31 gennaio, 2023

31 gennaio 1933 – Carlo Sola, da tamburino a batterista

Il 31 gennaio 1933 nasce a Torino il batterista jazz Carlo Sola. Figlio d'arte a nove anni è già impegnato negli studi musicali che culmineranno con l'iscrizione ai corsi di contrabbasso nel conservatorio della sua città natale. Basta una breve esperienza come tamburino nella fanfara della scuola per farlo innamorare della batteria. Dopo la Liberazione trova la sua prima scrittura come batterista in un'orchestra da ballo e nel 1946 se ne va a zonzo per l'Europa intenzionato a fare esperienza. Quando rientra in Italia viene scritturato dall'orchestra di Gaetano Gimelli. Proprio in occasione di una breve tournée del gruppo in Germania assiste a Garmisch all'esibizione di Louis Armstrong con i suoi All Stars e diventa amico di Cozy Cole, uno dei più importanti batteristi di quel periodo. Deciso a seguirne le orme, Carlo Sola decide di mollare tutto e andarsene a New York dove frequenta la scuola gestita dallo stesso Cole. Gli è tutor e maestro, in quel periodo, un altro personaggio di spicco del jazz statunitense come Stan Levey. Quando torna a Torino riprende a suonare con i Jazz at Kansas City cui segue, nel 1954, un'intensa esperienza con OKB di Nini Rosso. La sua costante crescita tecnica e artistica trova molti estimatori soprattutto tra i personaggi che più di altri stanno tentando di rinnovare il jazz italiano. C'è però il problema che in quel periodo non si può vivere di solo jazz. Il genere non è ricco e non può garantire la sopravvivenza economica. Per questa ragione la sua attività si sviluppa su due binari: da un lato ingaggi sicuri e remunerati con orchestre stabili e dall'altro una lunga serie di collaborazioni importanti. Per quel che riguarda la soluzione dei problemi economici, dopo aver fatto parte dell’orchestra jazz di Armando Trovajoli, nel 1962 entra stabilmente nell’Orchestra della Rai di Milano. Proprio negli anni Sessanta la sua attività jazzistica si fa intensa e a partire dal 1969 le sue collaborazioni si fanno più stabili. Non rinuncia, però, a qualche esperienza free lance con vari musicisti stranieri di prestigio come Slide Hampton, Dexter Gordon, Don Byas, Bud Freeman, Art Farmer, Teddy Wilson, Dizzy Reece, Charlie Mariano, Lionel Hampton, Joe Venuti, Chet Baker e John Lewis, solo per citare i più importanti. Il suo impegno musicale si unisce talvolta a quello politico e sociale, come quando registra con Enrico Intra i brani Nuova civiltà e To the victims of Vietnam, due tra le sue migliori incisioni.

30 gennaio, 2023

30 gennaio 1959 – Jody Watley, dagli Shalamar al Grammy

Il 30 gennaio 1959 nasce a Chicago Jody Watley. Fin da quando inizia a respirare la musica è nella sua vita. La madre è cantante e pianista mentre il padre alterna il mestiere di disk jockey alle cerimonie religiose come pastore della chiesa del suo quartiere. Se non bastasse il suo padrino di battesimo è il famoso Jackie Wilson. A quindici anni, trasferitasi a Los Angeles con la madre dopo la separazione dei suoi genitori, debutta come ballerina nel programma televisivo "Soul train". Tre anni dopo entra a far parte come ballerina e cantante degli Shalamar, uno dei gruppi di punta della disco music, con cui resta fino al 1984. Quando lascia il gruppo la sua intenzione è quella di debuttare come solista sfruttando la notevole popolarità acquisita negli Shalamar, ma nonostante gli sforzi non riesce a trovare nessuna casa discografica immediatamente disponibile a seguirla nell'avventura. In molti le dicono che lasciare un gruppo di successo è stato un errore e che la sua carriera è praticamente finita. Questa storia va avanti per tre anni, ma Jody non si arrende. Molla il music business statunitense e se ne va in Gran Bretagna a esibirsi nei club. L’accoglienza del pubblico la spinge a continuare. Torna negli Stati Uniti e finalmente nel 1987 pubblica Jody Watley, un buon album che le vale il Grammy come miglior nuova interprete femminile e dal quale vengono estratti tre singoli di successo come Don't you want me, Looking for a new love e Some kind of lover. Le sue notevoli potenzialità vengono confermate due anni dopo dall'album Larger than life e dai singoli Real love, Friends ed Everything. Per meglio sfruttare il suo successo sempre nel 1989 viene anche pubblicato You wanna dance with me?, un album che contiene la versione dance dei suoi brani più popolari. Nel 1990 Jody registra la canzone After you, who? di Cole Porter per l'album benefico Red, Hot & Blue e l'anno dopo pubblica Affairs of the heart, un album deludente che non riesce ad andare oltre le posizioni basse della classifica. L’insuccesso non la ferma. Caparbia come sempre dopo quasi due anni di silenzio discografico ricomincia da capo con Intimacy, un disco che la riporta in alto. Più attenta a non lasciarsi consumare dall’industria discografica aspetta cinque anni per pubblicare Flowers nel 1998, l’album che le apre le porte del nuovo millennio


