Stroncato da un male incurabile contro il quale stava lottando da tempo il 7 ottobre 1992 scompare Augusto Daolio, la voce e la figura-simbolo dei Nomadi, uno dei più longevi gruppi della storia della canzone italiana. La sua morte segue di pochi mesi quella del chitarrista dello stesso gruppo Dante Pergreffi, avvenuta il 14 maggio in un incidente stradale e sostituito nella formazione dalla giovanissima Elisa Minari. In loro memoria i compagni pubblicano il doppio album dal vivo Ma che film la vita - I nostri concerti. La morte di Daolio non segna però la fine dei Nomadi che, sotto la guida di Beppe Carletti, l’ultimo rimasto del nucleo storico della band, iniziano a scrivere un altro capitolo della loro lunga e straordinaria storia.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
07 ottobre, 2024
06 ottobre, 2024
6 ottobre 1913 – C'è Carmen alla chitarra
Il 6 ottobre 1913 nasce a Cohoes, New York, il chitarrista Carmen Nicholas Mastren. I suoi fratelli Al, John, Frank ed Eddie sono musicisti e anche per lui si prospetta la strada degli studi musicali. Spinto più dalle esigenze dell'orchestra famigliare che da una vera e propria inclinazione per lo strumento inizia a studiare il violino, ma ben presto passa ad altri strumenti a corde che gli piacciono di più: il banjo e la chitarra. Nel 1935 quando ha ventidue anni decide che non può restare per sempre prigioniero delle scelte musicali dei fratelli. Affrontando l'inevitabile indignazione famigliare se ne va ed entra a far parte come chitarrista acustico del quartetto di Wingy Manone con cui resta fino al mese di gennaio del 1936. Di quel periodo resta testimonianza nelle famose registrazioni in studio effettuate dal gruppo per la casa discografica Vocalion. Passa poi con la big band di Tommy Dorsey, che sta attraversando un momento di grande popolarità. Con l'ensemble di Dorsey gira in lungo e in largo gli Stati Uniti suonando nei più importanti locali dell'epoca e divenendo famosissimo. Non estranee alla sua popolarità sono anche le numerose registrazioni effettuate con la big band per la Victor. All'apice del successo nell’estate del 1940 lascia Dorsey ed entra a far parte dei Delta Four di Joe Marsala. La sua perenne voglia di cambiare non gli dà tregua. Dopo poco meno di un anno se ne va e nell’autunno del 1941 suona per un breve periodo con l’orchestra di Ernie Holst, che lascia per entrare in quella dell'NBC. Qui sembra finalmente aver trovato terra ferma, ma il destino ha in serbo nuove sorprese. C'è la guerra. Nel 1943 viene richiamato sotto le armi e utilizzato da Glenn Miller nella sua Air Force Band. Alla fine del 1945 rientra a New York, ma la sua attenzione sembra essere più orientata alla direzione d'orchestra e alla composizione. Scopre anche che la musica leggera può dargli maggior soddisfazioni economiche e trascura progressivamente il jazz. A partire dal 1953 accetta l'incarico di compositore e arrangiatore al servizio dell’orchestra dell'NBC. Non si muoverà più di lì fino al 1970 quando, a cinquantasette anni, cambierà di nuovo impostazione alla sua vita mettendosi in proprio. Nella storia del jazz il suo apporto resta, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta, quello di uno dei maggiori e più significativi chitarristi acustici, ideale continuatore della strada tracciata da Eddie Lang e Dick McDonough. Muore il 31 marzo 1981.
05 ottobre, 2024
5 ottobre 1968 - Il fox-trot di Mary Hopkin scalza i Beatles
Il 5 ottobre 1968 Those were the days, un fox-trot interpretato dalla sconosciuta Mary Hopkin arriva la primo posto della classifica britannica dei dischi più venduti detronizzando addirittura Hey Jude dei Beatles. La notizia fa sensazione ma lascia del tutto indifferenti quattro baronetti di Liverpool che guardano con interesse il successo della bionda diciottenne. Come mai? Tutto comincia qualche tempo prima quando i Beatles danno vita alla Apple, un’etichetta discografica di loro proprietà. Nello stesso periodo la timida Mary Hopkin partecipa al programma televisivo "Opportunity knocks". Qui viene notata dalla modella Twiggy, una delle protagoniste di quegli anni, che la presenta a Paul McCartney. L'aria fragile e romantica della ragazza e la sua voce esile colpiscono il Beatle che la scrittura per la Apple intenzionato a farne una sorta di icona del pop neoromantico. Nonostante gli sforzi però il team di autori della casa discografica fatica a comporre una canzone che abbia le caratteristiche richieste. Il debutto discografico di Mary viene rinviato finché lo stesso McCartney s’imbatte in Those were the days, un fox-trot scritto da Ruskin che sembra fatto apposta per la ragazza. Tutti e quattro i componenti del gruppo più significativo della rivoluzione del beat lavorano alla produzione del disco. I risultati vanno al di là di ogni previsione. La canzone scalza dal vertice della classifica britannica gli stessi Beatles e vende più di otto milioni di dischi in tutto il mondo. L'exploit non avrà seguito. Nonostante il buon successo di un paio di singoli successivi la ragazza finirà per allontanarsi dai clamori del pop. La sua voce suggestiva percorrerà strade nuove e originali come la realizzazione di un album interamente cantato in gallese nel 1979 e la formazione nel 1984 degli Oasis (nulla a che vedere con la pop band omonima dei fratelli Gallagher) con Peter Skellern e Julian Lloyd Webber, fratello del compositore Andrew Lloyd Webber.
