30 gennaio, 2019

31 gennaio 1987 – La meteora Robbie Nevil


Il 31 gennaio 1987 al vertice della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna arriva C'est la vie, un singolo di Robbie Nevil già piazzato con successo anche nelle classifiche statunitensi. In molti parlano del cantante come di una nuova promessa del pop internazionale. Nato a Los Angeles inizia la sua carriera lavorando come musicista di studio con moltissimi artisti come Sheena Easton, Al Jarreau, DeBarge ed altri. Verso la metà degli anni Ottanta comincia ad affermarsi come autore tanto che nel 1985 il suo brano Just a little closer, interpretato dalle Pointer Sisters viene inserito nel famoso album benefico We are the world. Nel 1986 decide che è giunto il momento di sfruttare in proprio il suo talento. Registra un album che porta il suo nome da cui vengono estratti un paio di singoli. Uno di questi è proprio C'est la vie che spopola nelle radio e nelle classifiche. È nata una stella? No. Rapido come una meteora con la stessa velocità con cui si è imposto rientra rapidamente nei ranghi dopo il modesto album A place like this del 1988.


29 gennaio, 2019

30 gennaio 1958 – Volare, oh oh


Il 30 gennaio 1958 inizia un Festival di Sanremo destinato a lasciare un segno profondo nella canzone italiana. Alla rassegna, che si svolge dal 30 gennaio al 1° febbraio, partecipa un giovane cantante e autore, Domenico Modugno. La canzone che presenta, Nel blu, dipinto di blu, già nei giorni delle prove suscita più d’una perplessità in critici ed esperti. C'è chi si chiede perché sia stata ammessa e chi ne parla decisamente male. Nella trappola cadono anche i più scafati. Perfino un musicista cresciuto alla scuola del jazz e, in genere, aperto alle innovazioni come il maestro Gorni Kramer la boccia senza pietà. Gli sfugge la portata della composizione, non ne capisce il senso e si lascia andare a commenti non proprio lusinghieri: «Ma che pazzia è questa canzone? Non ha stile, non esiste». Non diversa, per la verità, è l’opinione dei giornalisti presenti, con qualche rara eccezione come quella di Mario Casalbore, un "veterano" della stampa festivaliera che non esita ad andare controcorrente e prendere le parti di Modugno. Il brano merita tutta questa attenzione. È insolito e innovativo a partire dal testo in cui evidenti sono i riferimenti surrealisti, ma anche dal punto di vista musicale non scherza. Nel blu, dipinto di blu, infatti, porta per la prima volta sul palcoscenico di Sanremo varianti ritmiche e compositive nelle quali non è difficile cogliere l’eco delle novità che arrivano d’oltreoceano. Nonostante il pessimismo e le critiche degli "addetti ai lavori" il pubblico saluta con una vera e propria ovazione l’esibizione di Modugno che rompendo la tradizione dei cantanti composti e immobili, sul ritornello, allarga le braccia come se volesse levarsi in volo. Il pubblico che affolla il salone delle feste del Casinò di Sanremo si fa trascinare dall'entusiasmo e non sono pochi gli spettatori che si alzano in piedi sventolando i fazzoletti e accompagnandolo in coro. La diretta televisiva fa il resto. La carica emotiva del brano arriva ovunque e tutta l’Italia resta soggiogata dalla personalità di Modugno e dalla forza trascinante della sua canzone. Nei giorni successivi il ritornello «Volare, oh, oh...» diventa quasi il nuovo inno nazionale. Il successo di Nel blu, dipinto di blu sarà clamoroso e non resterà rinchiuso nei confini italiani. La canzone, in varie versioni, farà il giro del mondo vende oltre venticinque milioni di dischi. Un record all'epoca superato soltanto da White christmas di Bing Crosby.

29 gennaio 1977 – Il "Car wash" dei Rose Royce


Il 29 gennaio 1977 arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti il brano Car wash, tema conduttore del film omonimo. Lo interpreta un gruppo misterioso che si firma con il nome di Rose Royce. Dietro a questa sigla si nascondono alcuni tra i migliori sessionmen di Los Angeles, come il solista vocale Gwen “Rose” Dickey, il bassista e chitarrista Lequeint Jobe, il chitarrista Kenji Brown, il trombettista Freddie Dunn, il percussionista Terrall Santiel e il tastierista Mike Nash. Da tempo sono conosciuti e apprezzati sulla scena musicale losangelina e con il nome di Total Concept hanno partecipato alle registrazioni degli album di artisti come i Temptations, Edwin Starr e altri. L’avventura con il marchio Rose Royce nasce nel 1974 quando l'autore e produttore Norman Withfield lascia la Motown per creare la sua Whitfield Records. Proprio lui decide di fare dei Rose Royce una delle band di punta della sua casa discografica. La prima uscita discografica avviene proprio con Car wash, che ottiene un inaspettato e rapido successo e consente ai Rose Royce di vincere ben tre Grammy: come miglior band di R&B, miglior gruppo vocale e gruppo rivelazione. Visto il buon inizio decidono di continuare e pur non riuscendo più a ripetere lo straordinario successo pubblicheranno un pugno di album.


27 gennaio, 2019

28 gennaio 1952 - Papavero a chi?

