Il 30 gennaio 1969 John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr con il tastierista aggiunto Billy Preston, saliti sul tetto dell'edificio che ospita gli uffici di ciò che rimane della Apple, iniziano a suonare all’aria aperta davanti a un pubblico composto dagli impiegati della loro etichetta e da nugoli di incuriositi passanti a faccia in su. Tra i brani che vengono eseguiti c’è anche Get back, una canzone che nella sua stesura originale attacca duramente le proposte di legge britanniche contro l’immigrazione il cui testo viene successivamente "ammorbidito". «Ci sono i Beatles sul tetto!» La voce corre di quartiere in quartiere e in breve tempo la folla a naso in su aumenta considerevolmente di numero. Tutti hanno la sensazione di assistere a un avvenimento storico, perché sono anni che il gruppo non si esibisce più dal vivo. L’unico a non sopportare quello che lui considera un “baccano infernale” è il capocontabile della vicina sede della Royal Bank of Scotland, un certo Stephen King, che, infastidito dal rumore, chiama la polizia. Dopo qualche minuto arrivano gli agenti che, tra i lazzi e i fischi del pubblico, salgono sul tetto del palazzo e obbligano i Beatles a smettere. Nessuno ancora lo sa ma è l’ultima esibizione dei Beatles in pubblico. Dall’inizio all’interruzione forzata è durata quarantadue minuti. La storia della band dei quattro ragazzi di Liverpool è vicina alla sua conclusione ufficiale che verrà sancita l’anno dopo dall’annuncio ufficiale dello scioglimento con relativi strascichi giudiziari.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
30 gennaio, 2024
29 gennaio, 2024
29 gennaio 1966 - Traditi i “capelloni” a Sanremo
Il Festival di Sanremo del 1966 sembra colto da un impeto giovanilistico e “apre” al beat. Per la prima volta il programma della rassegna comprende la musica dei ‘capelloni’ che tanto piace ai giovani. Il cast è di tutto rispetto e va dall’aggressivo (allora) soulman Lucio Dalla, agli Yardbirds di Keith Relf e Jeff Beck, all’Equipe 84, ai Renegades, agli Hollies, ai Ribelli, allo “scandaloso” P.J. Proby, censurato in Gran Bretagna per l’abitudine di sbottonarsi i pantaloni durante i bis. Sembra che davvero la rassegna sanremese si sia aperta alle novità. Non è così. Tra il 28 e il 29 gennaio si consuma quello che i magazine giovanili dell’epoca chiameranno «un massacro a tradimento dei nostri idoli». Problemi tecnici, canzoni inadatte, accoppiamenti incredibili (P.J. Proby è in coppia con il tenore Giuseppe di Stefano!) e un generale fastidio dell’ambiente festivaliero nei confronti degli ‘invasori’ portano alla immediata eliminazione di tutti gli esponenti delle nuove tendenze giovanili, con l’eccezione di Caterina Caselli e dei Ribelli. Lo stesso Celentano, con la straordinaria Il ragazzo della via Gluck viene buttato fuori dopo la prima serata. Tra il Festival di Sanremo e le nuove generazioni si apre un conflitto destinato a durare nel tempo.
28 gennaio, 2024
28 gennaio 1921 - Con "Sur un air de shimmy" Georgius diventa una star
Il 28 gennaio 1921 sul palcoscenico de l’Européen Georgius presenta per la prima volta al pubblico il brano Sur un air de shimmy, destinato a diventare l’anno dopo il suo primo successo su disco. Alla metà degli anni Venti è al culmine della popolarità e il suo nome viene inserito nella ristretta rosa degli chansonniers di maggior successo. A differenza di quanto accade ad altri protagonisti di quel periodo la cui popolarità è immensa nella capitale ma scarsa nel resto del territorio francese, Georgius ottiene consensi in tutta la Francia. Non esiste città in cui i suoi concerti e, soprattutto, le sue riviste non siano letteralmente prese d’assalto dal pubblico entusiasta. In qualche caso, come all’Alcazar di Marsiglia dove le persone che non riescono a entrare provocano tumulti, si rende necessaria l’aggiunta di alcune repliche a quelle già previste dal programma. La gente canta in coro le sua canzoni, soprattutto Plus bath des javas, un brano che si prende gioco della Java, il ballo di moda di quegli anni. Nel 1926 la sua compagnia cambia nome e Les Joyeux Compagnons diventano Le Théâtre Chantant. Dietro il cambiamento c’è anche una novità nell’impostazione perchè Georgius sostituisce all’impianto del teatro di rivista tradizionale uno spettacolo basato su una serie di canzoni sceneggiate. Nel 1929 il suo spettacolo “Allô, ici Paris...” scandalizza il pubblico borghese del Moulin Rouge che si sente bersagliato dalla sua vena satirica e reagisce con freddezza. Lui non se ne cura. Due settimane più tardi viene portato in trionfo dagli spettatori che affollano all’inverosimile il cabaret Aux Buffes du Nord.
