L’aveva promesso a se stessa e lei è una che mantiene le promesse. Janis Joplin nell’estate del 1970 è ormai una cantante di successo, sia pur tormentata da una serie lunghissima di angosciosi problemi esistenziali. Da poco ha debuttato con la Full Tilt Boogie Band e tra pochi giorni deve iniziare le sedute di registrazione del suo nuovo album. Da tempo, però, continua a dire agli amici di voler saldare un misterioso debito. Approfittando di un momento di pausa nei suoi impegni, l’8 agosto 1970 fa collocare a sue spese una lapide di ringraziamento e di saluto sulla tomba della grande cantante Bessie Smith, l’Imperatrice del blues che riposa dal 1937 nel cimitero di Mount Lawn presso Derby, in Pennsylvania. Lo fa senza grande clamore, ma la notizia trapela ugualmente. A chi gliene chiede la ragione Janis spiega “L’ho sentita molte volte vicino a me. Devo tutto a lei: il mio modo di cantare, la mia passione per la musica, i suoni e i colori della mie interpretazioni. È stata Bessie Smith l’esempio che ho scelto quando ho cominciato a cantare e lei mi ha insegnato la strada.” Stimolata sull’argomento si lascia poi andare a una serie di considerazioni violente contro la vergogna della discriminazione razziale. Sono parole di fuoco che bollano l’intera società americana. Il razzismo, a suo dire, è una vergogna che dovrebbe pesare come un macigno su tutti i bianchi che vivono negli Stati Uniti. Le parole di Janis non sono generiche manifestazioni di solidarietà a favore dell’integrazione razziale, ma si riferiscono direttamente alle scandalose circostanze che hanno provocato la morte di Bessie Smith, sulle quali, peraltro, nessuno ha mai aperto un’inchiesta degna di questo nome. La morte della cantante viene solitamente attribuita a un generico “ritardo nei soccorsi”, quando non a “circostanze oscure”. Eppure non c’è niente di più vergognosamente chiaro delle circostanze che hanno determinato la morte di Bessie Smith. Siamo nel 1937. Mentre è impegnata in una lunga tournée nel Sud degli Stati Uniti, la cantante viene coinvolta, nella notte tra il 25 e il 26 settembre, in un terribile incidente stradale nelle vicinanze di Clarksdale, nello stato del Mississippi. Come si può immaginare non sono ancora molte, negli anni Trenta, le auto che viaggiano di notte, per cui passa molto tempo prima che qualcuno si accorga dell’incidente. Ali occhi dei primi soccorritori le condizioni della cantante appaiono molto gravi tanto che si decide di non attendere l’ambulanza per trasportarla al pronto soccorso del più vicino ospedale. La lunga corsa contro il tempo di Bessie Smith è, però, solo all’inizio. Pur essendo stato avvertito per tempo e avendo preparato il necessario per prendersi cura della ferita, il personale di turno dell’ospedale si rifiuta di accettare il corpo martoriato della cantante quando si accorge che è nera. In quegli anni in molti stati del Sud vige ancora un rigido regime di separazione razziale e viene considerato un fatto del tutto normale per una clinica riservata ai bianchi rifiutare di prendersi cura a un corpo sofferente dalla pelle nera. A nulla valgono le violente proteste dei più decisi tra i soccorritori, accusati dai loro interlocutori di aver perso del tempo prezioso per non aver voluto portare subito la ferita nel più lontano ospedale per neri. In ogni caso è “evidente” che i medici e gli infermieri della clinica “bianca” non c’entrano perché Bessie Smith non è un problema loro. Gli stupefatti soccorritori risalgono sulle auto e tentano una nuova disperata corsa verso l’ospedale afro-americano di Clarksdale. Dopo una notte intera senza soccorsi, le cure dei medici non possono far altro che alleviare i dolori dell’agonia. Alle prime ore dell’alba la donna che era stata insignita del titolo di “Imperatrice del blues” e applaudita in tutti gli States cessa di vivere. Questa è la storia che con le sue parole Janis Joplin tenta di far rivivere nella coscienza dell’America degli anni Settanta. Ci riesce, ma solo per il breve spazio di un respiro, perché poi, si sa, la vita continua.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
08 agosto, 2024
07 agosto, 2024
7 agosto 1964 - Il film dei Beatles? Pura immondizia!
Il 7 agosto 1964 la prestigiosa rivista statunitense “Time” stronca “A hard day’s night”, il primo film dei Beatles, arrivato anche nelle sale italiane con il curioso titolo di “Tutti per uno”. Il critico del giornale, lasciandosi un po’ scappare la mano, arriva e definirlo “Immondizia”. Si ritrovano nelle parole e nello spirito dell’articolo gli umori scandalizzati di chi non sopporta il divertente gioco di citazioni e l’atteggiamento irridente verso l’ordine costituito che costituiscono l’ossatura fondamentale della pellicola. Fortunatamente, pochi giorni dopo, il magazine “Life” pubblicherà una recensione molto meno umorale e astiosa. invitando i propri lettori a non perdere “questo divertente viaggio surreale nello stile dei fratelli Marx”. Pur non essendo un capolavoro il film, diretto con mano leggera da un giovane Richard Lester deciso a non lasciarsi prendere la mano dai Beatles, è ricco di inventiva affabulatoria e costellato da gag fulminanti. Costruito come un finto documentario musicale in sintonia con il “free movie” inglese di quel periodo, racconta le strampalate e improbabili peripezie del quartetto di Liverpool cui vengono affiancati due personaggi-guida: il nevrastenico manager Norm, interpretato da Norman Rossington e John Mixing, il folle nonno di Paul McCartney, affidato all’esilarante interpretazione di Wilfrid “Steptoe” Brambell. Girato in poche settimane tra marzo e aprile del 1964 con un budget di appena duecentomila sterline il film vola sulle ali della popolarità dei Beatles e incassa solo nella prima settimana di programmazione più di un milione di sterline. Il lungometraggio, nato per rompere lo schema delle esperienze cinematografiche delle star del rock and roll, caratterizzate da trame inesistenti inframmezzate da canzoni, suscita l’attenzione del mondo intellettuale londinese che ne apprezza la struttura d’avanguardia. Porterà bene anche al regista Richard Lester, destinato a diventare uno dei più apprezzati e geniali campioni del divertimento intelligente.