Lunedì 28 gennaio 1952 inizia la seconda edizione del Festival di Sanremo. Dopo un anno l’interesse comincia a crescere e ben trecentottanta sono le canzoni inviate alla commissione esaminatrice: centoquaranta in più dell’anno precedente. Cresce anche il numero dei cantanti. A quelli della prima edizione, Nilla Pizzi, Achille Togliani e Duo Fasano, si aggiungono Gino Latilla e Oscar Carboni. Il Festival è trasmesso in diretta dal Secondo programma radiofonico della RAI. Il presentatore è sempre Nunzio Filogamo. Tra il pubblico sono presenti numerosi operatori discografici americani invitati come "osservatori" da Ladislao Sugar, uno dei pionieri italiani della moderna industria discografica. Il dato di crescita più rilevante è quello del biglietto d’ingresso alla manifestazione che aumenta di ben otto volte, passando dalle cinquecento lire del 1951 a quattromila, consumazione compresa: una bella cifra per quei tempi! Vince la canzone Vola, colomba... di Bruno Cherubini e Carlo Concina, interpretata da Nilla Pizzi che bissa così il successo dell’anno prima ma il vero successo è Papaveri e papere, una canzoncina spensierata nel filone delle “canzoni dell’allegria” scritta da Nino Rastelli, Mario Panzeri e Vittorio Mascheroni. Il disco della canzone vende più di settantamila copie, superando anche la vincitrice Vola, colomba..., ferma a quarantacinquemila, ed è protagonista di uno straordinario successo in terra britannica dove arriva alla bella cifra di seicentomila copie vendute. La canzone ispira anche il film “Lo sai che i papaveri...”, una commediola diretta da Vittorio Metz e Marcello Marchesi, che ha tra gli interpreti principali Walter Chiari e Anna Maria Ferrero e che incassa quasi quattrocento milioni di lire. La popolarità del brano è tale da suscitare anche una polemica politica. Secondo alcuni censori Papaveri e papere conterrebbe in codice una offensiva allusione nei confronti dei notabili democristiani dell’epoca, indicati nel testo come i “papaveri alti, alti, alti”. Come accade spesso in Italia, la polemica si spegnerà con la stessa rapidità con la quale si è accesa.

25 gennaio, 2019

26 gennaio 1961 – Il rock and roll sbarca a Sanremo


La sera del 26 gennaio 1961 il rock and roll arriva ufficialmente sul palcoscenico del Festival di Sanremo con la canzone 24 mila baci, interpretata da Adriano Celentano e Little Tony. È un brano violento, aggressivo, come si conviene a due esponenti di una generazione di giovani interpreti che sta cambiando le regole della canzone italiana. Composto dai registi Piero Vivarelli e Lucio Fulci con l'apporto, non si sa quanto veritiero, dello stesso Celentano, segna una rottura con la tradizione anche per il testo, accusato di ridurre l'amore a una sorta di meccanica gestualità. «Non c'è poesia» urlano i benpensanti attribuendo al passaggio «Niente bugie meravigliose/frasi d'amore appassionate/ma solo baci chiedo a te» un'importanza decisamente eccessiva. A complicare la situazione ci si mette anche Adriano Celentano che si presenta sul "sacro" palcoscenico del Festival in modo strafottente e fuori dagli schemi. Durante l'esibizione si contorce come se fosse stato morso dalla tarantola e non si preoccupa dell'impostazione vocale, privilegiando la fisicità del brano al suo effettivo valore musicale. Come se non bastasse si permette anche di voltare la schiena al pubblico dimenando i glutei in diretta televisiva. Sul palcoscenico di Sanremo con quell'esibizione non sbarca soltanto il rock and roll, ma anche la carica sessuale che l'accompagna. Sono i primi segnali di una rivoluzione sessuale che sta per cambiare le radici stesse e i valori morali della società borghese. La diretta televisiva amplia a dismisura l'impatto. La critica si divide. Pochi incoraggiano, qualcuno non capisce, i più storcono il naso e mentre l'elegante e ingioiellato pubblico che affolla il salone delle feste del Casinò di Sanremo ammutolisce inorridito, i perbenisti gridano all'oltraggio, ma i giovani sono tutti con Celentano. Il successo del brano è straordinario. Oltre un milione di copie del disco verranno letteralmente bruciate in poche settimane: ottocentomila nella versione di Celentano, il resto in quella di Little Tony, un ragazzo romano che ha alle spalle una lunga gavetta in Gran Bretagna come rocker latino adolescenziale. 24 mila baci farà il giro del mondo e, tradotto in innumerevoli lingue, entrerà nel repertorio di una lunga fila di interpreti dell'epoca, da Johnny Halliday a Peter Krauss. Farà scalpore anche in Polonia trionfando al Festival di Varsavia nell'esecuzione di una popolare interprete di rock and roll di quel paese.

24 gennaio, 2019

25 gennaio 1969 – "Lily the pink" e il fratello di McCartney

Il 25 gennaio 1969 ai vertici della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna c'è un brano curioso. È Lily the pink, una canzone che porta per la prima volta in vetta alla classifica gli Scaffold, un ironico trio pop nato nella zona del porto di Liverpool. Di loro non si sa molto di più, salvo i nomi dei componenti: John Gorman, Roger McGough e Mike McGear. Quest'ultimo, che è anche l'anima del gruppo, nasconde dietro a uno pseudonimo il suo vero cognome, cioè McCartney. A Liverpool sanno tutti, infatti, che Mike è il fratellino più piccolo del Beatle Paul McCartney, ma lui non ci tiene troppo a diffondere la notizia. Pur essendo in buoni rapporti con Paul si sente un po' schiacciato dalla sua popolarità e teme di fare la figura del raccomandato. Il suo ambiente sono i pub della zona del porto, gli stessi nei quali ha incontrato i due amici con i quali ha dato vita agli Scaffold. Il trio, che verrà considerato negli anni Settanta una sorta di gruppo di culto dagli appassionati del filone demenziale, dopo una lunga gavetta nei vari locali della città dove è nato, fa il suo debutto discografico nel 1967 con il singolo Thank u very much. Gli Scaffold non sono, però, tagliati per la dimensione discografica. Frenetici e abili improvvisatori danno il meglio di sé negli spettacoli dal vivo che spesso si trasformano in veri e propri happening interattivi con il pubblico. Non è quindi un caso che la loro produzione discografica sia discontinua, quasi svogliata, in un alternarsi di insuccessi e strepitosi exploit che sembrano lasciare del tutto indifferenti i tre componenti. Dopo Lily the pink riusciranno ad arrampicarsi nuovamente ai vertici della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna soltanto nel 1974 con Liverpool Lou. A dispetto delle apparenze però dietro la leggera e giocosa patina demenziale che caratterizza le loro esibizioni c'è un progetto interessante di integrazione tra musica e teatro che troverà la sua più compiuta realizzazione proprio nel 1974 quando il trio inizierà a lavorare con il gruppo teatrale dei Grimms. Dalla collaborazione nascerà anche un album interessante ma ovviamente al di sotto della resa scenica. Da parte sua Mike McGear parallelamente all'attività della band pubblica come solista gli album Woman e McGear, quest'ultimo prodotto dall'ingombrante fratello Paul McCartney che ne compone anche alcune canzoni, ma gli Scaffold sono un'altra cosa.

