Non è un pesce d’aprile anche se il giovane regista italiano
per un po’ sospetta che sia tutto uno scherzo. Il 1° aprile 1992 nella lunga e
spettacolare notte del Dorothy
Chandler Pavilion di Los Angeles il regista italiano Gabriele Salvatores
viene premiato con l’Oscar destinato al miglior film straniero. L’ambita
statuetta è per “Mediterraneo”, un lungometraggio da lui diretto e interpretato
da Claudio Bigagli, Diego Abatantuono, Giuseppe Cederna, Ugo Conti, Gigio
Alberti, Vanna Barba, Claudio Bisio e Antonio Catania. Tra i cosiddetti esperti
che nel nostro paese abbondano più che altrove le prime reazioni sono di
stupore. Nella cerchia degli invidiosi si finge soddisfazione ma si lanciano
strali avvelenati a rilascio lento. Tra le osservazioni nate dal bolo
dell’invidia la più velenosa è quella di chi mostra un incantato e quasi
ingenuo stupore perché i giudici degli Academy Awards avrebbero premiato con la
prestigiosa statuetta un film dalle caratteristiche tutte interne al dibattito
culturale italiano e le cui dinamiche sono comprensibili soltanto a chi ha
vissuto nell’Italia degli anni Settanta. Non è tutto perché anche le vendette
degli invidiosi hanno delle regole precise. Non si può esagerare perché se si porta
alle estreme conseguenze questa teoria del film dalle tematiche provinciali e
incomprensibili si rischia di ipotizzare che i giudici della prestigiosa
Academy hollywoodiana abbiano pescato a caso da un cappello il biglietto con il
nome di uno dei film stranieri perché non avevano voglia di vederseli oppure (peggio!)
che si siano bevuti il cervello. Entrambe le ipotesi possono rivoltarsi contro
a chi, nonostante l’invidia e il fastidio per i successi degli altri, nel mondo
del cinema deve comunque continuare a lavorare. Per questa ragione insieme alla
sorpresa per il risultato si fa sapere con nonchalance, quasi si trattasse di
un dettaglio, che “Mediterraneo” è distribuito in tutto il Nord America dalla
potentissima (all’epoca) Miramax dei fratelli Weinstein. E siccome le due
comunicazioni viaggiano accoppiate l’effetto indotto è che si tratta di un
Oscar immeritato assegnato in virtù delle pressioni di un potente distributore.
Nonostante gli invidiosi “Mediterraneo” era e resta uno splendido film girato
con mano leggera e destinato a commuovere anche chi non appartiene alla
generazione del regista. Per chi invece ha vissuto l’esaltazione del sogno di
cambiamento degli anni Settanta e il lungo riflusso degli Ottanta è la “chiusa”
finale della cosiddetta “trilogia della fuga” di Gabriele Salvatores, iniziata
nel 1989 con “Marrakesh Express” e proseguita l’anno dopo con “Turné”. Il
centro della narrazione filmica di Salvatores in quel periodo (e non soltanto
in quello) è rappresentato dal vortice di disillusioni, incertezze e voglia di fermare
il tempo che caratterizza l’impatto con il riflusso degli anni Ottanta (e con
la maturità) da parte di una generazione, la sua, dopo l’illusione di poter
cambiare il mondo. Mentre i primi due film della trilogia entrano direttamente
nel vivo di queste tematiche, “Mediterraneo” ci si avvicina per contiguità di
emozioni mentre la chiosa finale del Salvatores-pensiero sulla questione arriva
una citazione da Henri Laborit («In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo
per mantenersi vivi e continuare a sognare») e dalla dedica che appare prima
dei titoli di coda («Dedicato a tutti quelli che stanno scappando»).
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio...
01 aprile, 2021
31 marzo, 2021
31 marzo 1911 - Freddie Green, la morbida chitarra di Count Basie

30 marzo, 2021
30 marzo 2002 – Eve: Basta con la violenza sulle donne!