29 gennaio, 2023

29 gennaio 1951 – L’Italia dei Festival nasce di lunedì

Nel 1951 il 29 gennaio cade di lunedì. Per gran parte degli italiani non è che una dura giornata di lavoro che precede il secondo giorno lavorativo della settimana. Per questa ragione chi deve alzarsi presto per andare a lavorare è probabilmente già a letto alle 22 quando, diffusa in tutta Italia dal Programma Nazionale della RAI, la voce di Nunzio Filogamo, proveniente dalla Sala delle Feste del Casinò di Sanremo, annuncia per la prima volta il Festival della Canzone Italiana: «Signori e signore, benvenuti al Casinò di Sanremo per un'eccezionale serata organizzata dalla RAI, una serata della canzone con l'orchestra di Cinico Angelini. Premieremo, tra duecentoquaranta composizioni inviate da altrettanti autori italiani, la più bella canzone dell'anno. Le venti canzoni prescelte vi saranno presentate in due serate e saranno cantate da Nilla Pizzi e da Achille Togliani con il duo vocale Fasano». Neppure in sala c’è la percezione del grande evento. Il pubblico seduto ai tavolini, infatti, presta una modesta e distratta attenzione ai brani preferendo dedicarsi con maggior impegno alla cena e alla conversazione. Se ne accorge anche chi ascolta la radio. Le esibizioni dei cantanti arrivano nelle case con il sottofondo di un brusio diffuso e del tintinnare delle stoviglie. La presenza è scarsa, non soltanto perché è lunedì, ma anche perché il prezzo d’ingresso di ciascuna serata è di 500 lire, una cifra all’epoca non certo alla portata di tutte le tasche. Al termine delle due serate il primo premio verrà assegnato alla canzone Grazie dei fiori di Saverio Seracini, Mario Panzeri e Giancarlo Testoni, interpretata da Nilla Pizzi. Sette sono i giurati: il vicesindaco di Sanremo, il presidente della società concessionaria del Casinò, il maestro Giulio Razzi, il capo dell’ufficio stampa del Festival, l’avvocato Nino Bobba, Nunzio Filogamo e una signora scelta tra il pubblico. La premiazione sarà anche l’occasione per la prima gaffe della storia del Festival. Ne è artefice il presentatore Nunzio Filogamo, il quale, ignorando che Seracini, cieco, diserta qualunque cerimonia mondana ne reclamerà la presenza sul palco per ritirare il premio. Sarà Cinico Angelini a togliere tutti dall’imbarazzo annunciando: “il maestro Seracini non c’è e non verrà. Ha composto questa canzone poco dopo essere improvvisamente diventato cieco...”.


28 gennaio, 2023

28 gennaio 1985 – In tanti a Hollywood per l’Etiopia

L’idea è di Harry Belafonte, uno degli artisti statunitensi più impegnati nel campo dei diritti civili. Dopo l’iniziativa dei musicisti britannici raccolti sotto la sigla di Band Aid esprime ai colleghi il proprio disagio per la mancanza di sensibilità sul problema della carestia in Etiopia. «È vergognoso che l’ambiente musicale nero statunitense non senta il dovere di far qualcosa per i nostri fratelli africani». Nasce così la decisione di rispondere all’esperienza britannica. In breve tempo è pronto We are the world, un brano composto da Lionel Richie e Michael Jackson, i cui spartiti vengono inviati in tutta fretta ai cantanti e ai musicisti interessati. Il 28 gennaio 1985, approfittando della cerimonia di consegna degli annuali American Music Awards, una vera folla di artisti si presenta negli studi di Hollywood della A&M per registrare la canzone sulla base preparata tre giorni prima da un gruppo di musicisti che comprende personaggi come Paulinho da Costa, Michael Boddicker, Louis Johnson, David Paich, Steve Porcaro, Greg Phillinganes, Ian Underwood e Michael Omartian.. La registrazione della parte vocale dura due ore e mezza, un tempo incredibilmente breve per la produzione di un brano di sette minuti e due secondi destinato a invadere il mercato mondiale. Ben ventuno sono i solisti che si alternano davanti ai sei microfoni allestiti nello studio in un ordine miracolosamente rispettato fino all’ultimo: Lionel Richie, Stevie Wonder, Paul Simon, Kenny Rogers, James Ingram, Tina Turner, Billy Joel, Michael Jackson, Diana Ross, Dionne Warwick, Willie Nelson, Al Jarreau, Bruce Springsteen, Kenny Loggins, Steve Perry, Daryl Hall, Huey Lewis, Cindy Lauper, Kim Carnes, Bob Dylan e Ray Charles. Alla registrazione partecipa poi un fantastico coro composto da attori, componenti di bands e solisti come Dan Aykroyd, Sheila E, Bob Geldof, Lindsey Buckingham, John Oates, Jackie Jackson, LaToya Jackson, Marlon Jackson, Randy Jackson, Tito Jackson, Waylon Jennings, Bette Midler, Jeffrey Osborne, le Pointer Sisters, Smokey Robinson e tutti i componenti dei News di Huey Lewis. Pubblicato due mesi dopo con la sigla USA for Africa, We are the world arriverà al vertice delle classifiche di tutto il mondo.


27 gennaio, 2023

27 gennaio 1967 – Luigi Tenco, una morte inutile

Alle 2:30 del 27 gennaio 1967 sul pavimento della camera n° 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo viene ritrovato il corpo senza vita del cantautore Luigi Tenco. Indossa ancora i vestiti con i quali si è esibito qualche ora prima sul palcoscenico del Festival cantando il suo brano Ciao amore ciao dedicato alla problematica dell'emigrazione interna italiana ed è immerso in un lago di sangue. La prima ad accorgersi di quanto accaduto è la cantante italofrancese Dalida, sua compagna nell’avventura festivaliera che, in preda al panico, chiede aiuto. Il più lesto ad arrivare è Lucio Dalla, che alloggia alla camera 215 dello stesso albergo. Arriva anche un medico, il dottor Franco Borelli, ma non c’è più niente da fare. Secondo la ricostruzione effettuata dalla polizia Tenco si sarebbe sparato un colpo di pistola alla tempia destra con una Walker PPK calibro 7.65 di sua proprietà. Poche ore prima la giuria del Festival di Sanremo aveva escluso dalla finale la sua canzone. Viene anche diffuso il testo di una lettera trovata accanto al corpo nel quale sarebbero spiegate le ragioni del gesto: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi». Il suo sarebbe, quindi, un gesto di protesta contro l'esclusione dalle finali e di delusione per non essere stato compreso dal pubblico italiano. Tutto chiaro? Tutt’altro. L'episodio, ricco di lati oscuri, non sarà mai interamente chiarito e molti metteranno in dubbio la versione del suicidio. Tra questi uno dei più appassionati sostenitori della necessità di rivedere un’inchiesta che appare affrettata e in alcuni passaggi poco credibile è il cronista radiotelevisivo Sandro Ciotti, grande amico di Tenco. Il Festival, però, ha fretta di seppellire l’ingombrante cantautore. Anche a nome di altri colleghi Tata Giacobetti del Quartetto Cetra chiede con un telegramma al ministro del Turismo e dello Spettacolo la sospensione del Festival di Sanremo perché la morte di Tenco sarebbe «...un’evidente conseguenza della drammatizzazione di un ambiente contagiato da fini esclusivamente commerciali». Il ministro non risponde. Non succederà niente. Il Festival continuerà come se nulla fosse accaduto.


