12 novembre, 2024

12 novembre 1988 – Wild Wild West

Il 12 novembre 1988 al vertice della classifica statunitense dei dischi più venduti c’è il brano Wild wild west realizzato da una band britannica poco conosciuta al grande pubblico. Sono gli Escape Club e sono stati formati a Londra cinque anni prima dal cantante Trevor Steel, dal chitarrista John Holliday, dal bassista Johnnie Christo e dal batterista Milan Zekavica. Agli inizi della loro storia i quattro non se la passano benissimo. Come molti altri suonano nei locali e sognano di diventare famosi con i dischi. Le prime esperienze in sala di registrazione avvengono tra le accoglienti ma poco significative mura di un'etichetta indipendente che pubblica il loro primo singolo destinato a restare una sorta di demo. Va meglio il passo successivo quando il secondo singolo Rescue me e l'album White fields riescono a trovare spazio nella ristretta cerchia degli appassionati e portano in regalo l’inserimento degli Escape Club in qualche elenco dei i gruppi - rivelazione del momento elaborato dalle riviste di nicchia. Pur apprezzati sembrano destinati a una tranquilla carriera nei club e in qualche concerto senza grandi exploit né sul piano commerciale né su quello della popolarità planetaria. Quando non se l’aspettano più arriva la svolta. Nel corso di un’esibizione vengono notati da Chris Kinsey, un produttore che ha all’attivo, tra gli altri, alcune cose dei Rolling Stones, di Peter Frampton e degli Psychedelic Furs. Kinsey capisce che i ragazzi hanno qualità da vendere e li convince a mollare gli stretti confini della Gran Bretagna per attraversare l’oceano. Profondo conoscitore del grande business degli States li segue con cura nella realizzazione dell’album che dovrebbe segnare l’inizio del grande successo. Il risultato è all’altezza delle aspettative. La canzone Wild wild west si piazza al vertice della classifica dei dischi più venduti seguita dall'album omonimo che fa faville nei negozi. Osannati dal pubblico e trattati con garbo dalla critica gli Escape Club non manterranno le promesse. Wild wild west resterà un episodio isolato. Tre anni dopo, nel 1991 l’album Dollars and sex verrà accolto piuttosto freddamente nonostante il discreto successo di vendita del singolo I'll be There.

11 novembre, 2024

11 novembre 1944 - Jesse Colin Young, l’anima e il cuore degli Youngbloods

L’11 novembre 1944 nasce a New York Jesse Colin Young, registrato all’anagrafe con il nome di Perry Miller, l’anima e il cuore degli Youngbloods, uno dei gruppi più rappresentativi del folk-jazz della costa dell’Est statunitense. La sua avventura musicale muove i primi passi all’inizio degli anni Sessanta quando abbandona l'università per cantare, accompagnandosi con la chitarra, nei folk club. Nel 1964 pubblica il suo primo album, Soul of a city boy, seguito, l'anno dopo, da Youngblood, un titolo premonitore. Proprio nel 1965, infatti, Jesse conosce il chitarrista Jerry Corbitt con il quale forma, insieme al batterista di scuola jazz Joe Bauer, il primo nucleo degli Youngbloods. Il gruppo attira rapidamente l'attenzione di pubblico e critica grazie alla sua originale fusione di folk e jazz. La sua qualità artistica si fa ancora più solida e convincente dopo l’arrivo di un quarto componente, il chitarrista e tastierista “Banana” Lowell Levinger. Nel 1966 gli Youngbloods, ormai considerati una delle band più interessanti della East Coast, iniziano a lavorare alla registrazione del loro primo album. Il perfezionismo di Jesse e dei suoi compagni ritarda a lungo l’uscita del disco e solo all’inizio del 1967 vede la luce The Youngbloods, accompagnato dal singolo Grizzly bear. Pochi mesi dopo viene messo sul mercato un secondo album, ma la band è ormai affascinata dai nuovi fermenti musicali e culturali che stanno attraversando l’intero panorama musicale statunitense. Lasciano New York, città che sentono stretta e troppo statica per potersi esprimere compiutamente, e se ne vanno a San Francisco. Qui gli Youngbloods perdono Jerry Corbitt, che tenterà senza grande fortuna la carriera di solista, e diventano un trio. Nel 1969 centrano il maggior successo commerciale della loro storia con una nuova versione di Get together, un brano già inserito nel loro primo album del 1967. Nonostante i buoni risultati il gruppo è ormai entrato in fase calante. A nulla serve l'inserimento in formazione del bassista Michael Kane. Gli Youngbloods si separano alla fine del 1971. L’ultimo album ufficiale, Good and dusty vede la luce dopo lo scioglimento della band. Jesse Colin Young continua come solista ma non rinuncia all’idea di riformare il gruppo. Ci riuscirà negli anni Ottanta, ma gli scarsi risultati lo convinceranno a lasciar perdere e a continuare da solo sulla sua strada.




10 novembre, 2024

10 novembre 1967 – Il blues doloroso di Ida Cox

Il 10 novembre 1967 muore a Knowille nel Tennessee, la città dove è nata settantadue anni prima, la cantante Ida Cox, una delle "grandi signore" del blues classico. Interprete profonda degli aspetti più dolorosi della musica afroamericana, dà voce alla tragicità della condizione di chi vive nei ghetti e nelle periferie delle grandi città del nord degli Stati Uniti. La sua Death letter blues resta nella storia del blues come una sorta di tragico rituale di dolore e di pena che più di tante parole riassume il lungo calvario dei neri d'America. Ida Cox, come Bessie Smith, Ma Rainey e tante altre signore del blues, quando canta parla di se stessa, delle difficili condizioni di un'infanzia e un'adolescenza da cui non si può uscire indenni. I successi non cancellano le tracce e le cicatrici, non solo spirituali, dei periodi difficili. La musica sembra un'ancora di salvezza per lei che ha pensato spesso di farla finita, anche se arriva troppo tardi per risparmiarle qualche umiliazione di troppo. Nel 1922, quando a Chicago registra una serie di classici per la Paramount che le regalano la popolarità e danno il via al periodo migliore della sua carriera, ha già superato i trent'anni. L'anno dopo entra nei leggendari Blues Serenaders di Lovie Austin. La sua voce commuove il mondo intero sulle note di brani struggenti come Graveyard dream blues o Worried mama blues e le dà la possibilità di buttare alle spalle i tempi difficili. Lei però non dimentica, non ce la fa a dimenticare. Il contrasto tra lo sfavillare delle luci dei grandi locali alla moda e la sua esperienza precedente la porta ben presto ad avere ricorrenti crisi di rigetto. Nelle sue canzoni parla con la morte, vista come una presenza liberatoria e tutt'altro che tragica. Nel 1929 rompe definitivamente con l'ambiente che la circonda. Insieme al pianista Jessie Crump, divenuto anche suo compagno di vita, organizza uno show ambulante che gira in tutti gli stati del Sud, i più vicini al grande padre Mississippi cui si rivolge spesso nelle sue canzoni. Il successo dell'iniziativa convince John Hammond a scritturarla per i suoi memorabili concerti newyorkesi intitolati "Dallo spiritual allo swing". Come accade alle altre "signore del blues" anche Ida verso gli anni Cinquanta decide di ritirarsi a vita privata nella sua casa di Knowille. Non torna più sul palcoscenico e raramente accetta di entrare in sala d'incisione fino alla morte che arriva il 10 novembre 1967.