27 gennaio, 2024
27 gennaio 1980 – Jimmy Crawford, il batterista dello swing
Il 27 gennaio 1980 muore a New York il settantenne Jimmy Crawford, all’anagrafe James Strickland, batterista fra i più potenti e precisi, adatto come pochi a sostenere lo swing delle grandi orchestre nere degli anni Trenta. Nato a Memphis nel Tennessee trascorre gran parte della sua carriera nella big band di Jimmy Lunceford, una delle più famose del periodo dello swing. È proprio Lunceford a intuire le sue capacità quando, diciannovenne, è ancora studente. Lo convince a la sciare tutto e a seguirlo nella sua avventura. Crawford ripaga la fiducia del suo scopritore con gli interessi restando con lui per quattordici anni filati, fino al 1943 partecipando alla registrazione di tutti i successi anche discografici dell’orchestra, da Harlem shout a Baby wont’ you please come home. La sua prima fonte d'ispirazione stilistica sono i batteristi di New Orleans, anche se filtrati attraverso la lezione di due maestri come Sidney Catlett e Chick Webb. Progressivamente, però, il ragazzo si libera dalle varie influenze ed elabora uno stile proprio, vigoroso ed energico, capace di emergere per il suo swing in un'orchestra come quella di Lunceford, ricca di strumentisti di valore. Quando lascia il suo scopritore è ormai considerato una stella di prima grandezza nell'universo dei batteristi jazz. Sono molti i direttori d'orchestra che vorrebbero inserirlo stabilmente nel proprio organico, ma lui preferisce non legarsi più per tanto tempo. Nel dopoguerra si diverte a vagabondare tra vari gruppi senza dimenticare qualche orchestra sopravvissuta alla fine delle big band come quella di Lionel Hampton. La sua non è una scelta esistenziale, ma professionale. Lo stimola l'idea di prestare la sua batteria a personalità molto diverse tra loro, alla quali regala la sua genialità tecnica, ma dai quali assimila nuovo spunti di crescita artistica. Il quel periodo dà il suo apporto ai gruppi di quasi tutti i leader più importanti della scuola post-swing. Tra le tante sono da ricordare le sue collaborazioni con Edmund Hall, Illinois Jacquet e, soprattutto, Milton Mezzrow, con il quale registra una memorabile session discografica che comprende fra gli altri brani come Hot Club stomp e Blues in disguise, destinati a diventare due classici della storia del jazz. Gli acciacchi e qualche incomprensione con l'ambiente ne condizionano la carriera negli anni Settanta, iniziati con la partecipazione al film "L’aventure du jazz", e quando la morte lo coglie non suona quasi più.
26 gennaio, 2024
26 gennaio 1962 - Muore Lucky Luciano
Il 26 gennaio 1962 muore d’infarto a Napoli, all’aeroporto di Capodichino, Salvatore Lucania, più conosciuto con il nome di Lucky Luciano, considerato l’ideatore della moderna struttura delle cosche mafiose. Espulso dagli Stati Uniti viveva da tempo in Italia. Il boss, provato dalla morte per cancro della sua compagna Igea Lissoni, si trovava all’aeroporto di Napoli per incontrare un produttore cinematografico, interessato a girare un film sulla sua vita. Il suo corpo viene seppellito al Saint John's Cemetery di Queens.
25 gennaio, 2024
25 gennaio 1958 - Napoli piange Gennaro Pasquariello
Il 25 gennaio 1958 muore Gennaro Pasquariello. Considerato uno dei più grandi interpreti della canzone napoletana è nato nel capoluogo partenopeo l'8 settembre 1869. A tredici anni canta già in un teatrino della sua città. Oggetto di una passione popolare al limite del fanatismo, negli anni Venti e Trenta si esibisce in tutti i principali locali d’Europa di fronte a folle di ammiratori entusiasti. Quando è all'apice del suo successo per lui scrivono tutti i più grandi autori della canzone napoletana. Nel 1950 decide di lasciare le scene è dà un ultimo, affollatissimo, concerto d’addio durante la festa di Piedigrotta. Memorabili restano le sue interpretazioni di Marechiare, Rundinella, E dduie paravise, N’accordo in fa, Era una bambola, 'O surdato 'nnammurato, Mandulinata a mare, Teresina, Funtana all’ombra e Indifferenza.
Dopo aver dilapidato le ingenti fortune accumulate nella sua carriera muore a Napoli il 25 gennaio 1958.
Dopo aver dilapidato le ingenti fortune accumulate nella sua carriera muore a Napoli il 25 gennaio 1958.