04 ottobre, 2024
4 ottobre 1970 – Addio piccola Janis
Il 4 ottobre 1970 Janis Joplin lascia per sempre la scena e vola via sulle ali di un’overdose di vita, più che di eroina, diventando suo malgrado un simbolo emblematico, come Jimi Hendrix, Brian Jones e Jim Morrison, del disagio esistenziale di una generazione. Janis è stata travolta un mondo duro e ostile da infrangere, più che domare. Per usare una terminologia politica non c’è riformismo possibile per una bambina nata in un buco del Texas agro-petrolifero come Port Arthur dove l’intelligenza e la curiosità sono guardati come un’espressione del diavolo e il canto è considerato «il primo passo verso la rovina». Se poi la bambina coltiva il sogno di andare via cavalcando le note di quella musica che racconta l’anima il peggio che le può toccare è scoprire che la sella è stata costruita su misura per i maschietti. Non è stata davvero tenera la vita per Janis, che dopo essersi fatta le ossa con i Walker Creek Boys molla le ancore e segue il sogno “on the road” dei beatniks trasferendosi ad Austin dove conosce Nick Gravenites e dove si esibisce alla Coffee Gallery, accompagnandosi con l'autoharp o con musicisti girovaghi, come Jorma Kaukonen, il futuro chitarrista dei Jefferson Airplane Nel 1962 entra per la prima volta in sala di registrazione per realizzare un jingle pubblicitario per una banca sulla melodia di This land is your land di Woody Guthrie. Nello stesso anno inizia a viaggiare tra le comuni hippie formatesi in quel periodo a San Francisco e Los Angeles. Alcuni brani di questo periodo, registrati da vivo ad Austin e a San Francisco verranno pubblicati nell'album Janis/Early Performances del 1975. Nell'estate del 1966 il poeta Chet Helms manager dei Big Brothers & The Holding Company le propone di diventare la voce solista della band. Per la prima volta nella sua breve carriera, quindi, Janis si esibisce con una band stabile formata dal bassista Peter Albin, dal batterista Dave Jetez, dal chitarrista James Gurley e dal chitarrista Sam Andrew. Con la sua voce graffiante e disperata il gruppo diventa, con i Grateful Dead, Country Joe & The Fish e i Quicksilver Messenger Service, uno dei protagonisti della scena musicale di San Francisco. Oggi parlare bene di lei è facile, ma all’epoca la critica storce il naso e la definisce anche «un incrocio fra una locomotiva a vapore, Calamity Jane, Bessie Smith, una trivella e un liquore disgustoso». Nel 1967 Janis e la band registrano il primo album, Big Brother & The Holding Company, uscito subito dopo il festival di Monterey, tenutosi in agosto, dove Janis ottiene uno straordinario successo personale. Nel mese di febbraio del 1968 Janis Joplin e la band tengono un memorabile concerto all'Anderson Theatre di New York e a settembre pubblicano lo splendido Cheap thrills. L’album, con la copertina disegnata dal fumettista underground Robert Crumb, è una delle migliori testimonianze dell'acid rock e si rivela un grande successo commerciale, ma segna anche l'inizio di un contrasto insanabile tra Janis e la band che sfocia nella definitiva rottura. L’irrequieta cantante decide di fare di testa sua. Riunisce musicisti come il chitarrista Sam Andrew, il tastierista Bill King, il bassista Brad Campbell, il batterista Ron Markovitz, il sassofonista Terry Clements e il trombettista Marcus Doubleday e li mescola in una band ad assetto variabile che prende vari nomi: Kozmic Blues Band, The Janis Revue e The Main Squeeze. Dopo I got dem ol'kozmic blues again mama del 1969 la fuga di Sam Andrew, sostituito in un primo momento da John Till, è il primo segnale di una crisi che sfocia nello scioglimento della banda. Su Janis, ormai entrata in un processo autodistruttivo condito da alcol e sostanze varie, piove anche una denuncia per linguaggio blasfemo comminatagli dalla polizia di Tampa al termine di un concerto. Il 12 giugno 1970 a Lexington, nel Kentucky, si esibisce con la sua terza e ultima band, la Full Till Boogie Band, composta dal chitarrista John Till, il pianista Richard Bell, l’organista Ken Pearson, il bassista Brad Campbell e il batterista Clark Pierson. Ormai la sua corsa sta per finire. Durante la registrazione dell'album Pearl, nella notte tra il 3 e il 4 ottobre del 1970, Janis Joplin muore in una camera dell'Hotel Landmark di Hollywood. Muore sola, nonostante il successo e la disponibilità a dare tutto di se stessa, nonostante l’amore regalato a uomini e donne in rapporti spesso consumati troppo in fretta. Il succo della sua vita è nascosto nella dichiarazione fatta dopo un concerto: «Mi sento come se avessi fatto l'amore con migliaia di persone e adesso so che devo tornare a casa da sola». Di lei restano meravigliose performance vocali e la capacità di interpretare il blues nella sua accezione originaria di musica dell’anima, della sofferenza, dell’insoddisfazione e del dolore.
03 ottobre, 2024
3 ottobre 2002 – Quando i musicisti si schierarono contro la guerra permanente
Il 3 ottobre 2002 un folto numero di musicisti statunitensi inizia con un concerto alla Great Hall di New York aperto dal "grande vecchio" Pete Seeger una serie di iniziative destinate a culminare il 6 ottobre (anniversario dell'attacco all'Afghanistan) in una lunga serie di concerti per la pace in Central Park, a Los Angeles, San Francisco e Seattle. Non era scontato, ma sta succedendo. Le corde del rock hanno ripreso a vibrare contro quelli che, negli anni Sessanta (un secolo fa!) Bob Dylan chiamava "Masters of war" (Signori della guerra). Su entrambi i lati dell'Oceano Atlantico la musica sta riscoprendo nuove e antiche parole per opporsi all'idea della guerra permanente invocata da Bush. Lo fa con due manifesti diversi, ma simili per i contenuti, sottoscritti da un numero impressionante di artisti. In Gran Bretagna porta il titolo di "Stop the War" (fermiamo la guerra) e negli Stati Uniti quello di "Not in our name" (non in nostro nome), ma la sostanza è la stessa, riassunta da Robert Del Naja dei Massive Attack: «Non possiamo stare a guardare gli Stati Uniti mentre uccidono sempre più persone per assicurarsi il monopolio del petrolio nel Medio Oriente». Scorrendo i nomi ci si accorge che qualcosa è davvero cambiato in un music system che per tanti, troppi anni, dopo le fiammate degli anni Sessanta e Settanta aveva guardato i movimenti pacifisti con indifferenza, quando non con aperta complicità. Chi mastica di musica ricorda ancora con raccapriccio l'orribile video realizzato da molti protagonisti della scena musicale per sostenere i "nostri ragazzi" impegnati nella Guerra del Golfo, mentre i piloti dei caccia statunitensi si vantavano di ascoltare in volo heavy metal ad altissimo volume. Allora solo una frangia importante ma ridotta aveva avuto il coraggio di dissociarsi. Oggi, invece, scorrendo la lista dei nomi, ci si accorge che non siamo di fronte a un'iniziativa un po' elitaria di pochi e illuminati artisti. Il vento della rivolta contro la guerra è alimentato in Gran Bretagna dalla popolarità di personaggi come i già citati Massive Attack, i Blur, Richard Ashcroft, i Primal Scream, Fatboy Slim, i Chemical Brothers, Billy Bragg, gli Elbow, Terence Trent D'Arby, i Coldplay, Brian Eno, i Radiohead e moltissimi altri. Non sono mancate le diserzioni e i distinguo dei musicisti più organicamente vicini al partito Laburista come Noel Gallagher degli Oasis che ha definito l'iniziativa «un tentativo inutile» e Paul Weller che, pur su posizioni simili a quelle del movimento, preferisce mantenere un ruolo autonomo, «forse per dare più spazio al suo nuovo disco» hanno ironizzato i colleghi. L'offensiva musical-pacifista britannica non si limita si concerti, alle manifestazioni e alle prese di posizione, ma tenta di allargare la sua azione con l'obiettivo di radicare un imponente movimento di massa. Damon Albarn dei Blur e i Massive Attack, per esempio, hanno acquistato due intere pagine del "New Musical Express", uno dei più diffusi magazine musicali del mondo, per dire che la guerra contro l'Iraq è ingiustificata e «rischia di provocare orribili ramificazioni, come l'apertura di un Vaso di Pandora che più nessuno poi riuscirebbe a richiudere». Sulla stessa onda i colleghi statunitensi pubblicano sul sito ufficiale le dieci ragioni per cui non si deve attaccare l'Iraq:
1) Non c'è alcuna vera giustificazione;
2) È falso che l'Iraq sia un pericolo reale;
3) Gli Stati Uniti faticano a trovare alleati;
4) La guerra, per definizione, rende tutti meno sicuri;
5) L'attacco all'Iraq viola le leggi internazionali;
6) L'attacco all'Iraq è costoso, difficile e pericoloso;
7) L'attacco all'Iraq uccide moltissime persone;
8) L'attacco all'Iraq viola la costituzione degli Stati Uniti;
9) La guerra non è mai la via giusta per la pace;
10) L'opposizione alla guerra cresce in tutto il mondo.