09 novembre, 2024

9 novembre 1963 – We shall overcome

Il 9 novembre 1963 Joan Baez entra per la prima volta nella classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti. È soltanto al novantesimo posto, ma la presenza assume una valenza simbolica, perché ottenuta con un singolo che ha sulla facciata principale una versione di We shall overcome registrata dal vivo durante una manifestazione antirazzista svoltasi al Miles College di Birmingham, in Alabama. A questo va aggiunto che il brano è stato eseguito dalla stessa folk singer a Washington qualche mese prima, il 28 agosto, durante la grande marcia per i diritti civili che ha bloccato il centro della capitale degli Stati Uniti. La sua presenza in classifica, al di là del significato commerciale, diventa un modo per verificare i passi avanti compiuti dalla battaglia per la propagazione di nuove idee di libertà, pace e fratellanza all’interno della società statunitense, soprattutto tra le generazioni più giovani. È un inno, una colonna sonora che accompagna la lunga marcia di chi insegue il sogno di un’America diversa. Non a caso tre anni prima, in una chiesa assediata dai razzisti, la voce di Martin Luther King aveva intonato proprio We shall overcome e le sue note, a partire dal 4 maggio 1961, sono state diffuse in tutte le strade degli stati del sud dai colorati autobus dei predicatori erranti di libertà, ribattezzati Freedom Riders dalla nazione nera. L’ingresso nella classifica dei dischi più venduti di Joan Baez, una bianca dal cuore d’ogni colore, funziona da cassa di risonanza e dà forza al movimento per i diritti civili. Il messaggio politico viaggia sulle ali della musica ed entra nelle case di tutti. Anni dopo la stessa Baez così ricorderà quell’evento: «Fu allora che cominciai a vedere nella canzone folk un vero strumento di cultura alternativa e a capire che la coscienza politica poteva essere mescolata alla musica e diventare un messaggio forte. Fu Pete Seeger, furono i vecchi folksinger a farmelo capire. Prima non lo accettavo. Ero una purista, musicalmente parlando, e non potevo sopportare la commistione tra musica e politica, non sopportavo nulla che non fosse il folk tradizionale, asettico e lontano nel tempo. Poi ho aperto gli occhi…»

08 novembre, 2024

Patti Page, diva del pop

L'8 novembre 1927 nasce in Oklahoma Clara Ann Fowler destinata a diventare con il nome di Patti Page, una delle cantanti pop statunitensi di maggior successo dell'epoca immediatamente precedente all'esplosione del rock and roll. Al contrario di altre stelle di quel periodo, però, non verrà travolta dalle nuove mode. Dotata di una voce calda e molto duttile si adatterà all'idea di non essere più un personaggio di copertina, continuerà a cantare mantenendo una buona popolarità fino alla fine degli anni Sessanta. Nata in una famiglia numerosa composta da undici tra fratelli e sorelle, passa i primi anni della sua vita a Tulsa prendendo lezioni di canto come si conviene in quegli anni alle signorine di buona famiglia. Pian piano il canto da obbligo diventa hobby e poi professione. La sua voce viene notata da un talent scout che le procura un contratto "di soccorso": deve sostituire per breve tempo la cantante che interpreta il ruolo di una ragazza che si chiama Patti Page nel Page Milk Company Show, un programma della stazione radio KTUL. La sostituzione momentanea diventa definitiva e il nome del personaggio anche. Da quel momento, siamo nel 1947, diventa per tutti Patti Page. Fino alla metà degli anni Cinquanta la sua voce imperversa in quasi tutti gli show radiofonici degli Stati Uniti. Nel 1955 anche la televisione le affida la conduzione triennale di un suo spettacolo mentre il cinema cerca di sfruttarne la popolarità con una partecipazione al film "Il figlio di Giuda". I tempi stanno, però, cambiando. Il rock irrompe sulla scena. Lei capisce che il suo momento migliore è ormai alle spalle e si adatta.




07 novembre, 2024

7 novembre 1972 - Black Ace, un campione del blues texano

Il 7 novembre 1972 si spegne all'età di sessantasette anni il cantante e chitarrista Black Ace, uno dei esponenti più significativi del blues texano. La sua morte non fa notizia perché da tempo il bluesman non si esibisce più e preferisce passare le giornate dietro al bancone dell'"Ace's Dark Room", il negozio di articoli fotografici che ha aperto a Fort Worth, nel "suo" Texas, lo stato dove è nato nel lontano 1905 a Hughes Springs. Il suo vero nome è Babe Kyro Lemon Turner. Per molto tempo la sua attività di bluesman si svolge quasi esclusivamente all'interno dei confini del Texas. Come molti esponenti del blues rurale il ragazzo è attaccatissimo alle sue origini contadine e alle contrade che lo hanno visto crescere. Non ha neppure un nome d'arte visto che gli è sufficiente troncare il suo lunghissimo nome anagrafico in combinazioni diverse per trovarsene uno nuovo ogni volta. Il suo isolamento cessa quando, cedendo alle lusinghe di suo amico registra Black ace, il brano che gli dà un'inaspettata notorietà e un nome d'arte definitivo. Ormai divenuto per tutti Ace Black prende sul serio il nuovo ruolo e inizia a migliorare la propria tecnica. Lavora a lungo sulle corde e aggiunge alla sua dote anche la chitarra hawayana nella quale viene istruito da Oscar Buddy Woods. Uscito dall'isolamento texano per molti anni si esibisce in tutti gli Stati Uniti, con una preferenza per quelli meridionali, dove si sente più a suo agio nel comunicare con la gente. Negli anni Sessanta molla tutto per aprire il negozio di articoli fotografici a Fort Worth, dove lavora fino alla morte.