06 agosto, 2024
6 agosto 1994 - Ciao Mimmo
Il 6 agosto 1994 muore a Lampedusa Domenico Modugno, conosciuto nel mondo come "Mister Volare", il cantante italiano più popolare nel mondo dopo Enrico Caruso. La sua è una fine più volte annunciata e altrettante miracolosamente smentita dai fatti. Da anni, infatti, gli fanno compagnia i fastidiosi postumi di una trombosi che lo aveva colpito durante le prove di un programma televisivo. Solo dopo un lunga e faticosa terapia di recupero, è tornato in attività e nel 1987 è stato anche eletto al Parlamento nelle liste del Partito Radicale. Con l’uomo scompare anche l’artista che alla fine degli anni Cinquanta ha cambiato la canzone italiana. Nato a Polignano a Mare, in provincia di Bari aveva iniziato a muoversi nel mondo dello spettacolo come attore e come compositore di canzoni spesso destinate a esaltare il talento di altri quali Musetto interpretata da Gianni Marzocchi, Lazzarella, portata al successo nel 1957 da Aurelio Fierro, Resta cu 'mme per Roberto Murolo e, soprattutto, La donna riccia, uno dei cavalli di battaglia di Renato Carosone. Per gran parte degli anni Cinquanta, però, neppure qualche disco inciso in proprio riesce a farlo affermare come cantante. La svolta avviene nel 1958, al Festival di Sanremo che si svolge dal 30 gennaio al 1° febbraio. Domenico Modugno presenta Nel blu, dipinto di blu un brano che nei giorni delle prove suscita più d'una perplessità in critici ed esperti. Anche a un musicista di scuola jazz aperto alle innovazioni come il maestro Gorni Kramer sembra sfuggire la portata della composizione, tanto da sbottare in un commento indelicato: «Ma che pazzia è questa canzone? Non ha stile, non esiste». Non diversa è l'opinione dei critici presenti, con qualche eccezione come quella di Mario Casalbore che difende Modugno. La canzone è davvero insolita perché, oltre ad avere un testo con evidenti riferimenti surrealisti, introduce per la prima volta sul palcoscenico di Sanremo una mescola di generi diversi, compresi gli echi delle novità ritmiche che arrivano d'oltreoceano. Il pubblico saluta con una vera e propria ovazione l'esibizione di Modugno che sul ritornello allarga le braccia come se volesse levarsi in volo. Tutti si alzano in piedi sventolando i fazzoletti e lo accompagnano in coro. Nei giorni successivi il ritornello «Volare, oh, oh....» diventa il nuovo inno nazionale. Il successo di Nel blu, dipinto di blu è clamoroso ed è destinato a non restare rinchiuso nei confini italiani. La canzone, in varie versioni, fa il giro del mondo e vende venticinque milioni di dischi. Solo Bianco Natale di Bing Crosby è riuscito a fare meglio. Tra i primi a capire il "fenomeno" Modugno c’è Massimo Mila che scrive «Nella sua invenzione melodica confluiscono tumultuosamente ogni sorta di detriti popolari del bacino mediterraneo, agli affioramenti di schietti strati di musicalità popolare si mescolano movenze canzonettistiche di ballabili moderni, echi di banda municipale, come quella che dirigeva Mascagni a Cerignola, e spunti operistici nazionali: Rossini dà il braccio a Duke Ellington, e tutta questa baraonda è fusa come una lava nel fuoco di un contatto schietto con la realtà». Insomma, il 6 agosto 1994 se ne va un genio capace di spezzare la coltre di ghiaccio che teneva inchiodata al suolo la canzone italiana per farla… volare in alto.
05 agosto, 2024
5 agosto 1945 - Nat Jaffe, pianista di charme
Il 5 agosto 1945 muore a soli ventisette anni il pianista Nat Jaffe. Il decesso avviene a New York, la città dove è nato nel 1918. Gran parte dell'infanzia la trascorre in Germania dove la sua famiglia si trasferisce pochi mesi dopo la sua nascita. Tornato a New York nel 1932, inizia la carriera musicale suonando in vari gruppi studenteschi e dilettantistici prima di debuttare professionalmente nella band di Jan Savitt. Successivamente continua da solo come free-lance nei locali e negli studi di registrazione di New York fino alla primavera del 1938 quando ottiene un breve ingaggio con la formazione diretta da Joe Marsala prima di entrare a far parte dell'orchestra di Charlie Barnet. Per buona parte del 1940 suona con il trombonista Jack Teagarden mettendo in mostra qualità di improvvisatore originale e ricco di inventiva. Dopo la collaborazione con Teagarden decide di continuare in proprio alla guida di vari gruppi che si esibiscono soprattutto nei locali della Cinquantaduesima Strada. Tra i musicisti che fanno parte dei suoi combo si sono anche Charlie Shavers e Don Byas. Colpito da una grave malattia abbandona la musica e si ritira dalle scene. Accanto a lui resta solo sua moglie, la cantante Shirley Lloyd.
04 agosto, 2024
4 agosto 1947 - L'elettrocosmico Schulze
Il 4 agosto 1947 nasce a Berlino Klaus Schulze, considerato uno dei maestri negli anni Settanta di quella corrente musicale un po' banalmente definita "elettro-cosmica". Allievo di John Cage, appassionato cultore di Wagner e di Stockhausen, polistrumentista e abile tastierista, resta affascinato dalle nuove sonorità ottenibili attraverso l'uso di sintetizzatori, generatori e oscillatori di frequenza. Nasce così una musica molto ricca ed elaborata a partire dalle strutture ritmiche complesse. Le sue origini musicali non sono diverse da quelle di tanti altri suoi coetanei. Sensibile al fascino dei Beatles nel 1962 è il quindicenne chitarrista degli Psy, un gruppo beat molto popolare tra i ragazzi berlinesi. Negli anni successivi passa alla batteria e proprio con questo strumento partecipa alla registrazione del primo album dei Tangerine Dream, entrando poi a far parte degli Ash Ra Tempel, il gruppo berlinese da molti considerato precursore della musica elettro-cosmica. All'inizio degli anni Settanta decide di realizzare da solo i suoi progetti. Il debutto come solista avviene nel 1972 con l'album Irrlicht. Due anni dopo arriva anche il grande successo commerciale con Black dance un disco di compromesso tra musica sperimentale e dance. Parallelamente all'attività solistica non rinuncia a coltivare progetti originali e più complessi come quello dei Go, una collaborazione tra lui e una serie di strumentisti molto diversi uno dall'altro come Stomu Yamashta, Steve Winwood, Michael Shrieve e Al Di Meola. Alla fine degli anni Settanta fonda la Innovation Communication, un'etichetta nata per promuovere la New Age Music, e continua a pubblicare album inseguendo atmosfere sempre più rarefatte, in ossequio al progressivo affermarsi della New Age come un business più ampio del solo settore musicale. Molti album prodotti dalla sua casa discografica sono suoi anche se portano nomi di fantasia come quelli di Richard Wahnfried, Rainer Bloss e Jyl.