24 gennaio, 2024
24 gennaio 1962 - Il film simbolo della “nouvelle vague”
Il 24 gennaio 1962 viene presentato in prima mondiale “Jules et Jim”, un film diretto da François Truffaut e interpretato da Jeanne Moreau destinato a diventare uno dei manifesti della “Nouvelle Vague” e un simbolo dell’emancipazione e della ribellione femminile dell’epoca. Tratto dall'omonimo romanzo di Henri-Pierre Roché, racconta la storia di un “rapporto a tre” tra una donna e due uomini all’epoca considerato scandaloso. Jeanne Moreau, interprete di una donna che si permette di governare senza troppi problema una relazione così scabrosa diventa un mito e la scena in cui canta la canzone Le tourbillon entra nella storia del cinema e del costume.
23 gennaio, 2024
23 gennaio 1910 - Django Reinhardt, l'uomo che ha liberato il jazz
Il 23 gennaio 1910 nasce Django Reinhardt, destinato a cambiare la prospettiva del jazz europeo liberandolo dalle simmetriche ripetizioni delle esperienze statunitensi. Tutto inizia nei pressi di Liverchies, un piccolo borgo nelle vicinanze della città di Charleroi, in Belgio. Qui in un carrozzone di un gruppo di nomadi del nord, commedianti e musicisti vagabondi, vede la luce un bambino. Sua madre si chiama Laurence Reinhardt ed è un'acrobata dalla pelle così scura che nell’ambiente viene chiamata “la negra”. Il padre si chiama Jean Vées, anche lui è un acrobata ma alterna le acrobazie all'intrattenimento musicale degli spettatori con il violino e la chitarra. Ricco di charme sa come conquistare il pubblico, soprattutto quello di sesso femminile. Laurence accetta il figlio ma non vuole saperne d’unirsi al padre in modo definitivo. Quasi come a trovare una mediazione al figlio si dà il nome del padre e il cognome della madre. Viene così registrato all’anagrafe come Reinhardt Jean anche il nome prestatogli dal padre verrà rapidamente dimenticato e sostituito da quello di Django. I primi anni di vita li passa vagabondando al seguito della madre, impegnata a tenere se stessa e suo figlio fuori dai rischi di una comunità “civile” che nel frattempo ha trovato modo di scannarsi in quella che verrà chiamata la Prima Guerra Mondiale. Dopo aver girato Italia, Corsica e soprattutto Africa del Nord, nel 1918, quando la follia bellica sembra essere finita, la roulotte di Laurence Reinhardt torna a Parigi e si ferma in una zona che all’epoca si chiama la “barriera di Choisy”. Django ha otto anni e alla scuola preferisce i vagabondaggi in compagnia dei monelli del posto. Non imparerà mai né a leggere né a scrivere e solo in tarda età si aggiusterà a “firmare” i documenti con uno scarabocchio in stampatello. In compenso è un talento con la musica. A dodici anni suona da dio la chitarra e il banjo e a partire dal 1913 “lavora” nelle balere con alcuni dei più importanti fisarmonicisti dell’epoca. Ormai popolarissimo tra gli abitatori della notte parigina nel 1928 all’Abbaye de Thélème, un locale in Place Pigalle, ascolta per la prima volta dall'orchestra di Billy Arnold i nuovi ritmi che arrivano dall’altra parte dell’oceano e ne resta affascinato. Il 2 novembre di quello stesso anno la sua roulotte prende fuoco ed egli, intrappolato per qualche minuto tra le fiamme, rimane gravemente ustionato a una gamba e alla mano sinistra. Incurante del rischio di cancrena rifiuta l’amputazione. La sua fibra lo aiuta a guarire ma la sua vita sembra destinata a cambiare per sempre visto che perde l’uso di mignolo e anulare della mano sinistra, atrofizzati. Lui però non s’arrende e già nella lunga convalescenza mette a punto una tecnica che gli consente di suonare soltanto con due dita rivoluzionando la stessa storia dello strumento. Poco tempo dopo viene ingaggiato da Stephen Mougin, uno dei primi jazzisti francesi, che lo ingaggia nella sua orchestra e lo inizia ai misteri della “nuova musica americana”. È l’inizio di una straordinaria carriera che ha la sua prima tappa nella nascita del Quintette du Hot Club de France, una formazione nata quasi per caso da un gruppo di musicisti dell'orchestra di Louis Vola all'Hotel Claridge. Durante le pause Django Reinhardt e il violinista Stéphane Grappelli insieme all’altro chitarrista Roger Chaput e al contrabbasso dello stesso Louis Vola, improvvisano dei motivi jazz in un locale abituato a una musica commerciale e compassata. Le esibizioni non sfuggono a Pierre Nourry, uno dei principali animatori dell'Hot Club di France, cui viene l'idea di costituire un gruppo di strumenti a corda imperniato sul talento di Django e con l’aggiunta di un terzo chitarrista. Dal Quintette du Hot Club de France in poi la chitarra zingara di Reinhardt frantuma progressivamente ogni tipo di convenzione contribuendo a liberare il jazz europeo dalle regole antiche figlie di una evidente sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. La sua musica è difficile da catalogare. È stata definita in vari modi: “jazz manouche”, “jazz tzigano”, “jazz gitano” e molti altri. Il critico francese Michel-Claude Jalard l’ha definita «...un universo a sé, nel quale si ritrovano tutti gli elementi propri per soddisfare gli amanti del jazz, ma anche "il grande pubblico", sensibile al carattere decorativo delle sue improvvisazioni, affascinato dalle sue lunghe note vibranti, dalla sua sensibilità, dal suo dinamismo...». All’epoca dei suo grandi successi non mancano i detrattori come il critico André Hodeir, per il quale quello di Django non è jazz, ma solo un “incidente pittoresco”. Ha torto. La rivoluzione musicale di Reinhardt cambia il destino stesso del jazz europeo. Se in America è stata strumento di riscatto dei neri privati dei diritti civili e trattati alla stregua di bestie da soma, nel vecchio continente con la chitarra e la genialità di Django diventa espressione di un altro popolo emarginato e invisibile come quello degli zingari trovando nuovi spazi, nuovi colori e soprattutto aprendosi a evoluzioni inaspettate. Il primo a capirlo è Eric Hobsbawm che nel 1959 scrive «è significativo che Reinhardt sia finora il solo europeo che abbia conquistato un posto nell’Olimpo del jazz... ed è significativo che si tratti di uno zingaro».