06 novembre, 2024

6 novembre 1975 – L'impiegata stacca la spina ai Sex Pistols

Il 6 novembre 1975 nella sala concerti del St. Martin’s College of Art di Hornsey, una località a nord di Londra, è in programma un concerto di una giovane e sconosciuta band il cui nome ha già fatto sobbalzare gli austeri responsabili della scuola: Sex Pistols. È la prima volta che il gruppo formato da Johnny Rotten, Paul Cook, Steve Jones e Glen Matlock si esibisce in pubblico. Privi di qualunque conoscenza musicale sono stati assemblati in fretta e furia da Malcom McLaren, il proprietario del “Sex”, un centro di ritrovo di giovani anticonformisti della capitale britannica, anche lui alle prime armi come manager, se si eccettua un’esperienza di sei mesi con i New York Dolls. La loro confidenza con gli strumenti è del tutto approssimativa e il repertorio annunciato prevede vari brani “facili” di Small Faces e Who. Quando iniziano a suonare la sala concerti è invasa da un rumore impressionante, al limite del dolore per le orecchie dei presenti. La struttura musicale, poi, è inesistente: pochi giri di basso, ritmi tiratissimi con la batteria che sembra fuggire per conto suo, mentre la chitarra, distorta, ripete all’infinito gli accordi. La melodia non esiste o, meglio, è un lungo e lancinante urlo che accompagna la voce nasale di Johnny Rotten. I pochi ragazzi che assistono al concerto sono spaventati e affascinati al tempo stesso da quella mescola anarchica di suoni lanciati sulle loro teste. Non c’è tempo di riprendersi. I brani si susseguono con la velocità della luce. Dopo una, due, tre, quattro canzoni veloci, secche, inafferrabili, il rumore tocca l’apice, sottolineato dal tremore ossessivo delle vetrate, e invade l’intero edificio. Dall’inizio del concerto non sono passati più di dieci minuti quando un’impiegata dell’ufficio di segreteria della scuola decide che si sono passati tutti i limiti. Esce con passo deciso dal suo ufficio, entra nella sala concerti tenendo le mani ben premute sulle orecchie, s’infila dietro al palco e stacca la spina che alimenta l’impianto. «Voi siete pazzi! Vi prego di andarvene subito!» Finisce così il primo concerto di una band destinata a diventare il simbolo del punk britannico.




05 novembre, 2024

5 novembre 1958 - Aiché Nanà e lo spogliarello del Rugantino

Il primo e più eclatante scandalo della cosiddetta "Dolce Vita" è lo spogliarello del Rugantino. La sera del 5 novembre 1958 per festeggiare il ventiquattresimo compleanno della contessa Olghina di Robilant, l’amico Peter Howard offre una cena a centocinquanta persone presso il ristorante ‘Rugantino’. All’appuntamento sono presenti molti protagonisti delle notti romane. È notte fonda quando Anita Ekberg, sorretta da un numero imprecisato di drink ad alta gradazione alcolica, si lancia in un cha-cha-cha caratterizzato da scivoloni e dalla difficoltà di coordinare il movimento delle gambe con il resto del corpo. Nell’atmosfera surriscaldata l’eccitazione dei presenti tocca il culmine quando la ballerina turca Aiché Nanà comincia a sfilarsi, uno dopo l’altro, i vestiti. Prima cade a terra l’abito, poi le calze, seguite dal reggiseno. Al momento dell’irruzione della polizia nel locale, la Nanà indossa ancora le mutandine. Tutti i presenti vengono identificati e molti finiscono la serata in questura. Nonostante alcune diffide poco convinte, molti giornali, a partire dall’Espresso, pubblicano le piccanti fotografie dell’esibizione, sia pur coperte nei punti strategici da macchie nere. Per l’episodio verranno rinviati a giudizio con l’accusa di atti osceni in luogo pubblico, oltre alla spogliarellista e al suo fidanzato Sergio Pastore, due principi, un marchese, tre musicisti dell’orchestra e il gestore del ristorante. L’Italia esce a passo di cha-cha-cha dagli anni Cinquanta.




04 novembre, 2024

4 novembre 1966 - Gli angeli del fango

Il 4 novembre 1966 una fitta serie di nubifragi si abbatte sull’Italia. Venezia viene ricoperta dall’acqua per ventitrè ore mentre Firenze, una delle più belle città storiche del nostro paese, dopo essere stata sommersa per tre metri dalle acque dell’Arno, resta a lungo isolata dal resto del paese. Il bilancio finale parlerà di circa dodicimila sfollati e una settantina di morti. L’evento colpisce l’immaginazione dell’Italia intera e una fiumana di volontari, in gran parte giovani, decide di non restare con le mani in mano ma di correre ad aiutare la città. Giovani di tutte le regioni con zaini e sacchi a pelo, in autostop, in treno e con mezzi di fortuna partono per il capoluogo toscano intenzionati a dare il loro contributo soprattutto al salvataggio dei beni culturali. Accade così che la colorata e un po’ disprezzata generazione dei capelli lunghi e delle minigonne si renda protagonista di una straordinaria prova della sua capacità di muoversi al di fuori di qualunque struttura istituzionale. A Firenze li si vede lavorare fianco a fianco con le forze dell’ordine, i vigili del fuoco e i militari. L’opera delle migliaia di ragazze e ragazzi si rivelerà preziosa e l’Italia, improvvisamente si accorgerà che questi giovani, chiamati fino al giorno prima con un po’ di disprezzo “capelloni” e “ninfette” non sono poi il diavolo. Dei nuovi sentimenti si farà interprete, tra gli altri, Giovanni Grazzini, l’inviato del Corriere della Sera che li ribattezzerà “Angeli del fango” scrivendo: «d’ora in avanti nessuno si permetta più d’insultarli».



