manager di David Bowie. È lui che colpito da quel tipetto tosto gli inventa il nome d’arte di “Cougar” (giaguaro) e vuole farne un nuovo idolo per le adolescenti tutta immagine e niente sostanza. L’idea si rivela fiacca come l’album Chesnut street incident, pubblicato nel 1976 e subito dimenticato. Chiusa la parentesi newyorchese il ragazzo pensa di tornare a suonare nei club della sua provincia. Il suo personaggio però non è passato inosservato. Trova un aiuto inaspettato in Billy Gaff, allora manager di Rod Stewart che, senza fretta, lo guida nella scalata al successo. Dopo un disco interlocutorio centra il primo importante risultato nel 1979 con John Cougar un album che contiene il brano I need a lover, che diventa un successo mondiale nella versione di Pat Benatar. La consacrazione definitiva arriverà un paio d’anni dopo con American fool che oltre a diventare il disco più venduto dell'anno gli varrà anche la conquista del suo primo Grammy Award. A partire dal 1983 butterà alle ortiche quel nome d’arte che non gli è mai piaciuto e si firmerà semplicemente John Mellencamp. Nonostante il successo non dimenticherà mai le sue origini proletarie, né riuscirà mai a integrarsi perfettamente nelle convulsa vita delle grandi città. Nel 1985 sarà tra gli organizzatori, con Neil Young e Willie Nelson, del “Farm Aid” un megaconcerto per aiutare le popolazioni rurali degli Stati Uniti, colpite da una grave crisi e alla fine del 1988 parteciperà con altri personaggi del rock, al Concerto in memoria di Woody Guthrie e Leadbelly.

06 ottobre, 2023

6 ottobre 1913 – C'è Carmen alla chitarra

Il 6 ottobre 1913 nasce a Cohoes, New York, il chitarrista Carmen Nicholas Mastren. I suoi fratelli Al, John, Frank ed Eddie sono musicisti e anche per lui si prospetta la strada degli studi musicali. Spinto più dalle esigenze dell'orchestra famigliare che da una vera e propria inclinazione per lo strumento inizia a studiare il violino, ma ben presto passa ad altri strumenti a corde che gli piacciono di più: il banjo e la chitarra. Nel 1935 quando ha ventidue anni decide che non può restare per sempre prigioniero delle scelte musicali dei fratelli. Affrontando l'inevitabile indignazione famigliare se ne va ed entra a far parte come chitarrista acustico del quartetto di Wingy Manone con cui resta fino al mese di gennaio del 1936. Di quel periodo resta testimonianza nelle famose registrazioni in studio effettuate dal gruppo per la casa discografica Vocalion. Passa poi con la big band di Tommy Dorsey, che sta attraversando un momento di grande popolarità. Con l'ensemble di Dorsey gira in lungo e in largo gli Stati Uniti suonando nei più importanti locali dell'epoca e divenendo famosissimo. Non estranee alla sua popolarità sono anche le numerose registrazioni effettuate con la big band per la Victor. All'apice del successo nell’estate del 1940 lascia Dorsey ed entra a far parte dei Delta Four di Joe Marsala. La sua perenne voglia di cambiare non gli dà tregua. Dopo poco meno di un anno se ne va e nell’autunno del 1941 suona per un breve periodo con l’orchestra di Ernie Holst, che lascia per entrare in quella dell'NBC. Qui sembra finalmente aver trovato terra ferma, ma il destino ha in serbo nuove sorprese. C'è la guerra. Nel 1943 viene richiamato sotto le armi e utilizzato da Glenn Miller nella sua Air Force Band. Alla fine del 1945 rientra a New York, ma la sua attenzione sembra essere più orientata alla direzione d'orchestra e alla composizione. Scopre anche che la musica leggera può dargli maggior soddisfazioni economiche e trascura progressivamente il jazz. A partire dal 1953 accetta l'incarico di compositore e arrangiatore al servizio dell’orchestra dell'NBC. Non si muoverà più di lì fino al 1970 quando, a cinquantasette anni, cambierà di nuovo impostazione alla sua vita mettendosi in proprio. Nella storia del jazz il suo apporto resta, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta, quello di uno dei maggiori e più significativi chitarristi acustici, ideale continuatore della strada tracciata da Eddie Lang e Dick McDonough. Muore il 31 marzo 1981.


