Il 1° agosto 1950 a Chicago, nell'Illinois, muore per un'improvvisa crisi cardiaca il batterista Mouse Burroughs, all'anagrafe Alvin Burroughs. Non ha ancora compiuto trentanove anni. Nato a Mobile, in Alabama, cresce nei sobborghi di Pittsburgh e fin da piccolo passa gran parte del suo tempo a percuotere barattoli, pentole, scatole di cartone e tutto ciò che può produrre un suono. Quando qualcuno gli mette tra le mani una batteria capisce che quella sarà la sua vita. A sedici anni suona a Sharon in Pennsylvania insieme a un altro giovane e promettente strumentista che risponde al nome di Roy Eldridge. Nel 1929, quando non ha ancora diciannove anni, ottiene la sua prima importante scrittura. Viene, infatti, chiamato a Kansas City per essere inserito nella formazione dei Blue Devils del contrabbassista Walter Page, considerata una delle migliori formazioni di quel periodo e destinata a diventare la culla della futura orchestra di Count Basie. È sua la batteria che si ascolta in Blue Devil blues e Squabblin’, due delle incisioni più conosciute della band di Page. La sua avventura musicale è, però solo all'inizio. Ben presto se ne va anche da Kansas City e dopo un breve periodo alla corte di Alphonso Trent, si trasferisce a Chicago dove suona con Walter Fuller, Omer Simeon, Budd Johnson e molti altri protagonisti del circuito jazz di quella città. Nel 1938 prende parte a una seduta di incisione organizzata e diretta dal vibrafonista Lionel Hampton, che, non disponendo ancora in quel periodo di una formazione stabile, si affida di volta in volta a gruppi di musicisti reperiti sulla piazza chicagoana. L’anno dopo se ne va a New York per suonare con l'importante orchestra di Earl Hines in sostituzione di Wallace Bishop. Il suo nome è stato suggerito al grande Hines da tre suoi strumentisti, Fuller, Simeon e Johnson, vecchi compagni di Burroughs a Chicago. Con questa orchestra il batterista registra per la Bluebird tra il mese di luglio del 1939 e l’inizio del 1941 una lunga serie di dischi che lo fanno conoscere a livello internazionale. Nonostante i successi la sua inquietudine artistica lo porta a nuove migrazioni. Nel 1941 suona con l’orchestra di Milton Larkin al “Rhumboogie” di Chicago e nel 1942 passa alla formazione di Benny Carter. Dopo un periodo in proprio, nel 1945 entra a far parte del gruppo di Red Allen dove rimane fino al 1946. Nel 1949 diventa il batterista del quartetto di George Dixon con il quale resta fino alla crisi cardiaca che lo uccide.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
01 agosto, 2024
31 luglio, 2024
31 luglio 1967 - Fuori gli Stones dalle galere!
Dopo una mobilitazione senza precedenti dei più popolari personaggi del beat britannico, il 31 luglio 1967 la Corte d'Appello di Londra libera dal carcere Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones. Cosa ci fanno in prigione due protagonisti di primo piano della musica pop di quel periodo? Facciamo un passo indietro fino al 29 giugno, quando il giudice Lesley Block condanna Jagger a tre mesi di reclusione e cinquecento sterline di multa e Richards a un anno di carcere più cento sterline di multa. L’imputazione è di detenzione e uso di marijuana. La sentenza è immediatamente operativa. Mick Jagger viene rinchiuso nel carcere di Brixton e Keith Richards in quello di Warmwood Scrubs. La notizia fa rapidamente il giro di Londra e immediata scatta la solidarietà. Alla faccia delle finte rivalità e nonostante gli inviti alla prudenza dei loro discografici, i primi a prendere pubblicamente posizione sono gli Who, che, convocata in fretta e furia una conferenza stampa, annunciano l’intenzione di pubblicare un disco con due brani degli Stones, Under my thumb e The last time per “mantenere desta l'attenzione del pubblico” sul lavoro del gruppo. Tre giorni dopo la sentenza il prestigioso Times in un editoriale firmato da William Rees-Moog parte dalla carcerazione dei due artisti per attaccare duramente il sistema giudiziario britannico. La mobilitazione raggiunge il culmine quando, cinque giorni prima del processo d’appello, lo stesso Times ospita in un’intera pagina a pagamento un appello per la legalizzazione della marijuana firmato da tutti e quattro i Beatles, dal loro manager Brian Epstein e da altri personaggi della scena musicale britannica. Questo è il clima nel quale il 31 luglio si svolge l’udienza conclusiva dell’appello. Tra il tripudio dei presenti, dopo la lettura della sentenza il giudice, Lord Parker, con motivazioni tecniche diverse, revoca la condanna al carcere e ordina l’immediata liberazione dei due musicisti.
30 luglio, 2024
30 luglio 1942 – La tubercolosi uccide Jimmy Blanton
Consumato dalla febbre e dal dolore giovedì 30 luglio 1942 nel letto di una triste camerata comune del sanatorio di Monrovia, in California, muore di tubercolosi il contrabbassista Jimmy Blanton. Per i frettolosi inservienti non è altro che un nero come tanti in un epoca in cui in molti Stati si discute ancora se questi strani esseri dalla pelle scura debbano godere o no dei diritti civili. Un modesto e anonimo funerale chiude la breve vita di un musicista destinato a lasciare un segno importante nella storia del jazz e del rock. Quando la tubercolosi se lo porta via ha ventun anni, ma ne dimostra di meno. Le foto dell’epoca mostrano la sua faccia da ragazzo quasi nascosta dietro a uno strumento imponente come il contrabbasso. Nato a St. Louis, nel Missouri, in una famiglia poverissima per passare il tempo si diverte a suonare strumenti a corda inventati da lui. Quando qualcuno gli fa conoscere il contrabbasso decide che quello strano strumento, così simile a quelli con cui gioca, sarà la sua vita. Istintivo e geniale, non ha ancora l’età per portare i pantaloni lunghi quando viene ingaggiato dall’orchestra Jeter-Pillar, una delle più famose della sua città. Nel 1939 il grande Duke Ellington lo ascolta per caso, ne resta affascinato e gli propone, nonostante abbia solo diciott’anni, di entrare nella sua orchestra. L’avventura con il Duke dura fino all’inverno del 1941 quando Jimmy scopre di doversi occupare di una compagna più esigente e più totalizzante del suo strumento: la tubercolosi. Nonostante la brevità della sua carriera Blanton ha un'influenza rilevante nell’evoluzione dell’utilizzo del contrabbasso che lui trasforma da strumento defilato d’accompagnamento in una “voce” importante dell’insieme strumentale. Leggendari restano la sicurezza del suo attacco, la potenza della sonorità e i suoi dialoghi strumentali con il solista o le varie sezioni. La sua lezione, raccolta e sviluppata dai maggiori contrabbassisti del jazz moderno influenzerà anche l’evoluzione del basso elettrico nel rock-jazz degli anni Settanta.