Anche qui le firme sono tantissime, da Laurie Anderson ad Ani DiFranco, Michael Franti, Mos Def, Steve Earle, Tom Morello, Oscar Brown e moltissimi altri, compresi personaggi meno musicali come Jane Fonda, Susan Sarandon, Oliver Stone e Noam Chomsky. Tra le star che hanno fatto sentire la propria voce negli States contro la guerra ci sono anche (e come potevano mancare?) Bruce Springsteen, Moby e i Pearl Jam. L'onda, insomma, sta crescendo, impetuosa su entrambe le sponde dell'oceano sotto la spinta di un vento che torna a rianimare le piazze e a far sussultare le coscienze. E, come hanno detto i promotori di "Stop the War", questa volta non ci si fa intrappolare dalle parole, prima ancora di capire a chi si muove guerra bisogna capire che non esistono guerre giuste: bisogna cancellare l'idea stessa di guerra dalla coscienza dell'umanità.
02 ottobre, 2024
2 ottobre 1957 – L’ultimo traguardo di Luigi Ganna il primo vincitore del Giro
Il 2 ottobre 1957 muore a Varese Luigi Ganna, il primo vincitore del Giro d’Italia. Nato il 1° dicembre del 1883 a Induno Olona, in provincia di Varese, Ganna è stato, con Cuniolo, Galetti e Pavesi, uno dei “quattro moschettieri”, come vennero chiamati, all’inizio del secolo i quattro campioni capaci di suscitare in Italia i primi entusiasmi per uno sport giovane come il ciclismo. L’anno migliore della sua carriera fu il 1909 quando, dopo aver vinto la Milano-Sanremo davanti a Georget e Cuniolo, si aggiudicò la prima edizione del Giro d’Italia con due punti di vantaggio sull’amico-rivale Galetti, vincendo anche le tappe di Roma, Firenze e Torino. Tra i suoi successi figurano anche il Giro dell’Emilia e la Milano-Modena nel 1910 e la Gran Fondo nel 1912. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale decretò la fine anticipata della sua carriera agonistica, ma non del suo rapporto con il ciclismo. Intuite le grandi potenzialità produttive del settore si impegnò nella costruzione di biciclette che, approfittando della popolarità conseguita, chiamò con il suo nome. Le biciclette Ganna vennero portate alla vittoria negli anni successivi da Bottecchia, Demuysière e Fiorenzo Magni.
01 ottobre, 2024
1° ottobre 1908 – Nasce la Ford Model T
Il 1° ottobre 1908 un emozionato Henry Ford annuncia la nascita dell’auto dei suoi sogni. È la mitica Model T, che verrà soprannominato "Tin Lizzie" da milioni di americani. Un’automobile semplice nel funzionamento e brillante nelle prestazioni, destinata a essere insignita quasi cent’anni dopo del titolo di “Auto del secolo” da una giuria di esperti e giornalisti specializzati. Nei vent’anni di produzione la Ford costruirà 15.458.781 vetture del Modello T, un record che resterà imbattuto per oltre 50 anni! La capacità produttiva viene supportata da un’innovazione destinata a lasciare il segno quando Henry Ford adatta il concetto di catena di montaggio alla produzione automobilistica riuscendo ad abbattere i tempi di produzione a livelli mai visti prima. L’innovazione produttiva è affiancata da un’altra serie di innovazioni sul piano dei rapporti sociali: la casa automobilistica raddoppia la paga giornaliera dei suoi operai e riduce l’orario di lavoro a otto ore giornaliere. Anche la frase con cui Ford convince i riottosi soci è rimasta emblematica: «Se riduci le paghe, riduci il numero dei tuoi clienti». I parametri della linea di montaggio fordista trascinano tutta l’industria statunitense. La morte del fondatore, avvenuta nel 1947, non ferma la marcia della Ford Motor Company che, riorganizzata da Henry Ford II, rinnova la sfida al mercato con modelli di grande successo e suggestione come la Thunderbird del 1955, la Mustang lanciata nel 1964 e la celebre Fairlane.
30 settembre, 2024
30 settembre 1950 – Renato Fiacchini in arte Zero
Il 30 settembre 1950 nasce a Roma Renato Fiacchini, destinato a ottenere un notevole successo con il nome di Renato Zero. Deciso a sfruttare l’immagine di personaggio ambiguo, sullo stile del David Bowie del periodo glam, debutta come cantante nel 1974 con l'album No mamma no, seguito l’anno dopo da Invenzioni. Dotato di grande carisma diventa protagonista, in breve tempo, di un vero e proprio culto di massa che decreta il successo delle sue canzoni e l'affollamento fino all'inverosimile dei suo spettacoli. Dopo Trapezio del 1976, gli album Zerofobia del 1977 e Zerolandia dell’anno dopo segnano la sua definitiva consacrazione tra i grandi della musica italiana. I suoi fans, da lui chiamati "sorcini" lo considerano il capo di una grande famiglia che viene raccolta sotto il tendone dei suoi spettacoli. I suoi successi di questo periodo non si contano. Verso la metà degli anni Ottanta il suo personaggio pare declinare, con l'affermarsi di nuovi miti e nuove mode musicali. Addirittura il 30 settembre del 1990 dichiara la sua intenzione di esibirsi per l'ultima volta in un grande concerto, ma non mantiene la parola. L'anno dopo, infatti, va al Festival di Sanremo dove presenta Spalle al muro, un brano scritto per lui da Mariella Nava che segna, a pochi mesi di distanza, un nuovo inizio della sua carriera. Nel 1995, recuperata la sua antica voglia di stupire torna a esibirsi in un lungo tour tutto esaurito. È un nuovo inizio.
29 settembre, 2024
29 settembre 1924 – Quell'Armstrong lì non è male alla tromba....
Il 29 settembre 1924 il Roseland Ballroom di New York, il locale da ballo più prestigioso della metropoli statunitense, ha in cartellone l’orchestra di Fletcher Henderson. In sé non è un evento particolare. Pur essendo una band popolarissima in quel periodo, infatti, l’orchestra di Henderson è quasi di casa al Roseland, per cui la sua esibizione non suscita particolare entusiasmo fra gli abituali frequentatori del locale. Accolta dagli applausi di rito la band parte con sua sigla, ma i più attenti si accorgono che c’è una novità nella formazione. Si tratta di un giovane trombettista nero cui Henderson lascia nel corso della serata sufficiente spazio per mettersi in mostra. Il suo nome è Louis Daniel Armstrong e ha da poco compiuto ventiquattro anni. Originario di New Orleans, città dove la musica è quasi un elemento costitutivo come l’aria o l’acqua del Mississippi, ha mosso i suoi primi passi sotto la guida di Mr. Davis, un maestro di musica molto famoso nei primi anni del Novecento. Armstrong arriva a New York da Chicago, città nella quale si è trasferito quando è stato ingaggiato dalla Creole Jazz Band di King Oliver. Proprio nel gruppo di Oliver ha incontrato la pianista Lil Hardin, un personaggio chiave della sua vita che si è innamorata di lui e lo ha aiutato a migliorare il suo patrimonio tecnico perfezionandone lo stile e la padronanza dello strumento. L’Armstrong che debutta il 29 settembre al Roseland Ballroom è un artista sicuro di sé e che ha ben chiari in testa gli obiettivi da raggiungere. La sua presenza, però, crea non pochi problemi a un gruppo orchestrale composto in gran parte da permalosi e affermati solisti come Buster Bailey, Charlie Green, Don Redman e Coleman Hawkins. Soprattutto quest’ultimo che, malgrado la giovane età, è già protagonista delle scene musicali di Broadway non accoglie con entusiasmo l’arrivo di Louis. Fortunatamente non la pensa così il capo-orchestra Fletcher Henderson, abituato a lavorare con grandi artisti e impermeabile ai mugugni. È lui che ha proposto ad Armstrong di entrare nel suo gruppo. Ne intuisce le qualità e lo stima al punto da lasciargli, fin dalla serata del debutto, uno spazio vocale. Proprio il 29 settembre, infatti, per la prima volta nella sua carriera Louis Armstrong si esibisce in un breve inserto vocale nel brano Everybody loves my baby.