23 gennaio, 2019

24 gennaio 1959 - Paul Anka al Brancaccio di Roma


Il 24 gennaio 1959 al Teatro Brancaccio di Roma arriva Paul Anka. Dentro e fuori dal teatro sono centinaia le ragazzine urlanti in attesa del diciottenne autore e interprete di Diana. Il concerto romano coincide con l’apice della carriera di uno dei più importanti idoli adolescenziali degli anni Cinquanta. Nato il 30 luglio 1941 a Ottawa in Canada, figlio di ristoratori, a soli dodici anni forma il suo primo gruppo scolastico. Il talento della band attira l’attenzione di molti operatori del settore musicale che vorrebbero scritturarla, ma Paul preferisce proseguire da solo. Ottenuto dal padre il permesso di andare negli Stati Uniti si trasferisce a Hollywood presso uno zio. Talento precoce, a soli quattordici anni ha già al suo attivo la composizione di numerose canzoni. In quel periodo la giovane età non sembra essergli d’aiuto, ma i tempi stanno cambiando. L’industria discografica, infatti, è alla ricerca di adolescenti che possano conquistare un pubblico nuovo di consumatori di dischi. Dopo qualche singolo senza particolare successo per Paul Anka arriva la svolta. Nel 1957 il maestro Don Costa lo vuole con sé all’ABC-Paramount, una delle grandi case discografiche del periodo. Con la supervisione dello stesso Costa pubblica in singolo Diana che diventa il disco più venduto dell’anno e arriva al vertice delle classifiche discografiche in più di venti paesi. Il brano, una vera e propria pietra miliare della musica pop internazionale avrà oltre trecento diverse versioni in tutto il mondo. Il successo del concerto romano convincerà i suoi produttori delle possibilità del cantante sul mercato italiano tanto che Paul Anka registrerà numerosi dischi nella nostra lingua e parteciperà a varie edizioni del Festival di Sanremo. Sul piano internazionale fino al 1962 la sua carriera è ricca di successi e soddisfazioni. Con l’esplodere del beat e la nascita di nuovi eroi musicali invece di abbattersi sceglie di dedicarsi di più alla composizione. Alla sua vena creativa sono da attribuire grandi successi internazionali come She’s a lady di Tom Jones e, soprattutto, My way, uno dei cavalli di battaglia di Frank Sinatra. Astuto e intelligente gestore del proprio lavoro riesce a costruire attorno a sé un piccolo impero commerciale, tornando, di tanto in tanto, a pubblicare qualche disco e a cantare nei Club esclusivi statunitensi. Nel 1993 è stato inserito nella “Hall of Fame” della musica pop statunitense.

22 gennaio, 2019

23 gennaio 1972 – Big Maybelle, la cantante dalla tonalità ampia e distesa


Il 23 gennaio 1972 muore a Cleveland, nell’Ohio, la cantante Big Maybelle, una delle più originali voci del soul e del jazz. Nonostante la sua bravura la ragazza, nata a Jackson nel Tennessee nel 1924 ha continuato a lavorare nell'ombra dei club per molti anni spaziando dalle canzoni in chiave soul e blues al jazz. Big Maybelle per molti anni è conosciuta e apprezzata più dai musicisti e dagli addetti ai lavori che non da un pubblico per il quale è sostanzialmente una sconosciuto. Dopo questa fase un po’ oscura la vera carriera inizia all’alba dei… trentaquattro anni. Il grande pubblico, infatti, ha modo di conoscerla e di apprezzarla soltanto dopo la sua partecipazione al Festival del Jazz di Newport del 1958, dove ha modo di prodursi al meglio delle sue possibilità. La sua popolarità si estende ulteriormente anche grazie al film “Jazz on a Summer's Day”, realizzato durante da quella manifestazione. Da quel momento la tonalità ampia e distesa della sua voce e le innegabili doti interpretative le hanno consentito di farsi apprezzare nei blues, negli spiritual e soprattutto nei gospel. Proprio con i gospel ha ottenuto i migliori risultati della sua carriera esibendosi accompagnata da cori religiosi che meglio evidenziavano il timbro suggestivo del suo canto.


22 gennaio 1995 - Tornano i Beatles!