29 luglio, 2024
29 luglio 1974 – Non chiamatemi Mama!
Il 29 luglio 1974 muore improvvisamente nel suo appartamento di Londra, stroncata da un infarto, Cass Elliott, più conosciuta con il nome di Mama Cass, una delle componenti, insieme a John Phillips, Holly Michelle Gillian e Denny Doherty, di uno dei gruppi storici della ventata pacifista hippie degli anni sessanta: i Mamas & Papas. La grossa e simpatica Cass, che non ha ancora compiuto trentun anni, da tempo soffriva di disturbi legati alla sua obesità, ma alla sua morte iniziano a circolare le voci più disparate. Alcuni tabloid parlano di overdose, altri di soffocamento da cibo, ma la realtà è quella che i suoi pochi amici avevano intuito fin dall'inizio: il grande corpo della cantante ha finito per soffocare il suo fragile cuore. Nata a Baltimora, nel Maryland, si trasferisce giovanissima a New York dove studia musica e recitazione. All'inizio degli anni Sessanta canta con i Big Three ed è considerata una delle migliori voci del Greenwich Village. È proprio in questo periodo che la sua obesità, portata quasi con ostentazione, diventa uno degli elementi caratteristici del suo personaggio, quasi quanto la sua voce. Quando prende il via l'esperienza dei Mamas & Papas diventa per tutto il mondo "Mama" Cass. Vive con entusiasmo l'avventura della band e quando si conclude patisce più dei suoi tre compagni l'inevitabile strascico di polemiche e tensioni. Ciononostante arrotola le maniche e riprende la carriera da dove l'aveva lasciata al momento della formazione dei Mamas & Papas. Tra i membri del disciolto gruppo storico è sicuramente quella che raccoglie i migliori risultati come solista. Nel 1968 pubblica con successo il singolo Dream a little dream of me, seguito dall'album omonimo. I vari tentativi di rimettere in piedi i Mamas & Papas la portano a sospendere per un paio d'anni le iniziative solistiche. Torna in sala di registrazione nel 1971 per contribuire con la sua voce alla realizzazione dell'album Dave Mason and friend dell'ex Traffic Dave Mason e due anni dopo pubblica nuovamente come solista, il singolare e ironico The road is no place for a lady (La strada non è un posto per una signora). La sua ironia sembra in linea con il suo personaggio di cicciona simpatica, ma i problemi fisici iniziano a farla entrare in conflitto con se stessa e con quel fisico ingombrante. Pochi mesi prima di morire dà alle stampe il suo nuovo album Don't call me Mama anymore (Non chiamarmi più Mama). È un grido disperato destinato a perdersi nel vuoto.
28 luglio, 2024
28 luglio 1979 - La fine degli Sham 69 e il crepuscolo del punk
Sabato 28 luglio 1979 un imponente servizio d’ordine presidia le strade che circondano il Rainbow di Londra. In quello che è considerato uno dei templi del rock britannico si esibiscono nell’ultimo concerto della loro breve vita gli Sham 69, una band di culto del movimento punk. Le forze dell’ordine sono state allertate fin dalla mattinata. Ogni concerto del gruppo guidato da Jimmy Pursey si trasforma in un campo di battaglia per opera degli skinheads, accesi, quanto imbarazzanti sostenitori degli Sham 69. Del resto non è immotivata la pessima fama, delle “teste rasate”, termine che in quel periodo ha una connotazione di estrema sinistra. Nati come risposta alle provocazioni fasciste del National Front contro i punk, in breve tempo si sono fatti la fama di violenti e attaccabrighe spesso senza motivo. «Se tutti i ragazzi rimarranno uniti, non saranno mai vinti» è il saluto con il quale gli Sham 69 si congedano dal pubblico del Rainbow. Ma non è solo la fine del concerto, né quella della band. La fiammata del punk, anarchica e nichilista, non ha sbocchi e si sta esaurendo. Le urla che salutano l’uscita di scena di Pursey, del batterista Mark “Doidie” Cain, del chitarrista Dave Parsons e del bassista Dave “Kermit” Treganna hanno il sapore dell’addio a una stagione esaltante, ma disperata. Eppure solo un anno prima Jimmy Pursey gettava a terra e calpestava il disco d’argento consegnatogli per le vendite di That’s life in segno di solidarietà con gli Angelic Upstarts, messi alla porta dalla Polydor, la sua casa discografica. Non è più tempo di premi. Le energie del punk si stanno spegnendo. Pursey, dopo un paio d’album da solista, tornerà nell’anonimato, come i ragazzi da lui descritti: «Il punk è un ragazzo che vive in palazzoni desolati della periferia. Non sa cosa fare. Non gli piace la noia e ogni tanto si diverte a sfasciare i vetri di qualche finestra con un mattone, poi torna a casa».
27 luglio, 2024
27 luglio 1992 – Gli Erasure? No che non si sciolgono
Sono tanti i fans che accolgono all’Hammersmith Odeon di Londra il 27 luglio 1992 gli Erasure nel concerto che conclude l’ennesimo tour britannico di uno dei gruppi più importanti della fine degli anni Ottanta. Il successo della tournée ha smentito i corvi che parlavano di loro come di un duo ormai in disarmo, senza più nulla da dire e, nei fatti, alla vigilia dello scioglimento. C’è anche chi ha scritto che la partecipazione al doppio album “Red Hot & Blue” del 1991, una compilation per raccogliere fondi da destinare alle cure dei malati di AIDS, fosse da considerarsi il loro canto del cigno. Il concerto all’Hammersmith Odeon assume così un significato particolare per una coppia nata dall’idea dell'instabile e perennemente insoddisfatto Vince Clarke, famoso per la sua capacità di creare e, con la stessa facilità, abbandonare a se stesse band di grande successo. Nella sua intensa carriera, infatti, dà il suo apporto fondamentale alla nascita e ai primi successi di gruppi come i Depeche Mode e gli Yazoo che lascia prima ancora di poter godere i risultati del suo lavoro. Irrequieto al limite del masochismo, nel 1983 tenta di dar vita con Eric Radcliffe a un progetto chiamato The Assembly: un album con dieci canzoni interpretate da altrettanti cantanti. L'idea, però, si scontra con gli interessi delle case discografiche e con i vincoli contrattuali degli interpreti per cui, nonostante l’ingente mole di materiale registrato, vede la luce soltanto il singolo Never never interpretato da Feargal Sharkey. Dall’ennesimo fallimento nascono gli Erasure, un duo composto da lui e dal cantante Andy Bell, reperito con un’inserzione sulla rivista "Melody Maker". L’esperimento diventa la più longeva esperienza di Clarke, forse stimolato dal clamoroso insuccesso che caratterizza il debutto discografico della coppia con il singolo Who needs love like that alla fine del 1985. Non meglio va ai due dischi successivi. Gli Erasure devono aspettare l’album Wonderland nel 1986 per trovare credito e consensi. Dopo essere stati proclamati “miglior gruppo del 1989” diminuiscono progressivamente la produzione discografica. Per questo quando iniziano il tour britannico del 1992 in pochi credono che manterranno gli impegni. Il concerto dell’Hammersmith Odeon smentisce tutti e diventa un tributo ai fans che hanno creduto in loro.