22 gennaio, 2024
22 gennaio 1908 - Alfredo Jandoli, il meccanico con la passione per il canto
Il 22 gennaio 1908 nasce a Napoli il cantante Alfredo Jandoli. Il suo vero nome è Alfredo De Nicola e fin da ragazzo coltiva la musica come una passione cui dedicarsi nel tempo libero. Fa il meccanico ma appena può corre a cantare ovunque lo chiamino. Proprio in una di queste esibizioni viene notato nel 1935 in un locale di Posillipo dal maestro Riccardo Conforti che lo invita a partecipare a un’audizione alla radio. Superato con successo l'esame, dopo un periodo di corsi destinato ad affinare le sue qualità nel 1938 entra a far parte dell’orchestra di Saverio Seracini. Nel 1939 canta con l’orchestra di Arturo Strappini. Dopo aver formato, nel 1941, il Sestetto Jandoli, ottiene un buon successo anche nel teatro di rivista in compagnie prestigiose come quelle di Totò, Nino Taranto, Aldo Fabrizi e Renato Rascel. Alla fine degli anni Quaranta è uno dei cantanti di punta della formazione di Giuseppe Anepeta ai microfoni di Radio Napoli. La sua voce viene utilizzata anche dal cinema per le colonne sonore di film come "Il voto" e "Simmo 'e Napule paisà".
21 gennaio, 2024
21 gennaio 1941 – Richie Havens, un folk singer dalla pelle nera
Il 21 gennaio 1941 nasce a Brooklyn Richie Havens, considerato uno dei migliori folk singer del periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Figlio di un pianista del ghetto nero di New York, ultimo di nove fratelli impara ben presto le regole della sopravvivenza e per aiutare la famiglia inizia a cantare in pubblico quando ha da poco compiuto i sei anni. A quattordici forma un gruppo gospel, i McCrea Gospel Singers, insieme ai quali comincia ad allargare i suoi orizzonti al di fuori dei vicoli e dei locali della zona in cui è vissuto fino in quel momento. Chiusa la parentesi gospel, non ancora diciassettenne, saluta famiglia e amici e se ne va. Non lascia la musica, ma si adatta a qualunque lavoro pur di sopravvivere: il ritrattista per turisti nel Greenwich Village, il fattorino della Western Union e l'operaio. Nei primi anni Sessanta inizia a frequentare i circoli folk del Greenwich Village e resta affascinato dalla lezione politica e musicale dei vecchi folk singer bianchi come l’onnipresente Pete Seeger. Da quel momento la sua storia artistica si lega con quella degli emergenti profeti della nuova canzone di protesta. Nella sua voce calda e profonda, arricchita dall’emotività interpretativa di derivazione gospel, sembrano saldarsi le tradizioni musicali bianche e quelle nere. Nel 1968 è tra i protagonisti del commosso tributo alla memoria di Woody Guthrie che si svolge alla Carnegie Hall di New York e l’anno dopo entra nella leggenda aprendo con la sua Freedom il Festival di Woodstock. Gli anni Settanta lo vedono ancora sulla cresta dell’onda con una serie di album di qualità e con canzoni come l’indimenticabile Going back to my roots o la curiosa versione della beatlesiana Here comes the sun. Parallelamente all’attività discografica e concertistica sperimenta altre forme espressive, dedicandosi in particolare al teatro. Nel 1972 partecipa alla messa in scena sui palcoscenici statunitensi dell’opera rock Tommy e due anni dopo indossa i panni d’Otello nel musical Catch my soul. Con l’arrivo degli anni Ottanta inizia la sua parabola discendente anche se non sparirà mai del tutto dalla scena. Pubblica qualche album e spesso si ritrova a dare una mano in sala di registrazione ai suoi vecchi compagni del Greenwich Village, in particolare a Bob Dylan, ma gli anni d’oro e gli ideali di rivolta sono ormai lontani. Muore a Jersey City il 22 aprile 2013.