28 settembre, 2024
28 settembre 1985 – Torna Kate Bush, la donna del mistero
Il 28 settembre 1985 l’album Hounds of love riporta Kate Bush al vertice della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna. Ci resterà per più di un mese. Il disco ripropone la “donna del mistero” della musica britannica dopo tre anni d’assenza e di silenzio. Nata il 30 luglio 1958 a Bexleyheat, nel Kent, Catherine “Kate” Bush viene descritta dalle biografie ufficiali come una sorta di bambina prodigio che passa il suo tempo tra il pianoforte e i libri. In realtà, come dice lei con ironia, ascolta anche i dischi dei T. Rex di Marc Bolan ma «non si può dire, altrimenti crolla il mito». Ha solo quindici anni quando invia una cassetta con alcune sue canzoni a David Gilmour, il chitarrista dei Pink Floyd, che la fa ascoltare ai talent scout della sua casa discografica. Nonostante la giovane età ottiene il suo primo contratto discografico che la costringe a frequentare lezioni di piano e di canto, oltre che i corsi di danza di Lindsay Kemp. Nel 1977 tutto è pronto per il suo debutto. La ragazza, non sopporta però di sentirsi un pollo d’allevamento e rifiuta le imposizioni. «Sono una donna, non uno stupido disco. Canto solo ciò che mi convince!» Più volte il rapporto tra lei e i discografici arriva al limite della rottura e il suo primo disco vede la luce solo nel gennaio del 1978. Valeva la pena di aspettare tanto! In piena epoca punk infatti la sua interpretazione della romantica Wuthering heights conquista il vertice della classifica. Il ruolo della popstar però non fa per lei. Dopo un faticoso tour nel 1979 decide di non fare più concerti alimentando la leggenda della “donna del mistero” dal carattere chiuso e scontroso. Il rapporto con il pubblico è delegato a una serie di splendidi video-clip di cui spesso firma sceneggiatura e regia. Straordinari esempi della sua genialità creativa sono Babooshka nel 1980 e di Running up that hill nel 1985, che vede la partecipazione dell’attore Donald Sutherland. L’album Hounds of love segna una svolta nella sua carriera artistica. Nel tentativo di soddisfare una perenne irrequietezza artistica e l’ansia di percorrere strade nuove la sua voce si comporta come se fosse uno strumento sonoro e nelle atmosfere ritmate e aggressive dei brani il timbro non esita a farsi cupo per dare corpo a foschi e ossessivi deliri. Sono parti dell’evoluzione di un genere molto personale che verrà definito “lirismo rock” da critici senza fantasia.
27 settembre, 2024
27 settembre 1966 – Jovanotti, l'evoluzione
Considerato agli esordi poco più di una geniale invenzione dell’industria discografica e bersagliato come l’interprete della superficialità disimpegnata degli anni Ottanta, Jovanotti riesce, nel tempo, ad affinare la sua tecnica e a riempire i suoi brani di contenuti, fino a diventare interprete impegnato e colto, senza mai perdere il successo commerciale. Il suo vero nome è Lorenzo Cherubini e nasce a Roma il 27 settembre 1966. Inizia giovanissimo a lavorare come disc jockey e conduttore radiofonico. Nel 1987 debutta come cantante su suggerimento di Claudio Cecchetto che lo convince a interpretare brani disimpegnati che si rivolgono a un pubblico di adolescenti come 1...2...3... casino, Siamo o non siamo un bel movimento? , Go Jovanotti go e Gimme Five. Nel 1988 pubblica l'album Jovanotti for president che vende più di cinquecentomila copie e fa di lui uno dei più grandi fenomeni commerciali della fine degli anni Ottanta. Nel 1989 partecipa al Festival di Sanremo con l'ironica Vasco, una rassicurante e un po' codina presa in giro di Vasco Rossi, cui segue l'album La mia moto, un disco in cui la dance music lascia trasparire qua e là riferimenti alla cultura hip hop, non sufficienti però a conquistare il pubblico più esigente che vede in lui un simbolo della superficialità degli anni Ottanta. Non a caso il brano che dà il titolo all’album viene ripreso dal gruppo ragamuffin veneto dei Pitura Freska che lo incidono con un nuovo testo pesantemente ironico nei confronti del cantante. Nel 1990 realizza l'album Giovani Jovanotti cui collaborano musicisti come Keith Emerson, Billy Preston, Mick Talbot, Pino Palladino e i Memphis Horms, che segna una svolta nella sua carriera. A partire dal 1991 con l’album Una tribù che balla la sua produzione si fa via via più matura e ricca sia dal punto di vista musicale che da quello dei contenuti. Nonostante qualche problema di credibilità, soprattutto all’inizio degli anni Novanta, a lui va riconosciuto l'indubbio merito di aver saputo fondere in modo efficace l’esperienza della canzone italiana con le nuove tendenze della musica internazionale, contribuendo a un grande rinnovamento generazionale della musica popolare del nostro paese.