03 novembre, 2024

3 novembre 1946 - Una sola radio


A partire dal 3 novembre del 1946 le trasmissioni radiofoniche diventano uniche su tutto il territorio nazionale. Lo annuncia, con non poca soddisfazione, la RAI (Radio Audizioni Italia), l'ente di stato per le radiodiffusioni che da pochi mesi ha sostituito l’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), una sigla troppo legata all'esperienza del regime fascista per poter sopravvivere. Tutta la penisola torna così a essere riunita via etere. Nel periodo precedente alla Liberazione, infatti, i collegamenti tra il Nord occupato dai tedeschi dove era nata la Repubblica di Salò e il Sud in mano agli alleati non esistevano più. Il fronte, che passava attraverso la famosa Linea Gotica, divideva in due l’Italia anche per quel che riguardava la radiodiffusione. Ripristinati i collegamenti fra le stazioni settentrionali e quelle meridionali, anche la radio può riprendere finalmente a irradiare programmi omogenei su tutto il territorio italiano. Fa eccezione la Sardegna, temporaneamente esclusa dall’unificazione della rete. Gli ascoltatori possono sintonizzarsi su due canali distinti in onde medie: la Rete rossa e la Rete azzurra. Inutile dire che la musica fa la parte del leone proponendo una nuova generazione di interpreti, alcuni dei quali riabilitati dopo essere stati colpiti dalla censura fascista. Il pubblico impara così a conoscere i nomi del Quartetto Cetra, Lelio Luttazzi, Gorni Kramer e di molti altri. L'unificazione della rete di radiodiffusione non sarà l'unica novità. Nuove applicazioni tecnologiche sono, infatti, in arrivo. Sull’esempio di quanto avviene nel resto del mondo si inizia a considerare l’opportunità di utilizzare per le trasmissioni radiofoniche la modulazione di frequenza, meno soggetta a interferenze e a disturbi. In breve tempo anche i tecnici italiani saranno in grado di operare in questo campo e il 1° ottobre 1948 entrerà in funzione a Milano la prima stazione sperimentale di radiodiffusione a modulazione di frequenza.


02 novembre, 2024

2 novembre 1984 – Perfect strangers

«Dopo tanti cambiamenti negli ultimi anni crediamo giusto chiudere la storia del gruppo in un momento di creatività piuttosto che aspettare gli inevitabili momenti bui». Così nel mese di luglio del 1976 Rob Cooksey, il manager dei Deep Purple, annunciava lo scioglimento ufficiale di una delle storiche band dell'hard rock. Pochi mesi dopo, quasi a sancire l'irrevocabilità della decisione, il chitarrista Tommy Bolin moriva d'overdose a Miami, dove era impegnato nella tournée del Jeff Beck Group. Come spesso accade la fine prematura di un gruppo fa si che il successo postumo tocchi vertici pari, se non superiori a quello di quando il gruppo era attivo. Un fatto simile accade ai Deep Purple che vedono schizzare al vertice della classifica dei dischi più venduti una lunga sequenza di riedizioni, integrazioni e inediti. Progressivamente si fa così spazio l'idea di un ritorno sulle scene della band nella formazione originale o meglio, visti i successivi cambiamenti, in quella che la critica considera "la migliore formazione della storia della band". Inizialmente i componenti reagiscono più scocciati che indignati all'idea, ma con il salire delle offerte economiche iniziano i primi cedimenti. Là dove non sono riuscite le mozioni d'affetto riesce un'offerta di svariati milioni di dollari. Alla fine la notizia è ufficiale: i Deep Purple si riformano nella formazione storica, quella che comprende Ritchie Blackmore, Ian Gillan, Roger Glover, Jon Lord e Ian Paice. Contrariamente alle previsioni l'annuncio non entusiasma i fans della prima ora, convinti che si tratti di un'operazione commerciale destinata a danneggiare la stessa immagine della band. Il 2 novembre 1984, quando tutti sono ormai rassegnati ad ascoltare il prodotto di un gruppo privo di mordente e riunitosi soltanto per soldi, vede la luce Perfect strangers, un album che smentisce i più pessimisti. I Deep Purple tornano sulle scene con un disco semplice e privo di effetti speciali che proprio per la sua modestia appare fresco e convincente. È l'inizio di un nuovo capitolo nella storia della band che finirà per sopravvivere a se stessa, a volte con ironia, come nell'album Nobody's perfect (Nessuno è perfetto), altre volte con maggior presunzione. Numerosi saranno i cambiamenti di formazione che finiranno, a volte, per togliere credibilità a una band che resta nella leggenda per la sua originale formula di hard rock.


01 novembre, 2024

1° novembre 1985 – I Big Audio Dynamite

Preceduto dal singolo The bottom line il 1 novembre 1985 viene pubblicato This is Big Audio Dynamite, il primo album dei Big Audio Dynamite, presto abbreviati in B.A.D., la nuova band formata dall’ex chitarrista dei Clash Mick Jones con l'ex DJ del Roxy Club, il giamaicano Don Letts. La formazione comprende anche il tastierista Dan Donovan, il bassista Leo Williams e il batterista Greg Roberts. La pubblicazione del disco ripropone all'attenzione di pubblico e critica Mick Jones molti mesi dopo le antipatiche vicende che hanno visto la sua estromissione dalla band di Joe Strummer e Paul Simonon con l'infamante accusa di essersi «allontanato dall'idea originaria dei Clash». Paradossalmente il debutto discografico dei Big Audio Dynamite avviene mentre i Clash sono ormai arrivati al capolinea della loro storia con la pubblicazione del modesto album Cut the crap. Ancora più paradossale, alla luce delle critiche con le quali era stato "licenziato" dai suoi compagni, è che proprio nel disco del nuovo gruppo di Jones si possa ritrovare l’atmosfera dei giorni migliori del suo vecchio gruppo, più di quanto lo stesso chitarrista sia disposto ad ammettere. Aggressivamente terzomondista e aperto alle più disparate contaminazioni sonore il lavoro dei B.A.D. sembra davvero ripercorrere nei temi e nelle sonorità molte delle strade già percorse dai Clash con maggior genuinità e freschezza delle ultime performance di Strummer e compagni. L'esperienza si dimostrerà più longeva di quanto probabilmente fosse nelle intenzioni di Mick Jones e costituirà il perno di una sorta di laboratorio musicale e politico la cui attività si farà sentire, sia pur tra alti, bassi e qualche contraddizione, per quasi tutti gli anni Ottanta. Morti i Clash sarà proprio attorno ai Big Audio Dynamite che i vecchi componenti tenteranno, in qualche modo, di continuarne l'esperienza. Il secondo album della band, No. 10, Upping St., registrato a Soho, avrà come produttore nientemeno che quello stesso Joe Strummer che qualche anno prima aveva cacciato Jones dai Clash per "alto tradimento". L'album segnerà anche il ritorno alla collaborazione attiva dei due musicisti, che firmeranno vari brani. Nel 1988 sarà il turno di un altro ex Clash, Paul Simonon, il secondo "grande accusatore" di Mick Jones. La sua collaborazione non sarà musicale ma… decorativa, visto che illustrerà la copertina dell'album Tighten up, vol. '88.