05 ottobre, 2023

5 ottobre 1973 – La sorprendente vitalità di Alvin Stardust

Il 5 ottobre 1973 viene pubblicato in Gran Bretagna il singolo My coo ca choo, un brano scatenato e divertente in linea con il glam rock che in quel periodo fa impazzire i giovanissimi consumatori di musica di quel paese. I teen-ager britannici lo accolgono entusiasticamente e in breve tempo lo portano ai vertici della classifica dei dischi più venduti. C’è, però, un giallo legato all’identità dell’interprete. La copertina del disco attribuisce l’esecuzione a un certo Alvin Stardust, un nome che nessuno ha mai sentito e di cui nessuno sa nulla. Per un po’ i giornali si divertono a ipotizzarne l’identità immaginando che si tratti dell’avventura solistica del cantante di uno dei tanti gruppi glam del periodo, finché la verità viene a galla. In realtà dietro allo pseudonimo si cela il ritorno sulle scene di un adolescente di… trentun anni. È Bernard Jewry, che, con il nome di Shane Fenton era stato, insieme al suo gruppo, i Fentones, uno dei principali esponenti del rock and roll britannico prima del ciclone Beatles. La rivelazione preoccupa non poco i dirigenti della sua casa discografica, perché temono che l’età di Alvin Stardust possa comprometterne l’immagine e la popolarità presso il pubblico dei più giovani. I timori non sono infondati. La moda del glam, fatta di brani dalla grande cantabilità e dai testi disimpegnati, è soprattutto una scelta generazionale che contrappone i gusti degli adolescenti al rock più impegnato e concettuale dei loro fratelli maggiori. Il meno preoccupato è lui. «Perché dovrei? A parte l’età, cosa mi divide da gruppi come gli Slade o gli Sweet? Il glam segna il ritorno del rock al divertimento puro, senza ideologie e senza tante complicazioni. Io sono così». Non ha torto. Per un paio d’anni quell’adolescente un po’ stagionato dominerà le classifiche di vendita, ma poi i suoi giovani fans cresceranno e con la crisi del glam dovrà rassegnarsi a tornare nell'ombra. La sua storia, però, non finirà lì. Nel 1981 l’etichetta alternativa Stiff, incuriosita dalla storia di questo strano dinosauro del rock britannico, lo richiamerà in servizio. Per la terza volta in vent'anni Bernard Jewry, ancora con il nome di Alvin Stardust, tornerà al successo con una serie di brani come Pretend, I feel like Buddy Holly e I wan't run away ispirati al rock and roll delle origini.

