30 settembre, 2024

30 settembre 1950 – Renato Fiacchini in arte Zero


Il 30 settembre 1950 nasce a Roma Renato Fiacchini, destinato a ottenere un notevole successo con il nome di Renato Zero. Deciso a sfruttare l’immagine di personaggio ambiguo, sullo stile del David Bowie del periodo glam, debutta come cantante nel 1974 con l'album No mamma no, seguito l’anno dopo da Invenzioni. Dotato di grande carisma diventa protagonista, in breve tempo, di un vero e proprio culto di massa che decreta il successo delle sue canzoni e l'affollamento fino all'inverosimile dei suo spettacoli. Dopo Trapezio del 1976, gli album Zerofobia del 1977 e Zerolandia dell’anno dopo segnano la sua definitiva consacrazione tra i grandi della musica italiana. I suoi fans, da lui chiamati "sorcini" lo considerano il capo di una grande famiglia che viene raccolta sotto il tendone dei suoi spettacoli. I suoi successi di questo periodo non si contano. Verso la metà degli anni Ottanta il suo personaggio pare declinare, con l'affermarsi di nuovi miti e nuove mode musicali. Addirittura il 30 settembre del 1990 dichiara la sua intenzione di esibirsi per l'ultima volta in un grande concerto, ma non mantiene la parola. L'anno dopo, infatti, va al Festival di Sanremo dove presenta Spalle al muro, un brano scritto per lui da Mariella Nava che segna, a pochi mesi di distanza, un nuovo inizio della sua carriera. Nel 1995, recuperata la sua antica voglia di stupire torna a esibirsi in un lungo tour tutto esaurito. È un nuovo inizio.


29 settembre, 2024

29 settembre 1924 – Quell'Armstrong lì non è male alla tromba....

Il 29 settembre 1924 il Roseland Ballroom di New York, il locale da ballo più prestigioso della metropoli statunitense, ha in cartellone l’orchestra di Fletcher Henderson. In sé non è un evento particolare. Pur essendo una band popolarissima in quel periodo, infatti, l’orchestra di Henderson è quasi di casa al Roseland, per cui la sua esibizione non suscita particolare entusiasmo fra gli abituali frequentatori del locale. Accolta dagli applausi di rito la band parte con sua sigla, ma i più attenti si accorgono che c’è una novità nella formazione. Si tratta di un giovane trombettista nero cui Henderson lascia nel corso della serata sufficiente spazio per mettersi in mostra. Il suo nome è Louis Daniel Armstrong e ha da poco compiuto ventiquattro anni. Originario di New Orleans, città dove la musica è quasi un elemento costitutivo come l’aria o l’acqua del Mississippi, ha mosso i suoi primi passi sotto la guida di Mr. Davis, un maestro di musica molto famoso nei primi anni del Novecento. Armstrong arriva a New York da Chicago, città nella quale si è trasferito quando è stato ingaggiato dalla Creole Jazz Band di King Oliver. Proprio nel gruppo di Oliver ha incontrato la pianista Lil Hardin, un personaggio chiave della sua vita che si è innamorata di lui e lo ha aiutato a migliorare il suo patrimonio tecnico perfezionandone lo stile e la padronanza dello strumento. L’Armstrong che debutta il 29 settembre al Roseland Ballroom è un artista sicuro di sé e che ha ben chiari in testa gli obiettivi da raggiungere. La sua presenza, però, crea non pochi problemi a un gruppo orchestrale composto in gran parte da permalosi e affermati solisti come Buster Bailey, Charlie Green, Don Redman e Coleman Hawkins. Soprattutto quest’ultimo che, malgrado la giovane età, è già protagonista delle scene musicali di Broadway non accoglie con entusiasmo l’arrivo di Louis. Fortunatamente non la pensa così il capo-orchestra Fletcher Henderson, abituato a lavorare con grandi artisti e impermeabile ai mugugni. È lui che ha proposto ad Armstrong di entrare nel suo gruppo. Ne intuisce le qualità e lo stima al punto da lasciargli, fin dalla serata del debutto, uno spazio vocale. Proprio il 29 settembre, infatti, per la prima volta nella sua carriera Louis Armstrong si esibisce in un breve inserto vocale nel brano Everybody loves my baby.



28 settembre, 2024

28 settembre 1985 – Torna Kate Bush, la donna del mistero

Il 28 settembre 1985 l’album Hounds of love riporta Kate Bush al vertice della classifica dei dischi più venduti in Gran Bretagna. Ci resterà per più di un mese. Il disco ripropone la “donna del mistero” della musica britannica dopo tre anni d’assenza e di silenzio. Nata il 30 luglio 1958 a Bexleyheat, nel Kent, Catherine “Kate” Bush viene descritta dalle biografie ufficiali come una sorta di bambina prodigio che passa il suo tempo tra il pianoforte e i libri. In realtà, come dice lei con ironia, ascolta anche i dischi dei T. Rex di Marc Bolan ma «non si può dire, altrimenti crolla il mito». Ha solo quindici anni quando invia una cassetta con alcune sue canzoni a David Gilmour, il chitarrista dei Pink Floyd, che la fa ascoltare ai talent scout della sua casa discografica. Nonostante la giovane età ottiene il suo primo contratto discografico che la costringe a frequentare lezioni di piano e di canto, oltre che i corsi di danza di Lindsay Kemp. Nel 1977 tutto è pronto per il suo debutto. La ragazza, non sopporta però di sentirsi un pollo d’allevamento e rifiuta le imposizioni. «Sono una donna, non uno stupido disco. Canto solo ciò che mi convince!» Più volte il rapporto tra lei e i discografici arriva al limite della rottura e il suo primo disco vede la luce solo nel gennaio del 1978. Valeva la pena di aspettare tanto! In piena epoca punk infatti la sua interpretazione della romantica Wuthering heights conquista il vertice della classifica. Il ruolo della popstar però non fa per lei. Dopo un faticoso tour nel 1979 decide di non fare più concerti alimentando la leggenda della “donna del mistero” dal carattere chiuso e scontroso. Il rapporto con il pubblico è delegato a una serie di splendidi video-clip di cui spesso firma sceneggiatura e regia. Straordinari esempi della sua genialità creativa sono Babooshka nel 1980 e di Running up that hill nel 1985, che vede la partecipazione dell’attore Donald Sutherland. L’album Hounds of love segna una svolta nella sua carriera artistica. Nel tentativo di soddisfare una perenne irrequietezza artistica e l’ansia di percorrere strade nuove la sua voce si comporta come se fosse uno strumento sonoro e nelle atmosfere ritmate e aggressive dei brani il timbro non esita a farsi cupo per dare corpo a foschi e ossessivi deliri. Sono parti dell’evoluzione di un genere molto personale che verrà definito “lirismo rock” da critici senza fantasia.

27 settembre, 2024

27 settembre 1966 – Jovanotti, l'evoluzione

Considerato agli esordi poco più di una geniale invenzione dell’industria discografica e bersagliato come l’interprete della superficialità disimpegnata degli anni Ottanta, Jovanotti riesce, nel tempo, ad affinare la sua tecnica e a riempire i suoi brani di contenuti, fino a diventare interprete impegnato e colto, senza mai perdere il successo commerciale. Il suo vero nome è Lorenzo Cherubini e nasce a Roma il 27 settembre 1966. Inizia giovanissimo a lavorare come disc jockey e conduttore radiofonico. Nel 1987 debutta come cantante su suggerimento di Claudio Cecchetto che lo convince a interpretare brani disimpegnati che si rivolgono a un pubblico di adolescenti come 1...2...3... casino, Siamo o non siamo un bel movimento? , Go Jovanotti go e Gimme Five. Nel 1988 pubblica l'album Jovanotti for president che vende più di cinquecentomila copie e fa di lui uno dei più grandi fenomeni commerciali della fine degli anni Ottanta. Nel 1989 partecipa al Festival di Sanremo con l'ironica Vasco, una rassicurante e un po' codina presa in giro di Vasco Rossi, cui segue l'album La mia moto, un disco in cui la dance music lascia trasparire qua e là riferimenti alla cultura hip hop, non sufficienti però a conquistare il pubblico più esigente che vede in lui un simbolo della superficialità degli anni Ottanta. Non a caso il brano che dà il titolo all’album viene ripreso dal gruppo ragamuffin veneto dei Pitura Freska che lo incidono con un nuovo testo pesantemente ironico nei confronti del cantante. Nel 1990 realizza l'album Giovani Jovanotti cui collaborano musicisti come Keith Emerson, Billy Preston, Mick Talbot, Pino Palladino e i Memphis Horms, che segna una svolta nella sua carriera. A partire dal 1991 con l’album Una tribù che balla la sua produzione si fa via via più matura e ricca sia dal punto di vista musicale che da quello dei contenuti. Nonostante qualche problema di credibilità, soprattutto all’inizio degli anni Novanta, a lui va riconosciuto l'indubbio merito di aver saputo fondere in modo efficace l’esperienza della canzone italiana con le nuove tendenze della musica internazionale, contribuendo a un grande rinnovamento generazionale della musica popolare del nostro paese.