26 settembre, 2024
26 settembre 1991 – I Pogues con sorpresa a New York
Il 26 settembre 1991 i cronisti guardano divertiti il pubblico che si accalca davanti ai botteghini del Beacon Theatre di New York. Sembra che si siano dati convegno i tipi più strani. C’è il cinquantenne rubizzo con la maglietta verde dell’Irlanda accanto al giovane punk un po’ démodé con i capelli a cresta e alla ragazza vestita con la bandiera scozzese. Le giacche, le cravatte, le scarpe lucidate di fresco e gli abiti lunghi da grande occasione si mescolano con indifferenza a minigonne, calzoni da jogging, scarpe da ginnastica e anfibi militari. L’occasione per l’insolito e stravagante raduno non è una festa mascherata, ma il primo di due concerti annunciati da tempo dei Pogues, una band britannica nata dalla ceneri del punk che propone un folk rock ruvido e singolare, una sorta d'incrocio tra generi diversi, dal rockabilly al country, al folk irlandese e scozzese passati attraverso una sorta di tritatutto e riproposti con l’energia del punk dei primi tempi. Il gruppo si forma a Londra nel 1983 con il nome di Pogue Ma Hone (espressione che in gaelico significa «baciami il culo»). Ne fanno parte Shane MacGowan, James Fearnley, Spider Stacy, Jem Finer e Andrew Ranken. Pochi mesi dopo, quando firmano il loro primo contratto discografico con la Stiff, sono costretti a cambiare il nome nel più semplice e meno problematico The Pogues. Ampliano anche la formazione con l’arrivo della bassista Caitlin O'Riordan. La loro attività va di pari passo con l’impegno politico e sociale. Innumerevoli sono i concerti di solidarietà con vari movimenti di liberazione, soprattutto con i sandinisti del Nicaragua, e le iniziative contro il razzismo. Nel 1985 gli ambienti musicali britannici accolgono con un po’ di preoccupazione l’annuncio che il loro secondo album si intitola Rum, sodomy and the lash, una definizione della vita nella marina militare inglese presa a prestito da una frase di Winston Churchill. Naturalmente, nonostante il crescente successo, la vita interna della band è tutt’altro che rose e fiori, tanto che le liti e i cambiamenti nella formazione sono all’ordine del giorno. Il concerto al Beacon Theatre di New York del 26 settembre 1991 segna il ritorno dei Pogues negli Stati Uniti dopo un’assenza di tre anni. Nel breve tour precedente la band aveva colpito il pubblico schierando in formazione a sorpresa, fin dalla prima esibizione, un ospite di riguardo: l’ex chitarrista dei Clash Joe Strummer che aveva irrobustito la scaletta dei concerti con le scatenate versioni di due brani del suo vecchio gruppo come London calling e I fought the law. Per qualche tempo si è parlato di un suo ingresso a tempo pieno nei Pogues, ma l’episodio che non ha avuto seguito e la collaborazione non si è più ripetuta. Qualcuno, però, giura di aver visto Strummer entrare nei camerini del teatro. I giornalisti sono qui soprattutto per quello, ma anche perché, in genere, quando sono di scena i Pogues qualcosa da raccontare c’è sempre. Con notevole ritardo e con la faccia furba della grandi occasioni Shane MacGowan si presenta sul palco. Rivolto alla platea annuncia con aria solenne: «Ascoltando la nostra musica potete capire quanto a noi piacciano le belle tradizioni. Nel tour precedente avevamo invitato a suonare con noi un amico come ospite provvisorio. Una di quelle teste calde del punk, un tipo un po’ strano che si chiamava Joe Strummer. Ve lo ricordate? Per restare fedeli alla tradizione anche questa volta abbiamo una sorpresa, ma non si tratta di un ospite. È uno strumentista destinato a restare a lungo con noi. La grande famiglia dei Pogues ha un nuovo componente. Accoglietelo bene, mi raccomando, è un pivellino timido e ha bisogno di essere incoraggiato!» Inutile dire che si tratta sempre di Joe Strummer. MacGowan non ha mentito sull’intenzione del chitarrista di far parte a tempo pieno del gruppo, ma il suo pacato discorsetto iniziale non può evitare che l’arrivo dell’ex Clash apra qualche crepa nei rapporti interni. La prima vittima di questa situazione è proprio lui: MacGowan. Due mesi dopo, infatti, si ferisce seriamente in Giappone mentre sta smaltendo i postumi di una colossale sbronza a base di sakè. Preoccupati dall’imminente avvio di un lungo tour britannico, i Pogues chiedono a Strummer di assumere la leadership del gruppo in attesa del ritorno di MacGowan. Joe accetta e l’altro, offeso, annuncia ai quattro venti l’intenzione di lasciare quegli ingrati dei suoi ex compagni e di continuare come cantante solista. Nessuna delle decisioni prese sarà definitiva e la formazione del gruppo cambierà spesso e volentieri perché quando si tratta dei Pogues non c’è mai niente di definitivo.
25 settembre, 2024
25 settembre 1965 – L’exploit dei Walker Brothers
Il 25 settembre 1965 i Walker Brothers arrivano al vertice della classifica britannica dei dischi più venduti con la loro versione di Make it easy on yourself, un brano composto nel 1962 da Burt Bacharach ed Hal David. Il trio statunitense formato l’anno prima da Scott Engel, John Maus e Gary Leeds ribattezzatisi per reggere la finzione dei “fratelli Walker” con i nomi d’arte di Scott Walker, John Walker e Gary Walker mostra ancora una volta che nessuno è profeta in patria. Lasciati gli States per cercare fortuna oltreoceano ottengono un successo quasi immediato. Pochi mesi dopo l’exploit di Make it easy on yourself si ripetono con My ship is coming in e, soprattutto, The sun ain' gonna shine anymore pubblicata nel 1966 e considerata ancora oggi la loro miglior canzone, oltre che uno dei migliori dischi degli anni Sessanta. Nonostante i risultati i Walker Brothers poco dopo aver pubblicato l'album Images decideranno nel 1967 di separarsi per continuare ciascuno per proprio conto, mettendo così fine a un gruppo destinato probabilmente a durare ancora per molto tempo con successo. Nessuno dei tre componenti riuscirà a ripetere da solo i risultati della band e sull'onda della nostalgia si riuniranno più volte a partire dal 1975.
24 settembre, 2024
24 settembre 1922 – Marcella Lumini, cantante nonostante i genitori
Il 24 settembre 1922 nasce a Firenze la cantante Marcella Lumini. Forse la sua vita artistica sarebbe stata diversa se i genitori, appartenenti alla buona borghesia fiorentina, non le avessero proibito di studiare lirica ritenendo quel tipo di studi e di professione disdicevoli per una ragazza di buona società. Nonostante tutto la ragazza riesce a strappare alla madre il permesso di prendere lezioni private di canto e nel 1941 se ne va a Roma per sostenere un provino dell’EIAR. La sua interpretazione di Domani la rivedrò, un brano di Pippo Barzizza portato al successo da Natalino Otto, entusiasma il maestro Vallini che le procura un contratto per cantare ai microfoni della radio con l'orchestra di Armando Fragna. In questo periodo si innamora del batterista Marcello Valci che diventa suo marito. Alla fine del 1944 decide di chiudere con la canzone per dedicarsi a una famiglia che diventerà numerosa. La decisione non è definitiva. Torna infatti sui suoi passi per un breve periodo negli anni Cinquanta quando si esibisce con l’orchestra del marito e, sotto la guida di Eros Sciorilli registra alcuni dischi per la Fonit. Tra le sue interpretazioni sono da ricordare Son tutti fiori, Tiemme abbracciata a te, Cuci cuci ed È tanto bello. Muore a Roma nel 2009.