31 ottobre, 2024

31 ottobre 1937 - Tom Paxton, folksinger e studente modello

Il 31 ottobre 1937 nasce a Chicago, nell’Illinois, il folksinger Tom Paxton. A dieci anni si trasferisce con la famiglia in Oklahoma dove compie l'intero corso di studi mettendosi in evidenza come una sorta di "studente modello". Quando si laurea non ha ancora compiuto ventidue anni, ma ha il difetto di occuparsi troppo da vicino dei problemi politici e sociali. Appassionato di musica, compone e canta canzoni che si richiamano alla tradizione folk statunitense. I suoi modelli sono i folksinger impegnati sul fronte dei diritti civili e sindacali, come Woody Guthrie e Pete Seeger. Dopo la laurea delude i genitori che sognano per lui un impiego tranquillo e va al Greenwich Village di New York. Nei primi anni Sessanta il suo nome figura tra i collaboratori delle riviste "Sing Out!" e "Broadside", oltre che sui cartelloni dei locali, in particolare del Gaslight dove si esibisce come folk-singer. Qui incontra anche Margaret Ann Cummings, una delle più popolari attiviste del movimento degli studenti che nel 1963 diventa sua moglie e, dicono i maligni, da quel momento, lo condiziona verso scelte sempre più radicali. I discografici amano più le sue canzoni che lui tanto che solo nel 1965, a ventotto anni, riesce a pubblicare il suo primo album Ramblin' boy, seguito da molti altri. Il successo commerciale non è tra i suoi obiettivi e, puntualmente, non arriva, ma la nicchia dei suoi estimatori si allarga. Impegnato nella lotta contro la guerra del Vietnam e soggetto a pressioni notevoli nel 1971 decide di cambiare aria. Se ne va in Gran Bretagna dove pubblica album come How come the sun, Peace will come e New songs for old friends. Quando le acque si calmano torna negli Stati Uniti e se ne va a vivere nella comunità rurale di Long Island continuando a pubblicare di tanto in tanto qualche disco. Negli anni successivi la critica rivaluterà il suo lavoro inserendolo nel ristretto numero dei più prestigiosi autori folk degli anni Sessanta.


30 ottobre, 2024

30 ottobre 1933 – Alberto Collatina, il jazzista che ha imparato la musica dalla nonna

Il 30 ottobre 1933 nasce a Roma Alberto Collatina, uno dei più dotati polistrumentisti italiani. Cresciuto in una famiglia di musicisti, è ancora un bimbetto quando impara dalla nonna concertista a premere con grazia i tasti bianchi e neri del pianoforte dedicandosi poi allo studio di vari strumenti. Per qualche tempo si fa valere nel campo della musica pop come pianista, fisarmonicista, bassista e batterista ma l'incontro con Sandro Brugnolini gli apre la strada al jazz. Alla fine degli anni Quaranta impara a suonare il sassofono (prima il tenore e poi il soprano) da Ivan Vandor. Dopo essersi perfezionato con il maestro Nardacci, nel 1952 passa al trombone a coulisse e, successivamente, a quello a pistoni. Alla metà degli anni Cinuanta è uno dei pochissimi polistrumentisti italiani in grado di suonare tutti i sax e tutti gli ottoni salvo la tromba. Con Brugnolini e altri costituisce nel 1950 la Junior Dixieland Band, una band in linea con la moda revival del periodo che nel 1952 evolve verso un jazz più elaborato con un buon successo. Sempre con Brugnolini suona nella Modern Jazz Gang per approdare poi negli anni Sessanta alla Roman New Orleans Jazz Band.