26 settembre, 2024

26 settembre 1991 – I Pogues con sorpresa a New York

Il 26 settembre 1991 i cronisti guardano divertiti il pubblico che si accalca davanti ai botteghini del Beacon Theatre di New York. Sembra che si siano dati convegno i tipi più strani. C’è il cinquantenne rubizzo con la maglietta verde dell’Irlanda accanto al giovane punk un po’ démodé con i capelli a cresta e alla ragazza vestita con la bandiera scozzese. Le giacche, le cravatte, le scarpe lucidate di fresco e gli abiti lunghi da grande occasione si mescolano con indifferenza a minigonne, calzoni da jogging, scarpe da ginnastica e anfibi militari. L’occasione per l’insolito e stravagante raduno non è una festa mascherata, ma il primo di due concerti annunciati da tempo dei Pogues, una band britannica nata dalla ceneri del punk che propone un folk rock ruvido e singolare, una sorta d'incrocio tra generi diversi, dal rockabilly al country, al folk irlandese e scozzese passati attraverso una sorta di tritatutto e riproposti con l’energia del punk dei primi tempi. Il gruppo si forma a Londra nel 1983 con il nome di Pogue Ma Hone (espressione che in gaelico significa «baciami il culo»). Ne fanno parte Shane MacGowan, James Fearnley, Spider Stacy, Jem Finer e Andrew Ranken. Pochi mesi dopo, quando firmano il loro primo contratto discografico con la Stiff, sono costretti a cambiare il nome nel più semplice e meno problematico The Pogues. Ampliano anche la formazione con l’arrivo della bassista Caitlin O'Riordan. La loro attività va di pari passo con l’impegno politico e sociale. Innumerevoli sono i concerti di solidarietà con vari movimenti di liberazione, soprattutto con i sandinisti del Nicaragua, e le iniziative contro il razzismo. Nel 1985 gli ambienti musicali britannici accolgono con un po’ di preoccupazione l’annuncio che il loro secondo album si intitola Rum, sodomy and the lash, una definizione della vita nella marina militare inglese presa a prestito da una frase di Winston Churchill. Naturalmente, nonostante il crescente successo, la vita interna della band è tutt’altro che rose e fiori, tanto che le liti e i cambiamenti nella formazione sono all’ordine del giorno. Il concerto al Beacon Theatre di New York del 26 settembre 1991 segna il ritorno dei Pogues negli Stati Uniti dopo un’assenza di tre anni. Nel breve tour precedente la band aveva colpito il pubblico schierando in formazione a sorpresa, fin dalla prima esibizione, un ospite di riguardo: l’ex chitarrista dei Clash Joe Strummer che aveva irrobustito la scaletta dei concerti con le scatenate versioni di due brani del suo vecchio gruppo come London calling e I fought the law. Per qualche tempo si è parlato di un suo ingresso a tempo pieno nei Pogues, ma l’episodio che non ha avuto seguito e la collaborazione non si è più ripetuta. Qualcuno, però, giura di aver visto Strummer entrare nei camerini del teatro. I giornalisti sono qui soprattutto per quello, ma anche perché, in genere, quando sono di scena i Pogues qualcosa da raccontare c’è sempre. Con notevole ritardo e con la faccia furba della grandi occasioni Shane MacGowan si presenta sul palco. Rivolto alla platea annuncia con aria solenne: «Ascoltando la nostra musica potete capire quanto a noi piacciano le belle tradizioni. Nel tour precedente avevamo invitato a suonare con noi un amico come ospite provvisorio. Una di quelle teste calde del punk, un tipo un po’ strano che si chiamava Joe Strummer. Ve lo ricordate? Per restare fedeli alla tradizione anche questa volta abbiamo una sorpresa, ma non si tratta di un ospite. È uno strumentista destinato a restare a lungo con noi. La grande famiglia dei Pogues ha un nuovo componente. Accoglietelo bene, mi raccomando, è un pivellino timido e ha bisogno di essere incoraggiato!» Inutile dire che si tratta sempre di Joe Strummer. MacGowan non ha mentito sull’intenzione del chitarrista di far parte a tempo pieno del gruppo, ma il suo pacato discorsetto iniziale non può evitare che l’arrivo dell’ex Clash apra qualche crepa nei rapporti interni. La prima vittima di questa situazione è proprio lui: MacGowan. Due mesi dopo, infatti, si ferisce seriamente in Giappone mentre sta smaltendo i postumi di una colossale sbronza a base di sakè. Preoccupati dall’imminente avvio di un lungo tour britannico, i Pogues chiedono a Strummer di assumere la leadership del gruppo in attesa del ritorno di MacGowan. Joe accetta e l’altro, offeso, annuncia ai quattro venti l’intenzione di lasciare quegli ingrati dei suoi ex compagni e di continuare come cantante solista. Nessuna delle decisioni prese sarà definitiva e la formazione del gruppo cambierà spesso e volentieri perché quando si tratta dei Pogues non c’è mai niente di definitivo.

25 settembre, 2024

25 settembre 1965 – L’exploit dei Walker Brothers

Il 25 settembre 1965 i Walker Brothers arrivano al vertice della classifica britannica dei dischi più venduti con la loro versione di Make it easy on yourself, un brano composto nel 1962 da Burt Bacharach ed Hal David. Il trio statunitense formato l’anno prima da Scott Engel, John Maus e Gary Leeds ribattezzatisi per reggere la finzione dei “fratelli Walker” con i nomi d’arte di Scott Walker, John Walker e Gary Walker mostra ancora una volta che nessuno è profeta in patria. Lasciati gli States per cercare fortuna oltreoceano ottengono un successo quasi immediato. Pochi mesi dopo l’exploit di Make it easy on yourself si ripetono con My ship is coming in e, soprattutto, The sun ain' gonna shine anymore pubblicata nel 1966 e considerata ancora oggi la loro miglior canzone, oltre che uno dei migliori dischi degli anni Sessanta. Nonostante i risultati i Walker Brothers poco dopo aver pubblicato l'album Images decideranno nel 1967 di separarsi per continuare ciascuno per proprio conto, mettendo così fine a un gruppo destinato probabilmente a durare ancora per molto tempo con successo. Nessuno dei tre componenti riuscirà a ripetere da solo i risultati della band e sull'onda della nostalgia si riuniranno più volte a partire dal 1975.

24 settembre, 2024

24 settembre 1922 – Marcella Lumini, cantante nonostante i genitori

Il 24 settembre 1922 nasce a Firenze la cantante Marcella Lumini. Forse la sua vita artistica sarebbe stata diversa se i genitori, appartenenti alla buona borghesia fiorentina, non le avessero proibito di studiare lirica ritenendo quel tipo di studi e di professione disdicevoli per una ragazza di buona società. Nonostante tutto la ragazza riesce a strappare alla madre il permesso di prendere lezioni private di canto e nel 1941 se ne va a Roma per sostenere un provino dell’EIAR. La sua interpretazione di Domani la rivedrò, un brano di Pippo Barzizza portato al successo da Natalino Otto, entusiasma il maestro Vallini che le procura un contratto per cantare ai microfoni della radio con l'orchestra di Armando Fragna. In questo periodo si innamora del batterista Marcello Valci che diventa suo marito. Alla fine del 1944 decide di chiudere con la canzone per dedicarsi a una famiglia che diventerà numerosa. La decisione non è definitiva. Torna infatti sui suoi passi per un breve periodo negli anni Cinquanta quando si esibisce con l’orchestra del marito e, sotto la guida di Eros Sciorilli registra alcuni dischi per la Fonit. Tra le sue interpretazioni sono da ricordare Son tutti fiori, Tiemme abbracciata a te, Cuci cuci ed È tanto bello. Muore a Roma nel 2009.