03 agosto, 2024
3 agosto 1996 - Luciano Tajoli, un mito ucciso dalla televisione
Alle ore 19.30 di sabato 3 agosto 1996, nella sua casa di Merate, in Vicolo Carbonini muore a settantasei anni Luciano Tajoli uno dei protagonisti della canzone italiana del dopoguerra. Affetto da un grave handicap fisico conseguente a una poliomielite infantile ha pagato un prezzo altissimo alla discriminazione operata dalla televisione nei suoi confronti perché "zoppo e non telegenico". Eppure nell’Italia del dopoguerra è, più di altri, il simbolo della riscossa della tradizione contro le mode culturali d’importazione arrivate insieme alle truppe alleate. Sotto l’incalzare del jazz e delle musiche di Glenn Miller le fortune del genere melodico all’italiana sembrano finite per sempre. Non è così. «Americano non voglio cantar/ o miei signori mi dovete scusar/ questa sera canto in italian…», queste semplici frasi cantate dalla voce appassionata di Tajoli diventano il segnale di riscossa della tradizione italiana. In lui, però, la tradizione è qualcosa di dinamico, non un punto d’arrivo. Non sarà mai un rivoluzionario innovatore, ma non sceglierà nemmeno di rinchiudersi nel recinto tranquillo della conservazione. La purezza del suo timbro unita a una notevole capacità di virtuosismi vocali, gli consentono di adattarsi via via alle nuove sonorità senza tradire l’ispirazione di fondo. Non ha problemi ad accettare l’utilizzo del microfono nelle esibizioni dal vivo negli anni Quaranta e non si oppone quando, negli anni Settanta, le nuove orchestrazioni rovesciano l’impostazione tradizionale portando in primo piano la sezione ritmica. Leggendaria rimane la sua capacità di passare dalla mezza voce al falsetto creando quegli "svolazzi" vocali che saranno un po' il suo "marchio di fabbrica". Stupefacente è, infine, la sua longevità artistica che gli consente di arrivare, ancora sulla breccia, fino agli anni Novanta, a dispetto delle rare apparizioni televisive che gli vengono concesse a causa della scarsa "telegenicità" della menomazione fisica.
02 agosto, 2024
2 agosto 1969 – La breve stagione dei Thunderclap Newman
Il 2 agosto 1969 balza a sorpresa al vertice della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna il brano Something in the air. Lo interpreta una band sconosciuta che sulla copertina del disco risponde al nome di Thunderclap Newman. Il mistero che la circonda alimenta le voci più disparate. C'è chi dice che sia un gruppo artificiale, inventato in studio per la registrazione di un solo brano, e chi sostiene trattarsi di un gruppo di giovanissimi musicisti alla prima esperienza discografica. In entrambe le ipotesi c'è un fondo di verità. La band non è frutto della interessata fantasia dei discografici, ma una geniale e casuale trovata del tastierista jazz Andy Newman. I componenti non sono tutti giovanissimi ma il chitarrista che risponde al nome di Jimmy McCulloch non ha ancora compiuto diciassette anni. Oltre a Newman e McCulloch la formazione è completata dal cantante e batterista John "Speedy" Keen, un emerito sconosciuto con all'attivo qualche tournée come tecnico al seguito di John Mayall. C'è poi un bassista di cui nessuno sa niente, salvo il nome che sembra inventato da un appassionato di fumetti: Bijou Drains. Il successo della canzone, imprevisto al punto che la casa discografica è costretta a ristamparne il disco, accende i riflettori dei media sulla band. Si scopre così che il fantomatico Bijou Drains non è altri che Pete Townshend, il chitarrista degli Who inventatosi bassista sotto falso nome. L'inaspettata popolarità costringe il gruppo a darsi una struttura più definita e meno legata all'improvvisazione del momento. Speedy Keen cede la sua postazione dietro ai tamburi a Jack McCulloch, fratello di Jimmy, mentre Jim Avery si incarica di suonare il basso. Con questa formazione rinnovata la band affronta il difficile compito di confermare il successo estivo di Something in the air. Il clima, però, non è più quello scanzonato dell'esordio. Tutto si fa tremendamente serio e il loro primo album Hollywood dream, pubblicato nel 1970, è un fiasco sia sul piano commerciale che qualitativo. Il disco segna la fine dell'allegra avventura dei Thunderclap Newman, i cui componenti avranno destini diversi. Il primo batterista Speedy Keen formerà, senza grandi risultati un proprio gruppo pubblicando un paio d'album, mentre Andy Newman non tornerà più al jazz e inizierà una discreta carriera di solista. Il "piccolo" McCulloch, invece, dopo aver suonato con John Mayall, gli Stone The Crows e i Blue, si unirà poi ai Wings di Paul McCartney.