29 ottobre, 2024

29 ottobre 1980 – Georges Brassens, l'orso della canzone francese

Il 29 ottobre 1980 nel piccolo villaggio di Saint-Gély-du-Fesc, tra Séte e Montpellier muore Georges Brassens, un artista unico, un orso dotato di una genialità e un’ironia senza pari, scorbutico al punto da spaventare anche Fabrizio De André. Si racconta, infatti che il cantautore genovese, nonostante le parole di apprezzamento dello chansonnier per le versioni italiane delle sue canzoni da lui curate, non ha mai voluto incontrarlo temendo il suo brutto carattere. Nessuno può sapere se e quanto ci sia di vero in questa storia è vera ma non importa perchè certe storie hanno ragione d’esistere indipendentemente dalla loro veridicità. Aneddoti a parte Georges Brassens non ha mai avuto un bel carattere e il suo modo di scrivere canzoni non è differente dalla sua brusca capacità di relazione con il mondo. Mette al centro delle cure la parola. Come un artigiano perennemente insoddisfatto, la lima, la aggiusta, la adatta e quando non è convinto la sostituisce. Il risultato è una scrittura matematica che attraverso architetture ardite sviluppa un linguaggio raffinato con un rigore formale che non ammette deroghe. I suoi versi sono una costruzione perfetta, precisa come un orologio svizzero, complessa e insieme così semplice da poter essere cantati in coro dai liceali di buona famiglia come dagli avventori delle osterie o dai bambini. In questa fusione tra semplicità dei concetti e ricerca della perfezione formale c’è il segreto della grandezza e della longevità di Brassens. È il miracolo di quel coacervo di sentimenti, emozioni e passioni che l’umanità chiama da sempre poesia. Il suo non è il gioco dell’enigmista, l’esercizio senza scopo del letterato innamorato della propria cultura e delle proprie parole. In lui la poesia è forma ma anche sostanza. Le sue canzoni, pur attraversate da una febbrile tensione morale, si abbeverano alle sorgenti inesauribili dell’ironia e di quella capacità di benevolenza che gli antichi chiamavano “pietas” e che non può essere compiutamente rappresentata dalla sola parola “pietà”. Figlio di un muratore Georges Brassens nasce a Sète nel 1921 e lì nei dintorni muore sessant’anni dopo. In mezzo tra la nascita e la morte c’è una vita intensa, iniziata rubacchiando qua e là come un comune teppistello da strada e proseguita tra mille mestieri, compreso quello di spazzacamino e d’operaio alla Renault, passata per l’occupazione nazista, un campo di lavoro in Germania e l’adesione convinta al movimento anarchico. Quando arriva a Parigi non ha ancora compiuto vent’anni. Vive per lungo tempo a poche centinaia di metri dal parco che oggi porta il suo nome ubicato nei pressi del vecchio mattatoio. La capitale lo affascina, lo ispira e lo accompagna per quasi tutta la vita anche se non riesce mai a conquistarlo completamente tanto che quando sente che la morte sta per arrivare chiede di tornare a Sète, in quella che considera davvero casa sua. L’atteggiamento è in linea con un personaggio che nella propria vita si cura pochissimo della forma, diversamente da quanto accade nella sua poesia e nelle sue canzoni. Eppure, nonostante tutto, senza Parigi probabilmente non esisterebbe Brassens. È nella Parigi dei primi anni del dopoguerra, infatti, che trova gli umori giusti per far decollare le sue canzoni. Nella capitale francese respira l’aria degli esistenzialisti, sia pur senza troppo confondersi si mescola con gli intellettuali e gira per le cantine con il suo piccolo ensemble di derivazione jazz mettendo in musica le poesie di autori scomodi come François Villon. In questi fumosi locali negli anni Cinquanta nasce la sua fama di interprete della canzone sociale, erede della tradizione della chanson réaliste. I personaggi che popolano i suoi brani sono quasi sempre gli ultimi, quelli che vivono ai margini della società cosiddetta civile e, spesso, si prendono gioco anche degli intellettuali con le loro presunzioni. Nonostante tutto però proprio l’intellettualità parigina finisce per amarlo alla follia. Non è l’unica contraddizione del lungo percorso artistico di Brassens perché il gioco delle parti a volte è riserva sorprese inaspettate. A lui, anarchico e anti-istituzionale per eccellenza toccherà in sorte di ricevere encomi e riconoscimenti da alcune tra le più paludate e prestigiose istituzioni francesi. Se la poetica letteraria dei brani di Georges Brassens appare rigida nella sua definizione formale fino ad apparire più vicina all’Ottocento che al Novecento la musica non è da meno. Impermeabile alle mode e a qualunque evoluzione, la struttura di tutti i suoi dischi dal 1951 alla fine degli anni Settanta è sempre impostata su voce, chitarra e contrabbasso. Sbaglierebbe però chi s’immaginasse una lunga serie di brani sostanzialmente tutti uguali come accaduto alla canzone cantautorale italiana e anche a quella statunitense nella sua fase calante. Georges Brassens non attinge da quel pozzo. Per quel che riguarda i testi si riallaccia alla grande tradizione della chanson réaliste francese, quella che ha tradizionalmente per protagoniste le figure che popolano i bassifondi: vagabondi, poveri protettori, sbandati, prostitute, ladruncoli e delinquenti di strada. Prima di lui il genere era caduto nella stanca ripetitività didascalica. Lui impugna la ramazza, toglie la polvere, spazza le ragnatele e mette chanson la réaliste in relazione con le nuove pulsioni musicali derivate dal jazz e soprattutto dallo swing. In questa operazione fa tesoro della lezione surrealista di Charles Trenet che lui considererà sempre il suo maestro. Il risultato è che le sue canzoni, lungi dal restare aristocraticamente riservate a pochi intenditori, finiscono per diventare un patrimonio disponibile a tutti. Ascoltandole si piange e si ride, ci si indigna e ci si commuove perché le sue storie sono hanno una forza comunicativa cui non si può resistere. C’è chi gli ha rimproverato per questo una scarsa coerenza con la sua militanza nel movimento anarchico come se l’impegno politico e sociale in musica avesse il dovere di produrre solo inni. Lui non ha mai risposto lasciando che le canzoni parlassero da sole. La carica rivoluzionaria contenuta in storie come quella del gorilla che sodomizza l’autorità viaggia sul filo dell’ironia e dell’intelligenza. Se qualcuno non ce l’ha né Brassens né altri possono farci niente. Georges Brassens nasce il 22 ottobre 1921 a Sète, una città della Francia meridionale dove resta fino al 1940 quando va a Parigi. Appassionato di poesia nel 1942 riesce a pubblicare un volumetto con le sue composizioni che passa inosservato. Lavora come operaio alla Renault ma nel marzo del 1943 viene reclutato a forza dai tedeschi per il Servizio di Lavoro Obbligatorio e spedito in Germania. Non ci resta per molto. Sfruttando una licenza torna a Parigi e si nasconde in casa di Jeanne Le Bonniec, la bretone che l’ospiterà a pensione per una ventina d’anni. Dopo la Liberazione di Parigi nel 1946 aderisce alla Federazione Anarchica e scrive con vari pseudonimi sul giornale “Le Libertaire", Nello stesso periodo comincia a cantare in pubblico le sue canzoni. Negli anni successivi suona in vari locali. La svolta arriva il 6 marzo 1952 quando tra pubblico che l’ascolta c’è Patachou, uno dei personaggi più popolari del cabaret francese. Patachou resta impressionata dalle sue canzoni e lo ingaggia per aprire i suoi spettacoli. Tre giorni dopo, il 9 marzo Georges Brassens debutta al Trois Baudets, uno dei templi del cabaret parigino di quel periodo. È il successo. Prima della fine dell’anno incide il suo primo album. Da quel momento, pur tra alti e bassi, la sia carriera continuerà ininterrottamente fino alla fine degli anni Settanta. Nel mese di novembre del 1980 si ammala di cancro. Quando capisce di essere condannato decide di lasciare Parigi. Nell'estate del 1981 torna nella sua città natale e il 29 ottobre dello stesso anno muore nel piccolo villaggio di Saint-Gély-du-Fesc, tra Séte e Montpellier, dove è ospite del suo amico e medico Maurice Bousquet.