23 settembre, 2024

23 settembre 1970 - Bourvil, il "povero diavolo"


All’una di notte del 23 settembre 1970 a Parigi chiude gli occhi e se ne va Bourvil. Il povero diavolo un po’ stordito che il mondo intero ha conosciuto sullo schermo come compagno d’avventure di Louis De Funés è soltanto una parte, universalmente più nota, della grande versatilità artistica di un uomo che è stato amico e ammiratore di Georges Brassens. Il rapporto di Bourvil con la canzone è solido e duraturo, non un flirt stagionale nato sull’onda di un periodo di particolare effervescenza e non è un caso se ancora pochi mese prima di morire registra con Jacqueline Maillan un’esilarante parodia della famosa Je t’aime, moi non plus, il successo della coppia formata da Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Ed è proprio la musica la compagna inseparabile con la quale divide ogni istante della sua vita, dagli esordi nei cabarets negli anni dell’occupazione, al grande successo cinematografico, fino ai giorni della malattia che lo porterà alla morte. Bourvil nasce il 27 luglio 1917 a Prétot-Vicquemare e viene registrato all’anagrafe con il nome di André Robert Raimbourg. Quando la madre lo mette al mondo suo padre è lontano, richiamato al fronte per combattere una guerra assurda e sanguinosa che i posteri chiameranno prima Guerra Mondiale. Come centinaia di migliaia di suoi compagni lascia sogni, speranze e, soprattutto, la vita nelle trincee. Non torna più. Suo figlio André cresce così a Bourville, un paese della Normandia, orfano senza aver mai neppure conosciuto l’uomo che gli ha dato il cognome. A scuola se la cava con facilità. Dotato di un’intelligenza vivace e di una memoria di ferro riesce a eccellere abbastanza agevolmente nelle materie di studio, nonostante dal punto di vista disciplinare le autorità scolastiche abbiano più di una riserva sul suo comportamento. Gli piace fare il buffone per i suoi compagni e non disdegna di esibirsi nelle feste scolastiche anche se, come racconta lui stesso, «...avevo dieci, undici anni e talvolta intonavo canzoni un po’ troppo salaci e scollacciate...». L’inevitabile arrivo di qualche punizione fa parte dei rischi... artistici. Crescendo impara a suonare prima la fisarmonica e poi la cornetta e si esibisce quando può in canzoni divertenti come Ignace o La caissière du Grand café, “rubate” al repertorio del suo idolo Fernandel. A vent’anni trova modo di unire l’utile al dilettevole prestando servizio militare come ... trombettista nella banda del 24° Reggimento di Fanteria a Parigi. La divisa gli resta appiccicata più del previsto perchè la Germania nazista invade la Francia e l’esercito è mobilitato per resistergli. Non ci sono congedi né licenze e André viene trasferito con il suo reggimento ad Arzacq, sui Pirenei. Qui incontra il fisarmonicista Etienne Lorin destinato a diventare suo amico e compagno d’avventure musicali per lungo tempo. Nel 1940 la Francia si arrende alla ferocia nazista e l’esercito viene smobilitato. André, dopo aver scelto il nome d’arte di Andrel, in omaggio a Fernandel, se ne va a Parigi a cercare fortuna nel mondo dello spettacolo insieme al suo amico Etienne. La musica non basta per vivere e per un po’ il giovane si adatta a fare l’idraulico e altri mestieri. Alla sera si esibisce nei cabarets parigini con spettacoli di gag e canzoni composte insieme all’inseparabile Etienne. Il suo nome d’arte è ormai diventato quello, definitivo, di Bourvil, quasi un omaggio al paese della Normandia che l’ha visto crescere, ma la sua attività nel mondo dello spettacolo resta frenetica, spezzettata e tutt’altro che esaltante. Passa dall’attività di presentatore al Préludes di Pigalle a quella di comico popolare al Libertys e fa l’intrattenitore musicale per il Petit Casino. Proprio la diversità dei ruoli, che in genere rischia di essere un elemento negativo nella scalata verso il successo, finisce per arricchire straordinariamente il suo bagaglio artistico. La prima svolta nella sua carriera arriva quando Pierre-Louis Guérin, l’impresario di Tino Rossi, lo scrittura per il Club, un locale di cui è direttore artistico. Il contratto prevede che Bourvil ci resti per una settimana ma il successo è tale che, di rinnovo in rinnovo, continuerà a esibirsi su quel palcoscenico per quasi un anno! La sua popolarità attira anche l’attenzione di Jean-Jacques Vital, uno dei personaggi più influenti del mondo radiofonico, che lo vuole con sè a Radio Luxembourg. Nel 1946 Bourvil firma il suo primo contratto discografico e registra per la Pathè alcuni monologhi e una serie di canzoni come Timichiné la pou pou e Houpetta la bella, due esempi di ironiche prese in giro della vena esotico-romantica che caratterizza il repertorio di chansonniers come Tino Rossi. Il primo grande successo discografico arriva però con Les crayons, una irresistibile e sarcastica rivisitazione della chanson réaliste il cui testo porta la sua firma e la musica quella del suo inseparabile amico e fisarmonicista Etienne Lorin. Il brano, che Bourvil canta anche nel film “La ferme du pendu” di Jean Dréville, finisce per aprirgli anche le porte del cinema. Nel 1946 il compositore Bruno Coquatrix, futuro direttore dell’Olympia, lo scrittura per una tournée con l’orchestra di Ray Ventura e nello stesso anno Bourvil vede per la prima volta il suo nome sui manifesti come attrazione principale all’ABC al fianco di Georges Ulmer. Ormai divenuto una vedette del music hall debutta con successo anche nell’operetta che in quel periodo è una delle forme spettacolari di maggior successo. Proprio nell’ambiente dell’operetta incontra Pierrette Bruno, la compagna di una serie di duetti indimenticabili, ma anche altri personaggi destinati ad accompagnarlo per gran parte della sua carriera, come Luis Mariano, Georges Guétary o Annie Cordy. La sua immagine comica non aliena da qualche pungente affondo satirico è l’aspetto che maggiormente cattura il pubblico e che regala a Bourvil grandi successi con canzoni come La tactique du gendarme e À bicyclette. In realtà nel suo repertorio non mancano momenti diversi, ricchi di tenerezza e sentimento e spesso sottolineati da interpretazioni di grande suggestione come quelle di Le petit bal perdu, una canzone scritta da Robert Nyel e entrata poi nel repertorio di Juliette Gréco, o La tendresse. All’elenco c’è anche da aggiungere La ballade irlandaise, uno struggente e delicato brano scritto da Emil Stern su un testo di Eddy Marnay che Bourvil interpreta quasi per scommessa visto che nessun altro sa o vuole misurarsi con la sua complessità interpretativa. Il successo inaspettato della sua versione lo spinge ad affiancare sempre più spesso al lato comico del suo repertorio canoro una serie di momenti più riflessivi con canzoni ricche di poesia e talvolta anche di impegno sociale. A ben vedere la sua storia musicale contrasta un po’ con quella del paesanotto cocciuto e pasticcione che ha di lui il pubblico che l’ha conosciuto soltanto nei film di De Funés. Bourvil è un artista vero e, come tale, capace di non farsi condizionare da lusinghe e santificazioni, soprattutto a partire dal dopoguerra quando, grazie al successo, le risorse per vivere non sono più un problema. I suoi strali satirici vengono spesso messi al servizio di cause nobili come quando minaccia di non esibirsi se prima non vengono riconosciute le richieste sindacali dei dipendenti dell’ABC. I suoi spettacoli e le sue canzoni sono un dito puntato contro l’imbecillità e l’arroganza degli uomini, soprattutto di quelli che detengono, magari ingiustamente, posizioni di potere. Nel 1968 si accorge di avere un nemico potentissimo come la Sindrome di Kahler, una malattia mortale che uccide progressivamente attaccando il midollo osseo, ma non si arrende. Resta sulla breccia fino all’ultimo terminando di girare proprio poche settimane prima di morire lo splendido e drammatico film “I senza nome” di Jean Pierre Melville. All’una di notte del 23 settembre 1970 a Parigi chiude gli occhi e se ne va.