26 luglio, 2024
26 luglio 1943 – Mick Jagger, la pietra che rotola anche da sola
Il 26 luglio 1943, a Dartford, in Gran Bretagna, nasce Mick Jagger, il leader carismatico dei Rolling Stones, capace di interpretare fino in fondo il ruolo di discusso e sorprendente uomo-immagine di uno dei gruppi più graffianti, spettacolari e provocatori della storia del rock. Come e meglio degli altri Stones Mick è riuscito a brillare anche di luce propria al di fuori dell’attività del gruppo. In questo, più che nelle, spesso ripetitive, avventure discografiche della sua band, c’è, forse, il segreto di un longevità artistica che non si nutre soltanto di nostalgia. Parallelamente alle vicende degli Stones riesce, infatti, a sviluppare, con intelligenza ed equilibrio, esperienze individuali. L'esordio di Jagger come solista avviene nel 1970, mentre la sua band è all'apice del successo, con Memo from Turner, un brano della colonna sonora di "Performance", il film che segna il suo debutto come attore. L’esperienza si ripete poco tempo dopo con la colonna sonora di "Ned Kelly", il suo secondo film. Incurante delle raccomandazioni dei produttori, che temono che il suo comportamento possa alimentare le ricorrenti voci di scioglimento degli Stones, non rinuncia neppure alla collaborazione con altri artisti. Alla fine degli anni Settanta dà una mano al nuovo profeta giamaicano del reggae Peter Tosh interpretando con lui il brano Don't look back, inserito nell'album Bush doctor dello stesso Tosh. Nel 1984 registra con Michael Jackson State of shock e, l'anno successivo, canta con David Bowie una infiammata versione di Dancing in the street, un brano soul degli anni Sessanta. Si dice sia stato lui a convincere un refrattario Bowie ad accompagnarlo in occasione del Live Aid, il concerto organizzato da Bob Geldof per raccogliere fondi per le popolazioni etiopiche. Alla fine l’attività di solista convince anche il music business tanto che, alla fine degli anni Ottanta, quando stipula il miliardario contratto con gli Stones, la CBS prevede l’obbligo per Jagger di realizzare alcuni dischi in proprio. Il dovere contrattuale sembra però spegnere la creatività di Mick che nei primi due album, molto pubblicizzati, non aggiunge niente di nuovo al lavoro degli anni precedenti. Ritroverà la vecchia grinta nel 1993 quando realizzerà Wandering spirit con la collaborazione di un gran numero d’amici, tra i quali Lenny Kravitz, Billy Preston, Flea dei Red Hot Chili Peppers e Doug Wimbish dei Living Colour.
25 luglio, 2024
25 luglio 1965 – Quel rinnegato di Bob Dylan
Il concerto di Bob Dylan è l’evento più atteso dell’edizione del 1965 del Festival Folk di Newport. Due anni prima, infatti, quel giovane scontroso dalla voce nasale era stato salutato come il maggior protagonista di una nuova stagione del folk statunitense. Quasi a sancire la sua consacrazione, durante l’esecuzione del brano “Blowin’ in the wind” era stato raggiunto sul palco da Joan Baez, Peter Paul and Mary, i Freedom Singers e Pete Seeger, vale a dire tutti gli artisti più importanti di quel genere musicale. Il Festival di Newport lo aveva indicato al mondo come il profeta-cantore di una nuova rivoluzione giovanile. Nel 1965, però, è diverso. Son passati due lunghi anni dall’episodio e molte cose sono successe nel frattempo. Bob Dylan non è più quello del 1963. È andato più volte in Inghilterra e ha avuto una lunga serie di incontri e scambi artistici con i protagonisti della scena musicale inglese di quel periodo, in particolare con i Beatles ed Eric Burdon, il cantante degli Animals. Pian piano si è fatta strada in lui l’idea di abbandonare le sonorità acustiche del folk per dare nuova linfa alle sue composizioni. Nei primi mesi del 1965 è nato così l’album Higway 61 Revisited, nel quale il folk delle origini sembra annegare in una esplosiva miscela di rock e blues. Considerato anche nei decenni successivi uno dei migliori dischi del cantautore, con brani come Like a rolling stone, Desolation row o Ballad of a thin man, l’album ha, però, scavato un solco profondo tra Dylan e i “puristi” del folk. La sua decisione di accettare l’invito a esibirsi nel Festival Folk di Newport sembra quasi preludere a un ripensamento critico nei confronti delle sue ultime scelte, ma c’è chi lo aspetta al varco per fargli pagare caro quello che considera un “tradimento”. Il 25 luglio 1965, quando appare sul palco accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band tutti capiscono che Dylan ha deciso di tirare dritto e di non accettare imposizioni o richiami al passato. Lui è quello che è. Fin dalle prime note elettriche il pubblico si divide a metà: da una parte quelli che urlano, schiamazzano e lo chiamano “rinnegato”, dall’altra chi si appassiona alla trascinante carica delle nuove sonorità. Il cantautore, sordo alle contestazioni, mostra una grinta insospettabile, ben sostenuta dalla band di Paul Butterfield, che schiera musicisti di tutto rispetto come Elvin Bishop, Mike Bloomfield e Al Kooper Questo atteggiamento infastidisce ulteriormente i suoi detrattori che iniziano a premere sulle transenne. A nulla vale l’intervento pacificatore di altri artisti. Alcuni esagitati tentano anche di salire sul palco e vengono respinti a stento dal servizio d’ordine. Dylan sembra non vedere e non sentire nulla. Snocciola, una dopo l’altra le sue canzoni e, orrore!, anche quelle vecchie e più conosciute vengono presentate in una nuova versione elettrica, mentre nel pubblico continuano le discussioni e le minacce di scontro fisico tra chi lo invita a smettere e chi lo incita ad andare avanti. Come spesso accade, nessuno si rende conto di vivere un evento fondamentale della storia del rock. Quel concerto, infatti, verrà ricordato negli anni, oltre che come la prima grande svolta nella carriera di Bob Dylan, come il primo, coraggioso e riuscito tentativo di innovare le sonorità del nuovo folk statunitense. Dopo di lui altri artisti seguiranno la sua strada e lo stesso Festival Folk di Newport si aprirà alle strumentazioni elettriche. Verrà anche coniato un nome per il nuovo genere, folk rock, capace di salvare capra e cavoli (la capra della tradizione e i cavoli dell’innovazione). Dylan non si fermerà qui. Qualche mese dopo incontrerà gli Hawks di Robbie Robertson, dal cui nucleo nascerà la Band, il gruppo destinato ad affiancarlo per lungo tempo.