20 gennaio, 2024
20 gennaio 1965 – Alan Freed, il d.j. che combatteva la segregazione
Il 20 gennaio 1965 a Palm Springs, negli Stati Uniti, prima d'aver compiuto quarantaquattro anni, disoccupato, alcolizzato e distrutto moralmente, muore d'uremia Alan Freed, il disk jockey che ha fatto conoscere agli statunitensi e al mondo la musica nera contribuendo alla diffusione del rock and roll. Mentre la musica nera piange la scomparsa di un amico, gli ambienti più conservatori degli Stati Uniti lo ricordano come un truffatore da quattro soldi. Non dimenticano le sue feste contro la segregazione razziale, né la carica eversiva dei suoi spettacoli e non gli perdonano di aver difeso personaggi discussi come Jerry Lee Lewis. Nel 1951, quando ancora negli Stati Uniti ci sono due classifiche di vendita diverse, una riservata al pubblico nero e l'altra a quello bianco, lui inventa un programma radiofonico intitolato "Moondog's rock'n'roll party" che diventa un veicolo per far uscire la musica nera dal ghetto. Inizia così quella che negli anni successivi verrà chiamata la "rivoluzione del rock and roll". Suo malgrado assurge al ruolo di protagonista con migliaia di fans club a lui intitolati. Bersagliato da ricorrenti campagne di stampa comincia ad avere i primi guai con la giustizia. Il 3 maggio 1958 nell'arena di Boston, di fronte a migliaia di giovani in attesa di Jerry Lee Lewis, per protestare contro l'atteggiamento intollerante della polizia prende il microfono e con calma gelida annuncia: «Ragazzi, la polizia di Boston non vuole che vi divertiate». Dopo una notte di scontri il rock and roll viene bandito a Boston, nel Maine, nel Connecticut e nel New Jersey. Da quel momento la sua vita è sottoposta a un controllo spietato da parte dell'FBI. Nel 1963 viene accusato di aver accettato denaro dalle case discografiche per spingere alcuni dischi. Quando la WABC, l'emittente radiofonica per cui lavora, gli chiede di firmare una smentita ufficiale lui rifiuta. Sostiene che sarebbe ipocrita perché tutto il sistema radiotelevisivo si regge sui contributi delle case discografiche e si dice invece disponibile a firmare una dichiarazione dalla quale risulti che non ha mai promosso un artista in cui non credesse. La WABC lo licenzia. Contro di lui si scatena una campagna implacabile accompagnata da una procedura di accertamento fiscale su tutta la sua carriera. Gli adulatori scappano spaventati e Freed resta solo. È la rovina. Nel 1978 sulle vicende della sua vita verrà realizzato il film “American hot wax” di Floyd Mutrux
19 gennaio, 2024
19 gennaio 1951 - Mouloudji entra per la prima volta in sala di registrazione
Il 19 gennaio 1951, nell'anno in cui compie ventotto anni, lo chansonnier Mouloudjii entra per la prima volta in uno studio d’incisione accompagnato dall’instabile ensemble di Philippe-Gérard. In quel giorno vengono registrati brani destinati a una lunga vita come Rue de lappe, Si tu t’imagines e Barbara. Il primo a capire le potenzialità di Mouloudji è quel geniaccio della scena parigina che risponde al nome di Jacques Canetti, già direttore della scalcinata Radio Cité, scopritore di talenti e condottiero indiscusso del cabaret Les Trois Baudets, che lo scrittura e lo accompagna verso il successo. È proprio Canetti a convincerlo a registrare il brano Comme un p’tit coquelicot con il quale vince il Grand Prix de Disque nel 1953. Nonostante il successo Mouloudji non abbandona l’impegno politico e, in quegli anni che vedono i francesi impantanati nella guerra d’Indocina, mette le sue canzoni e la sua voce al servizio della causa antimilitarista. Nel 1954 incide Le déserteur, la canzone di Boris Vian ancora oggi considerata tra i brani più vivi del movimento contro ogni guerra. Lui la canta sul palco del Theatre de l’Oeuvre proprio il giorno in cui la guerra dell’Indocina si conclude con la sconfitta francese a Dien Bien Phu provocando uno scandalo. Censurata e messa al bando dalle radio allineate con il governo riesce comunque a essere diffusa dalle antenne di Europe 1. Da quel momento il suo nome resta per sempre legato a questo brano sia per chi lo seguirà con simpatia e passione nella sua carriera che per il potere politico e per l’industria discografica che non perderanno occasione per censurarlo ed emarginarlo.