01 agosto, 2024
1° agosto 1950 – Alvin Mouse Burroughs, l'inquieto
Il 1° agosto 1950 a Chicago, nell'Illinois, muore per un'improvvisa crisi cardiaca il batterista Mouse Burroughs, all'anagrafe Alvin Burroughs. Non ha ancora compiuto trentanove anni. Nato a Mobile, in Alabama, cresce nei sobborghi di Pittsburgh e fin da piccolo passa gran parte del suo tempo a percuotere barattoli, pentole, scatole di cartone e tutto ciò che può produrre un suono. Quando qualcuno gli mette tra le mani una batteria capisce che quella sarà la sua vita. A sedici anni suona a Sharon in Pennsylvania insieme a un altro giovane e promettente strumentista che risponde al nome di Roy Eldridge. Nel 1929, quando non ha ancora diciannove anni, ottiene la sua prima importante scrittura. Viene, infatti, chiamato a Kansas City per essere inserito nella formazione dei Blue Devils del contrabbassista Walter Page, considerata una delle migliori formazioni di quel periodo e destinata a diventare la culla della futura orchestra di Count Basie. È sua la batteria che si ascolta in Blue Devil blues e Squabblin’, due delle incisioni più conosciute della band di Page. La sua avventura musicale è, però solo all'inizio. Ben presto se ne va anche da Kansas City e dopo un breve periodo alla corte di Alphonso Trent, si trasferisce a Chicago dove suona con Walter Fuller, Omer Simeon, Budd Johnson e molti altri protagonisti del circuito jazz di quella città. Nel 1938 prende parte a una seduta di incisione organizzata e diretta dal vibrafonista Lionel Hampton, che, non disponendo ancora in quel periodo di una formazione stabile, si affida di volta in volta a gruppi di musicisti reperiti sulla piazza chicagoana. L’anno dopo se ne va a New York per suonare con l'importante orchestra di Earl Hines in sostituzione di Wallace Bishop. Il suo nome è stato suggerito al grande Hines da tre suoi strumentisti, Fuller, Simeon e Johnson, vecchi compagni di Burroughs a Chicago. Con questa orchestra il batterista registra per la Bluebird tra il mese di luglio del 1939 e l’inizio del 1941 una lunga serie di dischi che lo fanno conoscere a livello internazionale. Nonostante i successi la sua inquietudine artistica lo porta a nuove migrazioni. Nel 1941 suona con l’orchestra di Milton Larkin al “Rhumboogie” di Chicago e nel 1942 passa alla formazione di Benny Carter. Dopo un periodo in proprio, nel 1945 entra a far parte del gruppo di Red Allen dove rimane fino al 1946. Nel 1949 diventa il batterista del quartetto di George Dixon con il quale resta fino alla crisi cardiaca che lo uccide.
31 luglio, 2024
31 luglio 1967 - Fuori gli Stones dalle galere!
Dopo una mobilitazione senza precedenti dei più popolari personaggi del beat britannico, il 31 luglio 1967 la Corte d'Appello di Londra libera dal carcere Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones. Cosa ci fanno in prigione due protagonisti di primo piano della musica pop di quel periodo? Facciamo un passo indietro fino al 29 giugno, quando il giudice Lesley Block condanna Jagger a tre mesi di reclusione e cinquecento sterline di multa e Richards a un anno di carcere più cento sterline di multa. L’imputazione è di detenzione e uso di marijuana. La sentenza è immediatamente operativa. Mick Jagger viene rinchiuso nel carcere di Brixton e Keith Richards in quello di Warmwood Scrubs. La notizia fa rapidamente il giro di Londra e immediata scatta la solidarietà. Alla faccia delle finte rivalità e nonostante gli inviti alla prudenza dei loro discografici, i primi a prendere pubblicamente posizione sono gli Who, che, convocata in fretta e furia una conferenza stampa, annunciano l’intenzione di pubblicare un disco con due brani degli Stones, Under my thumb e The last time per “mantenere desta l'attenzione del pubblico” sul lavoro del gruppo. Tre giorni dopo la sentenza il prestigioso Times in un editoriale firmato da William Rees-Moog parte dalla carcerazione dei due artisti per attaccare duramente il sistema giudiziario britannico. La mobilitazione raggiunge il culmine quando, cinque giorni prima del processo d’appello, lo stesso Times ospita in un’intera pagina a pagamento un appello per la legalizzazione della marijuana firmato da tutti e quattro i Beatles, dal loro manager Brian Epstein e da altri personaggi della scena musicale britannica. Questo è il clima nel quale il 31 luglio si svolge l’udienza conclusiva dell’appello. Tra il tripudio dei presenti, dopo la lettura della sentenza il giudice, Lord Parker, con motivazioni tecniche diverse, revoca la condanna al carcere e ordina l’immediata liberazione dei due musicisti.
30 luglio, 2024
30 luglio 1942 – La tubercolosi uccide Jimmy Blanton
Consumato dalla febbre e dal dolore giovedì 30 luglio 1942 nel letto di una triste camerata comune del sanatorio di Monrovia, in California, muore di tubercolosi il contrabbassista Jimmy Blanton. Per i frettolosi inservienti non è altro che un nero come tanti in un epoca in cui in molti Stati si discute ancora se questi strani esseri dalla pelle scura debbano godere o no dei diritti civili. Un modesto e anonimo funerale chiude la breve vita di un musicista destinato a lasciare un segno importante nella storia del jazz e del rock. Quando la tubercolosi se lo porta via ha ventun anni, ma ne dimostra di meno. Le foto dell’epoca mostrano la sua faccia da ragazzo quasi nascosta dietro a uno strumento imponente come il contrabbasso. Nato a St. Louis, nel Missouri, in una famiglia poverissima per passare il tempo si diverte a suonare strumenti a corda inventati da lui. Quando qualcuno gli fa conoscere il contrabbasso decide che quello strano strumento, così simile a quelli con cui gioca, sarà la sua vita. Istintivo e geniale, non ha ancora l’età per portare i pantaloni lunghi quando viene ingaggiato dall’orchestra Jeter-Pillar, una delle più famose della sua città. Nel 1939 il grande Duke Ellington lo ascolta per caso, ne resta affascinato e gli propone, nonostante abbia solo diciott’anni, di entrare nella sua orchestra. L’avventura con il Duke dura fino all’inverno del 1941 quando Jimmy scopre di doversi occupare di una compagna più esigente e più totalizzante del suo strumento: la tubercolosi. Nonostante la brevità della sua carriera Blanton ha un'influenza rilevante nell’evoluzione dell’utilizzo del contrabbasso che lui trasforma da strumento defilato d’accompagnamento in una “voce” importante dell’insieme strumentale. Leggendari restano la sicurezza del suo attacco, la potenza della sonorità e i suoi dialoghi strumentali con il solista o le varie sezioni. La sua lezione, raccolta e sviluppata dai maggiori contrabbassisti del jazz moderno influenzerà anche l’evoluzione del basso elettrico nel rock-jazz degli anni Settanta.