28 ottobre, 2024

28 ottobre 1891 – La prima volta di Nicola Maldacea


Il 28 ottobre 1891 al Salone Margherita di Napoli fa il suo debutto Nicola Maldacea. Emozionato l'artista propone al pubblico un paio di macchiette che ottengono un buon successo. Inizia così la storia artistica di uno dei personaggi più popolari del café chantant italiano. Nato a Napoli il 29 ottobre 1870 frequenta, giovanissimo la “scuola di declamazione e recitazione” di Carmelo Marroccelli con scarsi risultati. Nonostante lo scetticismo dei suoi insegnanti il ragazzo ha talento e molta voglia di arrivare. Immediatamente dopo il debutto vagabonda per i locali italiani dove pian piano la sua popolarità cresce fino a farne una delle più pagate star del cafè-chantant. Ottiene uno straordinario successo anche all’estero, soprattutto negli Stati Uniti dove si esibisce nel 1922 in una leggendaria tournée con Ria Rosa. Anche il cinema si accorge di lui e gli affida ruoli significativi in film come "Kean" nel 1940 e "Miseria e nobiltà" nel 1941. Le dispendiose passioni per il gioco e per le belle donne lo costringono a lavorare fino al giorno della sua morte, che avviene a Roma il 5 marzo 1945.


27 ottobre, 2024

27 ottobre 1999 – L'ultimo concerto di Lester Bowie

Il 27 ottobre 1999 al New Morning di Parigi è di scena il trombettista Lester Bowie, uno dei grandi protagonisti dell'epopea del free-jazz, con il suo gruppo Brass Fantasy. Il concerto è seguito con grande attenzione da un pubblico di appassionati. Bowie appare stanco e provato. Più d'una volta abbandona la scena per riposarsi ma i suoi interventi solistici sono di altissimo livello come sempre. Il pubblico lo capisce e lo sostiene con caldi applausi a scena aperta. Non è un mistero che il trombettista sia da tempo ammalato di cancro al fegato, anche se la lunga battaglia per la vita ne ha rallentato ma non fermato l'attività artistica. Gli spettatori del New Morning non lo sanno, ma stanno assistendo all'ultimo concerto del grande jazzista. Qualche giorno dopo la tappa londinese del suo tour europeo verrà infatti annullata a causa di un improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute. Ricoverato in un ospedale di Londra chiederà di poter tornare a casa, negli Stati Uniti. Verrà accontentato e l'8 novembre morirà a New York. Si chiude così, a cinquantotto anni la storia di un personaggio determinante nel rinnovamento del linguaggio jazzistico del dopoguerra. Figlio di un trombettista a soli cinque anni inizia a studiare musica con lo strumento del padre. A dieci anni è già attivamente impegnato con orchestre scolastiche e con la banda della sua comunità religiosa. A vent'anni ha già suonato con quasi tutti i principali esponenti della scena musicale di Saint Louis e per un per un breve periodo ha anche diretto un quintetto hard bop. Negli anni seguenti accompagna in varie tournée del sud e del centro degli Stati Uniti molti musicisti di rhythm and blues, tra cui Oliver Sain, Little Minton, Albert King e Jerry Brown. Nella primavera del 1966 il suo orizzonte musicale si allarga dopo una breve esperienza nella Experimental Band di Muhal Richard Abrams. Qui conosce Roscoe Mitchell, che lo vuole con sé nell'Art Ensemble insieme a Malachi Favors e a Philip Wilson. Da quel momento diventa uno dei protagonisti di quella corrente che qualche anno più tardi verrà chiamata free-jazz. Nel 1968 contribuisce in modo determinante alla formazione del B.A.G. (Black Artists Group), una sorta di organizzazione degli strumentisti neri parallela alla potente Association of Advancement of Creative Music. Esponente di primo piano dell'Art Ensemble of Chicago caratterizza con la sua tromba l'esplosione del jazz negli anni Settanta.



26 ottobre, 2024

26 ottobre 1991 – La quarta volta di Belinda Carlisle

Il 26 ottobre 1991 l’album Live your life to be free di Belinda Carlisle entra nella classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna. Quattro album pubblicati e quattro successi: questo è il bilancio della carriera solista dell’ex cantante e fondatrice delle Go-Go’s a otto anni di distanza dallo scioglimento della band. È una bella risposta a chi nel 1984, all’annuncio della sua intenzione di non abbandonare la scena musicale dopo il dissolvimento del gruppo le aveva pronosticato «una carriera fatta più di fotografie sui calendari e su riviste patinate che di canzoni…». Belinda può finalmente togliersi qualche soddisfazione nei confronti di chi ha sottovalutato il suo talento. D’altra parte che le sue qualità non consistono soltanto in un visino d’angelo su un fisico da pin up è chiaro fin dal 1978 quando a Los Angeles insieme alla chitarrista Jane Wiedlin dà vita a un gruppo rock di sole donne con l’altra chitarrista Charlotte Caffey, la bassista Kathy Valentine e la batterista Gina Shock. Gli inizi non sono facili e le loro prospettive non vanno oltre una lunga serie di contratti a gettone nei club della loro città. La fortuna però le aiuta. Una sera suonano nel “Whisky a Go-go” di Los Angeles e vengono notate dai Madness, impegnati in un breve tour statunitense, che le invitano a seguirli in Gran Bretagna. Quando sbarcano sul suolo britannico non hanno nemmeno un nome, visto che fino a quel momento si sono adattate a quelli coniati per loro dai proprietari dei locali. Scritturate dall’etichetta alternativa Stiff decidono di chiamarsi Go-Go’s in onore del luogo in cui hanno conosciuto i Madness. Il loro successo è rapidissimo. Nel 1981 il primo album, Beauty and the beat, arriva al vertice della classifica statunitense e il loro successo sembra inarrestabile. La favola finisce invece nel 1984 quando le ragazze si separano intenzionate a percorrere strade diverse. Belinda Carlisle sceglie di diventare cantante solista. In pochi pensano che possa farcela: è troppo carina per avere cervello! Non l’aiuta nessuno. L’unica che le dà davvero una mano è la sua compagna d’avventura nelle Go-Go’s Charlotte Caffey, che, pur impegnata con una nuova band, quando serve suona e canta con lei. Lo scetticismo non la scuote. S’impegna a fondo e ce la fa, alla faccia di chi diceva che non avesse talento.