24 luglio, 2024
24 luglio 1987 - "La Bamba", il rock chicano di Ritchie Valens
Venerdì 24 luglio 1987 viene presentato in prima visione negli Stati Uniti il film “La bamba” di Taylor Hackford, ispirato alla vita del cantautore e chitarrista Ritchie Valens, interpretato sullo schermo da Lou Diamond Phillips. Il titolo della pellicola è preso a prestito alla sua canzone più conosciuta, una rielaborazione in chiave rock and roll di un brano tradizionale messicano. La presentazione del film riapre una vecchia polemica tra i critici anglofoni e la comunità degli immigrati di lingua ispanica, in particolare quelli di origine messicana. Questi ultimi accusano di colonialismo culturale e anche di razzismo quella parte della critica che continua a considerare minore il genere di musica elaborato da Ritchie e a chiamarlo con l’appellativo di “tex-mex”. Le radio ispanoamericane di Los Angeles guidano l’offensiva contro la discriminazione: «Quel genere è nostro, affonda le radici nella nostra tradizione, è ‘rock chicano’. Se non vi piace non ascoltatelo, ma smettetela di gettare merda su tutto ciò che non è in linea con la vostra barbosa tradizione anglosassone. Questo paese è anche nostro!». Chi, molto probabilmente non avrebbe mai pensato di diventare una bandiera, è Richard Steven Valenzuela, in arte Ritchie Valens, il protagonista involontario di questa disputa. Nato a Pacoima, un sobborgo d’immigrati perduto nella periferia della grande Los Angeles il 13 maggio 1941. Chitarrista acustico istintivo e buon cantante, viene scoperto dal produttore Bob Keene in una festa scolastica. Scritturato per pochi dollari, nel 1958, ancora adolescente arriva al successo con brani che mescolano la gioiosa armonia latina della tradizione messicana con le nuove strutture ritmiche del rock and roll. Il destino non gli consente di godere a lungo della popolarità. Il 3 febbraio 1959, infatti, non ancora diciottenne, muore in un incidente aereo insieme ad altre due star del rock and roll come Buddy Holly e Big Bopper, con i quali è impegnato in una tournée nel Midwest.
23 luglio, 2024
23 luglio 1974 – Gene Ammons, uno dei protagonisti del rinnovamento della musica jazz
Il 23 luglio 1974 il sassofonista Gene Ammons muore a Chicago, nell’Illinois, la città dove è nato il 14 aprile 1925. Figlio del celebre pianista di boogie-woogie Albert Ammons, ha vissuto una esistenza complicata dall'uso e soprattutto dall'abuso di stupefacenti che talvolta lo hanno costretto anche al silenzio. Cresciuto al fianco del padre in una Chicago che sta vivendo uno dei periodi musicalmente più interessanti della sua storia, Gene diventa uno dei protagonisti del rinnovamento della musica jazz. A diciassette anni è nell'orchestra di King Kolax e dal 1944 al 1947 fa parte integrante della Star Orchestra di Billy Eckstine, una delle formazioni più celebri d'America di quegli anni. Proprio in quel periodo il sassofono di Ammons inizia a innestarsi nel processo di rottura degli schemi tradizionali assimilando anche la lezione di Lester Young. Il suo stato di perenne tensione e d’irrequietezza, per molti versi non dissimile da quello che porta alla morte Parker, fa sì che nel 1948 Ammons lasci Eckstine e cominci a lavorare con piccoli gruppi indipendenti, più adatti al suo carattere volubile e all'insicurezza che la sua situazione psichica gli provoca. Nel 1949 sostituisce Stan Getz nel gruppo di Woody Herman, ma non resiste a lungo alla rigida disciplina dei quella band. L’anno dopo è con Sonny Stitt in una sorta di sfida a due sassofoni. Le esibizioni dei due al Birdland di New York, una parte delle quali è stata registrata e pubblicata su disco, sono rimaste nell’immaginario dei cultori di jazz come emblematiche della componente più “folle” della stagione del bop. Per un tipo inquieto come Ammons, però, il linguaggio del be bop non è un punto d’arrivo, ma il passaggio verso nuove forme espressive che lo portano prima a sperimentare il cool jazz e poi nel territorio meno accidentato e più meticciato del rhythm & blues.