29 luglio, 2024
29 luglio 1974 – Non chiamatemi Mama!
Il 29 luglio 1974 muore improvvisamente nel suo appartamento di Londra, stroncata da un infarto, Cass Elliott, più conosciuta con il nome di Mama Cass, una delle componenti, insieme a John Phillips, Holly Michelle Gillian e Denny Doherty, di uno dei gruppi storici della ventata pacifista hippie degli anni sessanta: i Mamas & Papas. La grossa e simpatica Cass, che non ha ancora compiuto trentun anni, da tempo soffriva di disturbi legati alla sua obesità, ma alla sua morte iniziano a circolare le voci più disparate. Alcuni tabloid parlano di overdose, altri di soffocamento da cibo, ma la realtà è quella che i suoi pochi amici avevano intuito fin dall'inizio: il grande corpo della cantante ha finito per soffocare il suo fragile cuore. Nata a Baltimora, nel Maryland, si trasferisce giovanissima a New York dove studia musica e recitazione. All'inizio degli anni Sessanta canta con i Big Three ed è considerata una delle migliori voci del Greenwich Village. È proprio in questo periodo che la sua obesità, portata quasi con ostentazione, diventa uno degli elementi caratteristici del suo personaggio, quasi quanto la sua voce. Quando prende il via l'esperienza dei Mamas & Papas diventa per tutto il mondo "Mama" Cass. Vive con entusiasmo l'avventura della band e quando si conclude patisce più dei suoi tre compagni l'inevitabile strascico di polemiche e tensioni. Ciononostante arrotola le maniche e riprende la carriera da dove l'aveva lasciata al momento della formazione dei Mamas & Papas. Tra i membri del disciolto gruppo storico è sicuramente quella che raccoglie i migliori risultati come solista. Nel 1968 pubblica con successo il singolo Dream a little dream of me, seguito dall'album omonimo. I vari tentativi di rimettere in piedi i Mamas & Papas la portano a sospendere per un paio d'anni le iniziative solistiche. Torna in sala di registrazione nel 1971 per contribuire con la sua voce alla realizzazione dell'album Dave Mason and friend dell'ex Traffic Dave Mason e due anni dopo pubblica nuovamente come solista, il singolare e ironico The road is no place for a lady (La strada non è un posto per una signora). La sua ironia sembra in linea con il suo personaggio di cicciona simpatica, ma i problemi fisici iniziano a farla entrare in conflitto con se stessa e con quel fisico ingombrante. Pochi mesi prima di morire dà alle stampe il suo nuovo album Don't call me Mama anymore (Non chiamarmi più Mama). È un grido disperato destinato a perdersi nel vuoto.
28 luglio, 2024
28 luglio 1979 - La fine degli Sham 69 e il crepuscolo del punk
Sabato 28 luglio 1979 un imponente servizio d’ordine presidia le strade che circondano il Rainbow di Londra. In quello che è considerato uno dei templi del rock britannico si esibiscono nell’ultimo concerto della loro breve vita gli Sham 69, una band di culto del movimento punk. Le forze dell’ordine sono state allertate fin dalla mattinata. Ogni concerto del gruppo guidato da Jimmy Pursey si trasforma in un campo di battaglia per opera degli skinheads, accesi, quanto imbarazzanti sostenitori degli Sham 69. Del resto non è immotivata la pessima fama, delle “teste rasate”, termine che in quel periodo ha una connotazione di estrema sinistra. Nati come risposta alle provocazioni fasciste del National Front contro i punk, in breve tempo si sono fatti la fama di violenti e attaccabrighe spesso senza motivo. «Se tutti i ragazzi rimarranno uniti, non saranno mai vinti» è il saluto con il quale gli Sham 69 si congedano dal pubblico del Rainbow. Ma non è solo la fine del concerto, né quella della band. La fiammata del punk, anarchica e nichilista, non ha sbocchi e si sta esaurendo. Le urla che salutano l’uscita di scena di Pursey, del batterista Mark “Doidie” Cain, del chitarrista Dave Parsons e del bassista Dave “Kermit” Treganna hanno il sapore dell’addio a una stagione esaltante, ma disperata. Eppure solo un anno prima Jimmy Pursey gettava a terra e calpestava il disco d’argento consegnatogli per le vendite di That’s life in segno di solidarietà con gli Angelic Upstarts, messi alla porta dalla Polydor, la sua casa discografica. Non è più tempo di premi. Le energie del punk si stanno spegnendo. Pursey, dopo un paio d’album da solista, tornerà nell’anonimato, come i ragazzi da lui descritti: «Il punk è un ragazzo che vive in palazzoni desolati della periferia. Non sa cosa fare. Non gli piace la noia e ogni tanto si diverte a sfasciare i vetri di qualche finestra con un mattone, poi torna a casa».
27 luglio, 2024
27 luglio 1992 – Gli Erasure? No che non si sciolgono
Sono tanti i fans che accolgono all’Hammersmith Odeon di Londra il 27 luglio 1992 gli Erasure nel concerto che conclude l’ennesimo tour britannico di uno dei gruppi più importanti della fine degli anni Ottanta. Il successo della tournée ha smentito i corvi che parlavano di loro come di un duo ormai in disarmo, senza più nulla da dire e, nei fatti, alla vigilia dello scioglimento. C’è anche chi ha scritto che la partecipazione al doppio album “Red Hot & Blue” del 1991, una compilation per raccogliere fondi da destinare alle cure dei malati di AIDS, fosse da considerarsi il loro canto del cigno. Il concerto all’Hammersmith Odeon assume così un significato particolare per una coppia nata dall’idea dell'instabile e perennemente insoddisfatto Vince Clarke, famoso per la sua capacità di creare e, con la stessa facilità, abbandonare a se stesse band di grande successo. Nella sua intensa carriera, infatti, dà il suo apporto fondamentale alla nascita e ai primi successi di gruppi come i Depeche Mode e gli Yazoo che lascia prima ancora di poter godere i risultati del suo lavoro. Irrequieto al limite del masochismo, nel 1983 tenta di dar vita con Eric Radcliffe a un progetto chiamato The Assembly: un album con dieci canzoni interpretate da altrettanti cantanti. L'idea, però, si scontra con gli interessi delle case discografiche e con i vincoli contrattuali degli interpreti per cui, nonostante l’ingente mole di materiale registrato, vede la luce soltanto il singolo Never never interpretato da Feargal Sharkey. Dall’ennesimo fallimento nascono gli Erasure, un duo composto da lui e dal cantante Andy Bell, reperito con un’inserzione sulla rivista "Melody Maker". L’esperimento diventa la più longeva esperienza di Clarke, forse stimolato dal clamoroso insuccesso che caratterizza il debutto discografico della coppia con il singolo Who needs love like that alla fine del 1985. Non meglio va ai due dischi successivi. Gli Erasure devono aspettare l’album Wonderland nel 1986 per trovare credito e consensi. Dopo essere stati proclamati “miglior gruppo del 1989” diminuiscono progressivamente la produzione discografica. Per questo quando iniziano il tour britannico del 1992 in pochi credono che manterranno gli impegni. Il concerto dell’Hammersmith Odeon smentisce tutti e diventa un tributo ai fans che hanno creduto in loro.