22 settembre, 2024

22 settembre 1937 - Ennio Sangiusto, il triestino che importa il twist

Il 22 settembre 1937 nasce a Trieste Ennio Reggente, destinato a godere di una buona popolarità negli anni Cinquanta con il nome d'arte di Ennio Sangiusto. Muove i suoi primi passi artistici nella sua città, dove frequenta corsi di canto, musica e danza. Per lungo tempo non si muove da Trieste dove s'accontenta di sbarcare il lunario esibendosi in vari locali che quasi mai lo pagano in denaro. Il suo destino sembra cambiare quando riesce a strappare un regolare contratto dalla sede triestina della Rai che lo scrittura come cantante melodico - moderno. La routine quasi impiegatizia, però, non fa per lui. Appena ha racimolato il denaro necessario saluta tutti e se ne va. Il suo lungo girovagare per l'Europa si ferma a Marsiglia dove, più per necessità che per aspirazione, decide di fermarsi per qualche tempo. Per sopravvivere accetta di esibirsi in veste di cantante e ballerino in locali non proprio di prim'ordine. Qui incontra strumentisti che propongono i nuovi ritmi che arrivano d'oltreoceano e modifica profondamente il suo repertorio. Il vecchio cantante melodico moderno lascia spazio a un brillante intrattenitore capace di confrontarsi con melodie e ritmi che affondano le loro radici nel repertorio tradizionale afrocubano e nelle sonorità derivate dal jazz strumentale. A Marsiglia impara anche il twist, una nuova danza arrivata dagli Stati Uniti dove è stata lanciata dal nero Chubby Checker. Quando ancora nessuno crede che quel "movimento selvaggio" possa attecchire in Italia, lui ne diffonde i passi e ne interpreta le prime canzoni, anche se negli anni successivi altri si attribuiranno il merito dell'affermazione del twist nel nostro paese. La sua carica di simpatia e la sua voce molto ritmata ne fanno l'interprete ideale di una lunga serie di brani destinati al successo. Scanzonato e sorridente non pare mai prendersi sul serio, quasi che cantare e ballare sia per lui più un'esigenza personale che una professione. Indimenticabili restano le sue interpretazioni di brani come Ay che calor, una sorta di cha cha cha dalle accentuate sfumature melodiche e, soprattutto, la curiosa versione di Lanterna blu, un vecchio slow ripresentato nell'inedita veste di un samba melodico. All'inizio degli anni Sessanta sotto l'incalzare di nuove mode la sua popolarità inizia declinare. Tenterà di risalire la china nel 1963 partecipando al festival di Sanremo con un paio di canzoni tra cui l'innovativa e ironica La ballata del pedone una sorta di sceneggiata in musica che viene sonoramente bocciata dalle giurie.


21 settembre, 2024

21 settembre 1963 - Il velluto blu di Bobby Vinton

Il 21 settembre 1963 arriva al vertice della classifica statunitense dei dischi più venduti il brano Blue velvet interpretato da Bobby Vinton, uno dei tanti ragazzotti bellocci dalla voce calda inventati dai discografici per la gioia delle ragazze e degli editori di rotocalchi giovanili. I tempi però stanno cambiando e l'arrivo del beat sta per spazzare via dalla scena musicale, oltre che dai cuori delle teen-ager, i personaggi come lui. Il robusto rock che arriva dall'Inghilterra fa passare in secondo piano Bobby Vinton che deve ricominciare da capo prima ancora di aver compiuto vent'anni. Da idolo delle adolescenti si ritrova così a cantare standard nei club di Las Vegas per la gioia di signore attempate e ricche. Da questa sorta di paradiso per vecchie glorie riemergerà negli anni Ottanta grazie al cinema. Il primo a riportarlo alla luce è John Landis che inserisce la sua versione di Blue moon nel film "Un lupo mannaro americano a Londra". Sull'onda del successo del lungometraggio vengono ristampati i suoi vecchi dischi e l'ex ragazzo dal sorriso un po' ebete si ritrova a cavalcare di nuovo le onde del successo. Il periodo migliore deve, però, ancora venire. Il merito è proprio di quella Blue velvet che per lungo tempo era stata considerata il suo canto del cigno. Nel 1986, infatti, David Lynch realizza il film "Velluto blu", il cui titolo è tratto direttamente dalla canzone, inserita anche nella colonna sonora. La fortuna o, più probabilmente, la geniale ispirazione di Lynch trasformano la pellicola in uno dei successi dell'anno grazie anche allo scandalo suscitato dalla decisione di Gian Luigi Rondi di escluderlo dalla programmazione del Festival di Venezia per quelli che lui ritiene gli eccessi di nudo, sangue e violenza. Il buon Bobby Vinton, meno patinato di un tempo, decide di non bruciare l'occasione che gli è stata concessa. Centellina le presenze televisive e mette a frutto l'esperienza di più di vent'anni passati a fare da sottofondo musicale alle chiacchiere di ricchi annoiati. Un altro suo vecchio brano tornerà prepotentemente al successo all'inizio degli anni Novanta. Si tratta di Sealed with a kiss che nell'interpretazione di Jason Donovan arriverà al primo posto della classifica britannica dei dischi più venduti. Ma il suo vero cavallo di battaglia resta sempre Blue velvet, destinato a salire nel 1991 per l'ennesima volta ai vertici delle classifiche discografiche dopo essere stato utilizzato come colonna sonora di uno spot pubblicitario.


20 settembre, 2024

20 settembre 1950 – Loredana Berté, una stella

Il 20 settembre 1950 a Bagnara Calabra, in provincia di Reggio Calabria, nasce Loredana Berté. La ragazza debutta giovanissima sulle scene come corista e ballerina nel gruppo delle Collettine che accompagna Rita Pavone. Successivamente partecipa a musical come "Orfeo 9", "Ciao Rudy" e la versione italiana dello scandaloso, per l’epoca, "Hair". Nel 1974 il suo primo album come solista, Streaking, suscita accese polemiche per la foto di copertina che la ritrae nuda e per gli accenni di turpiloquio in alcuni brani. Interprete inquieta fa della provocazione una costante della sua carriera, incorrendo spesso nei fulmini della censura. Non fa eccezione il suo primo singolo di successo, Sei bellissima, per lungo tempo escluso dalle programmazioni radiofoniche e televisive della Rai a causa del testo, giudicato troppo audace. La definitiva consacrazione arriva nel 1979 con il grande successo commerciale dell'album Bandabertè, trascinato dal reggae del singolo E la luna bussò. Nel 1982 vince il Festivalbar con Non sono una signora e, nell'autunno dello stesso anno, pubblica l'album Traslocando che, tanto per cambiare, suscita polemiche per la copertina in cui compare vestita da suora e truccata di tutto punto. Si conferma poi interprete di valore con canzoni di notevole spessore musicale e artistico, ma all’inizio degli anni Novanta vari problemi personali si sommano alla fama di “personaggio scomodo” fino a renderle sempre più difficili i rapporti con il mondo discografico italiano. Con il nuovo millennio trova nuovi stimoli e nuove persone che credono nelle sue possibilità e inaspettatamente torna al successo.




19 settembre, 2024

19 settembre 1973 - Le ultime volontà di Gram Parsons

Il 19 settembre 1973 muore in California Gram Parsons, l'ex chitarrista dei Byrds e dei Flying Burrito Brothers, considerato uno dei migliori talenti del country rock. Le circostanze della sua morte non sono chiare. Inizialmente viene attribuita a cause naturali, ma la successiva autopsia rileva tracce consistenti di droga e alcool nel sangue e il certificato definitivo di morte parla esplicitamente di “overdose”. La sua scomparsa dà luogo a uno degli episodi più emblematici della storia della generazione hippie. Il corpo del musicista dopo l'autopsia viene messo a disposizione della famiglia con la quale aveva rotto i rapporti da molti anni. Quest'ultima dà precise disposizioni perché la bara di Parsons venga trasferita in Florida per essere tumulata nella tomba di famiglia con una cerimonia religiosa solenne che possa «riconciliare l'anima di Gram con Dio». La notizia getta nello sconforto gli amici hippie con i quali il chitarrista ha diviso gli ultimi anni della sua vita. Egli infatti ha lasciato loro un messaggio in cui chiede che il suo corpo venga cremato su una grande pira all'interno dello splendido scenario di un'oasi naturale e le sue ceneri disperse ai piedi del Joshua Tree National Monument. A nulla serve il tentativo di convincere la famiglia di Parsons. I suoi parenti, ritenendo gli amici responsabili della "corruzione spirituale" di Gram, rifiutano di ascoltarli e non sono disponibili a dare il loro assenso a una cerimonia "pagana". Ritenendosi depositari delle ultime vere volontà del chitarrista gli amici non demordono. Visti inutili i tentativi di comunicare decidono di passare all'azione. Sotto la guida di Phil Kaufman, il vecchio manager dell'artista, viene mobilitata l'intera comunità hippie di Los Angeles. L'operazione scatta all'aeroporto della città quando un gruppetto riesce a impadronirsi della bara e a portarla fuori eludendo la sorveglianza. Mentre altri gruppi creano situazioni diversive nella zona circostante il furgone che porta a bordo il corpo del chitarrista vola veloce verso la sua destinazione. Verrà cremato nel corso di una cerimonia suggestiva e ricca di emozione alla presenza degli amici e di tutti i membri della comunità hippie di Los Angeles. Due giorni durerà questa sorta di veglia funebre scandita da canti e da poesie. Soddisfatte le ultime volontà dell'amico inizieranno i problemi perché le autorità incrimineranno gli esecutori materiali di una mezza dozzina d'imputazioni, compreso il furto e la distruzione di cadavere.