26 gennaio, 2023

26 gennaio 1978 – Niente Buzzcocks, non stampiamo dischi immorali!

Il 26 gennaio del 1978 la ditta che dovrebbe stampare il secondo singolo dei Buzzcocks What do I get comunica alla casa discografica del gruppo di non poter rispettare l’accordo perché la legge vieta di produrre “materiale offensivo per la morale comune". La querelle riguarda il brano che dovrebbe occupare il lato B del disco, intitolato Oh, shit (Oh, merda). Immediatamente consultati, i componenti di quello che viene considerato un po’ il gruppo caposcuola del punk “morbido” si rifiutano di cambiare il testo del brano incriminato e comunicano di essere anche indisponibili a sostituirlo con un altro. Non ci sono vie d’uscita. Tra la casa discografica e la ditta incaricata di stampare i dischi inizia una controversia legale tanto rapida quanto violenta e costellata da diffide, ultimatum, appelli all’opinione pubblica e dichiarazioni d’irresponsabilità. Alla fine il disco verrà pubblicato e diventerà il primo grande successo commerciale dei Buzzcocks, la band formata un paio d’anni prima da uno studente di elettronica al Bolton Institute of Technology che si fa chiamare Pete Shelley, anche se il suo vero nome è Peter McNeish e da uno studente di filosofia che risponde al nome di Howard Devoto. I due decidono di formare un gruppo dopo aver assistito a un concerto dei Sex Pistols. Quando nasce la polemica sulla canzone offensiva per la morale Devoto ha già lasciato i compagni per seguire nuove strade (formerà i Magazine) e la band è composta, oltre che da Shelley, dal batterista John Maher, dal bassista Steve Diggle e dal chitarrista Steve Garvey. Polemiche a parte i Buzzcocks sono destinati a lasciare un segno nella fulminante e breve epopea del punk, per il loro suono brillante e cristallino, in netto contrasto con le note cupe e lancinanti di quel periodo. Anche la polemica per il brano è, in fondo, un po’ forzata, viste le canzoni del gruppo. Nonostante la crudezza del linguaggio, infatti, il loro repertorio è composto, in larga parte, da canzoni d’amore lontane anni luce dal nichilismo esasperato che sembra caratterizzare la maggioranza dei gruppi punk. Lo stesso Shelley così descriverà quel periodo qualche anno più tardi: «I Buzzcocks erano un gruppo punk con un'ambizione in più: quella di scrivere canzoni che tutti potessero sentire proprie senza filtri o forzature. Per questo non c’era nei nostri brani quella rabbia, spesso finta, che piaceva tanto ai produttori».


25 gennaio, 2023

25 gennaio 1982 – Un gruppo fuori moda?

Il Marquee Club di Londra, uno dei templi del rock britannico, ospita il 25 gennaio 1982 il primo concerto da protagonisti di una band insolita e snobbata dalla critica. Sono i Marillion, un gruppo di appassionati cultori di un genere come il rock progressivo, considerato irrimediabilmente datato nei primi anni Ottanta, un periodo in cui, a parte la new wave, l’intera produzione discografica sembra privilegiare musiche fatte per non pensare e di rapido consumo. La band, nata ad Aylesbury, è formata dal batterista Mick Pointer, dal chitarrista Steve Rothery, dal tastierista Mark Kelly, dal bassista Peter Trawavas e dal carismatico cantante Fish, all’anagrafe Derek William Dick. Proprio a quest’ultimo, in possesso di una solida formazione classica e profondamente innamorato del rock progressivo inglese della prima metà degli anni Settanta, si deve l’ispirazione e la linea musicale dei Marillion. Quando il gruppo, considerato da gran parte della critica come una sorta di “scherzo della natura” nostalgico e velleitario, arriva al Marquee non ha ancora un contratto discografico, né un manager. Può contare soltanto su una solida nicchia di appassionati che non intendono arrendersi alle mode. Nonostante le pessimistiche previsioni il locale è affollato da un gran numero di spettatori e il concerto assume i toni di una rivincita contro tutti i detrattori. Il successo dell’esibizione frutta alla band il primo, sospirato, contratto discografico con una major. È la EMI l’etichetta che decide di correre qualche rischio con un gruppo “fuori moda”. La scommessa si rivelerà vincente. Nel 1983 l'album Script for a jester's tears segnerà l’inizio di un sorprendente successo destinato a spiazzare critici e detrattori e che toccherà l’apice nel 1985 con la pubblicazione di Misplaced childhood che arriva addirittura al primo posto della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna. Nel frattempo anche la formazione si irrobustisce con l’arrivo di Ian Mosley, l’ex batterista dei Curved Air, al posto di Mick Pointer. Nonostante tutto la maggior parte dei critici britannici non cambierà opinione e continuerà a considerare “incomprensibile” l’exploit di Fish e compagni. Da parte sua il leader della band continuerà a provocare e sorprendere i suoi detrattori con continue incursioni nel passato fino a registrare nel 1988, in The thieving magpie una personalissima versione della Gazza ladra di Gioacchino Rossini.