26 luglio, 2024
26 luglio 1943 – Mick Jagger, la pietra che rotola anche da sola
Il 26 luglio 1943, a Dartford, in Gran Bretagna, nasce Mick Jagger, il leader carismatico dei Rolling Stones, capace di interpretare fino in fondo il ruolo di discusso e sorprendente uomo-immagine di uno dei gruppi più graffianti, spettacolari e provocatori della storia del rock. Come e meglio degli altri Stones Mick è riuscito a brillare anche di luce propria al di fuori dell’attività del gruppo. In questo, più che nelle, spesso ripetitive, avventure discografiche della sua band, c’è, forse, il segreto di un longevità artistica che non si nutre soltanto di nostalgia. Parallelamente alle vicende degli Stones riesce, infatti, a sviluppare, con intelligenza ed equilibrio, esperienze individuali. L'esordio di Jagger come solista avviene nel 1970, mentre la sua band è all'apice del successo, con Memo from Turner, un brano della colonna sonora di "Performance", il film che segna il suo debutto come attore. L’esperienza si ripete poco tempo dopo con la colonna sonora di "Ned Kelly", il suo secondo film. Incurante delle raccomandazioni dei produttori, che temono che il suo comportamento possa alimentare le ricorrenti voci di scioglimento degli Stones, non rinuncia neppure alla collaborazione con altri artisti. Alla fine degli anni Settanta dà una mano al nuovo profeta giamaicano del reggae Peter Tosh interpretando con lui il brano Don't look back, inserito nell'album Bush doctor dello stesso Tosh. Nel 1984 registra con Michael Jackson State of shock e, l'anno successivo, canta con David Bowie una infiammata versione di Dancing in the street, un brano soul degli anni Sessanta. Si dice sia stato lui a convincere un refrattario Bowie ad accompagnarlo in occasione del Live Aid, il concerto organizzato da Bob Geldof per raccogliere fondi per le popolazioni etiopiche. Alla fine l’attività di solista convince anche il music business tanto che, alla fine degli anni Ottanta, quando stipula il miliardario contratto con gli Stones, la CBS prevede l’obbligo per Jagger di realizzare alcuni dischi in proprio. Il dovere contrattuale sembra però spegnere la creatività di Mick che nei primi due album, molto pubblicizzati, non aggiunge niente di nuovo al lavoro degli anni precedenti. Ritroverà la vecchia grinta nel 1993 quando realizzerà Wandering spirit con la collaborazione di un gran numero d’amici, tra i quali Lenny Kravitz, Billy Preston, Flea dei Red Hot Chili Peppers e Doug Wimbish dei Living Colour.
25 luglio, 2024
25 luglio 1965 – Quel rinnegato di Bob Dylan
Il concerto di Bob Dylan è l’evento più atteso dell’edizione del 1965 del Festival Folk di Newport. Due anni prima, infatti, quel giovane scontroso dalla voce nasale era stato salutato come il maggior protagonista di una nuova stagione del folk statunitense. Quasi a sancire la sua consacrazione, durante l’esecuzione del brano “Blowin’ in the wind” era stato raggiunto sul palco da Joan Baez, Peter Paul and Mary, i Freedom Singers e Pete Seeger, vale a dire tutti gli artisti più importanti di quel genere musicale. Il Festival di Newport lo aveva indicato al mondo come il profeta-cantore di una nuova rivoluzione giovanile. Nel 1965, però, è diverso. Son passati due lunghi anni dall’episodio e molte cose sono successe nel frattempo. Bob Dylan non è più quello del 1963. È andato più volte in Inghilterra e ha avuto una lunga serie di incontri e scambi artistici con i protagonisti della scena musicale inglese di quel periodo, in particolare con i Beatles ed Eric Burdon, il cantante degli Animals. Pian piano si è fatta strada in lui l’idea di abbandonare le sonorità acustiche del folk per dare nuova linfa alle sue composizioni. Nei primi mesi del 1965 è nato così l’album Higway 61 Revisited, nel quale il folk delle origini sembra annegare in una esplosiva miscela di rock e blues. Considerato anche nei decenni successivi uno dei migliori dischi del cantautore, con brani come Like a rolling stone, Desolation row o Ballad of a thin man, l’album ha, però, scavato un solco profondo tra Dylan e i “puristi” del folk. La sua decisione di accettare l’invito a esibirsi nel Festival Folk di Newport sembra quasi preludere a un ripensamento critico nei confronti delle sue ultime scelte, ma c’è chi lo aspetta al varco per fargli pagare caro quello che considera un “tradimento”. Il 25 luglio 1965, quando appare sul palco accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band tutti capiscono che Dylan ha deciso di tirare dritto e di non accettare imposizioni o richiami al passato. Lui è quello che è. Fin dalle prime note elettriche il pubblico si divide a metà: da una parte quelli che urlano, schiamazzano e lo chiamano “rinnegato”, dall’altra chi si appassiona alla trascinante carica delle nuove sonorità. Il cantautore, sordo alle contestazioni, mostra una grinta insospettabile, ben sostenuta dalla band di Paul Butterfield, che schiera musicisti di tutto rispetto come Elvin Bishop, Mike Bloomfield e Al Kooper Questo atteggiamento infastidisce ulteriormente i suoi detrattori che iniziano a premere sulle transenne. A nulla vale l’intervento pacificatore di altri artisti. Alcuni esagitati tentano anche di salire sul palco e vengono respinti a stento dal servizio d’ordine. Dylan sembra non vedere e non sentire nulla. Snocciola, una dopo l’altra le sue canzoni e, orrore!, anche quelle vecchie e più conosciute vengono presentate in una nuova versione elettrica, mentre nel pubblico continuano le discussioni e le minacce di scontro fisico tra chi lo invita a smettere e chi lo incita ad andare avanti. Come spesso accade, nessuno si rende conto di vivere un evento fondamentale della storia del rock. Quel concerto, infatti, verrà ricordato negli anni, oltre che come la prima grande svolta nella carriera di Bob Dylan, come il primo, coraggioso e riuscito tentativo di innovare le sonorità del nuovo folk statunitense. Dopo di lui altri artisti seguiranno la sua strada e lo stesso Festival Folk di Newport si aprirà alle strumentazioni elettriche. Verrà anche coniato un nome per il nuovo genere, folk rock, capace di salvare capra e cavoli (la capra della tradizione e i cavoli dell’innovazione). Dylan non si fermerà qui. Qualche mese dopo incontrerà gli Hawks di Robbie Robertson, dal cui nucleo nascerà la Band, il gruppo destinato ad affiancarlo per lungo tempo.