18 settembre, 2024

18 settembre 1970 – Per Jimi Hendrix la vita è come l'amore, rinchiusa tra ciao e addio

Il 18 settembre del 1970 è un venerdì, per molti una giornata normale. Per Jimi Hendrix quella del suo appuntamento con la morte. La vecchia signora si nasconde tra le ombre delle case che costeggiano le vie trafficate di Notthing Hill dove corre senza troppa fretta l’ambulanza che lo sta trasportando all’ospedale St. Mary Abbott di Kensington. Tutto inizia quando cinque o sei ore prima il musicista si addormenta nell’appartamento della sua amica Monika Danneman dopo una lunga chiacchierata e qualche pillola di sonnifero. Alle 10.30 la ragazza si sveglia e Jimi dorme ancora. Senza disturbarlo esce a comperare le sigarette. Al suo rientro si accorge che c’è qualcosa che non va nel sonno innaturale dell'amico. Tenta di svegliarlo, ma non ci riesce e non si fida troppo a chiamare l’ospedale perché «…se la cosa non si fosse rivelata grave, se la sarebbe presa con me». Indecisa sul da farsi telefona a Eric Burdon, l’ex cantante degli Animals che fa da manager a Jimi, per un consiglio e soprattutto per farsi dare il numero di telefono del medico del chitarrista. Eric le suggerisce di chiamare il pronto soccorso. Venti minuti dopo la sirena ulula davanti all’appartamento di Notting Hill. Il personale dell’ambulanza non appare particolarmente preoccupato. Prendono di peso il musicista e lo mettono seduto. Jimi vomita più volte e la sua testa si muove avanti e indietro seguendo le evoluzioni del mezzo. All’arrivo all’ospedale nessuno si preoccupa di sottoporlo a terapie di rianimazione. Disteso su un lettino mezz’ora dopo spira soffocato dal suo vomito. Le indagini scopriranno poi che era sufficiente distenderlo su un lato per salvarlo ma nessuno l’ha fatto. In questo modo stupido scompare uno dei più eccezionali chitarristi di tutti i tempi, artefice di innovazioni tecniche che hanno allargato le capacità espressive dello strumento portando la chitarra elettrica a sperimentare sentieri mai percorsi da nessuno prima di lui. La sua vena creativa sperimenta oltre i limiti conosciuti fino a quel momento le possibilità dell'elettrificazione e dell'amplificazione, rimescolando blues, jazz e rock, sfruttando tutti gli effetti possibili. Nella sua tecnica anche il corpo si mette al servizio della chitarra nella ricerca di nuove sonorità (suona con il palmo della mano, con il gomito e con i denti). La critica dell'epoca (con qualche eccezione) prende una cantonata storica quando snobba e definisce "eccessi da gigione" quella che è l'essenza stessa delle sue innovazioni. Jimi Hendrix regala una nuova dimensione alla chitarra elettrica che, con lui, cessa di essere un semplice strumento per diventare una macchina da suoni. La sua morte sorprende tutti. Emblematico resta il testo di The story of life, scritto poco prima di addormentarsi per l’ultima volta: «La storia della vita/è più rapida/di un battito di ciglia/la storia di un amore/è ciao e addio/finché non ci ritroveremo». Quelle poche righe buttate giù di getto in un periodo in cui Jimi sta lavorando a un nuovo disco alimenteranno per anni l’idea di un suicidio, di una morte cercata. Difficile sapere la verità anche se gli amici non crederanno mai che il chitarrista si sia ucciso. Quel che tutti sappiamo invece è che la sua scomparsa ha arricchito ancor di più il music business che fino a quel momento aveva faticato a gestire il personaggio. La sua carriera è stata una continua lotta con uno stuolo di manager e consiglieri impegnati a smussare gli angoli più “neri” del personaggio, nel timore di perdere le simpatie del pubblico bianco. Le sue simpatie per il Black Panthers sono state "censurate e uno stretto cordone di riserbo ha coperto fino alla sua morte i frequenti contatti con gli esponenti del movimento stesso. Il successo di Jimi Hendrix è stato una sorta di lungo calvario per discografici e faccendieri impegnati a depotenziarne la potenzialità eversiva. Contrariamente a quanto si sostiene Chi non si accontenta delle favole sa che non è mai stata la sua carica sensuale l’aspetto più pericoloso della popolarità («tenete a casa le vostre sorelline»), ma il suo essere un nero di successo, con saldissime radici nella musica nera, in uno showbusinnes dominato da bianchi e in un sistema preoccupato per il numero crescente di musicisti che scelgono di diventare testimonial e finanziatori dei gruppi che organizzano la mobilitazione nera. È la sua simpatia per il Black Panthers Party unita alla decisione di formare il primo complesso rock di soli neri, la Band Of Gypsys, con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso a creare "disordine" in un ambiente in cui si incoraggia il ribellismo d’accatto, buono per vendere dischi ma si teme la presa di coscienza. Non è un segreto per nessuno che a partire dal 1969 il suo management abbia dedicato gli sforzi maggiori a smussare gli angoli più "neri" del personaggio piuttosto che a valorizzarne l'estro creativo e le potenzialità. Un episodio tra i tanti è quello di Mark Jeffrey che "consigliava" i percussionisti di colore ingaggiati per l'esibizione a Woodstock di rimanere sullo sfondo del palcoscenico per non caratterizzare in senso "razziale" l'esibizione. Il risultato di quella geniale trovata è che ancora oggi le percussioni sono quasi inascoltabili nella registrazione dal vivo del concerto. Hendrix non è un eroe e neanche un’attivista, è solo un grande e geniale musicista che cerca di non perdere contatto con le sue radici e che ha scoperto una causa cui dedicare simpatia e qualche risorsa finanziaria. Le pressioni che gli arrivano dall’ambiente sono inaspettate. Non è attrezzato a questo tipo di tensioni, non le capisce e finisce per trovarle insopportabili. Tutti abbiamo ancora fisso in mente un Jimi provato che, tre mesi prima di morire, abbandona il palco del festival dell'Isola di Wight stanco e deluso da un pubblico che vuole da lui solo la ripetizione dei vecchi successi e poco più. Pochi giorni prima di morire affida al taccuino di un cronista alcune considerazioni premonitrici: «È strano come la gente sembra essere più affascinata dai morti che dai vivi. Quando sei vivo la tua carriera è una lotta continua per non farti dimenticare. Una volta morto ti sei assicurato l’immortalità. Sembra quasi che devi morire prima che si convincano che forse valevi qualcosa».