23 settembre, 2024
23 settembre 1970 - Bourvil, il "povero diavolo"
All’una di notte del 23 settembre 1970 a Parigi chiude gli occhi e se ne va Bourvil. Il povero diavolo un po’ stordito che il mondo intero ha conosciuto sullo schermo come compagno d’avventure di Louis De Funés è soltanto una parte, universalmente più nota, della grande versatilità artistica di un uomo che è stato amico e ammiratore di Georges Brassens. Il rapporto di Bourvil con la canzone è solido e duraturo, non un flirt stagionale nato sull’onda di un periodo di particolare effervescenza e non è un caso se ancora pochi mese prima di morire registra con Jacqueline Maillan un’esilarante parodia della famosa Je t’aime, moi non plus, il successo della coppia formata da Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Ed è proprio la musica la compagna inseparabile con la quale divide ogni istante della sua vita, dagli esordi nei cabarets negli anni dell’occupazione, al grande successo cinematografico, fino ai giorni della malattia che lo porterà alla morte. Bourvil nasce il 27 luglio 1917 a Prétot-Vicquemare e viene registrato all’anagrafe con il nome di André Robert Raimbourg. Quando la madre lo mette al mondo suo padre è lontano, richiamato al fronte per combattere una guerra assurda e sanguinosa che i posteri chiameranno prima Guerra Mondiale. Come centinaia di migliaia di suoi compagni lascia sogni, speranze e, soprattutto, la vita nelle trincee. Non torna più. Suo figlio André cresce così a Bourville, un paese della Normandia, orfano senza aver mai neppure conosciuto l’uomo che gli ha dato il cognome. A scuola se la cava con facilità. Dotato di un’intelligenza vivace e di una memoria di ferro riesce a eccellere abbastanza agevolmente nelle materie di studio, nonostante dal punto di vista disciplinare le autorità scolastiche abbiano più di una riserva sul suo comportamento. Gli piace fare il buffone per i suoi compagni e non disdegna di esibirsi nelle feste scolastiche anche se, come racconta lui stesso, «...avevo dieci, undici anni e talvolta intonavo canzoni un po’ troppo salaci e scollacciate...». L’inevitabile arrivo di qualche punizione fa parte dei rischi... artistici. Crescendo impara a suonare prima la fisarmonica e poi la cornetta e si esibisce quando può in canzoni divertenti come Ignace o La caissière du Grand café, “rubate” al repertorio del suo idolo Fernandel. A vent’anni trova modo di unire l’utile al dilettevole prestando servizio militare come ... trombettista nella banda del 24° Reggimento di Fanteria a Parigi. La divisa gli resta appiccicata più del previsto perchè la Germania nazista invade la Francia e l’esercito è mobilitato per resistergli. Non ci sono congedi né licenze e André viene trasferito con il suo reggimento ad Arzacq, sui Pirenei. Qui incontra il fisarmonicista Etienne Lorin destinato a diventare suo amico e compagno d’avventure musicali per lungo tempo. Nel 1940 la Francia si arrende alla ferocia nazista e l’esercito viene smobilitato. André, dopo aver scelto il nome d’arte di Andrel, in omaggio a Fernandel, se ne va a Parigi a cercare fortuna nel mondo dello spettacolo insieme al suo amico Etienne. La musica non basta per vivere e per un po’ il giovane si adatta a fare l’idraulico e altri mestieri. Alla sera si esibisce nei cabarets parigini con spettacoli di gag e canzoni composte insieme all’inseparabile Etienne. Il suo nome d’arte è ormai diventato quello, definitivo, di Bourvil, quasi un omaggio al paese della Normandia che l’ha visto crescere, ma la sua attività nel mondo dello spettacolo resta frenetica, spezzettata e tutt’altro che esaltante. Passa dall’attività di presentatore al Préludes di Pigalle a quella di comico popolare al Libertys e fa l’intrattenitore musicale per il Petit Casino. Proprio la diversità dei ruoli, che in genere rischia di essere un elemento negativo nella scalata verso il successo, finisce per arricchire straordinariamente il suo bagaglio artistico. La prima svolta nella sua carriera arriva quando Pierre-Louis Guérin, l’impresario di Tino Rossi, lo scrittura per il Club, un locale di cui è direttore artistico. Il contratto prevede che Bourvil ci resti per una settimana ma il successo è tale che, di rinnovo in rinnovo, continuerà a esibirsi su quel palcoscenico per quasi un anno! La sua popolarità attira anche l’attenzione di Jean-Jacques Vital, uno dei personaggi più influenti del mondo radiofonico, che lo vuole con sè a Radio Luxembourg. Nel 1946 Bourvil firma il suo primo contratto discografico e registra per la Pathè alcuni monologhi e una serie di canzoni come Timichiné la pou pou e Houpetta la bella, due esempi di ironiche prese in giro della vena esotico-romantica che caratterizza il repertorio di chansonniers come Tino Rossi. Il primo grande successo discografico arriva però con Les crayons, una irresistibile e sarcastica rivisitazione della chanson réaliste il cui testo porta la sua firma e la musica quella del suo inseparabile amico e fisarmonicista Etienne Lorin. Il brano, che Bourvil canta anche nel film “La ferme du pendu” di Jean Dréville, finisce per aprirgli anche le porte del cinema. Nel 1946 il compositore Bruno Coquatrix, futuro direttore dell’Olympia, lo scrittura per una tournée con l’orchestra di Ray Ventura e nello stesso anno Bourvil vede per la prima volta il suo nome sui manifesti come attrazione principale all’ABC al fianco di Georges Ulmer. Ormai divenuto una vedette del music hall debutta con successo anche nell’operetta che in quel periodo è una delle forme spettacolari di maggior successo. Proprio nell’ambiente dell’operetta incontra Pierrette Bruno, la compagna di una serie di duetti indimenticabili, ma anche altri personaggi destinati ad accompagnarlo per gran parte della sua carriera, come Luis Mariano, Georges Guétary o Annie Cordy. La sua immagine comica non aliena da qualche pungente affondo satirico è l’aspetto che maggiormente cattura il pubblico e che regala a Bourvil grandi successi con canzoni come La tactique du gendarme e À bicyclette. In realtà nel suo repertorio non mancano momenti diversi, ricchi di tenerezza e sentimento e spesso sottolineati da interpretazioni di grande suggestione come quelle di Le petit bal perdu, una canzone scritta da Robert Nyel e entrata poi nel repertorio di Juliette Gréco, o La tendresse. All’elenco c’è anche da aggiungere La ballade irlandaise, uno struggente e delicato brano scritto da Emil Stern su un testo di Eddy Marnay che Bourvil interpreta quasi per scommessa visto che nessun altro sa o vuole misurarsi con la sua complessità interpretativa. Il successo inaspettato della sua versione lo spinge ad affiancare sempre più spesso al lato comico del suo repertorio canoro una serie di momenti più riflessivi con canzoni ricche di poesia e talvolta anche di impegno sociale. A ben vedere la sua storia musicale contrasta un po’ con quella del paesanotto cocciuto e pasticcione che ha di lui il pubblico che l’ha conosciuto soltanto nei film di De Funés. Bourvil è un artista vero e, come tale, capace di non farsi condizionare da lusinghe e santificazioni, soprattutto a partire dal dopoguerra quando, grazie al successo, le risorse per vivere non sono più un problema. I suoi strali satirici vengono spesso messi al servizio di cause nobili come quando minaccia di non esibirsi se prima non vengono riconosciute le richieste sindacali dei dipendenti dell’ABC. I suoi spettacoli e le sue canzoni sono un dito puntato contro l’imbecillità e l’arroganza degli uomini, soprattutto di quelli che detengono, magari ingiustamente, posizioni di potere. Nel 1968 si accorge di avere un nemico potentissimo come la Sindrome di Kahler, una malattia mortale che uccide progressivamente attaccando il midollo osseo, ma non si arrende. Resta sulla breccia fino all’ultimo terminando di girare proprio poche settimane prima di morire lo splendido e drammatico film “I senza nome” di Jean Pierre Melville. All’una di notte del 23 settembre 1970 a Parigi chiude gli occhi e se ne va.