Il 22 gennaio 1995 gran parte delle riviste musicali della Gran Bretagna danno spazio a una notizia clamorosa: tornano i Beatles. Come se fossero guidate da un’unica strategia sostengono che il 1995 sarà l’anno del grande ritorno del quartetto di Liverpool. Tra le sorprese più stupefacenti i di questa nuova “Beatles Invasion”, coordinata dal Neil Aspinal, un vecchio amico e collaboratore del gruppo, ci sarebbe anche una nuova canzone registrata da Paul, Ringo e George che dovrebbe essere presentata nel corso di una serie televisiva in dieci puntate destinata a ripercorrere la storia dei “Fab Four” e un album con nuove canzoni pescate dai loro ricchissimi archivi. La notizia del ritorno in sala di regisrazione è la novità più ghiotta, anche se non è la prima volta che si parla di una riunione della band e molti sono ancora gli scettici. Certamente però sull’onda del doppio album con le loro vecchie registrazioni alla BBC la Gran Bretagna è tornata nel periodo delle feste natalizie in piena “Beatlemania” e i gadget del quartetto di Liverpool hanno fatto la parte del leone sotto l’albero di Natale. Il più venduto è stato il poster che riproduce la copertina dell’album Sgt. Peppers Lonely Heart Club Band. Il ritorno però non ci sarà e la campagna stampa si rivelerà per quello che è: il sostegno a un progetto quasi esclusivamente commerciale. Dei tanti eventi annunciati due soli vedranno davvero la luce. Il primo sarà il programma televisivo intitolato “The Beatles anthology”, di tre e non di dieci puntate, con vecchie e nuove interviste alternate a concerti, ricordi, ecc destinato a finire anche in videocassetta. Il secondo è un singolo che si intitola Free as a bird e verrà pomposamente definito «il primo disco dei Beatles dopo lo scioglimento». In realtà si tratta di una sovrapposizione postuma di strumenti voci e arrangiamento a un brano registrato da John Lennon accompagnandosi con il pianoforte. Niente di nuovo sotto il sole. Solo qualche affare.

21 gennaio 1937 - Snooks Eaglin, cieco e vagabondo


Il 21 gennaio 1937 a New Orleans, in Louisiana, nasce Snooks Eaglin, uno dei quei bluesmen vagabondi che si sono formati percorrendo in lungo e in largo le regioni del sud degli Stati Uniti e assimilando una grande varietà di stili, dal jazz suonato nella città del delta al gospel, al blues vero e proprio fino alla musica hillbilly che ha rappresentato spesso per lui una piacevole parentesi. Dopo aver imparato da autodidatta a suonare la chitarra nel 1952 entra a far parte dei Flamingoes, un gruppo con un repertorio incentrato sul rock'n'roll, sul country e sul western come prevedono il gusto e le tendenze del tempo. Siccome i pochi soldi che gli derivano dall’attività in gruppo non gli bastano e per ampliare il bilancio canta e suona per le strade della città natale spesso accompagnato spesso da Percy Randolph e da Lucius Bridges. Nel 1956, a diciannove anni, diventa cieco in seguito a un tumore al cervello asportatogli con una difficile operazione chirurgica. Nel 1958, con l'aiuto di Harry Oster e Richard B. Allen, registrare alcuni dischi con alcune importanti etichette che gli aprono anche la strada per potersi esibire in locali più importanti. Negli anni Sessanta dopo il matrimonio con Doretha si stabilisce a St. Rose, sempre in Louisiana. Nell'aprile del 1970 partecipa per la prima volta al New Orleans Jazz & Heritage, una manifestazione che lo avrà come ospite fisso per cinque anni consecutivi. In quel periodo viene spesso in Europa, soprattutto a Londra dove in compagnia con il Professor Longhair anima una lunga serie di parties privati organizzati dal Ritz Hotel. Ormai considerato un grande del blues più facile e ballabile continuerà da protagonista anche negli anni successivi.


18 gennaio, 2019

19 gennaio 1946 – Miss Dolly Parton, regina dei girovaghi


Il 19 gennaio 1946 nasce a Sevierville nel Tennessee Dolly Parton, una delle maggiori interpreti di country negli anni Sessanta e Settanta, divenuta poi una star del pop. Quarta di dodici figli, è ancora un'adolescente di belle speranze quando inizia a cantare con il nome di Miss Dolly nei Porter Wagoner, uno dei tanti gruppi di cantanti girovaghi che portavano il loro spettacolo nelle cittadine degli Stati Uniti viaggiando su coloratissimi autofurgoni. Nel 1967 pubblica il primo di una lunga serie di dischi che la portano in breve tempo a diventare una delle più popolari e amate interpreti del country. Si difende bene anche come compositrice regalando ad altre sue colleghe vari brani di successo come I will always love you a Linda Ronstadt e Coat of many colours a Emmylou Harris. A partire del 1974, pur senza abbandonare il country, inizia progressivamente a modificare il proprio stile orientandosi verso il pop. L'album Great balls of fire e la sua partecipazione al film "Dalle 9 alle 5 orario continuato", di cui interpreta anche il tema musicale, la trasformano in una delle più importanti interpreti musicali e cinematografiche degli anni Ottanta. Tra premi e grandi successi di vendite non abbandona il set. Nel 1982 interpreta la sua I will always love you nel film "Il più bel casino del Texas" con Burt Reynolds riportando per l'ennesima volta il brano nella classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti. Mentre nessuno più mette in discussione le sue qualità lei si diverte a scorrazzare tra i vari generi dello spettacolo trasformando regolarmente in oro tutto ciò che tocca: dischi, film e televisione. Insieme a Linda Ronstadt e Emmylou Harris realizza lo splendido album Trio, confeziona un sontuoso show televisivo e crea Dollywood, un parco di divertimenti di sua proprietà nel Tennessee. Nel 1992 il suo brano portafortuna I will always love you, che ormai ha più di vent'anni, viene inserito nella colonna sonora del film "Guardia del corpo" nella suggestiva interpretazione di Whitney Houston, protagonista della pellicola e vola al vertice delle classifiche di vendita di tutto il mondo, diventa il singolo dell'anno e stabilisce il nuovo record di permanenza al primo posto della classifica statunitense. Dolly incassa e non fa una piega. Anzi, stupirà il pubblico tornando al country più tradizionale con brani come Slow dancing with the moon e, soprattutto Honky tonk angels, interpretato con Loretta Lynn e Tammy Wynette.