22 luglio, 2024
22 luglio 1967 - La prima volta dei Vanilla Fudge
Nel Village Theatre di New York la sera di venerdì 22 luglio 1967 non si respira. L’afa, il fumo delle sigarette e il calore dei corpi di centinaia di ragazze e ragazzi stordiscono più della musica diffusa dalle casse audio del locale. Sfidando la calura estiva in molti aspettano il concerto dei Byrds, annunciato come l’evento principale del fine settimana. Il cartellone della serata prevede l’esibizione di due gruppi di contorno: i Seeds e i Vanilla Fudge. Questi ultimi, sconosciuti ai più, sembrano destinati a fare le spese dell’impazienza degli spettatori, accaldati e ansiosi di applaudire la band principale. Un mormorìo insofferente accoglie il loro ingresso sulla scena. Sono quattro, Vince Martell alla chitarra, Carmine Appice alla batteria, Tim Bogert al basso e Mark Stein alle tastiere. Senza dire una parola iniziano a suonare una stralunata versione di You keep me hangin’ on, un brano "leggero" portato al successo dalle Supremes. Le note distorte delle tastiere e della chitarra, talora in leggera dissonanza, sorrette da una batteria che sembra suonare in controtempo, catturano l’attenzione del pubblico che, rapito, si lascia ipnotizzare dalla liquidità psichedelica della band. L’esibizione segna l’inizio delle fortune dei Vanilla Fudge. Scritturati dall’Atlantic, incuriosiranno i ragazzi di tutto il mondo con la loro musica, caratterizzata da un collage di citazioni classiche e rivisitazioni psichedeliche di canzoni famose. Nelle loro esecuzioni si ritrova di tutto: dai successi pop del momento ai Beatles, a Chopin, a Stravinsky. Il successo della band sarà breve, un paio d’anni o poco più. Nel 1970 i Vanilla Fudge si scioglieranno lasciando ai critici il compito di gingillarsi con un dubbio su quel frullato di suoni che caratterizzava le loro esecuzioni: un’intelligente contaminazione tra varie forme musicali filtrate attraverso la psichedelia o una furba e fortunata operazione commerciale?
21 luglio, 2024
21 luglio 1959 – Rossana Casale, una voce da jazz
Il 21 luglio 1959 nasce a New York Rossana Casale, una delle voci più interessanti del jazz e della musica leggera italiana degli ultimi anni. Dopo aver passato i primissimi anni della sua vita negli Stati Uniti torna in Italia e nel 1973 si iscrive al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano dove studia percussioni, musica elettronica e, soltanto in un secondo momento, canto. Sta ancora frequentando i corsi quando inizia a lavorare come corista prima con Paola Orlandi, poi con Lella Esposito e successivamente con un quintetto vocale che la vede anche tra le promotrici. In pochi anni diventa molto popolare nell'ambiente musicale milanese per la sua voce limpida e quasi naturalmente impostata che fa da sfondo sonoro alle incisioni di un gran numero di cantanti, da Edoardo Bennato a Ron, a Riccardo Cocciante a Mina, a tanti altri. Forse in questo periodo nasce il contrasto interiore che non la porterà a scegliere mai definitivamente tra jazz e musica leggera. Il suo primo disco in proprio viene pubblicato nel 1983. Si tratta di Didin, una sorta di cantilenante gioco musicale realizzato in collaborazione con Alberto Fortis e prodotto da Flavio Premoli della PFM. Il discreto interesse del pubblico e l'invito della critica a osare di più la convincono a continuare. Dopo un mini-album premiato nel 1985 dalla critica con la Vela d'Argento, si presenta al Festival di Sanremo del 1986 con Brividi, un brano suggestivo ricco di spunti jazzistici. La canzone sanremese anticipa la pubblicazione del primo l'album di grande respiro, La via dei misteri, che contiene una straordinaria e rivelatrice versione di Sitting dock of the bay. Negli anni successivi alterna scorribande jazzistiche con l'impegno di cantante di musica leggera, quasi fosse indecisa su quale strada prendere. Nonostante la sua "voce da jazz" non molla mai del tutto l'ambiente della musica leggera che è spesso invidioso e riluttante a comprenderne appieno le potenzialità. Dopo la partecipazione a Umbria Jazz e alla Rassegna Jazz di Roma del 1987 abbandona le scene per approfondire la sua grande passione per i tempi dispari e lo swing. Il risultato dell'anno sabbatico è Incoerente jazz, un album inciso con alcuni tra i migliori jazzisti italiani. Negli anni successivi le sofisticate incursioni nella musica leggera si alterneranno con la produzione di piccoli gioielli di jazz classico cesellati in modo sapiente dalla sua voce.
20 luglio, 2024
20 luglio 1979 - La Tom Robinson Band si scioglie, ma non è la fine del mondo
«Ebbene sì, la Tom Robinson Band non esiste più. Ciascuno di noi, da oggi, prenderà strade diverse. Vi prego, però, di evitare domande commemorative e di avere il senso della misura. Al mondo avvengono sicuramente fatti più gravi dello scioglimento di un gruppo musicale...» Così, con tranquillità e senza isterismi, Tom Robinson leader e frontman, conferma, il 20 luglio 1979, lo scioglimento di una delle band di punta del combat rock britannico, da lui formata nel 1976 insieme al chitarrista Danny Kustow, al tastierista Mark Ambler e al batterista Dolphin Taylor. Pochi mesi dopo la sua formazione il gruppo balza al vertice delle classifiche britanniche dei dischi più venduti con il singolo 2-4-6-8 Motorway. Il successo, lungi dal divenire una stucchevole affermazione della propria bravura, consente ai quattro di rafforzare la propria libertà espressiva. «Più ho successo e più riesco a fare quello che voglio. Non so se mi piace il mondo dello spettacolo. Vedo troppe persone alternative sul palco e conformiste nella vita. Io sono antifascista, socialista e omosessuale. Lo sarei anche se non fossi un musicista...» dice Tom Robinson commentando il successo di brani come Don't take no for answer e Up against the wall. Militante della sinistra laburista è tra i promotori, con i Clash e gli Steeel Pulse della campagna “Rock Against Racism”, destinata, tra l’altro, a raccogliere fondi a favore delle vittime delle violenze dei fascisti del National Front. Incapace di atteggiamenti compromissori, diviene anche una bandiera e un simbolo dell’orgoglio gay dopo aver cantato la sua omosessualità nel brano (Sing, if you're) Glad to be gay. La Tom Robinson Band conferma le caratteristiche di gruppo diverso e lontano dalle esagerazioni anche nel momento del suo scioglimento, che avviene senza drammi né polemiche. Il suo leader vivrà varie esperienze artistiche fino a restare affascinato, nella seconda metà degli anni Ottanta, dalla musica leggera italiana, di cui tradurrà in inglese i brani più significativi. Alla fine tornerà anche a riformare la sua band.