17 settembre, 2024

17 giugno 1983 -Il “caso” Tortora, una storia di malagiustizia

Il 17 giugno 1983 viene arrestato il popolare presentatore televisivo Enzo Tortora. Il primo ad avvisarlo che negli elenchi dei possibili arresti di un’azione in forze contro la camorra c’era il suo nome era stato il giornalista Paolo Martini de “Il Giorno”. ma il presentatore era scoppiato in una sonora risata minimizzando. Poche ore dopo parte quella che i magistrati con un malinteso senso dell’umorismo chiamano “Operazione Portobello”, prendendo in prestito il nome del programma televisivo di grande successo condotto dallo stesso Tortora. Alle quattro del mattino del 17 giugno 1983, i carabinieri si presentano al suo albergo, l'Hotel Plaza di Via del Corso in Roma, e lo arrestano. Trasferito al Comando del gruppo Operativo di Via Inselci viene poi portato nel carcere di Regina Coeli. Il suo arresto diventa un evento mediatico con il presentatore costretto a sfilare ammanettato tra due ali di fotografi e operatori televisivi. Enzo Tortora viene arrestato per traffico di droga e associazione mafiosa nel corso di una gigantesca operazione anticamorra istruita sulla base delle confessioni di due pentiti: Giovanni Pandico e Pasquale Barra, camorristi e pluriomicidi. Con il presentatore finiscono in questa specie di girone infernale altre 855 persone gran parte delle quali risulteranno del tutto estranee ai fatti addebitati. L’inchiesta finirà per coinvolgere, sia pur in modo meno devastante, altri personaggi del mondo dello spettacolo, come Mario Merola, Franco Califano e Walter Chiari. Mentre l’Italia si divide tra innocentisti e colpevolisti, gran parte dei media si schiera apertamente contro il presentatore che resta in carcere per sette mesi nonostante gli indizi a suo carico siano quasi inesistenti. Oltre alle parole dei "pentiti" l’accusa ha soltanto un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista con un nome scritto a penna e un numero telefonico. Solo dopo molto tempo si saprà che quel nome non era "Tortora", ma "Tortosa" e che il numero telefonico non era quello del presentatore. Nel 1984 Enzo Tortora è un simbolo della battaglia contro le storture della giustizia italiana. Nel mese di giugno viene eletto deputato europeo nelle liste del Partito Radicale, che fin dall’inizio gli è stato al fianco. Il 17 settembre 1985, condannato a dieci anni e sette mesi di carcere, pur proclamando la sua innocenza rinuncia all’immunità parlamentare e si consegna alla giustizia. Il 15 settembre 1986, tre anni dopo l’inizio del terribile calvario viene assolto con formula piena dalla corte d’Appello di Napoli. Il 20 febbraio 1987 torna sugli schermi televisivi. Il 17 marzo 1988 la Cassazione conferma la sentenza di assoluzione. Due mesi dopo, il 18 maggio 1988, Enzo Tortora muore stroncato da un tumore.


16 settembre, 2024

16 settembre 2005 – Nome e cognome di Ligabue

«Ognuno di noi è la somma di tutti i momenti della propria vita. Quel risultato è, nel bene e nel male, unico». Scandisce bene le parole il Liga, per non essere frainteso perché vuol far capire che nel nuovo album c’è lui e la sua vita. Si intitola Nome e Cognome, ed esce il 16 settembre 2005 con qualche brano anticipato dal vivo in un concertone tenuto il 10 settembre a Reggio Emilia e un singolo, Il giorno dei giorni, già in rotazione sulle radio da una settimana. A distanza di tre anni e mezzo da Fuori come va il rocker emiliano ci riprova. Non è la prima volta che Ligabue si racconta nelle canzoni, anzi si può dire che gli spunti biografici siano un po’ la specialità delle sue storie in musica. Questa volta però le emozioni, le riflessioni e qualche considerazione sembrano prevalere sul gusto dell’affabulazione e del racconto. In qualche momento rischiano addirittura di essere eccessive tanto da far apparire il Liga nel ruolo inusuale di predicatore dispensatore di consigli. Forse questo è un po’ il limite di un disco nato dall’esigenza del cantautore di fare un punto sulla propria vita. Più che un’autobiografia sembra un’istantanea scattata con una macchina fotografica non digitale. Un autoritratto? Lui non si schernisce per il paragone perché in fondo «ogni artista, quando si esprime, disegna il proprio autoritratto. È un autoritratto “interno”, l’autoscatto alla propria anima. Mi è capitato di farlo anche in passato, quando ripenso ai miei dischi precedenti, ai temi che contengono mi sembra proprio di vedere delineati i miei tratti, la mia vita di allora…». Questa volta, però, la scelta autobiografica sembra rispondere a un disegno voluto che si intuisce anche dal punto di vista musicale nei passaggi morbidamente liquidi che sembrano sottolineare i momenti più intimamente emotivi dell’album. Sono sfumature che non passano inosservate quando la struttura musicale è quella classica del rock con chitarra, basso, batteria e giusto qualche sprazzo di tastiere. Siamo sul terreno del rock mainstream, quello in cui Ligabue da sempre si trova a suo agio, ma il tocco appare più delicato del solito e, in qualche caso, addirittura struggente, come in Lettera a G. in cui il Liga riflette sulla vita e sulla morte: «G. era un cugino, ma era come se fosse un fratello per me. È lo stesso di cui ho parlato in “Una delle storie d’amore di Via Cairoli”, un racconto di “Fuori e dentro il Borgo”. Siamo stati bambini insieme, adolescenti insieme, adulti insieme. Abbiamo avuto gli stessi sogni, gli stessi desideri e, a volte, le stesse ragazze. In questi anni ho visto andarsene prima mio padre, poi qualcuno che ha condiviso il palco con me e ora G. La sua morte mi ha spinto a una profonda riflessione sulle strade che prende la vita…». Nell’album c’è anche una chissà quanto involontaria risposta/citazione al Jannacci di Ci vuole orecchio, in Vivere a orecchio, una tirata un po’ funk che inneggia alla sua voglia di percorrere le strade della vita senza lasciarsi condizionare da altri con la capacità di «metterci tutto/e forse stonare di brutto…». Il buon Luciano sostiene che si tratta di «…una canzone dove racconto la mia maggior ambizione, il traguardo verso il quale cerco di pedalare da una vita: vivere a orecchio, senza spartiti o ricette prescritte da altri…». Il Ligabue-pensiero con la solita voglia di essere un po’ profeta e un po’ chiassoso amicone trova spazio anche in brani come il già citato singolo Il giorno dei giorni, dove torna l’ossessione di vivere intensamente senza sprecare un attimo del proprio tempo e la consapevolezza che si può vivere così solo «…se sei di fianco alla persona giusta…». Simile nel titolo, ma non nel clima musicale è Giorno per giorno, mentre Happy Hour gioca con i paradossi del «si dice che…», una frasettina che può cambiare una vita. Molto più interiori appaiono Cosa vuoi che sia e anche l’innodica Le donne lo sanno. In un disco così intimista non poteva mancare l’amore. Il Liga lo attraversa spaziando dall’ossessione febbrile di un uomo la cui donna passa la notte con un altro in È più forte di me, alla pace del sentimento appagato di Sono qui per l’amore, passando per l’incontro tra due anime che si ritrovano dopo una burrascosa separazione in L’amore conta. L’album è stato registrato a Correggio con l’inusuale presenza di ben due co-produttori. Allo storico collaboratore Fabrizio Barbacci si è aggiunto, infatti, anche Luca Pernici. Tre capocce per un disco solo non sono un po’ troppe? «Beh – confessa Ligabue - vista dopo questa idea dei due co-produttori è stata forse azzardata ma alla fine si è rivelata vincente. Devo confessare che tre teste per pensare a un solo album in certi momenti sono sembrate anche a me troppe, ma sentivo il bisogno di aprire gli orizzonti, di provare qualcosa di nuovo, di aggiungere quella testa in più che potesse mettere in discussione il nostro metodo abituale». Infine il titolo Nome e Cognome vuole essere un manifesto, un segno per difendere l’unicità di ogni persona: «Si affannano a metterci tutti dentro grandi contenitori appiattenti: generazione, pubblico, audience, gente… E poi a fianco di parole così generiche si mettono un paio di aggettivi pretendendo di descriverci tutti: la generazione annoiata, sognatrice, rassegnata e via così. Io credo che chiamare gli uomini e le donne per Nome e Cognome sia un gesto di rispetto verso la diversità e la storia personale di ciascuno…».