18 gennaio, 2024
18 gennaio 1926 - Italia Vaniglio, una voce da swing
Il 18 gennaio 1926 a Pola, oggi in Croazia, nasce la cantante Italia Vaniglio, registrata all'anagrafe con il nome di Itala Vaniglio. È soltanto quattordicenne quando fa il suo debutto nell'avanspettacolo e nel 1942, a soli sedici anni, diventa popolarissima con l'orchestra di Alberto Semprini interpretando canzoni come L'usignolo triste e Nebbia. Interprete swing di grande talento dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la Liberazione riprende a cantare con il Trio Gambarelli dai microfoni di Radio Tricolore. Il suo repertorio è prevalentemente impostato su canzoni jazzistiche e swingate. Ha anche l'occasione di esibirsi con l'orchestra del grande Duke Ellington in una sua fortunata tourneè italiana. Nei primi anni Cinquanta pubblica con l'orchestra del Maestro Piero Rizza brani divertenti come Ho un sassolino nella scarpa e Mamma voglio anch'io un fidanzato. Nel 1953 interrompe l'attività per sposare l'attore Febo Conti ma successivamente ritorna a cantare con musicisti illustri come il chitarrista Franco Cerri o i jazzisti Glauco Masetti e Romano Mussolini.
17 gennaio, 2024
17 gennaio 1937 - Ted Dunbar, un chitarrista senza paraocchi
Il 17 gennaio 1937 nasce a Port Arthur, in Texas, il chitarrista e compositore Ted Dunbar. Il suo vero nome è quello di Earl Theodore Dunbar e ha avuto una grande importanza nella storia del jazz non soltanto perchè ha fatto parte dei gruppi più significativi del be-bop, ma per la sua capacità di non farsi ingabbiare dalle mode e dai generi. Tra il 1955 e il 1959, dopo un periodo passato tra gruppi di strada e da ballo suona nelle jazzband della Texas Southern University. In quegli anni oltre alla chitarra si sperimenta in altri strumenti come la tromba e il trombone a pistoni. Negli stessi anni ha l'occasione di fare esperienza anche con le orchestre di Arnett Cobb, Don Wilkerson e Joe Turner. Nel 1959 termina l'università laureandosi in farmacia e contemporaneamente lavora sulle nuove teorie d'improvvisazione ipotizzate da George Russell con il suo trattato sul concetto cromatico Lidio di improvvisazione tonale. In questa avventura gli è compagno il trombonista David Baker. Tra il 1962 e il 1963, suona nel gruppo di Wes Montgomery e successivamente, tornato in Texas si esibisce con personaggi come Red Garland, Fathead Newman, Billy Harper e James Clay. Nel 1966 va a New York. Qui dà una prova della sua ecletticità suonando negli spettacoli di Broadway, allo Shakespeare Festival di New York, in concerti classici e iniziando anche a insegnare chitarra in vari seminari e nei laboratori del Jazzmobile e di Jazz Interaction. Tra il 1969 e il 1970 suona nel Ron Jefferson Choir poi se ne va per tre anni nell'orchestra di Gil Evans. Negli anni Settanta lavora con Sonny Rollins, Ron Carter, Billy Harper, Joe Newman, Roy Haynes, Frank Wess, Frank Foster, Richard Davis, i fratelli Heath e molti altri. Negli anni seguenti pubblica vari testi di teoria musicale e di metodo per chitarra. Muore il 29 maggio 1998.
16 gennaio, 2024
16 gennaio 1957 - Apre il Cavern
Il 16 gennaio 1957 Alan Sytner apre a Liverpool il Cavern, un locale d'intrattenimento musicale. L'apertura avviene con un concerto della Merseysippi Jazz Band. Per alcuni mesi viene considerato il tempio del jazz. I primi a rompere con la tradizione sono i Quarry Men di John Lennon che, nell'agosto dello stesso anno, suonano per la prima volta un paio di brani di rock and roll suscitando le ire di Sytner. Con il passare del tempo e il mutare dei gusti musicali, il locale cambia rotta sostituendo al jazz i suoni e i ritmi del beat. Oltre ai Beatles si può dire che tutti i gruppi protagonisti del Liverpool Sound debuttano in quello strano locale senza finestre. Con il passare degli anni, però, la situazione economica del Cavern tende a peggiorare. Su richiesta di un gruppo di creditori il 22 gennaio 1966 viene accertato che il carico di debiti della sua gestione supera ormai le diecimila sterline. Sei giorni dopo alla proprietà non resta altra scelta che chiudere. La vicenda, così rapida nella sua evoluzione, suscita sospetti, anche perché da tempo l'edificio è al centro di un braccio di ferro della proprietà con le autorità comunali, intenzionate a demolirlo per far posto a un nuovo tratto della metropolitana. La rovina finanziaria e la sua chiusura rendono dunque possibile l'abbattimento dello stabile. Per scongiurare il pericolo viene lanciata una petizione per chiedere che l'edificio venga dichiarato "monumento d'interesse culturale". Nonostante le migliaia di firme raccolte le autorità cittadine non sembrano intenzionate a cambiare idea. Per questa ragione il 1° marzo 1966 alcuni gruppi di giovani decidono l'occupazione simbolica del Cavern. In poche ore viene loro notificata l'ordinanza di sgombero immediato, sostenuta da uno schieramento impressionante di polizia. La notizia fa rapidamente il giro della città e in breve tempo i cento occupanti iniziali diventano dieci, venti volte di più. Le strade che portano al Cavern vengono chiuse da improvvisate barricate e per ore si susseguono gli scontri e i tentativi di sfondamento. Verso sera la polizia si ritira. Non tornerà più. L'edificio non sarà abbattuto e il locale verrà nuovamente riaperto nel mese di luglio con una cerimonia ufficiale cui parteciperà in prima persona anche il primo ministro britannico Harold Wilson.