19 luglio, 2024
19 luglio 1944 – Will Marion Cook, l'uomo che ha colorato di nero il varietà
Il 19 luglio 1944 muore a New York il compositore e direttore d’orchestra Will Marion Cook, una delle figure più importanti e significative del grande rinnovamento della musica statunitense nel periodo a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento. Il suo lavoro, penalizzato dalla separazione razziale che in gran parte degli stati degli USA impediva a neri e bianchi di frequentare lo stesso locale, è fondamentale nella nascita e nello sviluppo del teatro musicale nero. Senza l'opera di compositori come Will Marion Cook anche la storia dei grandi musicals americani e, più in generale, del teatro musicale del Novecento sarebbe probabilmente stata diversa. Nato a Washington il 27 gennaio 1869 frequenta regolari studi di composizione e di direzione d'orchestra. Dopo il diploma sbarca il lunario dirigendo le orchestrine che sottolineano lo svolgimento dell'azione o accompagnano gli spettacoli di varietà nei piccoli teatri di periferia. Affascinato dalle dinamiche del melodramma e dalle intuizioni del jazz delle origini ritiene che anche il teatro musicale nero americano abbia la necessità di uscire dall'orizzonte ristretto del semplice "adattamento per neri" delle strutture musicali e spettacolari della cultura bianca. Lavora a lungo su quest'idea e solo nel 1898 ha pronta la sua prima opera completa. È Clorindy or the Origin of the Cakewalk, che viene presentata a Broadway nello stesso anno. Le opere di Cook non possono essere iscritte né all'elenco dei musical né a quello delle opere liriche. Si tratta, più semplicemente di spettacoli di varietà legati da un filo conduttore le cui dinamiche musicali, però, si liberano progressivamente degli stereotipi bianchi per recuperare le strutture ritmiche della musica nera. Nel decennio successivo vedono la luce le cinque opere fondamentali del suo lavoro. La prima è Wild Rose del 1902, cui segue l'anno dopo In Dahomey e, nel 1904, The Southerners. La sua ispirazione musicale matura definitivamente nei due lavori successivi: Abyssinia del 1906 e Bandana land del 1908. Will Marion Cook non si limita a comporre, ma in molte occasioni dirige personalmente l’orchestra nei teatri dove vengono rappresentati i suoi lavori. Nel 1919 arriva anche in Europa alla testa della sua Southern Syncopated Orchestra che schiera in formazione nomi illustri come quelli di Sidney Bechet, Arthur Briggs e John Forrester.
18 luglio, 2024
18 luglio 1988 - L’ultima corsa di Nico
Lunedì 18 luglio 1988 i soccorritori non pensano certo che quella signora bionda trovata in coma sul ciglio di una strada assolata nell’entroterra di Ibiza sia una persona famosa. La donna è sdraiata accanto alla bicicletta con il volto segnato dagli evidenti segni di una caduta e all’accettazione del Pronto Soccorso viene registrata con il nome di Christa Paffgen, nata il 16 ottobre 1938 a Colonia, in Germania. Così risulta dai documenti che porta con sé. C’è un’emorragia cerebrale in corso, i medici si riservano la prognosi, ma non s’illudono sulle possibilità di sopravvivenza: è triste ma rientra nella tragica normalità degli incidenti stradali. Non resta che prendere contatto con la famiglia. È normale routine per un presidio ospedaliero collocato in una zona turistica. Questa volta però non è così normale perché la vittima non è una persona qualunque. Dopo le prime telefonate alla ricerca dei famigliari un nugolo di petulanti e sudaticci inviati rompe la quiete degli asettici corridoi. Infermieri e medici scoprono così che il corpo sofferente e il viso tumefatto della signora bionda sono quelli di Nico, la conturbante musa dell’underground degli ultimi anni Sessanta, la cui voce cantilenante e ipnotica è divenuta il simbolo di un’epoca. Nata in Germania, studia in Francia e in Italia, conosce perfettamente cinque lingue e inizia a lavorare come modella prendendo parte, ancora adolescente, al film "La dolce vita" di Federico Fellini. L’esplosione del beat la vede a Londra nell’entourage dei Rolling Stones. Il primo a intuirne le non comuni qualità è il chitarrista Jimmy Page, non ancora leader dei non ancora costituiti Led Zeppelin, che nel 1965 la produce in un singolo senza successo, ma il suo vero pigmalione è Andy Warhol. Il sommo pontefice dell’underground newyorkese la incontra per la prima volta nel 1967 al Blue Angel Lounge di New York, dove la ragazza sta passando la serata in compagnia del suo amico Bob Dylan, e resta colpito dalla sua inquietante e ambigua sensualità. È Warhol che la impone ai Velvet Underground, la band di Lou Reed e John Cale, rimasti senza cantante dopo il forfait di Maureen “Mo” Tucker. L’irrequieta Nico caratterizza con la sua voce la più straordinaria stagione del gruppo, ma non per questo accetta l’idea di fossilizzarsi in un genere o in un personaggio. Dopo poco più di un anno decide di continuare da sola e se ne va. Nuove collaborazioni ed esperienze sempre diverse preludono, nei primi anni Settanta a un lungo silenzio che dura fino agli anni Ottanta quando, non si sa se per nostalgia o per reale convinzione, torna sulla scena musicale. Personaggio di culto, interprete dell’angoscia esistenziale dell’intellettualità americana alla fine degli anni Sessanta, percorre fino in fondo le strade oscure del rock decadente, anticipando di una decina d’anni quel genere che verrà chiamato dark rock. Le sono compagni in questo viaggio grandi musicisti, ma anche sostanze pericolose che rischiano di lasciare segni indelebili e definitivi sul suo corpo e sulla sua psiche. Negli anni Ottanta l’inquietudine esistenziale si fa meno struggente. La ricerca musicale si allarga verso nuovi orizzonti e anche la sua vita, a partire dal 1982, sembra ritrovare serenità accanto a un nuovo compagno, il poeta John Cooper Clarke, con il quale va a vivere in una casa di campagna nei dintorni di Manchester. Pochi giorni prima dell’incidente si esibisce in concerto a Berlino con John Cage e i Faction. Gli sforzi dei medici di salvarla si rivelano vani e mentre scendono le prime ombre della sera cessa di vivere. Il suo compagno vuole che il corpo inanimato di Nico riposi lontano dalla solarità accecante e chiassosa del Mediterraneo, così estranea al suo ombroso percorso musicale, e ne dispone l’immediato trasporto in Inghilterra. Con lei scompare uno dei personaggi più singolari del rock internazionale e tanto coerente da non approfittare mai dell’alone di leggenda che l’ha circondata per tutta la vita.