24 gennaio, 2023

24 gennaio 1941 – Nasce quel geniaccio di Neil Diamond

Il 24 gennaio 1941 nasce a Brooklyn, New York, Neil Diamond, uno dei più eclettici e prolifici autori della scena pop internazionale. All'età di dieci anni fa le sue prime esperienze musicali in un gruppo di bambini canterini che si chiama Memphis Blackstreet Boys e tre anni dopo si avvicina al folk entrando a far parte dei Roadrunners. Quando smette di indossare i calzoni corti ha già un'esperienza da far invidia a un veterano con frequentazioni musicali che vanno dal folk ai gospel, al country e al rock and roll. Inizia scrivere canzoni a quindici anni e non smette più. La prima ad accorgersi delle sue qualità è la casa editrice Sunbeam Music che lo scrittura e gli consente di dedicarsi a tempo pieno alla composizione. Nel 1966 pubblica anche il suo primo disco come interprete, Solitary man per una piccola etichetta e, nello stesso anno, firma I'm a believer, un brano destinato a vendere, nell'interpretazione dei Monkees, più di dieci milioni di copie. Gli stessi Monkees si rivelano una vera gallina dalle uova d'oro per il giovane autore che scrive per loro anche un'altra canzone milionaria: A little bit me, a little bit you. I soldi e il successo come autore, però, non gli bastano. Vorrebbe affermarsi anche come cantante, ma i produttori sono scettici. Fatica non poco a trovare qualcuno disposto a dargli spazio. Pubblica vari dischi con risultati modesti prima di convincere definitivamente pubblico e critica nel 1969 con l'album Brother love's travelling salvation show. Da quel momento le carriere d'autore e d'interprete viaggiano in parallelo. Nel 1972 dà corpo a un progetto ambizioso che teneva nel cassetto da tanto tempo sperimentando forme di espressione concettuale di ampio respiro. Nasce così l'opera musicale African trilogy che descrive l'uomo nelle sue tre fasi, crescita, maturità e vecchiaia su un tessuto ritmico africano ricco di contaminazioni gospel. La critica, spiazzata, reagisce malamente accusando African trilogy di essere un lavoro eccessivamente pretenzioso e freddo. L'episodio non interromperà il rapporto tra Neil e il pubblico che ne farà uno dei personaggi più amati degli anni Settanta. I discografici si adegueranno e la CBS, pur di averlo, non esiterà a sborsare nel 1973 ben cinque milioni di dollari, la cifra più alta mai pagata a un artista fino a quel momento. Anche negli anni Ottanta e Novanta la sua stella continuerà a brillare, mentre la produzione si farà via via più rarefatta nel tempo.


23 gennaio, 2023

23 gennaio 1973 – Neil Young: good bye Vietnam!

Il 23 gennaio 1973 a New York Neil Young si sta esibendo in concerto davanti a una platea nutrita. Il cantautore ripercorre la propria storia musicale centrando l'attenzione sui brani dell'album Harvest, ricchi di richiami sociali. Una dopo l'altra scorrono le sue canzoni: Old man, Alabama, Heart of gold, The needle and the damage e molte altre, compresi alcuni inediti destinati a finire nell'album Time fades away. C'è, però, una strana atmosfera. Neil Young appare teso, distratto, meno disposto del solito a interagire con il pubblico. Limita all'essenziale le parole e si perde in lunghi assoli di chitarra come se stesse inseguendo i suoi pensieri lontano da lì. Fedele alla scaletta l'esibizione scorre via in modo meccanico. Mentre sta eseguendo l'ennesimo brano guarda verso la sua sinistra, annuisce, sorride e si ferma. Posa per terra la chitarra e s'avvicina di più al microfono con l'aria visibilmente emozionata. Sul concerto è sceso il silenzio. Neil Young annuncia: «È finita! Mi hanno detto ora che il signor Kissinger e il signor Le Duc Tho hanno siglato un accordo per il "cessate il fuoco". Ce ne andiamo dal Vietnam!» Il silenzio si trasforma in un boato. Una gigantesca esplosione di gioia accoglie le sue parole. C'è chi canta, chi balla, chi si abbraccia per festeggiare un accordo che segna la fine dell’impegno statunitense nel Vietnam. Qualcuno sventola una grande bandiera rossa e blu con la stella gialla del Fronte di Liberazione del Vietnam del Sud, molti applaudono. Neil Young alza le mani per chiedere nuovamente silenzio. Con gli occhi lucidi ricorda che l'accordo è frutto anche dell'impegno del gigantesco movimento giovanile per la pace che si è sviluppato in tutti gli Stati Uniti. Chiede ai presenti di rivolgere un pensiero a tutte le vittime della "sporca" guerra e ai ragazzi che hanno perso la vita nelle manifestazioni pacifiste. Poi riprende a suonare. Il pubblico si accalca sotto il palco per fare posto ai ragazzi che arrivano da ogni parte della città. La festa non si ferma a New York. In tutti gli Stati Uniti esplodono grandi manifestazioni di gioia che hanno il loro epicentro nei campus universitari, dove la notizia viene accolta come una vittoria del movimento pacifista. Ci sono cortei improvvisati, preghiere di ringraziamento, ma non mancano iniziative diverse come a Philadelphia, dove una stazione radio saluta la notizia trasmettendo per dodici minuti consecutivi un suono di campane: un minuto per ogni anno di guerra.


22 gennaio, 2023

22 gennaio 1963 – Gerry & The Pacemakers, il successo con uno scarto dei Beatles

How do you do it? è un brano scritto da Mitch Murray che nelle intenzioni del produttore George Martin avrebbe dovuto segnare il debutto discografico dei Beatles. I quattro pazzerelloni di Liverpool, però, l’avevano cestinato perché lo sentivano fiacco e non adatto alla loro personalità. La notizia, diffusasi rapidamente nell’ambiente musicale britannico, rischiava di essere una pietra tombale per il brano, divenuto ormai “uno scarto dei Beatles”. Nonostante tutto l’ostinato produttore, amico dell’autore, non ha intenzione di cestinare la canzone e si ripromette di dimostrare agli “scarafaggi” che avevano torto. Il 22 gennaio 1963 impone a un'altra band di Liverpool di registrare How do you do it?. Le vittime dell’imposizione sono Gerry & The Pacemakers, un gruppo formato dal cantante e chitarrista Gerry Marsden, dal pianista Les Maguire, dal bassista John Chadwick e dal batterista Fred Marsden. Tutti i componenti sono nati a Liverpool con la sola eccezione di Maguire. La band, pur legata alla scuderia di Brian Epstein, il manager dei Beatles, non gode delle stesse prerogative dei suoi più famosi concittadini e non può scegliere i brani da incidere. Un po’ controvoglia, quindi, iniziano a registrare lo “scarto dei Beatles”. George Martin, che non ha mai digerito il rifiuto di John Lennon e compagni, assiste in silenzio. È quasi un fatto personale. Costringe Gerry & The Pacemakers a una lunghissima seduta di registrazione fino a spremere come limoni i componenti della band. La sera del 22 gennaio Gerry Marsden e i suoi compagni sono sfiniti. Hanno ormai perso il conto delle esecuzioni. Non è finita, perché Martin passa gran parte dei giorni successivi a riascoltare e ad aggiustare un brano che si è trasformato in una sorta di sfida personale alla cocciutaggine dei Beatles. Quando tutti pensano che il disco sia ormai pronto, non completamente soddisfatto, convoca ancora Gerry & The Pacemakers e chiede loro di rifare alcuni passaggi. «Coraggio, ragazzi, non è tempo perso». Ha ragione. How do you it?, pubblicato alcune settimane dopo, scalerà rapidamente la classifica di vendita arrivando fino al primo posto. Sarà lo stesso George Martin a telefonare la notizia ai Beatles: «Mai uno scarto è arrivato così in alto».