18 gennaio 1974 – Rick Wakeman: io tastierista rock? Non dite stupidaggini


Il 18 gennaio 1974 Rick Wakeman, il tastierista degli Yes da poco premiato dalla critica come “miglior tastierista rock del mondo”, si esibisce alla Royal Festival Hall di Londra in una performance straordinaria. Accompagnato dalla London Simphony Orchestra e dall'English Chamber Choir, diretti da David Measham, con la voce narrante dell’attore David Hemmings, esegue la sua opera Journey to the centre of the earth, una sinfonia per tastiere, sintetizzatori, orchestra, coro e voce narrante. Il concerto suscita entusiasmi decisamente eccessivi che finiscono per lasciare perplesso anche lo stesso Rick Wakeman. Qualche critico saluta addirittura la nascita di un nuovo genere, provvisoriamente battezzate “rock sinfonico”, ma il carismatico tastierista, figlio di Cyril Wakeman, il pianista della Ted Heath's Big Band, butta acqua sul fuoco. «Sono tutte stupidaggini. La musica è musica e basta. I generi, le etichette, come le mode, sono soltanto una sciocca invenzione. Come si fa a dire che io sono un tastierista rock? Che cosa vuol dire? Che cos’è il rock? Ho iniziato a studiare pianoforte a quattro anni sotto la guida di mio padre e a diciassette mi sono diplomato al Royal College of Music. Successivamente ho ottenuto il dottorato, anche se non mi faccio chiamare professore. Mi piace la musica, tutta la musica che riesce a esprimere sentimenti ed emozioni. Sono rock per questo?». Trincerato dietro la sua pila di tastiere, tra cui un organo Hammond, un sintetizzatore Moog, un pianoforte Rhodes e un Mellotron, Wakeman, con i suoi lunghi capelli biondi e il mantello svolazzante, è considerato ormai una sorta di “stregone delle tastiere” e uno dei personaggi più emblematici della capacità del “progressive” degli anni Settanta di fondere senza imbarazzi tutte le correnti musicali che l’hanno preceduto. Il successo di Journey to the centre of the earth, che segue di un anno la buona accoglienza riservata al suo primo lavoro The six wives of Henry VIII, lo convincono a chiudere la sua collaborazione con gli Yes e a continuare sulla strada della ricerca solistica. In estate terrà un concerto al Cristal Palace Garden con l'accompagnamento di ben centodue persone tra musicisti e coro e alla fine del 1974 la critica lo eleggerà per la seconda volta consecutiva “miglior tastierista del mondo”. La separazione dagli Yes non sarà definitiva ma il miglior periodo della band è ormai alle spalle.

16 gennaio, 2019

17 gennaio 1973 – Edgar Sampson, un agnello polistrumentista


Il 17 gennaio 1973 a Englewood, nel New Jersey, muore Edgar Melvin Sampson, soprannominato "The lamb", l'agnello, per i suoi capelli ricci e setosi. Ha sessantacinque anni e da tempo è stato colpito da una misteriosa malattia che ha lasciato spazio a varie ipotesi sulle quali lui tace. Gli annuari del jazz parlano di lui come di un sassofonista, ma in realtà The Lamb, pur avendo dato il meglio di sé al sassofono, è un polistrumentista ricco di genio. Il suo incontro con la musica avviene, infatti, quando, ancora piccolo, comincia a fare esperienza davanti alla tastiera di un pianoforte, passando poi al violino. L'incontro con il sassofono avviene più tardi, quando il giovane Sampson sta già frequentando le scuole superiori. È amore a prima vista, anche se destinato a restare segreto per qualche tempo. Nel 1924, infatti, fa il suo debutto come strumentista suonando il violino al fianco di Joe Coleman. Tre anni dopo entra a far parte della big band di Duke Ellington e tra il 1928 e il 1930 suona con le orchestre di Arthur Gibbs e Charles Johnson. Passa indifferentemente dal violino al sassofono, ma lascia ad altri il compito di pigiare sulla tastiera del pianoforte. All'inizio degli anni Trenta sembra trovare un equilibrio definitivo nell'orchestra di Fletcher Henderson, che sfrutta in modo intelligente la sua capacità con entrambi gli strumenti. The Lamb, però, non si lascia intruppare. Nel 1933 chiude il suo rapporto con Henderson e inizia a lavorare con Chick Webb. Alla coppia si devono brani come Blue Lou, Stompin’ at The Savoy o Lullaby in rhythm, considerati ancora oggi tra le migliori pagine scritte durante l’era dello swing. Chiusa anche la collaborazione con Webb, Sampson giura a se stesso di dedicarsi completamente all’arrangiamento e alla composizione abbandonando la carriera solistica. Non è l'ultimo atto del suo percorso musicale. Nel 1944 Al Sears lo convince a suonare il sassofono nella sua orchestra e lui rompe il giuramento e ricomincia a vagabondare tra le migliori formazioni dell'epoca, con una predilezione per quelle che si esibiscono nei locali di New York, in modo da non doversi spostare. Negli anni Cinquanta scopre la nuova frontiera delle sonorità latino-americane e presta il suo sassofono alle formazioni di Tito Puente, Tito Rodriguez, Manolo Guerra e altri. All'inizio degli anni Sessanta i primi sintomi della misteriosa malattia lo costringono a chiudere con la musica.


15 gennaio, 2019

16 gennaio 1938 – Con Benny Goodman alla Carnegie Hall è swing craze


Il 16 gennaio del 1938 alla Carnegie Hall di New York suona l’orchestra di Benny Goodman. È una data storica perché proprio a quel celebre concerto si fa risalire lo scoppio della swing craze, la follia dello swing. Mentre le note dei musicisti attraversano l’aria migliaia di giovani, aperte le porte di quello che fino a quel momento era stato considerato il tempio della musica classica, iniziano a ballare fra le poltrone, nei corridoi, nella hall del teatro e ovunque ci sia un po' di spazio. È nata la “swing era”, cioè l’era dello swing, una moda di massa che coinvolge prima gli Stati Uniti e poi il resto del mondo che è destinata a durare fino alla fine della seconda guerra mondiale. Proprio in quegli anni viene sublimato il rapporto tra il jazz e la danza. Il concerto di Benny Goodman, però, non è solo questo. L’avvenimento però non segna soltanto l’inizio della follia dello swing. Dopo quel concerto infatti il jazz, conquistatosi il diritto di entrare nella grande sala costruita da Andrew Carnegie, inizia a essere riconosciuto musica d'arte e lascia i club e i locali notturni per entrare nelle sale da concerto per diventare essenzialmente musica d'ascolto. Proprio nel momento in cui tocca attraverso lo swing la danza e il jazz si incontrano quest’ultimo fa un salto di qualità e scarta di lato, lasciando che il compito di far ballare negli anni successivi se lo assumano generi da lui derivati come il rhythm'n blues e poi il rock'n'roll.