15 gennaio, 2024
15 gennaio 2001 - Nasce Wikipedia
Il 15 gennaio 2001 viene messa in rete per la prima volta Wikipedia, un progetto che ha lo scopo di mettere a disposizioni di tutti un'enciclopedia libera e "universale", sia per l'ampiezza che per la profondità degli argomenti trattati. Essa viene descritta da Jimmy Walesw, uno dei suoi fondatori, come «...uno sforzo per creare e distribuire un'enciclopedia libera della più alta qualità possibile ad ogni singola persona sul pianeta nella sua propria lingua...» Il suo nome unisce la parola "wiki", che in hawaiano significa "veloce" e "pedia" un suffisso tratto dalla parola con la quale nel greco antico veniva definito il termine "insegnamento".
14 gennaio, 2024
14 gennaio 1967 - Lo Human Be In, il primo Festival Rock
Il 14 gennaio 1967, a Golden Gate Park in San Francisco, si svolge lo "Human Be In", un evento considerato il primo vero Festival Rock della storia. Tra i promotori c'è anche Timothy Leary, fondatore della rivista di contro-cultura "San Francisco Oracle". Lo Human Be In mescola musica, poesia e psichedelia. Migliaia di giovani ascoltano poeti come Allen Ginsberg declamare le loro opere dal palco assumendo gli acidi lanciati dal palco da Augustus Owsley Stanley III, un chimico di San Francisco considerato tra i veri artefici della psichedelia statunitense. Oltre alla poesia c'è la musica. In quella giornata suonano i Jefferson Airplane, i Grateful Dead di Jerry Garcia e i Qucksilver Messenger Service. Inizia così quello che verrà ritenuto un anno magico e ricchissimo dal punto di vista musicale.
13 gennaio, 2024
13 gennaio 1964 - La rivoluzione della minigonna
Il 13 gennaio 1964 in Gran Bretagna viene messa in vendita la minigonna. La sua ideatrice si chiama Mary Quant ed è una ragazza sveglia che sbarca il lunario facendo la modella e disegnando vestiti in un’epoca in cui il termine “stilista” non è ancora stato inventato. In possesso di un diploma specifico conseguito al Goldsmith College of Art pensa di trasformare in un’attività lavorativa quello che fino a quel momento è stato per lei un hobby e apre a Londra in King’s Road la Boutique Bazar. Proprio lì disegna il primo abito corto o, come dice lei, dà il primo taglio di forbice alle lunghe e scomode gonne sotto al ginocchio. È l’inizio di una vera e propria rivoluzione. Mary Quant, fedele al suo personaggio anticonformista si mostra sorpresa dall’interesse che circonda la sua creazione. Proprio in quel periodo rilascia una dichiarazione che sembra un modo di schernirsi, ma in realtà è la vera spiegazione del successo della minigonna: «Non sono io a creare quella che voi chiamate la mia moda. Le vere creatrici sono le ragazze che la indossano, le stesse che vedete per le strade e si inventano ogni giorno una variante diversa». Racconta anche che l’idea le è venuta una sera osservando le ragazze ballare alla taverna del Savoy: «Le ho viste con quelle sottane sotto al ginocchio che facevano una fatica terribile a tenersi in piedi con quel ritmo forsennato». Un taglio e via! Dalla Gran Bretagna si diffondono poi in tutto il mondo diventando il simbolo di una generazione. Sempre più corte le minigonne cambiano anche il modo di camminare, di sedersi, di stare con gli altri. Attorno a questo indumento si modificano anche gli altri accessori. Le ragazze le indossano con cinture alte o semplici ritagli di stoffa fascianti per evidenziare la vita e i fianchi. Le scarpe si arricchiscono di zeppe massicce, mentre scompaiono la sottoveste e i reggicalze. Un accessorio medicale, come i collant, ideato per contenere le gambe stanche e doloranti delle nonne, acquista nuovi colori, si fa leggerissimo e diventa una componente fondamentale del guardaroba delle nipotine. Anche gli stivali alti, spesso verniciati in bianco o in nero, diventano uno strumento di provocazione, un modo per far sembrare ancora più lunghe quelle gambe esposte alla vista. La rivoluzione non lascia intatto nessun santuario. La biancheria intima si fa pratica e, in molti casi inutile. Il reggiseno diventa un fastidioso orpello e la sottoveste un reperto storico da lasciare alle madri e alle vecchie zie. Anche le lunghe sedute dal parrucchiere sono fuori moda. Basta con le fastidiose messe in piega, niente più boccoli, i capelli si portano lisci, lunghi sulle spalle oppure corti e a caschetto.