24 luglio, 2024
24 luglio 1987 - "La Bamba", il rock chicano di Ritchie Valens
Venerdì 24 luglio 1987 viene presentato in prima visione negli Stati Uniti il film “La bamba” di Taylor Hackford, ispirato alla vita del cantautore e chitarrista Ritchie Valens, interpretato sullo schermo da Lou Diamond Phillips. Il titolo della pellicola è preso a prestito alla sua canzone più conosciuta, una rielaborazione in chiave rock and roll di un brano tradizionale messicano. La presentazione del film riapre una vecchia polemica tra i critici anglofoni e la comunità degli immigrati di lingua ispanica, in particolare quelli di origine messicana. Questi ultimi accusano di colonialismo culturale e anche di razzismo quella parte della critica che continua a considerare minore il genere di musica elaborato da Ritchie e a chiamarlo con l’appellativo di “tex-mex”. Le radio ispanoamericane di Los Angeles guidano l’offensiva contro la discriminazione: «Quel genere è nostro, affonda le radici nella nostra tradizione, è ‘rock chicano’. Se non vi piace non ascoltatelo, ma smettetela di gettare merda su tutto ciò che non è in linea con la vostra barbosa tradizione anglosassone. Questo paese è anche nostro!». Chi, molto probabilmente non avrebbe mai pensato di diventare una bandiera, è Richard Steven Valenzuela, in arte Ritchie Valens, il protagonista involontario di questa disputa. Nato a Pacoima, un sobborgo d’immigrati perduto nella periferia della grande Los Angeles il 13 maggio 1941. Chitarrista acustico istintivo e buon cantante, viene scoperto dal produttore Bob Keene in una festa scolastica. Scritturato per pochi dollari, nel 1958, ancora adolescente arriva al successo con brani che mescolano la gioiosa armonia latina della tradizione messicana con le nuove strutture ritmiche del rock and roll. Il destino non gli consente di godere a lungo della popolarità. Il 3 febbraio 1959, infatti, non ancora diciottenne, muore in un incidente aereo insieme ad altre due star del rock and roll come Buddy Holly e Big Bopper, con i quali è impegnato in una tournée nel Midwest.
23 luglio, 2024
23 luglio 1974 – Gene Ammons, uno dei protagonisti del rinnovamento della musica jazz
Il 23 luglio 1974 il sassofonista Gene Ammons muore a Chicago, nell’Illinois, la città dove è nato il 14 aprile 1925. Figlio del celebre pianista di boogie-woogie Albert Ammons, ha vissuto una esistenza complicata dall'uso e soprattutto dall'abuso di stupefacenti che talvolta lo hanno costretto anche al silenzio. Cresciuto al fianco del padre in una Chicago che sta vivendo uno dei periodi musicalmente più interessanti della sua storia, Gene diventa uno dei protagonisti del rinnovamento della musica jazz. A diciassette anni è nell'orchestra di King Kolax e dal 1944 al 1947 fa parte integrante della Star Orchestra di Billy Eckstine, una delle formazioni più celebri d'America di quegli anni. Proprio in quel periodo il sassofono di Ammons inizia a innestarsi nel processo di rottura degli schemi tradizionali assimilando anche la lezione di Lester Young. Il suo stato di perenne tensione e d’irrequietezza, per molti versi non dissimile da quello che porta alla morte Parker, fa sì che nel 1948 Ammons lasci Eckstine e cominci a lavorare con piccoli gruppi indipendenti, più adatti al suo carattere volubile e all'insicurezza che la sua situazione psichica gli provoca. Nel 1949 sostituisce Stan Getz nel gruppo di Woody Herman, ma non resiste a lungo alla rigida disciplina dei quella band. L’anno dopo è con Sonny Stitt in una sorta di sfida a due sassofoni. Le esibizioni dei due al Birdland di New York, una parte delle quali è stata registrata e pubblicata su disco, sono rimaste nell’immaginario dei cultori di jazz come emblematiche della componente più “folle” della stagione del bop. Per un tipo inquieto come Ammons, però, il linguaggio del be bop non è un punto d’arrivo, ma il passaggio verso nuove forme espressive che lo portano prima a sperimentare il cool jazz e poi nel territorio meno accidentato e più meticciato del rhythm & blues.