21 gennaio, 2023

21 gennaio 1941 – Richie Havens, un folk singer dalla pelle nera

Il 21 gennaio 1941 nasce a Brooklyn Richie Havens, considerato uno dei migliori folk singer del periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Figlio di un pianista del ghetto nero di New York, ultimo di nove fratelli impara ben presto le regole della sopravvivenza e per aiutare la famiglia inizia a cantare in pubblico quando ha da poco compiuto i sei anni. A quattordici forma un gruppo gospel, i McCrea Gospel Singers, insieme ai quali comincia ad allargare i suoi orizzonti al di fuori dei vicoli e dei locali della zona in cui è vissuto fino in quel momento. Chiusa la parentesi gospel, non ancora diciassettenne, saluta famiglia e amici e se ne va. Non lascia la musica, ma si adatta a qualunque lavoro pur di sopravvivere: il ritrattista per turisti nel Greenwich Village, il fattorino della Western Union e l'operaio. Nei primi anni Sessanta inizia a frequentare i circoli folk del Greenwich Village e resta affascinato dalla lezione politica e musicale dei vecchi folk singer bianchi come l’onnipresente Pete Seeger. Da quel momento la sua storia artistica si lega con quella degli emergenti profeti della nuova canzone di protesta. Nella sua voce calda e profonda, arricchita dall’emotività interpretativa di derivazione gospel, sembrano saldarsi le tradizioni musicali bianche e quelle nere. Nel 1968 è tra i protagonisti del commosso tributo alla memoria di Woody Guthrie che si svolge alla Carnegie Hall di New York e l’anno dopo entra nella leggenda aprendo con la sua Freedom il Festival di Woodstock. Gli anni Settanta lo vedono ancora sulla cresta dell’onda con una serie di album di qualità e con canzoni come l’indimenticabile Going back to my roots o la curiosa versione della beatlesiana Here comes the sun. Parallelamente all’attività discografica e concertistica sperimenta altre forme espressive, dedicandosi in particolare al teatro. Nel 1972 partecipa alla messa in scena sui palcoscenici statunitensi dell’opera rock Tommy e due anni dopo indossa i panni d’Otello nel musical Catch my soul. Con l’arrivo degli anni Ottanta inizia la sua parabola discendente anche se non sparirà mai del tutto dalla scena. Pubblica qualche album e spesso si ritrova a dare una mano in sala di registrazione ai suoi vecchi compagni del Greenwich Village, in particolare a Bob Dylan, ma gli anni d’oro e gli ideali di rivolta sono ormai lontani. Muore a Jersey City il 22 aprile 2013.



20 gennaio, 2023

20 gennaio 1889 – Leadbelly, un rissoso, irascibile e violento cantastorie

Il 20 gennaio 1889 nasce a Mooringsport, in Louisiana Huddie William Leadbetter, più conosciuto con il nomignolo di Leadbelly, uno dei grandi interpreti del blues rurale. Negli anni dell’adolescenza racconta storie e saghe popolari agli angoli delle strade accompagnandosi con il windjammer, una sorta di rudimentale fisarmonica. Passa poi alla chitarra suonando con Bud Coleman e Jim Fagin nelle feste e nelle cerimonie delle varie città del Sud degli Stati Uniti. A differenza degli altri cantastorie blues da strada, lui non si sente una vittima predestinata delle violenze di chi considera i musicisti itineranti come straccioni da insultare e qualche volta picchiare per divertimento. Non porge mai l’altra guancia e risponde a qualunque tipo di provocazione. Rissoso, irascibile e violento per tre volte viene condannato a scontare pene detentive di varia lunghezza. La prima condanna arriva nel 1917 quando uccide un uomo che l’aveva aggredito a New Boston, nel Texas, la seconda nel 1930 ad Angola per aver lasciato malconcio un suo interlocutore e l’ultima nel 1940 all'isola di Riker per aver dato il suo fattivo contributo a una sanguinosa rissa. Ogni volta, però, riesce a non scontare interamente la pena grazie a varie provvidenziali amnistie e riprende a girovagare suonando da solo o in compagnia di altre figure leggendarie del blues come Blind Lemon Jefferson, Sonny Terry o Brownie McGhee. Nel 1934, dopo un’amnistia che lo libera dalla necessità di scontare la sua seconda condanna viene letteralmente sequestrato da John Lomax, un ricercatore dell’archivio delle tradizioni popolari della Biblioteca del Congresso, che lo porta a New York e lo convince a registrare più di cento brani. Nella seconda metà degli anni Quaranta, dopo aver lasciato per la terza e ultima volta il carcere sembra trovare finalmente una sua dimensione grazie a un altro ricercatore, Frederic Ramsey, che gli procura un contratto con la Capitol. Nel 1949 l’università di Austin, in Texas, gli offre la conduzione di un seminario di studi riconoscendo la serietà della sua ricerca poetica e musicale, ma Leadbelly non potrà portare a termine l’incarico. Il 6 dicembre dello stesso anno, infatti, muore a New York. Il suo fisico, minato dalla poliomielite, non ce la fa a superare l’ennesima sfida. Pochi mesi dopo gli Weavers del “comunista” Pete Seeger porteranno al successo la sua Good night Irene.