04 ottobre, 2023

4 ottobre 1987 – Ian Anderson, professione musicista

Il 4 ottobre 1987 inizia a Edimburgo, in Scozia, un nuovo tour mondiale dei Jethro Tull. A dispetto di chi periodicamente la relega nel museo dei dinosauri del rock progressivo, la band sta vivendo l'ennesima nuova primavera della sua carriera. Il nuovo punto di svolta è segnato dalla pubblicazione dell’album Crest of a knave, accolto con entusiasmo dal pubblico e con una certa stupita meraviglia da parte della critica. L'unico a mantenere un ironico distacco è il flautista Ian Anderson, leader storico, l'anima e il simbolo dei Jethro Tull. L'occasione della partenza del tour fa convergere su Edimburgo un gran numero di giornalisti musicali interessati ad approfondire l'analisi di una band che pare avere sette vite come i gatti. Proprio Ian Anderson si accolla il compito di fare gli onori di casa. La conferenza stampa dopo i preliminari di rito assume ben presto i toni della chiacchierata tra amici. Il flautista non pare eccessivamente stupito dal "miracolo" del rinnovato successo del suo gruppo, anzi spiega di averlo ampiamente previsto: «Le mode sono una delle cose più precarie che conosco, vanno e vengono in un ciclo continuo, si alternano e quelle passate prima o poi finiscono per tornare. Così se tu sei un musicista e hai la costanza di non smettere di suonare e di continuare a comporre, vedrai che è solo questione di pazienza e di tempo. Non hai bisogno né di cambiare il tuo modo di vestire, né di tagliare la barba, e nemmeno di modificare la tua musica perché arriverà un giorno in cui tu sarai di nuovo di moda». Il vecchio leone si sente un po' a disagio nell'affrontare le solite domande banali che si fanno in occasioni simili. Alterna risposte serie a battute ironiche con l'aria di chi ne ha già viste di tutti i colori. Sa per esperienza che l'ambiente è quello, con le sue regole un po' rituali e un po' sciocche. Al termine si alza e si avvia verso l'uscita della sala dove si è svolta l'improvvisata conferenza stampa. Proprio sulla porta viene raggiunto da una giornalista giovanissima. La ragazza gli confessa di non sapere niente di lui, ma di essere stata affascinata dalla sua storia. Gli domanda poi come abbia potuto resistere per tanti anni all'indifferenza dell'ambiente e alla fine del progressive. Ian Anderson risponde: «Ho deciso che era il caso di continuare un po’ per passione e un po’ perché avevo il dovere di giustificare i miei documenti d'identità che, sotto la voce "Professione" riportano la scritta "Musicista"».

03 ottobre, 2023

3 ottobre 1976 - Victoria Spivey, la Regina del blues

Il 3 ottobre 1976 muore a settant’anni in un ospedale di Brooklyn la cantante blues Victoria Spivey, da tutti soprannominata "Queen" (regina). Nata a Houston, nel Texas per più di cinquant'anni ha attraversato da protagonista la scena blues statunitense. È ancora bambina quando comincia a girare cantando e a recitando negli spettacoli ambulanti che percorrono il classico circuito dei teatri neri del Sud degli Stati Uniti in città come St. Louis, Memphis e la natìa Houston. Nel 1926, a soli sedici anni, compone un brano che le dà la popolarità. È Black Snake Moan, oggi divenuto un classico del blues di tutti i tempi. Quando la crisi del 1929 e la conseguente depressione colpiscono pesantemente la popolazione nera del suo paese lei, che in quel periodo ha diciannove anni, cerca di interpretarne i sentimenti, la rabbia e la voglia di riscatto. Il suo stile fa più aggressivo e si libera delle influenze gioiose del vaudeville, che fino a quel momento l'avevano caratterizzato. Il risultato è sorprendente e al suo fianco si schierano alcuni dei migliori jazzisti di quel periodo, da Louis Armstrong, a Henry Allen, a Lonnie Johnson, a Tampa Red. Scrive e interpreta canzoni che parlano al cuore della sua gente. I suoi testi sono crudi e immediati. La voce acida, tagliente, sarcastica, amara e disincantata narra storie di suicidi, di malattie, d'emarginazione, di sesso disperato, di violenze razziali, di stanze umide e sottoscala in cui vive un'umanità consolata soltanto dall'alcol e dalla droga. A partire dagli anni Cinquanta riduce la sua attività musicale per dedicarsi quasi a tempo pieno a una delle tante strutture di assistenza per i poveri e gli emarginati messe in piedi da una comunità ecclesiale. Saltuariamente torna in concerto o in sala d'incisione per regalare gli ultimi gioielli di una carriera intensa e ricca di tensione. Negli ultimi anni di vita le sue capacità vocali si riducono con l'affievolirsi della limpidezza sui toni alti.