25 ottobre, 2024

25 ottobre 1986 – Bello, impossibile e primo in classifica


Il 25 ottobre 1986 arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti in Italia il brano Bello e impossibile, interpretato da Gianna Nannini che ne è anche l'autrice insieme a Pianigiani. Definito dalla critica del tempo come «il più elettrizzante singolo della storia artistica della cantautrice alla nitroglicerina» e compreso nel fortunato album Profumo rimarrà in testa alla hit parade italiana per cinque settimane e si rivelerà un successo dalle proporzioni inaspettate totalizzando ben ventitré settimane complessive di permanenza nella classifica dei dischi più venduti. L'exploit della cantante senese non si ferma all'interno dei confini italiani. Nell'inverno a cavallo tra il 1986 e il 1987 mezza Europa canta in italiano un ritornello che sembra fatto apposta per essere facilmente memorizzato e cantato in coro. Dal punto di vista musicale la canzone rappresenta la sintesi più alta raggiunta fino a quel momento tra la linea melodica tradizionale della canzone italiana e la struttura ritmica del rock. Il gioco è intelligente e decisamente fuori dalla norma. Il segreto del successo del brano è da ricercare proprio nel suo essere insieme innovativo e conservatore. Se gli si toglie il supporto di basso, batteria e chitarra rivela una trascinante costruzione "a stornello" in linea con la più classica tradizione melodico-popolare del nostro paese. Parlare di word music è forse troppo, ma il meccanismo è sicuramente quello: strutture ritmiche moderne innestate su una melodia in linea con lo sviluppo musicale del paese dove nasce. Non è la prima volta che la ragazzaccia di Siena tenta esperimenti simili, anzi c'è chi sostiene, non senza ragione, che quasi tutta la sua produzione abbia queste caratteristiche. A supportare la scalata al successo del brano c'è anche un geniale videoclip realizzato da una coppia di esperti nel genere come i Torpedo Twins che fanno dimenticare la precedente, negativa esperienza con Michelangelo Antonioni per la canzone Fotoromanza. Per il pubblico italiano Bello e impossibile ha poi un altro elemento di novità nel testo che capovolge la tradizionale costruzione della storia delle canzoni d'amore al femminile. Per la prima volta il maschio è visto come oggetto passivo di un desiderio irrazionale e quasi esclusivamente sensuale. La rottura con il passato è netta e senza alcuna spiegazione aggiuntiva. Le ragazze degli anni Ottanta la percepiscono, vi si riconoscono e decretano il successo del brano.


24 ottobre, 2024

24 ottobre 1978 – Keith Richards condannato a suonare per beneficenza

Un muro umano di fotografi, cameramen e cronisti presidia il 24 ottobre 1978 il Palazzo di Giustizia di Toronto in Canada, mentre la polizia fatica a contenere una folla di curiosi che continua a crescere di numero. Sono centinaia le persone che cercano di entrare nella sala dove si sta svolgendo l’udienza conclusiva di un processo che vede sul banco degli imputati il chitarrista Keith Richards dei Rolling Stones, accusato di detenzione di sostanze stupefacenti. I fatti contestati risalgono al 29 febbraio 1977, quando una squadra speciale della polizia canadese, allertata da una telefonata anonima, aveva fatto irruzione nella camera occupata dalla rockstar all’Harbour Castle Hotel di Toronto, rinvenendo ventidue grammi di eroina e cinque di cocaina. Arrestato immediatamente, il chitarrista era poi stato rilasciato dopo il pagamento di venticinquemila dollari di cauzione. L’accusa, vista la quantità di droga sequestrata è di detenzione a scopo di spaccio, ma fin dal primo momento Richards faceva capire che la sua linea di difesa sarebbe stata quella di chiedere la derubricazione del reato in detenzione per consumo personale. La vicenda, vista la popolarità del protagonista attira l’attenzione dei media che mettono in risalto come la legislazione contro la diffusione e il consumo di stupefacenti sia inadeguata e ingiusta. «Solo i poveri vanno in galera. I ricchi no», è il leit-motiv di una campagna che vede anche le associazioni antiproibizioniste prendere posizione contro gli effetti di una normativa che ritengono devastante sul piano sociale. Il reato contestato al chitarrista dei Rolling Stones prevede un pena che consiste in periodo di reclusione che può arrivare fino a diciotto mesi, convertibile in una sanzione monetaria o in lavori socialmente utili, e una multa salata, però tutti sanno che le sue pressoché illimitate possibilità economiche lo rendono, nei fatti, diverso dal piccolo spacciatore squattrinato. I ricchi possono pagarsi la libertà, i poveri possono scegliere tra la galera o un periodo lavorativo al servizio della collettività. Per queste ragioni quando il giudice Lloyd Graburn entra nell’aula del Palazzo di Giustizia per la lettura della sentenza, c’è un silenzio carico di tensione. «Io credo – dice il giudice – che i legislatori di questo stato abbiano in mente una giustizia capace di equità e in grado di costituire un punto di riferimento certo per tutti i cittadini. Questo impone a noi, che ci troviamo a dover giudicare i reati e a comminare le pene, di valutare bene le conseguenze che i nostri atti possono avere non solo per l’imputato, ma anche per la società. Guai se si pensasse che le legge non è uguale per tutti». In conclusione decide di accettare la tesi del “consumo personale” ma di trattare Keith Richards come tutti gli altri. Lo obbliga a sottoporsi a un trattamento disintossicante e gli impone di prestare la sua capacità lavorativa al servizio della collettività determinandone anche le modalità: entro sei mesi deve tenere un concerto di beneficenza in un luogo di sua scelta purché sul territorio canadese. Il ricavato dell’esibizione deve essere destinato a un istituto di assistenza ai ciechi, il Canadian National Institute for Blind. Non c’è, quindi, possibilità di convertire la pena in una sanzione monetaria. È una sentenza emblematica perché, pur non comportando pene particolarmente pesanti, equipara una persona dalle notevoli possibilità finanziarie al piccolo spacciatore squattrinato attribuendo un valore monetario al lavoro. Il chitarrista si sottoporrà di buon grado a quanto disposto dal giudice e il 22 aprile 1979 terrà il concerto previsto dalla sentenza nel Civic Auditorium di Ottawa accompagnato dai New Barbarians, un gruppo composto dall’altro chitarrista dei Rolling Stones Ron Wood, dal bassista Stanley Clarke, dall’ex tastierista dei Faces Ian McLagan e dall’ex batterista dei Meters Ziggy Modeliste.