12 gennaio, 2024
12 gennaio 1971 - Captain John Handy, un pezzo di storia del jazz e del rhythm and blues.
Il 12 gennaio 1971 muore Captain John Handy, un pezzo di storia del jazz e del rhythm and blues. Il sassofonista e clarinettista si spegne a Pass Christian, in Mississippi, la città dove era nato il 24 giugno 1900. Comincia a suonare da bambino sotto la guida del padre violinista. La prima band di cui fa parte, infatti, è quella paterna, nella quale suonano altri due suoi fratelli, Sylvester al basso e Julius alla chitarra. A Captain tocca la batteria, il suo primo strumento che abbandona poi per il clarinetto. Nel 1918 si trasferisce a New Orleans dove trova un ingaggio come clarinettista nell'orchestra di Tom “Kid" Albert. Suona poi il clarinetto con quasi tutti i leader più importandi del periodo come Amos Riley, Chris Kelly, Kid Rena, John Casimir e molti altri conquistandosi una vasta popolarità. Verso la metà degli anni Venti è a capo di una propria orchestra che si esibisce con regolarità all'Entertainers’ Club, uno dei più eleganti cabaret di New Orleans. In quell'esperienza può contare su una spalla di tutto rispetto come il trombettista Red Allen. Entra poi a far parte dell'ensemble di Tut Johnson con cui suona per due anni circa a Baton Rouge. Nel 1929 si aggrega al trombettista Kid Howard e all'inizio degli anni Trenta forma i Louisiana Shakers, un gruppo di rhythm and blues che riscuote un notevole successo commerciale negli anni della depressione e nel quale Captain John Handy è solista di sax alto, strumento che da quel momento diventa il suo preferito. Pur con varie interruzioni è ancora attivo negli anni Sessanta, esibendosi sia con l'orchestra di Kid Sheik che alla testa di proprie formazioni Alla sua morte viene definito come «...uno dei migliori musicisti affermatisi in seno al New Orleans revival».
11 gennaio, 2024
11 gennaio 2003 - I So Solid Crew accusati di fomentare la violenza
L'11 gennaio 2003 i giornali danno conto di un'insolita polemica. In linea con le posizioni guerrafondaie e disattente sul piano sociale del suo governo, la ministra della cultura della Gran Bretagna, Kim Howells, interpellata in un’intervista radiofonica per commentare l’assassinio di due ragazze a Birmingham durante lo scontro con armi da fuoco tra due gang rivali, non ha trovato di meglio che puntare l'indice contro la black music. Il degrado delle periferie? La crisi dei rapporti sociali? Il crescente razzismo? La violenza? Tutta colpa della musica e dei So Solid Crew. «Gli eventi di Birmingham sono il sintomo preoccupante di un degrado serio» Ha dichiarato il ministro che per evitare di essere frainteso (casomai qualcuno pensasse che la colpa sia della politica sociale del governo Blair) ha immediatamente additato i responsabili esprimendo grave preoccupazione per «…i testi pieni d’odio che questi macho idioti cantano. Idioti come i So Solid Crew glorificano la cultura della pistola e della violenza. È un fatto preoccupante e dobbiamo renderlo noto». Dunque, per risolvere il problema delle periferie delle metropoli e le frange violente che abitano il disagio giovanile l'unica soluzione è spegnere la radio. Questa curiosa teoria aveva già avuto un sostenitore nel commissario della polizia metropolitana Tarique Ghaffur per il quale la musica dei So Solid Crew è alla base dell'alienazione dei giovani perché «li incoraggia a usare le armi». Presi in mezzo i So Solid Crew negano qualsiasi legame tra la loro musica e l’aumento di violenza in un’intervista al quotidiano The Guardian: «La povertà, il crimine e l’abuso di cocaina aumentano. Nella loro musica i So Solid Crew descrivono soltanto quello che vedono». Più pesanti ancora le reazioni di Conor McNicholas, editore del prestigioso New Musical Express, che definisce le dichiarazioni del ministro “profondamente razziste” e nate dall'ignoranza. «Occorre essere chiari - ha spiegato il giornalista - La "gun culture" è una conseguenza della povertà urbana, non una causa e la musica riflette l’esperienza dei ragazzi che vivono questi problemi».
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