Il 30 marzo 2002 le agenzie di stampa specializzate in notizie musicali titolano: Basta con la violenza sulle donne. Non è uno slogan, ma un grido di battaglia, visto che a lanciarlo è la rapper Eve, una delle più cattive e famose bad girls d’inizio millennio. Forte della fama che l'accompagna e della grinta che la caratterizza la ventitreenne, che un tempo si faceva chiamare Eve Of Deconstruction, ha affrontato il problema pubblicando un brano, Love is blind (L'amore è cieco) che parla di violenza domestica sulle donne e ha fatto comunella con le associazioni che forniscono assistenza legale e materiale alle donne maltrattate. Il suo impegno su questo fronte non nasce oggi. In molti suoi brani si ritrova quel concetto complesso che negli ambiente femministi veniva definito con il termine di "sorellanza", sia pur filtrato con la sensibilità di una ragazza nata a Philadelphia nel 1979 e abituata a confrontarsi con gli uomini nella dura palestra delle strade dei ghetti. Il suo Gangsta bitches (traducetelo voi) realizzato a tre voci con altre due ragazze cattive come Da Brat e Trina ha spiegato con le parole e le durezza del linguaggio gangsta, le differenze di genere ai machos del sottobosco rap. Da quando è una star del firmamento hip hop non si è, però, fermata lì. Proprio il 30 marzo ha chiamato a raccolta due cantanti sue amiche come Faith Evans e Amel Larrieux, un pugno di attrici (Salma Hayek, Rosario Dawson, Rosie Perez e Lynn Whitfield) e ha programmato un'uscita clamorosa in occasione del "V-day Harlem 2002", la festa d'inaugurazione del leggendario Apollo Theater di Harlem, chiuso da tempo per lavori di restauro.
29 marzo, 2021
29 aprile 1920 - Grazia Gresi, dal basket alla canzone
Il 29 aprile 1920 nasce a Melfi, in provincia di Potenza la cantante Grazia Gresi. Registrata all’anagrafe con il nome di Grazia Grasso è un’esponente di spicco del basket femminile degli anni Quaranta. Poco più che ventenne lascia la pratica sportiva, trova un impiego all’Intendenza di Finanza di Napoli e si dedica alla canzone per hobby. Nel 1947 vince un concorso per voci nuove della RAI che le vale la prima scrittura a Radio Napoli con l’orchestra Campese. Partecipa a varie audizioni di Piedigrotta e nel 1956, in coppia con Aurelio Fierro, vince il Festival di Napoli con Guaglione. Negli anni successivi torna varie volte alla rassegna partenopea riscuotendo sempre un notevole successo. Negli anni Settanta lascia la musica. Tra le sue interpretazioni più famose sono da ricordare L’urdemo raggio ‘e luna, Cantammola ‘sta canzone, Te sento dint’ ‘e vvene, Napule ncopp’ ‘a luna e Non fa cchiù ‘a frangesa. Muore a Napoli il 17 aprile 2003.
28 marzo, 2021
28 marzo 1973 - Meglio i nativi dell’Oscar

27 marzo, 2021
27 marzo 1990 - Un Tornatore da Oscar

26 marzo, 2021
26 marzo 2004 – “Salvamm’ ‘o munno”!

24 marzo, 2021
24 marzo 1961 – Addio a Freddy Johnson

23 marzo, 2021
23 marzo 2007 – Viva gli Spartani!

22 marzo, 2021
22 marzo 1934 - Tonina Torrielli la caramellaia della canzone

21 marzo, 2021
21 marzo 1925 - Hugo Koblet, l’angelo biondo

20 marzo, 2021
20 marzo 2004 – The Art of Patti Smith a Ferrara

19 marzo, 2021
19 marzo 1921 - Harry Babasin, un violoncellista nel jazz

18 marzo, 2021
18 marzo 1908 - Loulou Gasté dal banjo alla chitarra

17 marzo, 2021
17 marzo 1924 - Chet Kruley, un viso pallido in una big band nera
Il 17 marzo 1924 nasce a Cambridge, nel Massachusetts, il chitarrista Chet Kruley, all’anagrafe Chester Krolewicz, l’unico musicista bianco ad aver superato all’inverso la cosiddetta “barriera del colore” nell’epoca d’oro delle grandi orchestre. Non sono viste di buon’occhio le commistioni tra bianchi e neri negli Stati Uniti degli anni Quaranta che vedono ancora molti stati negare i diritti civili agli eredi degli schiavi africano. Le mescole sono viste con il fumo negli occhi anche in un ambiente tutto sommato più aperto come quello del jazz. Se qualche raro musicista nero trova spazio nelle orchestre bianche, il contrario non è neppure ipotizzabile. Per questa ragione fa molto scalpore nel 1943 l’ingaggio di Chet Kruley, reduce da un’esperienza nel trio di Nat Pierce, da parte dell'orchestra di Fletcher Henderson. L’avventura non dura molto e il chitarrista, dopo un periodo difficile, accetta di suonare in vari gruppi di standard. Alla fine decide di chiudere con la professione e si ritira dedicandosi all'insegnamento. Fra i suoi allievi ci sarà anche Gabor Szabo. Muore il 27 novembre 2013.
16 marzo, 2021
16 marzo 1906 - Scad Hemphill, una tromba swing

15 marzo, 2021
15 marzo 1929 - Candy Green, il bluesman giramondo

14 marzo, 2021
14 marzo 1925 - Sonny Cohn, sulla scia di Roy Eldridge e Charlie Shavers

13 marzo, 2021
13 marzo 1921 - Isa Marlene da parrucchiera a protagonista dello spettacolo

12 marzo, 2021
12 marzo 1948 - James Taylor, cantautore colto e creativo

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