15 gennaio 1994 – Si ferma il cuore di Harry Nilsson


Il 15 gennaio 1994 un attacco cardiaco si porta via Harry Nilsson. Non ha ancora compiuto cinquantatre anni ed è uno dei personaggi più singolari della scena musicale statunitense. Autore e cantante dallo stile personalissimo nella sua carriera è riuscito a percorrere strade musicali diverse, anche se non tutte con gli stessi risultati e con la stessa fortuna. Divenuto famoso come autore di Cuddle toy, uno dei successi dei Monkees, dopo aver pubblicato l'album Early years nel 1968 viene scritturato dalla RCA per la quale pubblica un pugno di dischi di buon successo. In quel periodo diventa popolarissimo interpretando la canzone Everybody's talkin' nella colonna sonora del film “Un uomo da marciapiede”. Nel 1971 pubblica in Gran Bretagna l'album Nilsson Schmilsson, prodotto da Richard Perry, il cui brano Without you, composto da alcuni membri dei Badfinger, arriva al primo posto delle classifiche di vari paesi e diventa uno dei brani più gettonati del 1972. Nel 1973 partecipa alla realizzazione dell'album Ringo di Ringo Starr e nel 1975 a quella di The side of the Moon, l'unico album di Keith Moon, il batterista degli Who. Tra gli album successivi spicca Pussy cats del 1974 prodotto da John Lennon e Flash Harry del 1980 alla cui realizzazione partecipano John Lennon, Ringo Starr e altri. Proprio l'insuccesso di quest’ultimo lo convince a non pubblicare altri dischi. Pur non abbandonando mai l’ambiente della musica cessa di essere un protagonista per i media e per il pubblico fino alla fine del 1993 quando Mariah Carey porta al successo una versione di Without you. Poche settimane dopo il suo cuore lo tradisce per l’ultima volta.


14 gennaio, 2019

14 gennaio 1949 - George Baquet, il primo a suonare il famoso "obbligato” di High Society,


Il 14 gennaio 1949 muore a Philadelphia, in Pennsylvania il clarinettista George Baquet. È nato a New Orleans in Louisiana, nel 1883 ed è figlio di Theogene V. Baquet, il leader della celebre Excelsior Brass Band. Il suo debutto nel jazz avviene a soli quattordici anni nel 1897 nella Lyre Club Symphony Orchestra diretta dal padre. Il suo clarinetto all’inizio del secolo è presente in alcuni gruppi leggendari come la Onward Brass Band, la Imperial Brass Band, l'orchestra di John Robichaux, la Superior Band, la Magnolia Orchestra, in cui funge anche da leader, e l'Olympia di Freddie Keppard e Armand Piron. Proprio Keppard si accorge delle sue qualità e nel 1914 lo chiama a far parte della celeberrima Original Creole Orchestra. Quella formazione della Creole di Keppard entra nella storia. Con Eddie Vinson al trombone, Baquet al clarinetto, Jimmy Palao al violino, Bill Johnson al basso e Dink Johnson alla batteria riesce a far entusiasmare Chicago e New York per il jazz nero di New Orleans contrastando l’assuefazione del pubblico al dixieland di Nick La Rocca e Yellow Nuñez. Negli anni Venti il suo clarinetto partecipa a varie sedute di registrazione di Bessie Smith, Clara Smith e di Evelyn Thompson, anche se la sua seduta più importante resta quella con i Red Hot Peppers di Jelly Roll Morton a Camden nel luglio del 1929. Uno storico del jazz come Samuel Charters sostiene che sia stato proprio lui e non Picou, come in genere riportato, a suonare per primo il famoso "obbligato” di High Society, ripreso poi nota per nota da tutti i clarinettisti delle generazioni successive. Stanco di girovagare per gli States nel dopoguerra si stabilisce a Philadelphia dove continua suonare in orchestre locali sino al momento della sua morte.



13 gennaio, 2019

13 gennaio 1967 – Cliff Richard alla musica preferisce Dio, anzi no…


Il 13 gennaio 1967 la rivista inglese New Musical Express pubblica una lunga intervista con Cliff Richard, l'interprete di rock and roll che tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta è stato considerato il primo vero fenomeno di massa della scena musicale britannica. Il servizio è di quelli destinati a fare scalpore. Il cantante, infatti, spiega le ragioni della sua recente conversione al cattolicesimo e dichiara di non sentirsi più a suo agio nel mondo dello spettacolo. A suo parere la turbolenta società moderna sta facendo sempre più emergere la necessità di riscoprire la presenza divina e alla fine confessa la sua intenzione di chiudere con la musica per dedicarsi alla predicazione del Vangelo. La notizia fa rapidamente il giro del mondo e qualche giornale arriva a titolare «Tra la musica e Dio scelgo Dio», utilizzando una frase che, per la verità, il cantante non ha mai detto. Non è estranea alla sua conversione l'esperienza di Brian "Liquorice" Locking, il chitarrista e bassista della sua band, gli Shadows, che nel 1963 ha lasciato la musica per farsi prete. In realtà alla crisi mistica si somma anche la difficoltà a reggere l'usura del tempo. Cliff, infatti, dopo aver vissuto da principale protagonista l'esplosione del rock and roll nel suo paese, con milioni di dischi venduti e una popolarità paragonabile a quella di Elvis Presley negli Stati Uniti, è stato travolto dall'irrompere sulla scena musicale del "ciclone" Beatles. A ventisette anni è considerato dalle giovani generazioni un cantante ormai vecchio, incapace di rappresentare in modo credibile la nuova voglia di protagonismo. È una fase difficile per quasi tutti gli eroi adolescenziali nati alla fine degli anni Cinquanta, spazzati via dall'esplosione beat. La crisi mistica e i propositi di chiudere per sempre con la musica non dureranno a lungo. Ben presto Cliff Richard recupererà il suo equilibrio e saprà trovare spazi diversi d'espressione. Uno dei momenti principali della sua rinascita sarà la terza edizione del Festival of Pop Songs di Bratislava, in quella che ancora si chiama Cecoslovacchia, dove, insieme ad altri "vecchi" come Gene Pitney e a vari gruppi della nuova generazione, come gli Easybeats, scoprirà di avere ancora spazio a sufficienza per poter continuare. Nello stesso anno tornerà anche al vertice delle classifiche europee con la canzone Congratulations. La musica pop ritroverà un protagonista e la chiesa cattolica dovrà rinunciare a un prete canterino.