22 settembre, 2024
22 settembre 1937 - Ennio Sangiusto, il triestino che importa il twist
Il 22 settembre 1937 nasce a Trieste Ennio Reggente, destinato a godere di una buona popolarità negli anni Cinquanta con il nome d'arte di Ennio Sangiusto. Muove i suoi primi passi artistici nella sua città, dove frequenta corsi di canto, musica e danza. Per lungo tempo non si muove da Trieste dove s'accontenta di sbarcare il lunario esibendosi in vari locali che quasi mai lo pagano in denaro. Il suo destino sembra cambiare quando riesce a strappare un regolare contratto dalla sede triestina della Rai che lo scrittura come cantante melodico - moderno. La routine quasi impiegatizia, però, non fa per lui. Appena ha racimolato il denaro necessario saluta tutti e se ne va. Il suo lungo girovagare per l'Europa si ferma a Marsiglia dove, più per necessità che per aspirazione, decide di fermarsi per qualche tempo. Per sopravvivere accetta di esibirsi in veste di cantante e ballerino in locali non proprio di prim'ordine. Qui incontra strumentisti che propongono i nuovi ritmi che arrivano d'oltreoceano e modifica profondamente il suo repertorio. Il vecchio cantante melodico moderno lascia spazio a un brillante intrattenitore capace di confrontarsi con melodie e ritmi che affondano le loro radici nel repertorio tradizionale afrocubano e nelle sonorità derivate dal jazz strumentale. A Marsiglia impara anche il twist, una nuova danza arrivata dagli Stati Uniti dove è stata lanciata dal nero Chubby Checker. Quando ancora nessuno crede che quel "movimento selvaggio" possa attecchire in Italia, lui ne diffonde i passi e ne interpreta le prime canzoni, anche se negli anni successivi altri si attribuiranno il merito dell'affermazione del twist nel nostro paese. La sua carica di simpatia e la sua voce molto ritmata ne fanno l'interprete ideale di una lunga serie di brani destinati al successo. Scanzonato e sorridente non pare mai prendersi sul serio, quasi che cantare e ballare sia per lui più un'esigenza personale che una professione. Indimenticabili restano le sue interpretazioni di brani come Ay che calor, una sorta di cha cha cha dalle accentuate sfumature melodiche e, soprattutto, la curiosa versione di Lanterna blu, un vecchio slow ripresentato nell'inedita veste di un samba melodico. All'inizio degli anni Sessanta sotto l'incalzare di nuove mode la sua popolarità inizia declinare. Tenterà di risalire la china nel 1963 partecipando al festival di Sanremo con un paio di canzoni tra cui l'innovativa e ironica La ballata del pedone una sorta di sceneggiata in musica che viene sonoramente bocciata dalle giurie.
21 settembre, 2024
21 settembre 1963 - Il velluto blu di Bobby Vinton
Il 21 settembre 1963 arriva al vertice della classifica statunitense dei dischi più venduti il brano Blue velvet interpretato da Bobby Vinton, uno dei tanti ragazzotti bellocci dalla voce calda inventati dai discografici per la gioia delle ragazze e degli editori di rotocalchi giovanili. I tempi però stanno cambiando e l'arrivo del beat sta per spazzare via dalla scena musicale, oltre che dai cuori delle teen-ager, i personaggi come lui. Il robusto rock che arriva dall'Inghilterra fa passare in secondo piano Bobby Vinton che deve ricominciare da capo prima ancora di aver compiuto vent'anni. Da idolo delle adolescenti si ritrova così a cantare standard nei club di Las Vegas per la gioia di signore attempate e ricche. Da questa sorta di paradiso per vecchie glorie riemergerà negli anni Ottanta grazie al cinema. Il primo a riportarlo alla luce è John Landis che inserisce la sua versione di Blue moon nel film "Un lupo mannaro americano a Londra". Sull'onda del successo del lungometraggio vengono ristampati i suoi vecchi dischi e l'ex ragazzo dal sorriso un po' ebete si ritrova a cavalcare di nuovo le onde del successo. Il periodo migliore deve, però, ancora venire. Il merito è proprio di quella Blue velvet che per lungo tempo era stata considerata il suo canto del cigno. Nel 1986, infatti, David Lynch realizza il film "Velluto blu", il cui titolo è tratto direttamente dalla canzone, inserita anche nella colonna sonora. La fortuna o, più probabilmente, la geniale ispirazione di Lynch trasformano la pellicola in uno dei successi dell'anno grazie anche allo scandalo suscitato dalla decisione di Gian Luigi Rondi di escluderlo dalla programmazione del Festival di Venezia per quelli che lui ritiene gli eccessi di nudo, sangue e violenza. Il buon Bobby Vinton, meno patinato di un tempo, decide di non bruciare l'occasione che gli è stata concessa. Centellina le presenze televisive e mette a frutto l'esperienza di più di vent'anni passati a fare da sottofondo musicale alle chiacchiere di ricchi annoiati. Un altro suo vecchio brano tornerà prepotentemente al successo all'inizio degli anni Novanta. Si tratta di Sealed with a kiss che nell'interpretazione di Jason Donovan arriverà al primo posto della classifica britannica dei dischi più venduti. Ma il suo vero cavallo di battaglia resta sempre Blue velvet, destinato a salire nel 1991 per l'ennesima volta ai vertici delle classifiche discografiche dopo essere stato utilizzato come colonna sonora di uno spot pubblicitario.
20 settembre, 2024
20 settembre 1950 – Loredana Berté, una stella
Il 20 settembre 1950 a Bagnara Calabra, in provincia di Reggio Calabria, nasce Loredana Berté. La ragazza debutta giovanissima sulle scene come corista e ballerina nel gruppo delle Collettine che accompagna Rita Pavone. Successivamente partecipa a musical come "Orfeo 9", "Ciao Rudy" e la versione italiana dello scandaloso, per l’epoca, "Hair". Nel 1974 il suo primo album come solista, Streaking, suscita accese polemiche per la foto di copertina che la ritrae nuda e per gli accenni di turpiloquio in alcuni brani. Interprete inquieta fa della provocazione una costante della sua carriera, incorrendo spesso nei fulmini della censura. Non fa eccezione il suo primo singolo di successo, Sei bellissima, per lungo tempo escluso dalle programmazioni radiofoniche e televisive della Rai a causa del testo, giudicato troppo audace. La definitiva consacrazione arriva nel 1979 con il grande successo commerciale dell'album Bandabertè, trascinato dal reggae del singolo E la luna bussò. Nel 1982 vince il Festivalbar con Non sono una signora e, nell'autunno dello stesso anno, pubblica l'album Traslocando che, tanto per cambiare, suscita polemiche per la copertina in cui compare vestita da suora e truccata di tutto punto. Si conferma poi interprete di valore con canzoni di notevole spessore musicale e artistico, ma all’inizio degli anni Novanta vari problemi personali si sommano alla fama di “personaggio scomodo” fino a renderle sempre più difficili i rapporti con il mondo discografico italiano. Con il nuovo millennio trova nuovi stimoli e nuove persone che credono nelle sue possibilità e inaspettatamente torna al successo.
19 settembre, 2024
19 settembre 1973 - Le ultime volontà di Gram Parsons
Il 19 settembre 1973 muore in California Gram Parsons, l'ex chitarrista dei Byrds e dei Flying Burrito Brothers, considerato uno dei migliori talenti del country rock. Le circostanze della sua morte non sono chiare. Inizialmente viene attribuita a cause naturali, ma la successiva autopsia rileva tracce consistenti di droga e alcool nel sangue e il certificato definitivo di morte parla esplicitamente di “overdose”. La sua scomparsa dà luogo a uno degli episodi più emblematici della storia della generazione hippie. Il corpo del musicista dopo l'autopsia viene messo a disposizione della famiglia con la quale aveva rotto i rapporti da molti anni. Quest'ultima dà precise disposizioni perché la bara di Parsons venga trasferita in Florida per essere tumulata nella tomba di famiglia con una cerimonia religiosa solenne che possa «riconciliare l'anima di Gram con Dio». La notizia getta nello sconforto gli amici hippie con i quali il chitarrista ha diviso gli ultimi anni della sua vita. Egli infatti ha lasciato loro un messaggio in cui chiede che il suo corpo venga cremato su una grande pira all'interno dello splendido scenario di un'oasi naturale e le sue ceneri disperse ai piedi del Joshua Tree National Monument. A nulla serve il tentativo di convincere la famiglia di Parsons. I suoi parenti, ritenendo gli amici responsabili della "corruzione spirituale" di Gram, rifiutano di ascoltarli e non sono disponibili a dare il loro assenso a una cerimonia "pagana". Ritenendosi depositari delle ultime vere volontà del chitarrista gli amici non demordono. Visti inutili i tentativi di comunicare decidono di passare all'azione. Sotto la guida di Phil Kaufman, il vecchio manager dell'artista, viene mobilitata l'intera comunità hippie di Los Angeles. L'operazione scatta all'aeroporto della città quando un gruppetto riesce a impadronirsi della bara e a portarla fuori eludendo la sorveglianza. Mentre altri gruppi creano situazioni diversive nella zona circostante il furgone che porta a bordo il corpo del chitarrista vola veloce verso la sua destinazione. Verrà cremato nel corso di una cerimonia suggestiva e ricca di emozione alla presenza degli amici e di tutti i membri della comunità hippie di Los Angeles. Due giorni durerà questa sorta di veglia funebre scandita da canti e da poesie. Soddisfatte le ultime volontà dell'amico inizieranno i problemi perché le autorità incrimineranno gli esecutori materiali di una mezza dozzina d'imputazioni, compreso il furto e la distruzione di cadavere.