19 gennaio, 2023

19 gennaio 1980 – Piero Ciampi, cantautore

Il 19 gennaio 1980 in un clinica romana un cancro alla gola chiude la vita e la carriera di Piero Ciampi, uno dei più grandi cantautori italiani. Livornese, anticonformista, innamorato dell’alcol più che di se stesso ha compiuto da quattro mesi quarantacinque anni. Amato dagli artisti, ma per lungo tempo sconosciuto al grande pubblico, deve alla sua indolenza e alla sua incapacità a gestire un rapporto normale con l’ambiente musicale gran parte dei suoi guai. Alla fine degli anni Cinquanta va a Parigi per cantare nei locali del Quartiere Latino, dove si fa chiamare Piero Litaliano (senza apostrofo), nome con il quale firma poi anche il primo singolo pubblicato in Italia nel 1963, Lungo treno del sud. Dalla Francia se ne va in Spagna, poi in Inghilterra e quindi in Irlanda, sempre alla ricerca di qualcosa che non troverà mai: il gusto della vita. Autore fecondo, ma incostante, scrive brani dalle atmosfere jazzate in cui la voce, che anno dopo anno si fa più roca, recita più che cantare canzoni evocatrici d’immagini ricche di emozione che sembrano però non piacere al pubblico della musica leggera di quegli anni. In più le case discografiche faticano a comprendere la sua incapacità di tenere fede agli impegni. Per questa ragione occorre aspettare fino al 1970 per vedere pubblicato il suo secondo singolo Tu no, destinato a vendere pochissime copie ma capace di entusiasmare un navigato chansonnier come Charles Aznavour che vuole al suo fianco il cantautore livornese in uno special televisivo. L’anno dopo la critica premia una raccolta di brani pubblicata con il titolo Piero Ciampi come miglior album dell’anno, ma ancora una volta rimane un fatto elitario, isolato ed episodico. Nel 1975, dopo il successo della canzone Andare camminare lavorare sembra che il grande pubblico riconosca finalmente la qualità del suo lavoro ma è troppo tardi. Ciampi, ormai completamente schiavo dell'alcool, non è più in grado di esibirsi in pubblico senza perdere il controllo di se stesso. Dopo la sua morte l’aria “maudit” che circonda il suo personaggio ne farà un artista di culto e, un po’ tardivamente, la sua casa discografica pubblicherà un’intera raccolta delle sue canzoni, compresi alcuni inediti a suo tempo rifiutati perché “improponibili”. Meno interessata sarà l’iniziativa di un gruppo di artisti che gli hanno voluto bene quand’era in vita, come Lucio Dalla, Gino Paoli e Nada. Saranno loro a riproporre gran parte delle sue canzoni in un lungo concerto al Teatro Argentina di Roma.




18 gennaio, 2023

18 gennaio 1980 – L'arresto dell'oltraggiosa Wendy dei Plasmatics

Il 18 gennaio 1980, dopo un devastante concerto a Milwaukee, i Plasmatics sono attesi dalla polizia. Un robusto cordone di agenti, infatti, è incaricato di arrestare Wendy O. Williams, la cantante del gruppo, con l'accusa di atti osceni in luogo pubblico. Si teme che la reazione della ragazza possa provocare incidenti tra il pubblico, ma la front woman dei Plasmatics si lascia portar via senza opporre resistenza. Non è la prima volta e non sarà neanche l'unica per la bionda e roca leader di una band per la quale il termine "hardcore" non è soltanto la definizione di uno stile musicale derivato dal punk. I loro concerti sono una costante provocazione per i benpensanti, con Wendy che sommerge il pubblico di brani violentemente allusivi con una gestualità ricca di espliciti richiami erotici, tutti sostenuti da una musica violenta e devastante. Non a caso i Plasmatics sono considerati una delle band di punta del nuovo punk che porta ai limiti estremi le provocazioni dei loro fratelli maggiori. La loro prima formazione, del 1979, comprende, oltre a Wendy, i chitarristi Richie Stotts e Wes Beech, il bassista Jean Beavouir, il batterista Stu Deutsch e il sassofonista Sierra. I loro concerti attirano l'attenzione del pubblico dei circuiti alternativi, orfano dei New York Dolls e in breve si ritrovano scritturati dalla Stiff Record. L'impatto spettacolare della band e i ripetuti arresti di Wendy fanno il resto anche se la critica storce un po' il naso rilevando che, dal punto di vista musicale, la loro non è una lezione nuova né innovativa. I primi album per la Stiff tra cui Metal Princess, il loro miglior disco in assoluto, attirano, alla fine del 1981, l'attenzione della Capitol che è convinta di poterne imbrigliare gli eccessi e sfruttarne meglio l'appeal commerciale. In realtà la band è già in preda a convulsioni interne, ma i soldi l'aiutano a ritrovare l'armonia. Il miglior momento è, però, passato e l'album Coup d'etat appare troppo rifinito e studiato a tavolino per essere vero. Perso lo smalto degli inizi i Plasmatics tenteranno di sopravvivere, ma poi prenderanno atto della realtà e si lasceranno, non senza liti. Ciascuno andrà per la sua strada. Il primo a tornare in sala d'incisione sarà Jean Beavouir, la cui avventura solistica non mancherà di esperienze interessanti. Meno interesse, nonostante le attese, susciteranno invece le performance come cantante solista di Wendy, sempre più prigioniera del ruolo da provocatrice sessuale che le hanno assegnato i media. Il suo destino è ricco di poche luci e molte ombre. La ragazza impossibile si suiciderà il 6 aprile 1998.




17 gennaio, 2023

17 gennaio 1962 – Lo scandalo di Fiumicino

Il 17 gennaio 1962 la Camera dei Deputati discute su un caso che i giornali hanno già chiamato “lo scandalo di Fiumicino”. Quello che era stato presentato come il più grande aeroporto d’Italia, inaugurato con grande solennità il 20 agosto 1960 in occasione delle Olimpiadi di Roma, pochi mesi dopo è tormentato da vari problemi d’agibilità. Le varie inchieste appurano che è stato costruito con materiali di pessima qualità su terreni paludosi di cui non è stato neppure previsto il drenaggio. I prezzi pagati per i terreni sono stranamente lievitati così come quelli delle opere, affidate a licitazione privata e non con appalti pubblici per l’urgenza di terminare l’aeroporto prima dell’apertura dei giochi olimpici. Il dibattito alla camera mette in evidenza che le spese previste per i lavori sono aumentate del 250% nonostante l’utilizzo di materiali scadenti. Come spesso accade in Italia, nonostante le polemiche anche aspre tutto finirà praticamente in nulla.