12 gennaio, 2019

12 gennaio 1942 – Willie Cornish, il trombonista che non leggeva la musica

Il 12 gennaio 1942 il trombonista Willie Cornish, uno dei più apprezzati strumentisti delle jazz band d’inizio secolo muore, povero e dimenticato da tutti, a New Orleans, in Louisiana, la città dove è nato nel 1875. La sua morte non fa notizia e, a parte un ristrettissimo gruppo di conoscenti, nessuno degli artisti con i quali ha suonato in più di sessant’anni d’attività l’accompagnerà nell’ultimo viaggio. È una fine triste per un uomo che ha contribuito ad alimentare molte leggende del jazz. Lo stesso inizio della sua attività musicale si perde tra leggende e mezze verità. Di certo si sa che impara da solo a suonare il trombone e che nel 1897 entra a far parte della band di Buddy Bolden insieme al clarinettista Frank Lewis, al chitarrista Bronck Mumford, al batterista Bill Willigan e al contrabbassista Jimmy Johnson. A parte la parentesi del servizio militare resta con Bolden fino al 1903 quando viene sostituito da Frankie Dusen. Il suo amore per la musica non è pari alla disciplina. Insofferente a qualunque regola non ama i lunghi ingaggi e per più di quindici anni suona con quasi tutte le più importanti jazz band dell’epoca senza legarsi definitivamente a nessuna. Rifiuta cocciutamente anche di imparare a leggere la musica, sostenendo di essere in grado di comprendere a orecchio la parte che gli viene attribuita. I risultati sembrano dargli ragione visto che i leader di numerose band fanno la fila per poter inserire in formazione il suo trombone. Nel 1920 cede alle lusinghe di Willie Wilson e accetta di entrare stabilmente nella formazione dell’Eureka Brass Band, considerata, insieme alla Excelsior e alla Onward, una delle tre migliori band di New Orleans. Lo affiancano altri personaggi leggendari come il trombettista Tom Albert e il clarinettista George Lewis. La prima grande età d’oro del jazz sta, però, per finire sotto i colpi della grande depressione. Willie Cornish tenta di sopravvivere unendosi alla W.P.A. Band, una delle poche orchestre che si mantengono in attività nonostante la crisi. La concorrenza, però, è spietata e lui che non sa leggere correntemente il rigo musicale, perde anche questa possibilità d’ingaggio. Solo, deluso e senza un soldo in tasca inizia un lungo calvario di malattie e povertà che l’accompagnerà fino alla morte.