17 luglio, 2024
17 luglio 1925 - Carla Boni, una voce straordinariamente moderna
Il 17 luglio 1925 nasce a Ferrara Carla Boni, all’anagrafe Carla Gaiano, la cantante che negli anni Cinquanta contende a Nilla Pizzi il ruolo di “primadonna della canzone italiana”. La loro rivalità, costantemente alimentata dai rotocalchi dell’epoca, divide e appassiona il pubblico e le “imprese” di ciascuna vengono vissute dai sostenitori come se le due cantanti fossero impegnate sempre in una infinita gara sportiva. Quando la Boni vince il Festival di Sanremo del 1953 con Viale d’autunno, in coppia con Flo Sandon’s davanti a Nilla Pizzi i giornali scandalistici escono con titoli di scatola parlando di “vittoria sul filo di lana”. I pettegolezzi e le polemiche mediatiche toccano l’apice quando diventa pubblica la relazione amorosa di Carla Boni con il cantante Gino Latilla, che da tempo i cronisti di rosa indicano come “sentimentalmente legato” a Nilla Pizzi. In realtà, come sempre accade nel mondo dello spettacolo, non tutto ciò che appare è vero. Se è ragionevole immaginare che ci sia un po’ di rivalità tra le due donne più popolari della scena musicale italiana degli anni Cinquanta c’è però da considerare atto che entrambe fanno parte della stessa “ditta”, cioè l’orchestra del maestro Cinico Angelini, uno dei potenti creatori di successi di quel periodo. Per questa ragione viene il sospetto che le polemiche giornalistiche sui loro burrascosi rapporti invece di danneggiarle finiscano per incrementare la popolarità di entrambe. Pettegolezzi a parte il successo di Carla Boni è sostenuto da un solido e robusto talento oltre che da una discreta conoscenza delle lingue che le consente spesso di cantare i brani nelle versioni originali. La sua voce esuberante e moderna sa districarsi con disinvoltura tra le innovazioni stilistiche di quel periodo e dimostra di poter passare senza troppi problemi dalle canzoni ritmiche in chiave swing alle melodie tradizionali. A soli dieci anni è una bambina prodigio che canta in una compagnia ferrarese di operette. Nel 1937 dodicenne va a Torino accompagnata dalla madre per sostenere un provino come all’EIAR. Qui viene notata dal maestro Pippo Barzizza che per qualche tempo pensa di sfruttare il suo talento per farne una sorta di Shirley Temple italiana ma poi non ne fa nulla. La bambina torna a Ferrara dove continua gli studi intenzionata a frequentare il Liceo Musicale e a diventare una cantante lirica. Lo scoppio della guerra cambia radicalmente i suoi progetti. Inizia a cantare nei locali della sua zona e si appassiona allo swing. Nel 1948 vince un concorso della RAI e inizia a pubblicare i primi dischi proprio con l'orchestra di Pippo Barzizza. Nel 1950 ottiene il suo primo grande successo con la canzone Il mago Baku. Nel 1952 entra a far parte dell’orchestra di Cinico Angelini e nel 1953 vince il Festival di Sanremo in coppia con Flo Sandon's, con la canzone Viale d'autunno. Nasce in quel periodo la sua “rivalità” con Nilla Pizzi. Nel 1956 porta al successo Mambo italiano e nel 1958 sposa il cantante Gino Latilla che i cronisti di quel periodo considerano il fidanzato della stessa Pizzi, alimentando ulteriormente la sua immagine di rivale della “regina” della canzone italiana. A partire dagli anni Sessanta sotto l’incalzare delle nuove mode abbandona progressivamente la scena. Torna alla ribalta negli anni Ottanta quando con l’ex marito Gino Latilla, l’ex rivale Nilla Pizzi e Giorgio Consolini, forma il gruppo Quelli di Sanremo. Nel 1999 ottiene un inaspettato successo discografico reinterpretando Mambo italiano con Flabby. Nel 2007 pubblica l’album Aeroplani ed angeli per festeggiare sessant’anni di carriera. Muore a Roma il 17 ottobre 2009.
16 luglio, 2024
16 luglio 1966 – Ecco i Cream!
Il 16 luglio 1966, nella Londra deserta di mezza estate, nascono i Cream, destinati a diventare il gruppo più famoso e più popolare della storia del blues revival. I loro componenti non sono novellini, ma tre protagonisti del circuito blues londinese sempre meno underground. Guidato dalla chitarra di Eric “Slowhand” Clapton, già con John Mayall e poi con gli Yardbirds, il trio schiera il polipercussionista Ginger Baker alla batteria e Jack Bruce l’ex bassista dei Bond e dell’Alex Korner Band. I Cream portano sui grandi palchi dei concerti rock le esperienze nei fumosi club londinesi, alzando il volume ai massimi livelli. Nel 1966 il loro primo album, Fresh Cream, ottiene un successo incredibile. Le distorsioni e il wah-wah di Clapton su una ritmica incalzante fanno il giro del mondo. L’anno dopo raddoppiano i risultati sul piano commerciale con Disraeli Gears, un album prodotto da Felix Pappalardi che ammorbidisce i suoni in chiave pop. La loro popolarità è supportata dalle devastanti esibizioni dal vivo che con le lunghe concessioni all’improvvisazione, aprono un nuovo mondo agli adolescenti ancora troppo costretti dalla rigida ripetitività del beat. I tre si integrano a meraviglia. Ciascuno porta sul palco una personalità diversa e insieme cambiano gli stereotipi della musica di consumo. Nel 1968 il doppio Wheels Of Fire metà registrato in studio e metà dal vivo, segna il punto più alto della loro carriera e, insieme, l’inizio della fine. Pochi mesi dopo l’album Goodbye dà il segno dell’imminente separazione. I tre, per evitare di restare prigionieri di una sorta di agonia autocelebrativa, decideranno di separarsi ufficialmente dopo un indimenticabile concerto d’addio.