15 settembre, 2024

15 settembre 1964 - L’intraprendente ispettore Bear vuole spegnere i Beatles

Nel 1964 i Beatles, impegnati nel loro secondo tour statunitense vengono accolti ovunque da scene d’isteria collettiva. Il 15 settembre 1964 sono sul palco della Public Hall di Cleveland, nell’Ohio, gremita all’inverosimile da una massa di corpi urlanti. Un modesto e inesperto cordone di sicurezza allestito dalla polizia locale tenta disperatamente di tenere lontane dal palco centinaia di ragazzine desiderose di sfiorare anche solo per un momento i propri idoli. Quando inizia il concerto la massa degli spettatori avanza verso il palco aumentando la pressione sul fragile cordone di tutori dell’ordine. Qua e là ci sono degli sfondamenti: un paio di ragazze non ancora quattordicenni riescono a salire sul palco, baciano Paul McCartney e vengono ributtate, felici, nella mischia della platea dalle guardie del corpo della band. I Beatles, in un primo momento preoccupati per la loro incolumità, quando vedono che si tratta di un gioco innocuo e ben controllato dal loro servizio d’ordine, lasciano fare. Non così la polizia che tenta con metodi sempre più energici d’interrompere l’andirivieni. Il responsabile dell’ordine pubblico è l’Ispettore Carl Bear del Juvenile Bureau della polizia di Cleveland. Uomo tutto d’un pezzo non sa darsi pace di fronte all’impotenza dei suoi uomini, sbeffeggiati e regolarmente “saltati” dalle prime file del pubblico. A una ventina di minuti dall’inizio del concerto decide di intervenire personalmente. Tesserino alla mano chiede ai tecnici di staccare la corrente. Sale, quindi sul palco e annuncia solenne: «Vista l’impossibilità di mantenere l’ordine pubblico il concerto finisce qui!» Una salva di fischi e ululati accoglie la dichiarazione. «Chi è questo pazzo?» Chiede George Harrison. La risposta è pronta: «Sono l’Ispettore Carl Bear e voi potete rientrare nei camerini». Sotto gli occhi del pubblico e gli obiettivi dei fotografi inizia così una febbrile discussione tra i due, mentre in platea sta succedendo di tutto. Nonostante le premesse, alla fine prevale la logica. I tecnici ridanno corrente agli strumenti e, dopo quindici minuti, il concerto può continuare. L’Ispettore Carl Bear entra così nella storia del rock.


14 settembre, 2024

14 settembre 1989 - Perez Prado, il re del mambo

Il 14 settembre 1989 a Colonia del Valle in Messico muore il direttore d'orchestra Pérez Prado, il Re del mambo, principale artefice della diffusione nel mondo del più popolare ritmo afrocubano degli anni Cinquanta. Al momento della sua morte i giornali sorvolano sull'età. L'unica certezza è che ha più di settant'anni ma la sua vera età resta un mistero dato che diverse sono le date di nascita che di volta in volta vengono diffuse. Stando alle biografie più o meno ufficiali Damaso Pérez Prado, questo è il suo nome completo, sarebbe nato in Cuba, a Matanzas, in un periodo compreso tra il 23 novembre 1918 e l'11 dicembre 1916. La prima vera scrittura l'ottiene negli anni Trenta dall'Orchestra del Casinò de la Playa a Cuba, dove resta per qualche anno. Lavora anche come arrangiatore e, in segreto, coltiva il sogno di mettersi in proprio. In quel periodo uno dei balli dell'isola, il Mambo, inizia a diffondersi come danza di sala grazie al compositore e direttore d’orchestra Arsenio Rodríguez, che ne codifica e ne definisce le strutture ritmiche e armoniche, realizzando una simbiosi tra i ritmi sincopati del jazz orchestrale nordamericano e quelli afro-cubani della sua terra d’origine. Pérez Prado resta affascinato da questa musica che reca in sé il fascino della contraddizione. Nel 1948 trova le risorse e il coraggio necessario a dare vita alla sua prima grande orchestra, mentre il Mambo sta per trovare la sua definitiva consacrazione nel più grande mercato musicale del mondo: gli Stati Uniti. Complici e protagoniste della sua diffusione sono le comunità ispaniche, soprattutto quelle delle grandi metropoli, che si trasformano in una sorta di gigantesca e capillare cassa di risonanza. Il ritmo e la sensualità del mambo si diffondono così a macchia d’olio fino contagiare prima gli Stati Uniti e poi il mondo. Nel 1954 Perez Prado, ormai divenuto il "Re del mambo", è uno dei direttori d'orchestra più richiesti grazie anche allo straordinario successo della sua Cherry pink and apple blossom white. Negli anni successivi la sua popolarità resta intatta nonostante il declino della musica orchestrale e, in parte, del mambo. Come gli antichi nocchieri continua a guidare la sua orchestra e lavora praticamente fino a quando la salute lo regge. Incurante del tempo che passa fino agli ultimi giorni della sua vita si dedica alla composizione e all'arrangiamento. Nel 1981 torna anche in sala di registrazione per occuparsi della ripubblicazione dei suoi vecchi successi.