11 gennaio, 2019

11 gennaio 1999 – Ciao Faber

L’11 gennaio 1999 moriva Fabrizio De André. Ci rattrista l’idea che tra i tanti personaggi che ci hanno accompagnato nel nuovo millennio, molti dei quali ci sembrano così ridicolmente inutili, lui non ci sia. Da venti anni ci ha salutato e se n’è andato. Restano i suoi brani, ricchi d’umori e di sapori, poesie lievi che paiono scritte di getto su un foglio di carta appoggiato sul tavolo di una taverna o su una panca ai bordi di una strada. Ora che non c’è più manca a molti, anche a chi non l’ha mai capito davvero ma l’ha guardato come uno strano fenomeno da baraccone in grado di salvare, solo per il fatto d’esistere, la canzone italiana dalla mediocrità e dalle costanti colonizzazioni. Lui non ha mai preso sul serio nessuno. Anarchico, come un gatto più che come Bakunin, si schiera con gli oppressi e gli emarginati senza la pretesa di infiammarne i cuori. Non gli piace essere strumentalizzato, neppure da quelli che considera suoi compagni di strada. Raramente si fa trascinare in discussioni politiche, ma quando accade preferisce partire dalla sua esperienza e fermarsi lì. «Le mie idee politiche? Dal punto di vista strettamente ideologico, se posso permettermi il lusso di un termine così impegnativo, sono sicuramente anarchico. Cosa vuol dire? Vuol dire che mi ritengo una persona che pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio e attribuisce agli altri, con fiducia, le sue stesse capacità. Utopia? Forse. Anzi con il tempo tendo a diventare pessimista. Credo che l’esperienza libertaria possa diventare concreta in piccole isole felici, ma è molto difficile da realizzare in queste società sempre più complesse, perché la specializzazione maledetta porta gli uomini a considerare se stessi come delle macchine con una determinata e specifica funzione». Quando parla non si prende mai completamente sul serio. Gli piace introdurre elementi di dubbio anche nelle sue affermazioni più convinte e lo stesso fa con gli altri. Accende gli occhi d’ironia di fronte alle lodi, anche se vengono da persone che lo amano davvero, come Fernanda Pivano che lo considera «il più grande poeta che l’Italia ha avuto negli ultimi 50 anni». Soprattutto negli ultimi anni, quando in molti tentano di santificarlo, la capacità di non prendere mai sul serio i giudizi diventa la sua preziosa alleata nella quotidiana battaglia contro l’adulazione. «Sono spaventato. Non molto, ma abbastanza. Sono abbastanza spaventato dall’eccesso di consensi, perché da ogni vertice di grazia si può prevedere che si scivolerà in disgrazia». E di fronte a chi con aria complice ma illuminata gli ricorda il suo essere scomodo, non s’atteggia a incompreso, nega la sua presunta scomodità ma, in ogni caso, risponde di preferire la scomodità all’inutilità. La sua cultura musicale spazia senza pregiudizi in ogni direzione. A sedici anni suona la chitarra nel gruppo jazz del pianista Mario De Santis, che si avvale con discontinuità anche di un sassofonista un po’ introverso che risponde al nome di Luigi Tenco. Passa poi ai Crazy Cowboy & Sheriff One, una band di country a metà strada tra la Genova dei Carrugi e Nashville e nel 1958 pubblica il suo primo singolo Nuvole barocche. Gli sono compagni d’avventura, anche se non sempre amici, cantautori e perdigiorno, come l’impiegato Paolo Villaggio, che lo aiuta a scrivere il testo di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, un brano che gli vale una denuncia all’autorità giudiziaria per “linguaggio osceno”. La grande popolarità arriva nel 1965 quando Mina pubblica il suo brano La canzone di Marinella che diventa uno dei motivi più popolari degli anni Sessanta e trova posto anche nelle antologie scolastiche. Eppure man mano che gli anni passano ama sempre di meno questa canzone e storce la bocca quando gli chiedono di eseguirla nei concerti. «Ognuno ha la sua croce, la mia si chiama Marinella». Si cimenta anche con concept album come La buona novella, ispirato ai Vangeli apocrifi, Non al denaro né all'amore né al cielo nel quale traduce in musica l'"Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters e Storia di un impiegato in cui racconta la solitaria ribellione di un uomo infiammato da una canzone del maggio francese. Lui però non è un solitario come viene dipinto. Non rifiuta la collaborazione con altri artisti e, addirittura, si spende in prima persona in un lunghissimo tour, nel 1979 con la PFM, una delle rockband più popolari di quegli anni. Ama la musica e la sua capacità di dare forza alle parole e arricchirle d’umori. Non accetta le regole dell’industria discografica, non ne capisce le esigenze e, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, può permetterselo. Pubblica dischi quando ha il materiale necessario, quando è convinto di avere davvero qualcosa da dire, non importa se devono passare sei anni come accade con Le nuvole nel 1990 o con Anime salve nel 1996. La sua è la storia di un artista vero, poeta e musicista completo, capace di entusiasmarsi ai suoni mediterranei e di inserire nelle sue canzoni in genovese le calde note di un bouzouki greco o di un oud arabo. Quando incontra la malattia che lo porterà alla morte la sua indulgenza nei confronti dell’umanità che lo circonda si arricchisce di nuove motivazioni. «Con l’andare del tempo ho scoperto che gli uomini sono, in fondo, dei meccanismi così complessi che spesso agiscono indipendentemente dalla loro volontà. Il risultato è che, in fondo, c’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Questo voglio dire da tanti anni, ma solo adesso l’ho scoperto in modo chiaro». Ma quando s’accorge del rischio di interpretare la parte del profeta o del filosofo, torna a introdurre il dubbio: «Per la verità c’è anche un’altra spiegazione: che io mi stia semplicemente rincoglionendo…».

09 gennaio, 2019

10 gennaio 1977 - Doc Evans, cornettista per amore e per necessità


Il 10 gennaio 1977 muore a Minneapolis, nel Minnesota il cornettista Doc Evans. Nato il 20 giugno 1907 a Spring Valley, sempre nel Minnesota, viene registrato all’anagrafe con il nome di Paul Wesley Evans. Quando muove i primi passi nella musica non ha assolutamente intenzione di diventare cornettista. I suoi interessi spaziano dal sassofono al violino al pianoforte e alla batteria. Alla cornetta arriva quasi per caso nel 1929 quando scopre che è l’unico strumento rimasto scoperto nella banda del Carleton College e, quindi, è una sorta di passaporto per potersi esibire con quel gruppo. La suona, gli piace e a partire dal 1931 abbandona definitivamente tutti gli altri strumenti per specializzarsi in questo strumento scegliendo come modello Bix Beiderbecke. Nei primi anni Trenta si trasferisce a Minneapolis e la sua attività musicale è circoscritta a vari gruppi che si esibiscono in città. Non pensa che la musica possa rappresentare un’occupazione vera e per vivere fa vari mestieri compreso l’insegnante e l’allevatore di cani. Torna sui suoi passi nel 1939 quando suona con Red Dougherty e decide di dedicarsi alla musica a tempo pieno. Poco tempo dopo è a New York alla testa di un'ottima jazz band comprendente Ed Hubble, Tony Parenti, Joe Sullivan e George Wettling con la qua1e suona in vari locali della 52a strada. Nel 1947 suona a Minneapolis insieme a Bunk Johnson e verso la fine degli anni Quaranta si trasferisce a Chicago dove si esibisce in vari Club. In questo periodo registra anche uno splendido disco dal vivo al Jazz Limited pubblicato nel 1949 e nel quale è contornato da ottimi musicisti tra cui Muggsy Spanier, Miff Mole, Don Ewell e Bill Reinhardt. Negli anni Cinquanta torna a Minneapolis dove suona in vari locali con una propria jazz band. Gli anni successivi lo vedono dividersi tra la febbrile voglia di suonare e la tentazione di gestire club in proprio come il Rampart Street Club. Incide un’infinità di dischi e giganteggia nei piccoli e grandi festival degli States. La sua storia si chiude pochi mesi prima di compiere settant’anni.