18 settembre, 2024
18 settembre 1970 – Per Jimi Hendrix la vita è come l'amore, rinchiusa tra ciao e addio
Il 18 settembre del 1970 è un venerdì, per molti una giornata normale. Per Jimi Hendrix quella del suo appuntamento con la morte. La vecchia signora si nasconde tra le ombre delle case che costeggiano le vie trafficate di Notthing Hill dove corre senza troppa fretta l’ambulanza che lo sta trasportando all’ospedale St. Mary Abbott di Kensington. Tutto inizia quando cinque o sei ore prima il musicista si addormenta nell’appartamento della sua amica Monika Danneman dopo una lunga chiacchierata e qualche pillola di sonnifero. Alle 10.30 la ragazza si sveglia e Jimi dorme ancora. Senza disturbarlo esce a comperare le sigarette. Al suo rientro si accorge che c’è qualcosa che non va nel sonno innaturale dell'amico. Tenta di svegliarlo, ma non ci riesce e non si fida troppo a chiamare l’ospedale perché «…se la cosa non si fosse rivelata grave, se la sarebbe presa con me». Indecisa sul da farsi telefona a Eric Burdon, l’ex cantante degli Animals che fa da manager a Jimi, per un consiglio e soprattutto per farsi dare il numero di telefono del medico del chitarrista. Eric le suggerisce di chiamare il pronto soccorso. Venti minuti dopo la sirena ulula davanti all’appartamento di Notting Hill. Il personale dell’ambulanza non appare particolarmente preoccupato. Prendono di peso il musicista e lo mettono seduto. Jimi vomita più volte e la sua testa si muove avanti e indietro seguendo le evoluzioni del mezzo. All’arrivo all’ospedale nessuno si preoccupa di sottoporlo a terapie di rianimazione. Disteso su un lettino mezz’ora dopo spira soffocato dal suo vomito. Le indagini scopriranno poi che era sufficiente distenderlo su un lato per salvarlo ma nessuno l’ha fatto. In questo modo stupido scompare uno dei più eccezionali chitarristi di tutti i tempi, artefice di innovazioni tecniche che hanno allargato le capacità espressive dello strumento portando la chitarra elettrica a sperimentare sentieri mai percorsi da nessuno prima di lui. La sua vena creativa sperimenta oltre i limiti conosciuti fino a quel momento le possibilità dell'elettrificazione e dell'amplificazione, rimescolando blues, jazz e rock, sfruttando tutti gli effetti possibili. Nella sua tecnica anche il corpo si mette al servizio della chitarra nella ricerca di nuove sonorità (suona con il palmo della mano, con il gomito e con i denti). La critica dell'epoca (con qualche eccezione) prende una cantonata storica quando snobba e definisce "eccessi da gigione" quella che è l'essenza stessa delle sue innovazioni. Jimi Hendrix regala una nuova dimensione alla chitarra elettrica che, con lui, cessa di essere un semplice strumento per diventare una macchina da suoni. La sua morte sorprende tutti. Emblematico resta il testo di The story of life, scritto poco prima di addormentarsi per l’ultima volta: «La storia della vita/è più rapida/di un battito di ciglia/la storia di un amore/è ciao e addio/finché non ci ritroveremo». Quelle poche righe buttate giù di getto in un periodo in cui Jimi sta lavorando a un nuovo disco alimenteranno per anni l’idea di un suicidio, di una morte cercata. Difficile sapere la verità anche se gli amici non crederanno mai che il chitarrista si sia ucciso. Quel che tutti sappiamo invece è che la sua scomparsa ha arricchito ancor di più il music business che fino a quel momento aveva faticato a gestire il personaggio. La sua carriera è stata una continua lotta con uno stuolo di manager e consiglieri impegnati a smussare gli angoli più “neri” del personaggio, nel timore di perdere le simpatie del pubblico bianco. Le sue simpatie per il Black Panthers sono state "censurate e uno stretto cordone di riserbo ha coperto fino alla sua morte i frequenti contatti con gli esponenti del movimento stesso. Il successo di Jimi Hendrix è stato una sorta di lungo calvario per discografici e faccendieri impegnati a depotenziarne la potenzialità eversiva. Contrariamente a quanto si sostiene Chi non si accontenta delle favole sa che non è mai stata la sua carica sensuale l’aspetto più pericoloso della popolarità («tenete a casa le vostre sorelline»), ma il suo essere un nero di successo, con saldissime radici nella musica nera, in uno showbusinnes dominato da bianchi e in un sistema preoccupato per il numero crescente di musicisti che scelgono di diventare testimonial e finanziatori dei gruppi che organizzano la mobilitazione nera. È la sua simpatia per il Black Panthers Party unita alla decisione di formare il primo complesso rock di soli neri, la Band Of Gypsys, con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso a creare "disordine" in un ambiente in cui si incoraggia il ribellismo d’accatto, buono per vendere dischi ma si teme la presa di coscienza. Non è un segreto per nessuno che a partire dal 1969 il suo management abbia dedicato gli sforzi maggiori a smussare gli angoli più "neri" del personaggio piuttosto che a valorizzarne l'estro creativo e le potenzialità. Un episodio tra i tanti è quello di Mark Jeffrey che "consigliava" i percussionisti di colore ingaggiati per l'esibizione a Woodstock di rimanere sullo sfondo del palcoscenico per non caratterizzare in senso "razziale" l'esibizione. Il risultato di quella geniale trovata è che ancora oggi le percussioni sono quasi inascoltabili nella registrazione dal vivo del concerto. Hendrix non è un eroe e neanche un’attivista, è solo un grande e geniale musicista che cerca di non perdere contatto con le sue radici e che ha scoperto una causa cui dedicare simpatia e qualche risorsa finanziaria. Le pressioni che gli arrivano dall’ambiente sono inaspettate. Non è attrezzato a questo tipo di tensioni, non le capisce e finisce per trovarle insopportabili. Tutti abbiamo ancora fisso in mente un Jimi provato che, tre mesi prima di morire, abbandona il palco del festival dell'Isola di Wight stanco e deluso da un pubblico che vuole da lui solo la ripetizione dei vecchi successi e poco più. Pochi giorni prima di morire affida al taccuino di un cronista alcune considerazioni premonitrici: «È strano come la gente sembra essere più affascinata dai morti che dai vivi. Quando sei vivo la tua carriera è una lotta continua per non farti dimenticare. Una volta morto ti sei assicurato l’immortalità. Sembra quasi che devi morire prima che si convincano che forse valevi qualcosa».
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