15 luglio, 2024
15 luglio 1984 - Si ferma il grande cuore di Big Mama Thornton
In una Los Angeles assediata dal caldo il 15 luglio 1984 muore a cinquantasette anni la cantante blues Willie Mae Thornton, più conosciuta con l’appellativo di “Big Mama”. Il suo cuore si è fermato proprio alla vigilia della partenza del suo nuovo tour. Esuberante come un’adolescente, nonostante l’età e la mole, con la sua voce tonante lascia un segno indelebile nella storia della musica nera. Nata l’11 dicembre 1926 a Montgomery, in Alabama, è considerata, insieme a Koko Taylor, l'esponente femminile di maggior prestigio del blues del dopoguerra. Dopo aver fatto parte dell'Hot Harlem Revue, nel 1951, grazie alla protezione di Johnny Otis, pubblica i primi dischi di rhythm and blues con la band dello stesso Otis. Nel 1953 la critica la proclama “miglior interprete di rhythm and blues dell’anno” per la canzone Hound dog. In quel periodo registra anche il brano They call me Big Mama, il suo inno personale. Estrosa e anticonformista, fatica ad adattarsi al alle esigenze dell’industria discografica e non si cura di monetizzare il successo. Hound dog vende più di due milioni di copie, ma a lei non toccano che le briciole tanto che qualche anno dopo dichiarerà, candida: «Per quel disco mi hanno dato un assegno di cinquecento dollari, niente di più. Un po’ poco, vero?...». Alla fine degli anni Cinquanta, considerata ormai fuori moda, viene messa ai margini dei grandi circuiti, ma non se la prende più di tanto. Tira avanti suonando la batteria e l’armonica in piccoli gruppi della Baia di San Francisco e compone brani come Ball and chain destinato a far parte del repertorio di Janis Joplin. Negli anni Sessanta, riscoperta dai giovani eroi del folk elettrico, diventa un’artista di culto e conosce una nuova giovinezza lavorando con quasi tutti i grandi maestri del blues, da Muddy Waters a James Cotton, da Muddy Waters a Otis Spann e B.B. King. Alla fine degli anni Sessanta si accosta progressivamente al blues moderno di Chicago e fino alla sua morte continuerà a regalare al pubblico concerti e dischi indimenticabili, con l’energia di una ragazzina.
13 luglio, 2024
14 luglio 1974 – Gli Everly Brothers chiudono baracca
Il 14 luglio 1974 gli Everly Brothers si stanno esibendo al John Wayne Theatre del Knott's Berry Farm di Hollywood. In una pausa del concerto il direttore del locale manifesta la sua insoddisfazione per la scialba e distratta performance del duo. Senza dire una parola Phil Everly spacca la sua chitarra e se ne va. Suo fratello Don chiude da solo lo spettacolo e annuncia al microfono «Questa sera avete assistito alla fine ufficiale del duo, ma dovete sapere che gli Everly Brothers sono in realtà morti dieci anni fa». Le parole appaiono come l’epitaffio definitivo per l’avventura artistica del duo carismatico che per primo ha gettato un ponte stilistico tra il rock and roll degli anni Cinquanta e il pop del decennio successivo influenzando gran parte dei principali gruppi rock degli anni Sessanta. Figli di una famosa coppia di cantanti country, Ike & Margaret Everly, Don e Phil sono popolarissimi nell’ambiente musicale fin da quando portano i calzoni corti. Non hanno ancora vent’anni quando Chet Atkins convince la CBS a pubblicare il loro primo singolo, Keep a lovin' me, destinato a passare inosservato. Il successo è rinviato solo di un anno. Nel 1957, infatti, Wesley Rose della Acuff Rose Publishing, uno dei discografici più importanti di Nashville, diventò loro manager e li presenta a un’altra coppia di fratelli, Felice e Boudleaux Bryant, due autori alla ricerca di qualcuno che interpreti le loro canzoni. Nel 1957 pubblicano per la Cadence due singoli che aclano rapidamente le classifiche di vendita: Bye bye love e Whake up little Susie. Gli Everly Brotehrs diventano così uno dei più grandi fenomeni del rock dei primi anni Sessanta. La loro popolarità non viene messa in discussione neppure dal forzato silenzio dovuto all’arruolamento nella marina militare. Neppure l’esplosione del beat negli anni Sessanta riesce a oscurare del tutto il loro lavoro, anche se il duo è costretto a scontare un modesto calo del successo commerciale. A partire dal 1965 emergono le prime differenze d’impostazione tra Phil e Don. Il primo sente il peso della ripetitività stilistica e vorrebbe muoversi su terreni nuovi, mentre il fratello teme che il loro pubblico non sia disposto a seguirli sulla strada di un cambiamento di stile troppo rapido e radicale. La rottura sempre rinviata esplode drammaticamente il 14 luglio 1974. Non sarà definitiva perché nel 1983 il duo tornerà sulle scene alla Royal Albert Hall di Londra.
12 luglio, 2024
12 luglio 1969 – Il successo del 2.525
Il 12 luglio 1969 arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti in Italia In the year 2525 un brano gradevole interpretato da Zager & Evans, un duo di cui nessuno ha sentito mai parlare fino a quel momento. In pochi mesi la canzone farà il giro del mondo scalando le classifiche di moltissimi paesi in centinaia di versioni diverse. In Italia si cimentano nell'operazione, tra gli altri, Caterina Caselli e i Dik Dik. Resta l'incognita di chi siano i due interpreti. Per un po' si pensa all'ennesima sigla inventata per coprire un'operazione di studio, poi si scopre che in realtà il duo esiste davvero. È formato da Denny Zager e Rick Evans, due componenti del gruppo country degli Eccentrics. Entrambi nati a Lincoln, nel Nebraska, l'anno prima hanno deciso di di fondare una piccola casa di edizioni con l'appendice di un'etichetta discografica. Giusto per poter registrare il marchio danno alle stampe un migliaio di copie di un singolo che contiene un brano scritto da Evans nel 1964 in appena mezz'ora. Il titolo completo della canzone è In the year 2525 (Exordium and terminus). Le copie del disco si esauriscono rapidamente. L'estrema freschezza del brano e la sua imprevista popolarità negli ambienti country attira l'attenzione dei talent scout della RCA che, prima ancora di pensare a un suo possibile utilizzo, ne comprano i diritti. Viene ripubblicato nel 1969, con maggior cura negli arrangiamenti e un'adeguata campagna promozionale. Il successo va al di là delle stesse previsioni dei dirigenti della RCA. Il disco vende più quattro milioni di copie e si trasforma in un "cult" di quel periodo. Nonostante la sua semplicità In the year 2525 affascina anche la critica che parla, forse un po' a vanvera, di «primo esempio di rock futurista» mettendolo insieme a Space oddity di David Bowie. L'entusiasmo non trova giustificazione nei fatti. Il brano è gradevole, ben costruito, ma rimane essenzialmente un buon esempio di pop orecchiabile. Niente più. Non è neanche il primo exploit di una nuova "coppia d'oro" di interpreti della musica statunitense perché i poveri Zager & Evans non riusciranno più a ripetersi. Dopo il discreto successo dell'album 2525 (Exordium and terminus), registrato in fretta e furia per sfruttare al meglio l'improvvisa popolarità, la loro scarna discografia verrà arricchita dai deludenti Zager & Evans del 1970 e Food for the minds, pubblicato postumo nel 1971 quando il duo ha già deciso di cambiare mestiere.
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