16 gennaio, 2023

16 gennaio 1965 – La prima volta di Georgie Fame

Il 16 gennaio 1965 Georgie Fame e i Blue Flames arrivano al vertice della classifica britannica con il brano Yeh yeh. Per il cantante, che all'anagrafe si chiama Clive Powell, è un momento magico che culmina con l'assegnazione del titolo di "nuovo cantante dell'anno". Il ragazzo è una novità per il grande pubblico, ma non per gli appassionati del rock blues che lo conoscono e lo amano fin dal suo debutto al Flamingo Club con la prima formazione dei Blue Flames composta dal chitarrista Colin Green, dal batterista Red Reece e dal bassista Tex Makins. L'apporto della band, nella quale suoneranno, in momenti diversi, personaggi destinati a diventare famosi come il chitarrista John McLaughlin o il batterista Mitch Mitchell, è fondamentale nella crescita artistica di Georgie Fame, anche se la ragione principale del successo è da ricercare nel timbro particolare della voce e nella sua personale interpretazione del rhythm and blues. Dopo la pubblicazione del primo album R&B at The Flamingo la sua crescita è lenta ma progressiva. Brani come Get away, Sunny e l'album Sweet thing ne consolidano la popolarità. L'exploit commerciale, in parte inaspettato, di Yeh yeh sembra premiarne l'impegno e la coerenza stilistica, ma è destinato a determinare una svolta inaspettata nella sua linea musicale. Nel 1966 scioglierà i Blue Flames, firmerà un contratto discografico con la CBS e volterà le spalle al blues rock delle origini per abbracciare un genere decisamente commerciale. Con The ballad of Bonnie and Clyde scalerà le classifiche di vendita di tutto il mondo diventando un ricco e celebrato interprete del pop. Anche la sua immagine muterà. Il bluesman dalla voce roca e dall'aria trasandata lascerà il posto a un cantante alla moda e uno showman di successo, con spettacoli come "One man and his music", presentato al Mayfair Theatre di Londra, la cui pregevole fattura sarà lontana anni luce dalle fumose atmosfere del Flamingo. Scoprirà anche sulla sua pelle quanto sia volatile il successo nel mondo del pop internazionale. Con il passare delle mode e l'emergere di nuovi personaggi finirà per trovarsi ai margini del music business. Verso la metà degli anni Settanta tenterà un'operazione nostalgica, riformando i Blue Flames con una formazione completamente rinnovata, a eccezione del "vecchio" Colin Green, ma non basterà a recuperare l'amore tradito dei suoi vecchi fans.


15 gennaio, 2023

15 gennaio 1991 – Il suono della pace e il rombo dei bombardieri

Il 15 gennaio 1991 scade l’ennesimo ultimatum imposto dall’ONU su pressione degli Stati Uniti a Saddam Hussein perché ritiri le sue truppe dai territori del Kuwait occupati militarmente nel mese d’agosto del 1990. Sugli anni Novanta, presentati come l’inizio di un’era di pace dopo la fine della Guerra Fredda, si addensano cupi clamori di guerra, mentre In tutto il mondo i pacifisti sono mobilitati per scongiurare le minacce di un nuovo conflitto. Ormai la gigantesca macchina da guerra approntata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali, Italia compresa, sembra pronta a partire. Per la prima volta le truppe statunitensi mettono piede nel Medio Oriente, un’area considerata strategicamente decisiva per le risorse energetiche, e in molti pensano che questa sia la vera ragione dell’intervento. Nessuno più è disposto a scommettere su una conclusione pacifica della vicenda, preceduta da una massiccia campagna d’immagine volta a convincere l’opinione pubblica di tutto il mondo occidentale della “ineluttabilità” della guerra. Molti artisti del rock e del pop internazionale si schierano con le “ragioni” dell’intervento. Una piccola pattuglia di musicisti, però, non ci sta e decide di passare al contrattacco. Per iniziativa di Lenny Kravitz, uno dei più geniali personaggi della scena musicale statunitense, e di Sean Lennon, il figlio di John, alcuni artisti si ritrovano in studio di registrazione per realizzare una sorta di “manifesto musicale” contro la guerra. Il brano scelto è Give peace a chance di John Lennon. Il manipolo di “cospiratori per la pace”, come amano definirsi, è composto, oltre da Kravitz e Sean Lennon, da un gruppo ristretto in cui spiccano i nomi di Iggy Pop, Tom Petty, Randy Newman e Dave Stewart degli Eurythmics. Prendono contatto con varie emittenti e decidono di far coincidere la diffusione della canzone con la scadenza dell’ultimatum a Saddam Hussein. Accade così che nella notte del 15 gennaio, mentre si alzano in volo i primi aerei destinati a bombardare il territorio irakeno, migliaia di emittenti radio di tutto il mondo diffondono, quasi in contemporanea, il brano che chiede di «Dare una possibilità alla pace». Non fermano i bombardamenti ma marcano un dissenso. Visto il periodo e il clima non è poco.




14 gennaio, 2023

14 gennaio 1985 – Gli Squeeze tornano sui loro passi

Il 14 gennaio 1985, a tre anni dalla loro separazione, tornano a esibirsi in pubblico gli Squeeze, una delle band britanniche di maggior successo alla fine degli anni Settanta e nei primi Ottanta. L’occasione per l’eccezionale riunione viene da un concerto di beneficenza che si svolge a Catford. Si ritrovano così sul palco i chitarristi Glenn Tilbrook e Chris Difford, il batterista Gilson Lavis e il tastierista Julian “Jools” Holland. L’unico componente storico della band che rifiuta di aderire all’iniziativa è il bassista Harry Kakoulli, sostituito sul palco da Keith Wilkinson. Inutile dire che l’annunciata reunion provoca una sorta di rimpatriata generale dei fans del gruppo che affollano fin dalle prime ore della giornata il luogo destinato a ospitare il concerto. Sembra un fatto occasionale, ma non è così. Il successo dell’esibizione, le emozioni e le sollecitazioni del pubblico sortiscono il miracolo di convincere la band a continuare. Riprende così il suo cammino il gruppo nato nel 1974 a Deptford e che aveva pubblicato solo nel 1976 il primo disco Packet of three, prodotto da John Cale per l'etichetta indipendente Deptford Fun City. Lo stesso Cale figura anche tra i produttori del primo album pubblicato da una major, la A&M, intitolato semplicemente Squeeze. Forti di un ristretto ma affezionato gruppo di fans e adorati dalla critica i cinque arrivano al successo alla fine degli anni Settanta con brani come Cool for cats, Up the junction e Slap and tickle. Problemi di rapporti interni e l’accoglienza freddina riservata all'album Sweets from a stranger ne determinano, però, il prematuro scioglimento nel 1982. Tilbrook e Difford si dedicano alla composizione firmando vari lavori tra cui il musical "Labelled with love". Sembra davvero tutto finito quando il concerto di Catford, inaspettatamente, ridà nuova linfa ai componenti del gruppo che ritrovano motivazioni ed entusiasmo e pubblicano un album ricco di spunti interessanti dal singolare titolo in italiano: Così fan tutti frutti. Il successo di Babylon and on e del singolo Hourglass faranno il resto. La band, nonostante la defezione di Holland, che alla fine del 1989 se ne andrà e verrà sostituito dal tastierista Matt Irving, confermerà la sua solidità e il suo valore anche negli anni Novanta.