22 luglio, 2024
22 luglio 1967 - La prima volta dei Vanilla Fudge
Nel Village Theatre di New York la sera di venerdì 22 luglio 1967 non si respira. L’afa, il fumo delle sigarette e il calore dei corpi di centinaia di ragazze e ragazzi stordiscono più della musica diffusa dalle casse audio del locale. Sfidando la calura estiva in molti aspettano il concerto dei Byrds, annunciato come l’evento principale del fine settimana. Il cartellone della serata prevede l’esibizione di due gruppi di contorno: i Seeds e i Vanilla Fudge. Questi ultimi, sconosciuti ai più, sembrano destinati a fare le spese dell’impazienza degli spettatori, accaldati e ansiosi di applaudire la band principale. Un mormorìo insofferente accoglie il loro ingresso sulla scena. Sono quattro, Vince Martell alla chitarra, Carmine Appice alla batteria, Tim Bogert al basso e Mark Stein alle tastiere. Senza dire una parola iniziano a suonare una stralunata versione di You keep me hangin’ on, un brano "leggero" portato al successo dalle Supremes. Le note distorte delle tastiere e della chitarra, talora in leggera dissonanza, sorrette da una batteria che sembra suonare in controtempo, catturano l’attenzione del pubblico che, rapito, si lascia ipnotizzare dalla liquidità psichedelica della band. L’esibizione segna l’inizio delle fortune dei Vanilla Fudge. Scritturati dall’Atlantic, incuriosiranno i ragazzi di tutto il mondo con la loro musica, caratterizzata da un collage di citazioni classiche e rivisitazioni psichedeliche di canzoni famose. Nelle loro esecuzioni si ritrova di tutto: dai successi pop del momento ai Beatles, a Chopin, a Stravinsky. Il successo della band sarà breve, un paio d’anni o poco più. Nel 1970 i Vanilla Fudge si scioglieranno lasciando ai critici il compito di gingillarsi con un dubbio su quel frullato di suoni che caratterizzava le loro esecuzioni: un’intelligente contaminazione tra varie forme musicali filtrate attraverso la psichedelia o una furba e fortunata operazione commerciale?
21 luglio, 2024
21 luglio 1959 – Rossana Casale, una voce da jazz
Il 21 luglio 1959 nasce a New York Rossana Casale, una delle voci più interessanti del jazz e della musica leggera italiana degli ultimi anni. Dopo aver passato i primissimi anni della sua vita negli Stati Uniti torna in Italia e nel 1973 si iscrive al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano dove studia percussioni, musica elettronica e, soltanto in un secondo momento, canto. Sta ancora frequentando i corsi quando inizia a lavorare come corista prima con Paola Orlandi, poi con Lella Esposito e successivamente con un quintetto vocale che la vede anche tra le promotrici. In pochi anni diventa molto popolare nell'ambiente musicale milanese per la sua voce limpida e quasi naturalmente impostata che fa da sfondo sonoro alle incisioni di un gran numero di cantanti, da Edoardo Bennato a Ron, a Riccardo Cocciante a Mina, a tanti altri. Forse in questo periodo nasce il contrasto interiore che non la porterà a scegliere mai definitivamente tra jazz e musica leggera. Il suo primo disco in proprio viene pubblicato nel 1983. Si tratta di Didin, una sorta di cantilenante gioco musicale realizzato in collaborazione con Alberto Fortis e prodotto da Flavio Premoli della PFM. Il discreto interesse del pubblico e l'invito della critica a osare di più la convincono a continuare. Dopo un mini-album premiato nel 1985 dalla critica con la Vela d'Argento, si presenta al Festival di Sanremo del 1986 con Brividi, un brano suggestivo ricco di spunti jazzistici. La canzone sanremese anticipa la pubblicazione del primo l'album di grande respiro, La via dei misteri, che contiene una straordinaria e rivelatrice versione di Sitting dock of the bay. Negli anni successivi alterna scorribande jazzistiche con l'impegno di cantante di musica leggera, quasi fosse indecisa su quale strada prendere. Nonostante la sua "voce da jazz" non molla mai del tutto l'ambiente della musica leggera che è spesso invidioso e riluttante a comprenderne appieno le potenzialità. Dopo la partecipazione a Umbria Jazz e alla Rassegna Jazz di Roma del 1987 abbandona le scene per approfondire la sua grande passione per i tempi dispari e lo swing. Il risultato dell'anno sabbatico è Incoerente jazz, un album inciso con alcuni tra i migliori jazzisti italiani. Negli anni successivi le sofisticate incursioni nella musica leggera si alterneranno con la produzione di piccoli gioielli di jazz classico cesellati in modo sapiente dalla sua voce.
20 luglio, 2024
20 luglio 1979 - La Tom Robinson Band si scioglie, ma non è la fine del mondo
«Ebbene sì, la Tom Robinson Band non esiste più. Ciascuno di noi, da oggi, prenderà strade diverse. Vi prego, però, di evitare domande commemorative e di avere il senso della misura. Al mondo avvengono sicuramente fatti più gravi dello scioglimento di un gruppo musicale...» Così, con tranquillità e senza isterismi, Tom Robinson leader e frontman, conferma, il 20 luglio 1979, lo scioglimento di una delle band di punta del combat rock britannico, da lui formata nel 1976 insieme al chitarrista Danny Kustow, al tastierista Mark Ambler e al batterista Dolphin Taylor. Pochi mesi dopo la sua formazione il gruppo balza al vertice delle classifiche britanniche dei dischi più venduti con il singolo 2-4-6-8 Motorway. Il successo, lungi dal divenire una stucchevole affermazione della propria bravura, consente ai quattro di rafforzare la propria libertà espressiva. «Più ho successo e più riesco a fare quello che voglio. Non so se mi piace il mondo dello spettacolo. Vedo troppe persone alternative sul palco e conformiste nella vita. Io sono antifascista, socialista e omosessuale. Lo sarei anche se non fossi un musicista...» dice Tom Robinson commentando il successo di brani come Don't take no for answer e Up against the wall. Militante della sinistra laburista è tra i promotori, con i Clash e gli Steeel Pulse della campagna “Rock Against Racism”, destinata, tra l’altro, a raccogliere fondi a favore delle vittime delle violenze dei fascisti del National Front. Incapace di atteggiamenti compromissori, diviene anche una bandiera e un simbolo dell’orgoglio gay dopo aver cantato la sua omosessualità nel brano (Sing, if you're) Glad to be gay. La Tom Robinson Band conferma le caratteristiche di gruppo diverso e lontano dalle esagerazioni anche nel momento del suo scioglimento, che avviene senza drammi né polemiche. Il suo leader vivrà varie esperienze artistiche fino a restare affascinato, nella seconda metà degli anni Ottanta, dalla musica leggera italiana, di cui tradurrà in inglese i brani più significativi. Alla fine tornerà anche a riformare la sua band.
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