13 settembre, 2024

13 settembre 1997 – Georges Guétary, il re dell’operetta francese


Il 13 settembre 1997 a Mougins, nelle Alpi Marittime, una crisi cardiaca spegne per sempre la voce e la vita del re dell’operetta francese. All’epoca in cui inizia a cantare quelli come lui vengono ancora chiamati “tenorini” con un termine italiano che per secoli è stato utilizzato così, senza traduzione, in tutto il mondo. Poco considerati dai puristi e dagli appassionati di lirica nei primi anni del Novecento erano destinati, se bravi, a diventare protagonisti sui palcoscenici dell’operetta considerati una sorta di paradiso minore dai conservatori. In realtà proprio su quelle scene si stavano mettendo le basi alle moderne commedie musicali, quelle che gli anglosassoni chiamano musicals, cioè a una forma di mescola tra musica, spettacolo, teatro e canzone destinata a rifulgere di gloria internazionale dalla seconda metà del Novecento in poi. L’immigrato greco-egiziano Guétary frutto, come Georges Moustaki, di una delle tante migrazioni interne all’Impero Ottomano, oltre alla voce da “tenorino” ha anche un talento quasi istintivo nel canto a “mezza voce”, un altro termine universale di origine italiana che definisce la capacità di emissione smorzata del suono. Per evitare, però, il rischio che le descrizioni tecniche troppo insistite finiscano per mettere un po’ in ombra la sostanza delle qualità del personaggio, è necessario ricordare che, grazie alle sue particolari qualità vocali e a una presenza scenica che si è alimentata allo charme da tombeur de femmes, Georges Guétary per più di sessant’anni ha saputo rappresentare il punto di contatto tra gli chansonniers e la tradizione. Interprete di grande fascino, nel corso della sua carriera è riuscito a passare con disinvoltura da Trenet a Offenbach, da Aznavour a Brahms, a Granados, unificando nella sua interpretazione culture musicali diverse in un mélange di grande suggestione nel quale le differenze hanno finito per trasformarsi in una ricchezza e non in una barriera. Il futuro Georges Guétary nasce ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio 1915 con il nome di Lambros Worloou. I suoi genitori appartengono alla numerosa colonia di greci trasferitisi nella grande città egiziana nel periodo in cui gran parte delle aree mediorientali e del nordafrica è sotto il dominio dell’Impero Ottomano. Il loro sogno è quello di vedere il piccolo Lambros diventare un pezzo grosso dell’economia. Per questa ragione nel 1937, quando ha diciassette anni, lo spediscono in Francia con i soldi necessari a completare gli studi in materia di commercio internazionale. Per evitare che si senta troppo solo e per ogni altra necessità gli consigliano di prendere contatto con uno zio che si chiama Tasso Janopoulo che di mestiere fa il pianista nelle sale da concerto e in quel periodo è l’accompagnatore fisso di Jacques Thibaud, uno dei più popolari virtuosi del violino dell’epoca. L’incontro con lo zio finisce per cambiare la sua vita. Grazie a lui, infatti, il giovane Lambros entra in contatto con il mondo dello spettacolo della capitale e inizia a diventare una presenza fissa nei locali in cui i musicisti si ritrovano a notte fonda quando hanno finito di suonare. Proprio in uno di questi incontri un giorno, un po’ per gioco e un po’ per curiosità, si ritrova in piedi accanto al pianoforte a cantare una melodia tradizionale greca accompagnato dall’illustre parente. Tra i musicisti che l’ascoltano c’è la cantante lirica Ninon Vallin che resta colpita dall’esibizione: «Ragazzo mio, tu hai del talento. Dovresti coltivarlo invece di perdere tempo sui libri di una materia di cui non t’interessa niente…». Anche Jacques Thibaud si unisce all’invito e il ragazzo molla gli studi di commercio internazionale, che già frequentava con una certa fatica, e si dedica anima e corpo alla musica. Oltre ai corsi di canto tenuti dalla sua prima sostenitrice Ninon Vallin, prende lezioni d’armonia, solfeggio e pianoforte nella scuola Cortot-Thibaud e frequenta anche i corsi d’arte drammatica di René Simon. Nel 1938, quando non è ancora passato un anno dal suo arrivo a Parigi, è già stato scritturato come cantante dall’orchestra di Jo Buoillon. Qualche mese dopo, notato da Henri Varna, direttore del Casino de Paris, diventa uno dei boys della mitica Mistinguett. Quando la strada verso una carriera luminosa sembra ormai spianata arriva la guerra con l’occupazione nazista della Francia. Lambros, straniero e tutt’altro che bendisposto verso gli occupanti, abbandona precipitosamente Parigi e si rifugia nella zona di Tolosa dove lavora in un ristorante. Le sorprese non sono però finite. Proprio nel locale in cui lavora incontra il fisarmonicista Fredo Gardoni che gli chiede di unirsi a lui come cantante e gli fa incidere il primo disco della sua carriera. Per evitare storie con poliziotti e spioni gli chiede di scegliere un nome d’arte. Lambros diventa così Georges e il cognome Worloou viene sostituito da Guétary, il nome d’un paese basco. In quegli anni difficili lavoricchia nell’operetta e, soprattutto, conosce il compositore Francis Lopez destinato a diventare l’uomo chiave per la sua scalata al successo. Proprio lui, infatti scrive nel 1943 i brani Caballero e Robin de Bois che regalano a Guétary il primo grande successo. Dopo la Liberazione la sua popolarità si allarga al di là dei confini francesi. Le sue esibizioni entusiasmano il pubblico dei teatri di Londra e Broadway e attirano l’attenzione dei produttori cinematografici che nel 1945 gli affidano il ruolo del protagonista in “Le cavalier noir” un film ricco di canzoni composte dal suo amico Francis Lopez che ottiene un successo strepitoso. All’inizio degli anni Cinquanta Gene Kelly lo vuole con lui nella versione cinematografica del musical “Un americano a Parigi” di Vincente Minnelli premiata con sei Oscar. Georges Guétary è ormai una stella internazionale quando Maurice Lehmann lo convince a tornare in Francia per interpretare il protagonista nell’operetta “Pour Don Carlos” scritta quasi appositamente per lui dal suo amico Francis Lopez. Lo spettacolo, rappresentato per la prima volta il 17 dicembre 1950 al Théâtre de Châtelet, totalizza ben quattrocentoventi repliche. Il successo di “Pour Don Carlos” fa di Georges Guétary l’indiscusso re dell’operetta francese. Due anni dopo si ripete con “La route fleurie”, un altro lavoro con le musiche di Francis Lopez che viene rappresentato per la prima volta all’ABC il 19 dicembre 1952 e resta in cartellone per ben quattro anni. Alla fine degli anni Cinquanta chiude provvisoriamente la collaborazione con Francis Lopez e mette la sua popolarità al servizio di lavori decisamente più sperimentali dei precedenti come “La polka des lampions” di Gérard Calvi del 1961 e “Monsieur Carnaval” di Charles Aznavour nel 1965. Proprio queste due opere in particolare sembrano delineare una nuova strada per quella che alcuni critici cominciano a chiamare “commedia musicale alla francese”. Dopo “Monsieur Pompadour” del 1971 Georges Guétary pensa sia venuto il tempo di adeguare repertorio e ruoli alla sua età. Non è più un ragazzino e si sente un po’ ridicolo nel ruolo del dinamico e giovane conquistatore di ragazze che, in qualche caso, hanno la metà dei suoi anni. Il pubblico, però, sembra non gradire questa svolta e nel 1974 boccia clamorosamente “Les aventures de Tom Jones”. Per scoraggiare un tipo come Guétary ci vuole ben altro. Alla fine degli anni Settanta chiama di nuovo al suo fianco quel Francis Lopez che è stato l’artefice dei suoi primi successi e nel 1981 mette in scena “Aventure à Monte-Carlo”, la prima di quattro creazioni che caratterizzeranno la carriera di Georges Guétary negli anni Ottanta. A partire dalla fine degli anni Cinquanta la sua teatrale si alterna con tour musicali con la conduzione di alcuni programmi televisivi di successo. Nel 1996, a ottantun anni suonati, stupisce tutti presentando un recital di canzoni di un’ora e mezza al Bobino accompagnato dai Paradisio, un gruppo di giovani musicisti. Secondo le sue intenzioni, nell’autunno del 1997 lo spettacolo dovrebbe lasciare Parigi per una lunga serie di concerti in tutto il territorio francese. Non sarà così perchè la morte chiude la sua carriera.



12 settembre, 2024

12 settembre 1943 - Maria Muldaur, l'italiana del Village

Il 12 settembre 1943 nasce in Greenwich Village, New York, Maria Muldaur, una delle voci bianche femminili più significative del folk blues degli anni Sessanta e Settanta. La ragazza è figlia di italiani. All'anagrafe, infatti, è registrata con il lunghissimo nome di Maria Grazia Rosa Domenica D'Amato. Fin dai primi anni di vita respira l'atmosfera febbrile e creativa dei locali del Village dove si mescolano folk, blues e rock and roll. È ancora adolescente quando presta la sua voce al gruppo folk della Even Dozen Jug Band, di cui fanno parte John Sebastian, Steve Katz, Joshua Rifkin e Stefan Grossman. Non ci resta per molto perché sul suo cammino incontra la Jim Kweskin Jug Band che ha come chitarrista e cantante Geoff Muldaur, un tipo piuttosto famoso nell'ambiente che ha pubblicato il primo album quando lei aveva dieci anni. L'incontro segna una svolta nel suo destino. Si innamora di Geoff, lo sposa e gli ruba il cognome diventando per sempre Maria Muldaur. Per qualche tempo si fa ingaggiare dalla band di Kweskin, ma poi convince anche il suo fedele compagno a percorrere altre strade. Insieme formano il duo Geoff e Maria Muldaur che ottiene un buon successo all'inizio degli anni Settanta con gli album Pottery pie e Sweet potatoes, ma la ragazza ha altro per la testa. Ben presto scioglie la ditta e debutta in proprio con l'album Mud acres. Le strade dei due si dividono. Con Paul Butterfield, Mike Bloomfield e Nick Gravenites Maria lavora alla colonna sonora del film "Una squillo per quattro svitati" con Jane Fonda e Donald Sutherland e nel 1973 entusiasma pubblico e critica con l'album Maria Muldaur e con il singolo Midnight at the oasis. Da quel momento la sua strada è in discesa. Poco interessata al successo commerciale, continuerà a produrre album di qualità come Waitress in a donut shop, Sweet harmony, Open your eyes, Gospel nights, Sweet and low, On the sunny side e lo splendido Live in London.

11 settembre, 2024

11 settembre 1973 – Inizia il “tour senza fine” degli Inti Illimani

L’11 settembre 1973 un colpo di stato militare chiude in Cile la breve parentesi del governo di Unidad Popular. Gli Inti Illimani, che in quel periodo sono impegnati in un tour europeo, ricevono notizie agghiaccianti. Le televisioni, le radio e i giornali di tutto il mondo raccontano di migliaia di persone rastrellate e ammassate negli stadi trasformati in immensi campi di concentramento. Arrivano anche le prime voci di torture e uccisioni da parte della polizia militare e degli “squadroni della morte”, gruppi paramilitari di estrema destra formati da veri e propri killer che agiscono al di fuori di qualunque regola. Il Presidente legittimo del Cile, Salvador Allende, è stato ucciso nel palazzo presidenziale della Moneda a Santiago. Il generale Augusto Pinochet, che ha assunto il potere dopo il colpo di stato, sospende le libertà costituzionali. Gli Inti Illimani scoprono di essere stati inseriti nelle liste di proscrizione compilate dal nuovo regime. In più le autorità militari hanno disposto anche il sequestro del loro più recente album Canto de pueblos andinos, che per molti anni rimarrà l’ultimo disco non clandestino pubblicato nel loro paese natale. Si rendono conto di non poter più rientrare in patria. Sono esiliati. È l’inizio di quello che qualche tempo dopo definiranno un “tour senza fine”, una diaspora destinata a durare più di quindici anni.