13 gennaio, 2023

13 gennaio 1973 – Un concerto per togliere dai guai Eric Clapton

«Il ragazzo è cotto. Dovremmo dargli una mano!» Così, alla fine del 1972, Pete Townshend, il chitarrista degli Who chiama a raccolta un nutrito gruppo di amici perché gli diano una mano a convincere Eric Clapton a tornare sulle scene. Da un anno, infatti, Eric “slowhand”, manolenta, come è soprannominato per la sua capacità di suonare la chitarra trattenendo a lungo le note, si è chiuso in una sorta di cupo esilio volontario, ufficialmente per disintossicarsi. Se la passione per l’eroina e per l’alcool lo stava portando alla tomba, la solitudine e l’isolamento non solo non risolvono i problemi, ma rischiano di perderlo per sempre. L’ultima sua esibizione, se così si può chiamare, risale alla fine del 1971 quando è salito sul palco del concerto londinese di Leon Russel e ha strapazzato la chitarra in un paio di brani. Da quel momento su di lui è sceso un silenzio innaturale. Le insistenze di Pete Townshend sortiscono l’effetto desiderato. Il 13 gennaio 1973, sul palcoscenico del Rainbow di Londra, Eric Clapton torna ufficialmente in concerto. Townshend ha fatto le cose per bene. La band che accompagna il suo ritorno schiera, oltre allo stesso Townshend, musicisti del calibro di Ron Wood, Steve Winwood, Rich Grech, “Reebop” Kwaku Baah e Jimmy Karstein. Ospite d’eccezione, con l’incarico di scaldare il pubblico prima del concerto è l’Average White Band. L’esibizione, nonostante il successo, non scuote dal torpore Eric Clapton che, lungi da risolvere i suoi problemi di tossicodipendenza, ripiomba nell’abulia più totale. La musicoterapia non funziona. Ci vorrà ancora un anno e una lunga permanenza nella fattoria di un amico in Galles perché il chitarrista si senta nuovamente pronto a ritornare davvero in attività. L’esibizione del 13 gennaio serve a risolvere però i problemi della sua casa discografica che, indifferente al dramma di Eric, pensa più che altro alla necessità di immettere almeno un nuovo disco sul mercato prima che il pubblico si dimentichi di lui. Il concerto fornisce materiale sufficiente alla pubblicazione di un album live, Eric Clapton’s Rainbow concert, che, nonostante lo scarso valore artistico, resta la drammatica testimonianza di uno dei periodi più neri della vita personale e artistica del musicista britannico.


12 gennaio, 2023

12 gennaio 1956 – Il ragazzo prodigio del jazz spagnolo

Il 12 gennaio 1956 nasce a Ecija, in Spagna, l'organista Benjamin Leon. La vita gli si presenta subito come una lunga strada in salita. Quando ha appena un anno una rara malattia infantile gli spegne per sempre la luce degli occhi. Tre anni dopo la famiglia si trasferisce a Barcellona e il bambino scopre nel mondo della musica nuove sensazioni. I genitori, che non navigano nell’oro, cercano di assecondare la sua passione, ma non possono permettersi il lusso di costosi maestri privati. L’amore per i suoni resta la sua guida principale fino a undici anni, quando inizia frequentare un corso di solfeggio. Le sue qualità istintive non sfuggono ai docenti che lo spingono verso la scuola di musica Ars Nova. La passione per la musica non gli impedisce di compiere studi regolari tanto che frequenterà la facoltà di filosofia, diplomandosi in psicologia. I genitori lo assecondano ai limiti delle loro possibilità. Ha sedici anni quando gli regalano il primo, vero, organo da professionista. Pochi mesi dopo dà il primo concerto al Forum Vergès di Barcellona entusiasmando pubblico e critica. Da quel momento la città catalana diventa il palcoscenico ideale della sua genialità che attinge a una formazione jazzistica quasi esclusivamente autodidatta. Quando viene interpellato sulle ragioni delle sue scelte stilistiche, Benjamin risponde che i suoi maestri principali sono stati i... dischi, anche se non manca di riconoscere l’importanza del contatto diretto con alcuni musicisti, fra i quali Lou Bennett e Tete Montoliu. I concerti al Cova del Drac di Barcellona testimoniano di una progressiva maturità tecnica e stilistica che trova la sua consacrazione quando a diciannove anni, nel 1975, in occasione del Festival del jazz di Vandrell, si ritrova sul palco insieme a un “mostro sacro” come Illinois Jacquet in una jam session destinata a diventare un punto fermo nella sua leggenda personale. Ad appena vent’anni si ritrova, nelle classifiche delle riviste specializzate, a competere con i migliori jazzisti del mondo. Nonostante le ricche offerte, non si esibisce volentieri fuori dai confini della Spagna, paese nel quale il suo nome diventa uno degli elementi fondamentali di una straordinaria diffusione del jazz. Locali come la Cave de Jazz di Tarrasa, il Satchmo di Barcellona e il Balboa Jazz di Madrid saranno il supporto per un ulteriore crescita della sua popolarità e anche la radio e la televisione gli offriranno spazi mai concessi prima a jazzisti spagnoli.